SENTENZA N. 359
ANNO 1993
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente
Prof. Francesco Paolo CASAVOLA
Giudici
Prof. Gabriele PESCATORE
Avv. Ugo SPAGNOLI
Prof. Antonio BALDASSARRE
Prof. Vincenzo CAIANIELLO
Avv. Mauro FERRI
Prof. Luigi MENGONI
Prof. Enzo CHELI
Dott. Renato GRANATA
Prof. Francesco GUIZZI
Prof. Cesare MIRABELLI
Prof. Fernando SANTOSUOSSO
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 2, primo comma, lett.b), della legge 23 ottobre 1992, n. 421 (Delega al Governo per la razionalizzazione e la revisione delle discipline in materia di sanità, di pubblico impiego, di previdenza e di finanza territoriale) e degli artt. 1, terzo comma, 13, 15, secondo comma, 18, primo comma, 26, 27, secondo e quarto comma, 28, 30, secondo comma, 31, 32, 33, 34, 35, 41, primo e terzo comma, 42, secondo comma, 43, 45, 47, 49, secondo comma, 50, 51, 52, 54, 60, 61, secondo comma, 63, secondo comma, 64, 65, 67, 70, secondo comma, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 (Razionalizzazione dell'organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego, a norma dell'art. 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), promossi con i ricorsi delle Regioni Veneto e Lombardia, notificati il 30 novembre 1992 e l'8 marzo 1993, depositati in cancelleria il 10 dicembre 1992 ed il 13 e 17 marzo 1993 ed iscritti al n.70 del registro ricorsi 1992 ed ai nn. 19 e 20 del registro ricorsi 1993.
Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell'udienza pubblica del 22 giugno 1993 il Giudice relatore Enzo Cheli;
uditi l'avvocato Vitaliano Lorenzoni per la Regione Veneto, l'avvocato Valerio Onida per la Regione Lombardia e l'avvocato dello Stato Sergio Laporta per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
l. - Con ricorso depositato il 30 novembre 1992 (n. 70 del 1992) la Regione Veneto ha impugnato, in riferimento agli artt. 97 e 117 della Costituzione, l'art. 2, primo comma, lett. b), della legge 23 ottobre 1992, n. 421, recante "Delega al Governo per la razionalizzazione e la revisione delle discipline in materia di sanità, di pubblico impiego, di previdenza e di finanza territoriale".
La norma impugnata ha, tra l'altro, autorizzato il Governo a prevedere l'istituzione di un "organismo tecnico, dotato di personalità giuridica", avente compiti di rappresentanza della parte pubblica per la formazione degli accordi sindacali in sede di contrattazione collettiva relativa ai comparti del pubblico impiego. La medesima norma ha previsto anche che l'organismo in questione sia sottoposto alla vigilanza della Presidenza del Consiglio dei ministri, operando "in conformità alle direttive impartite dal Presidente del Consiglio dei ministri". Questo vincolo, ad avviso della Regione ricorrente, violerebbe sia la competenza legislativa regionale in materia di ordinamento degli uffici, di cui all'art. 117 della Costituzione, sia i principi di buon andamento e imparzialità dell'amministrazione, di cui all'art. 97 della Costituzione.
Nel ricorso si espone che la Corte costituzionale, nella sentenza n. 219 del 1984, aveva affrontato il problema dell'incompatibilità con l'autonomia regionale dell'art. 10, ultimo comma, della legge quadro sul pubblico impiego (L. 29 marzo 1983, n. 93) nella parte in cui imponeva alle Regioni una perfetta corrispondenza delle leggi regionali di recepimento dell'accordo sindacale al contenuto dello stesso, dichiarando l'illegittimità di questa disposizione. A seguito di tale declaratoria di incostituzionalità l'art.10 della legge n. 93 del 1983 veniva novellato dalla legge 8 agosto 1985, n.426, che consentiva che il provvedimento regionale di approvazione dell'accordo provvedesse all'adeguamento dello stesso alle peculiarità dell'ordinamento degli uffici regionali. La ricorrente osserva altresì che nella legge n. 93 del 1983 "la necessità di realizzare sia il principio di contrattazione collettiva sia il principio dell'autonomia legislativa delle Regioni ha portato ad una procedura in cui ciascuna Regione è legittimata dalla legge a partecipare, in piena autonomia, ad ambedue le fasi fondamentali del procedimento: sia alla fase contrattuale, mediante la presenza di un proprio rappresentante nella delegazione di parte pubblica costituita per la stipula degli accordi, sia alla fase normativa, mediante l'approvazione con provvedimento regionale degli accordi stipulati". La sottoposizione dell'organismo tecnico di cui alla norma impugnata alle direttive impartite dal Presidente del Consiglio dei ministri in sede di contrattazione collettiva riproporrebbe, invece, secondo la ricorrente, una illegittima ingerenza nell'autonomia regionale e condizionerebbe la legge regionale di recepimento ad un previo procedimento "che non è di per sè nè contrattuale nè legislativo".
2. - Con ricorso depositato in data 8 marzo 1993 (n. 20 del 1993) la stessa Regione Veneto ha impugnato, sempre in riferimento agli artt.97 e 117 della Costituzione, anche le norme delegate, relative all'organismo tecnico di cui all'art. 2, primo comma, lett. b), della legge di delega n.421 del 1992, contenute negli artt. 50, 51 e 52 del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, recante "Razionalizzazione dell'organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego". La Regione si riporta integralmente al ricorso precedente, con il quale è stata impugnata la norma di delegazione, e osserva che l'art.50 della normativa delegata si limita a regolare i rapporti tra l'organismo tecnico cui è demandata la rappresentanza negoziale della parte pubblica (Agenzia per le relazioni sindacali) e la Presidenza del Consiglio dei ministri, senza prevedere forme di collegamento tra tale organismo ed il sistema delle Regioni per la contrattazione relativa ai rapporti di impiego regionale.
Con riferimento poi all'art. 51 del decreto impugnato si rileva che tale norma, riservando al Governo la decisione finale circa l'approvazione dei contratti stipulati dall'Agenzia anche per le Regioni, è anch'essa incostituzionale per le medesime ragioni poste alla base delle censure rivolte nei confronti della norma di delegazione.
Infine, nell'art. 52, quarto comma, si ravvisa la violazione dei principi in tema di autonomia finanziaria regionale enunciati nella sentenza di questa Corte n. 369 del 1992.
3. - Con ricorso depositato il 13 marzo 1993 (n. 19 del 1993) la Regione Lombardia ha impugnato, per violazione degli artt. 39, 76, 117, 118, 119 e 124 della Costituzione, varie disposizioni del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 (artt. 1, terzo comma, 13, 15, secondo comma, 18, primo comma, 26, 27, secondo e quarto comma, 28, 30, secondo comma, 31, 32, 33, 34, 35, 41, primo e terzo comma, 42, secondo comma, 43, 45, 47, 49, secondo comma, 50, 51, 52, 54, 60, 61, secondo comma, 63, secondo comma, 64, 65, 67, 70, secondo comma).
Una prima censura investe l'art. 1, terzo comma, dove si prevede che le disposizioni contenute nello stesso decreto n. 29 del 1993 "costituiscono principi fondamentali ai sensi dell'art. 117 della Costituzione" e che "le Regioni a statuto ordinario si attengono ad esse tenendo conto della peculiarità dei rispettivi ordinamenti". Nel ricorso si dubita della possibilità che "principi fondamentali" suscettibili di vincolare le Regioni ai sensi dell'art. 117 della Costituzione possano essere enunciati in una legge delegata e si rileva che il contenuto di estremo dettaglio della normativa posta dal decreto n. 29 sarebbe comunque tale da eccedere l'ambito e i limiti propri dei "principi fondamentali": di conseguenza, la pretesa di vincolare le Regioni all'osservanza di tutte le disposizioni del decreto legislativo risulterebbe lesiva dell'autonomia regionale.
Con riferimento alla qualifica dirigenziale - regolata dal capo II del titolo II del decreto impugnato - la ricorrente censura, oltre l'art. 13 sui destinatari della nuova disciplina, la disposizione espressa nell'art.15, secondo comma (dove si stabilisce che la dirigenza si esprime attraverso la qualifica di "dirigente" da intendersi come unica, mentre solo nelle amministrazioni statali può essere prevista l'ulteriore qualifica di "dirigente generale"), nonchè quella contenuta nell'art.27, secondo comma, seconda parte (dove si prevede che "per le Regioni, il dirigente cui sono conferite funzioni di coordinamento è sovraordinato, limitatamente alla durata dell'incarico, al restante personale dirigenziale"). In proposito la ricorrente rileva che in base all'attuale disciplina la carriera dirigenziale nelle Regioni è artico lata su due qualifiche diverse e che l'applicazione delle disposizioni richiamate verrebbe a ledere l'autonomia regionale, costringendo le stesse Regioni a modificare il proprio ordinamento, con la riduzione delle qualifiche dirigenziali e con la disciplina delle funzioni di coordinamento nel modo specifico richiesto dal decreto impugnato.
Sono poi impugnati l'art. 18, primo comma, che attribuisce a un organismo interamente statale il compito di definire, sulla base delle indicazioni del Ministero del Tesoro, "i criteri e le procedure per l'analisi e la valutazione dei costi dei singoli uffici" e l'art. 28, che disciplina l'accesso alla qualifica di dirigente con disposizioni di dettaglio e attribuisce al Presidente del Consiglio dei ministri il compito di definire con proprio decreto le modalità dei concorsi e delle selezioni dei dirigenti. Anche di queste norme, ove ritenute applicabili ai dirigenti della Regione, si censura il carattere invasivo della competenza e dell'autonomia regionale.
Un ulteriore profilo di illegittimità viene riferito all'art. 13, nella parte in cui dispone che le norme sulla dirigenza previste dal decreto impugnato si applichino al personale del Servizio sanitario nazionale: una siffatta disciplina non sarebbe compatibile con l'attuale configurazione delle Unità sanitarie locali come enti strumentali della Regione (prevista dall'art. 3, primo comma, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502) e lederebbe la competenza regionale in materia di ordinamento degli enti dipendenti dalla Regione. In particolare, sarebbero lesivi dell'autonomia regionale l'art. 26 (che contiene norme transitorie sulla conservazione di talune posizioni funzionali fino all'attribuzione della qualifica di dirigente, sulla revoca dei concorsi e sul blocco degli incrementi delle dotazioni di personale dirigenziale fino alla ridefinizione delle piante organiche), l'art. 27, quarto comma (che prevede il potere sostitutivo del Presidente del Consiglio dei ministri in caso di inerzia della Regione nell'individuazione dell'organo competente a effettuare la verifica dei risultati dell'attività svolta dagli uffici, senza subordinare l'esercizio di tale potere alle condizioni e alle modalità procedurali indicate nella giurisprudenza di questa Corte), nonchè l'art. 28, decimo comma (che disciplina, dettagliatamente, l'accesso al livello dirigenziale del ruolo professionale tecnico e amministrativo del Servizio sanitario nazionale).
Passando all'esame del capo III del titolo II del decreto - che si riferisce agli "uffici, piante organiche, mobilità e accesso" - la ricorrente censura che l'art. 30, secondo comma, preveda direttive del Dipartimento per la funzione pubblica, di concerto col Ministro del Tesoro, ai fini della ridefinizione triennale delle piante organiche, e che l'art.31, nel disciplinare la rilevazione del personale e le proposte di ridefinizione delle piante organiche, imponga la riduzione per accorpamento degli uffici dirigenziali e delle relative dotazioni organiche in misura non inferiore al 10%, regolando la procedura per addivenire a tali riduzioni e prevedendo, in caso di inerzia delle amministrazioni non statali, un potere sostitutivo del Presidente del Consiglio dei ministri. Viene inoltre censurato il divieto - previsto dal sesto comma dello stesso articolo - di assunzione di personale fino a che non siano state approvate le proposte relative alle nuove piante. La Regione impugna anche gli artt. 32, 33, 34 e 35 del decreto in questione, che regolano la procedura di mobilità tra diversi enti, anche appartenenti a comparti diversi.
Ad avviso della ricorrente la disciplina centralizzata della mobilità fissata in tali norme - non prevedendo alcun intervento regionale in ordine ai movimenti di personale da o verso le Regioni - risulterebbe palesemente in contrasto con i criteri affermati da questa Corte con le sentt. nn. 407 e 410 del 1989.
Si osserva poi che l'art. 41 del decreto impugnato demanda ad un regolamento del Governo la disciplina dei requisiti di accesso all'impiego, del le procedure di reclutamento tramite liste di collocamento, della composizione e degli adempimenti delle commissioni giudicatrici: ove fosse applicabile anche alla Regione, questa normativa violerebbe l'autonomia regionale, comportando tra l'altro l'esercizio di una potestà regolamentare del Governo in materia di competenza regionale e in assenza di sufficienti criteri legislativamente fissati.
Anche l'art. 42, secondo comma, prevedendo direttive impartite dal Dipartimento per la funzione pubblica sui programmi di assunzione nelle amministrazioni pubbliche di portatori di handicap, sarebbe invasivo della competenza regionale in tema di assunzioni negli uffici della Regione.
Inoltre, la natura di norme di stretto dettaglio delle disposizioni contenute nell'art. 43 (relative alla presentazione dei documenti da parte degli assunti ed all'obbligo di permanenza nella prima sede per almeno sette anni) renderebbe illegittima la loro estensione al personale regionale.
La Regione rileva poi come il titolo III del decreto impugnato - dedicato alla contrattazione collettiva ed alla rappresentatività sindacale - preveda profonde innovazioni rispetto alla legge quadro n. 93 del 1983. Le materie riservate alla legge risultano, nella nuova disciplina, ridotte e per le altre si rinvia alla contrattazione collettiva senza più prevedere una fase "normativa" di recepimento degli accordi, dal momento che le amministrazioni pubbliche sono tenute ad osservare gli obblighi assunti con i contratti collettivi (artt. 45, nono comma, e 49, secondo comma).
In merito a questo nuovo assetto del settore, nel ricorso si dubita innanzitutto che gli enti pubblici dotati di autonomia costituzionalmente garantita possano essere assoggettati al vincolo di contratti collettivi "di categoria", specie se efficaci erga omnes.
In secondo luogo, si rileva che il vincolo per il singolo ente in tanto si potrebbe giustificare in quanto l'ente medesimo fosse rappresentato dalle organizzazioni stipulanti.
La normativa in questione prevede, invece, che i contratti per il pubblico impiego siano stipulati non già da organizzazioni rappresentative degli enti pubblici datori di lavoro, o da delegazioni di parte pubblica (come nel sistema previsto dalla legge n. 93 del 1983), ma dall'Agenzia per le relazioni sindacali istituita dall'art. 50 del decreto impugnato cui spetta il compito di rappresentare in sede di contrattazione collettiva nazionale le pubbliche amministrazioni (art. 50, secondo comma).
Dopo aver sottolineato la natura "strettamente" statale di questo organismo - posto sotto la vigilanza e soggetto alle direttive della Presidenza del Consiglio;
disciplinato da un regolamento governativo e guidato da un direttore nominato dal Presidente del Consiglio - e i poteri del Ministro del Tesoro di quantificazione e ripartizione delle risorse destinate a ciascun comparto di contrattazione, la Regione ricorrente afferma che il descritto sistema è tale "da spogliare del tutto le Regioni della loro autonomia".
Esse risultano, infatti, escluse dalla fase contrattuale, dal momento che spetta al Governo autorizzare la sottoscrizione dei contratti (art. 51), salvo il solo parere della Conferenza dei Presidenti delle Regioni per gli aspetti di interesse regionale, e dal momento che le semplici "indicazioni" che la Conferenza dei Presidenti delle Regioni può formulare (art. 50, quarto comma) nonchè l'apporto dei rappresentanti da questa designati nel previsto "comitato di coordinamento" che coadiuva il direttore dell'Agenzia (art. 50, decimo comma) non possono "sostituire la partecipazione della singola Regione ad una contrattazione i cui esiti sono peraltro per essa totalmente vincolanti". E questo tanto più ove si consideri che è stata eliminata la fase "normativa" di recepimento degli accordi con legge regionale, che consentiva alle Regioni di adeguarli "alle peculiarità dell'ordinamento degli uffici ed alle disponibilità del bilancio regionale" (v. sentt. nn. 219 del 1984 e 1001 del 1988). La Regione - rileva ancora la ricorrente - risulta, pertanto, "da un lato privata della sua potestà legislativa in ordine alla disciplina del rapporto di lavoro dei dipendenti propri e degli enti strumentali;
dall'altro lato è privata della propria autonomia contrattuale, poichè è vincolata dai contratti collettivi alla cui stipulazione essa non può prendere parte in modo significativo e determinante".
Una siffatta disciplina sarebbe, ad avviso della ricorrente, in contrasto sia con i principi costituzionali in tema di autonomia regionale sia con l'art. 39 della Costituzione, in quanto lesiva dell'autonomia sindacale e contrattuale della Regione.
Nel ricorso si sottolinea anche che alcune materie specifiche, nonchè la durata dei contratti collettivi di comparto, possono essere disciplinate da contratti collettivi quadro, in grado di vinco lare anche le Regioni, stipulati dall'Agenzia statale e dalle Confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale, la cui individuazione è demandata ad un accordo tra Presidente del Consiglio dei ministri e Confederazioni sindacali, da recepire con decreto presidenziale (v. artt. 45-47). Anche in riferimento a queste disposizioni si rileva come risulti sottratta alle Regioni ogni autonomia nel determinare le controparti contrattuali e si sollevano dubbi sulla conformità della disciplina in questione all'art. 39 della Costituzione.
Ulteriore censura, sempre per violazione dell'autonomia regionale, viene, infine, rivolta alla disposizione (art. 54) che rinvia ad un apposito accordo stipulato tra Presidente del Consiglio e sindacati la determinazione dei limiti massimi delle aspettative e dei permessi sindacali e demanda al Dipartimento della funzione pubblica la ripartizione di tali aspettative tra le organizzazioni sindacali.
L'art. 60, nel disciplinare l'orario di servizio e l'orario di lavoro con norme di estremo dettaglio, e l'art. 61, nel prevedere che le amministrazioni adottino misure per attuare le direttive delle Comunità europee in materia di "pari opportunità", sulla base di quanto disposto dal Dipartimento per la funzione pubblica, sarebbero anch'essi lesivi dell'autonomia regionale.
Gli artt. 63, 64 e 65, stabilendo disposizioni in materia di controllo della spesa per il personale, e assoggettando la Regione a poteri di direttiva, di determinazione e di controllo di organi centrali contrasterebbero anch'essi con l'autonomia conferita alla ricorrente. In particolare, l'art. 63, secondo comma, attribuisce al Ministero del Tesoro e all'organismo statale previsto dall'art. 2 della legge n. 421 del 1992 poteri di definizione dei sistemi informatici impiegati da tutte le amministrazioni pubbliche; gli artt. 64 e 65 disciplinano procedure e tecniche di rilevazione dei costi, attribuendo compiti specifici al Ministero del Tesoro ed alla Presidenza del Consiglio e prescrivendo anche che questa adotti un atto di indirizzo e coordinamento per la "omogeneizzazione delle procedure presso i soggetti pubblici diversi dalle amministrazioni sottoposte alla vigilanza ministeriale". Questo potere di indirizzo, ad avviso della ricorrente, contrasterebbe con il principio di legalità sostanziale, in quanto esercitato con procedura anomala e non vincolato a criteri di legge.
Anche l'art. 70, secondo comma, prevedendo verifiche del Ministero del Tesoro e del Dipartimento della funzione pubblica sull'applicazione dei contratti collettivi, se esteso alle Regioni, violerebbe la loro autonomia.
Infine, viene impugnato l'art. 67, che stabilisce che il Commissario del Governo rappresenta lo Stato nel territorio regionale.
La medesima norma attribuisce a questo organo la responsabilità in ordine al flusso di informazioni indirizzate al Governo dagli enti pubblici operanti nel territorio e prevede che "ogni comunicazione del Governo alla Regione avviene tramite il Commissario di Governo".
Secondo la Regione ricorrente questa configurazione estensiva del ruolo e dei compiti del Commissario non corrisponderebbe a quanto disposto dall'art.124 della Costituzione, che attribuisce a quest'organo solo il compito di soprintendere alle funzioni amministrative esercitate in periferia dagli organi dello Stato coordinando le stesse con quelle esercitate dalla Regione.
4. - In tutti i giudizi ha spiegato intervento il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, per chiedere che le questioni sollevate sia no dichiarate infondate.
In riferimento ad entrambi i ricorsi proposti dalla Regione Veneto, l'Avvocatura richiama i contenuti della legge quadro sul pubblico impiego e dell'art. 2 della legge n.426 del 1985 - dove si prevede che la disciplina nascente dagli accordi è approvata con provvedimento regionale, salvi i "necessari adeguamenti alle peculiarità dell'ordinamento degli uffici regionali" - per osservare che "non appare sostenibile la tesi della Regione ricorrente, in base alla quale l'agire dell'organo di rappresentanza della parte pubblica in sede di contrattazione, secondo le direttive impartite dal Presidente del Consiglio dei ministri, rappresenterebbe un'ingerenza nella autonomia regionale, atteso che la responsabilità negoziale appartiene al Governo, laddove le Regioni sono rappresentate nelle trattative attinenti al loro comparto, cosicchè esse possono adattare la nuova disciplina alle eventuali peculiarità dell'organizzazione di ciascuna".
5. - In merito alle questioni sollevate dalla Regione Lombardia l'Avvocatura premette che questa Corte ha riconosciuto la legittimità di norme di indirizzo e coordinamento, adottate con atti legislativi ed amministrativi, che al fine di assicurare la salvaguardia dell'interesse nazionale hanno "avocato" allo Stato settori di materie regionali.
Inoltre, l'Avvocatura osserva che le norme impugnate, inserendosi nella manovra economico- finanziaria del Governo, sono state determinate dall'esigenza di provvedere ad una profonda revisione della disciplina del pubblico impiego per rendere più efficace l'azione amministrativa e più razionale l'utilizzazione delle risorse umane.
Dopo aver sottolineato che questa Corte, nella sentenza n. 219 del 1984, ha già riconosciuto la natura di legge di riforma economico-sociale anche alla legge quadro n.93 del 1983, avente portata innovativa inferiore al decreto legislativo impugnato, l'Avvocatura afferma che tale decreto ha comunque previsto una serie di garanzie idonee ad evitare la lesione dell'autonomia regionale. In tal senso si richiama anche il documento approvato dalla Conferenza dei Presidenti delle Regioni l'11 gennaio 1993, nel quale si riconosce che il decreto adottato dal Governo ha prestato "una particolare attenzione alle peculiarità dell'ordinamento regionale ed un sufficiente rispetto delle autonomie costituzionalmente garantite".
6. - In prossimità dell'udienza hanno depositato memorie la Regione Lombardia e il Presidente del Consiglio dei ministri.
Nella memoria della Regione Lombardia si richiama l'art. 45, nono comma, del decreto impugnato, per rilevare come questa disposizione precluda ogni possibilità di adeguamento del contenuto contrattuale della disciplina del rapporto di lavoro alle peculiarità dell'ordinamento regionale, con la conseguenza che tale disposizione potrebbe essere considerata legittima solo ove ciascuna Regione fosse messa nelle condizioni di partecipare direttamente alla trattativa in vista della conclusione del contratto.
Poichè ciò non accade, la norma sarebbe incostituzionale, e la ricorrente richiede che la Corte ribadisca il principio espresso nella sentenza n. 219 del 1984 dal quale deriverebbe che spetta alle Regioni adeguare i contenuti dei contratti collettivi all'ordinamento degli uffici ed alle disponibilità del bilancio regionale.
Un ulteriore profilo evidenziato dal richiamato art. 45, nono comma, e dall'art. 49, secondo comma, concerne la concorrenzialità della nuova fonte introdotta dal decreto - i contratti collettivi - con la fonte legislativa regionale prevista dall'art. 117 della Costituzione.
Dal punto di vista delle Regioni, il contratto collettivo opererebbe, infatti, come una vera e propria fonte normativa, munita di efficacia vincolante nei confronti della legge regionale, pari a quella che, nei limiti dell'art. 117 della Costituzione, spiega la legge statale: ma tali effetti, riferiti al contratto collettivo, si presentano in contrasto con la Costituzione e con i principi affermati in tema di fonti primarie dalla giurisprudenza costituzionale (sentt. nn. 26 del 1966 e 79 del 1970).
Se invece il contratto collettivo fosse considerato quale fonte statale di livello subordinato alla legge, il carattere vincolante ad esso attribuito nei confronti della legislazione regionale violerebbe il principio ripetutamente affermato dalla Corte secondo il quale le fonti statali secondarie non possono incidere su materie riservate alla competenza regionale. Ma neppure la qualificazione dei contratti quali atti di autonomia privata negoziale varrebbe a superare le censure sol levate dal momento che, seguendo questa interpretazione, occorrerebbe configurare la Regione come soggetto appartenente ad una categoria di datori di lavoro, iscritto al sindacato che stipula il contratto, ovvero obbligato dall'efficacia erga omnes del contratto medesimo conseguita nei modi previsti dall'art. 39, quarto comma, della Costituzione.
In proposito si osserva che secondo la giurisprudenza della Corte (sent. n.106 del 1962) è da considerare "palesemente illegittima" quella disciplina legislativa la quale cerchi di conseguire l'estensione dell'efficacia obbligatoria di un contratto collettivo a tutti gli appartenenti ad una determinata categoria con strumenti diversi da quelli previsti dall'art. 39 della Costituzione.
Sotto diverso profilo la disciplina impugnata violerebbe anche la libertà sindacale della Regione, garantita dallo stesso art. 39 della Costituzione, dal momento che la neo-istituita Agenzia per le relazioni sindacali "tiene addirittura luogo del sindacato ai fini dalla stipulazione dei contratti collettivi" vincolanti per le Regioni, senza che sia prevista per esse alcuna libertà di adesione ovvero la partecipazione alla fase contrattuale.
7. - Nella memoria dell'Avvocatura dello Stato - presentata in relazione al ricorso n.20/1993 della Regione Veneto - si ribadisce in primo luogo il carattere radicalmente innovativo della legge delega n. 421 del 1992 e del decreto attuativo n. 29 del 1993 che, realizzando la "privatizzazione" del rapporto di impiego pubblico, avrebbero determinato una mutazione del complessivo quadro di riferimento di tutta la materia e delle fonti normative che la disciplinavano. A giudizio dell'Avvocatura tale mutamento delle fonti relative al rapporto di impiego del personale delle pubbliche amministrazioni non determinerebbe, peraltro, alcuna lesione delle competenze regionali in materia di organizzazione degli uffici, posto che, per espressa previsione dell'art. 2, lett.c), della legge n. 421, la materia dell'organizzazione è sottratta all'ambito contrattuale e resta riservata alla legge, proprio al fine di impedire la cogestione tra amministrazione e sindacato per quanto attiene alla organizzazione del lavoro.
D'altro canto, l'oggetto delle direttive, impartite all'Agenzia dal Presidente del Consiglio ai sensi dell'art. 50, terzo comma, sarebbe limitato all'indicazione delle risorse complessivamente disponibili per i comparti e dei criteri generali per la distribuzione di tali risorse al personale. Fermo restando che l'individuazione delle stesse risorse è rimessa a sede diversa da quella negoziale e, precisamente, alla legge finanziaria, la cui formazione è preceduta da momenti di consultazione nei quali le Regioni sarebbero ampiamente rappresentate. Le direttive assolverebbero, pertanto, alla duplice funzione di fissare criteri minimali di uniformità - in ordine ai quali le Regioni potrebbero, comunque, sviluppare una disciplina integrativa - e di stabilire il tetto entro il quale ogni comparto può svolgere la contrattazione, in relazione alle risorse.
In questo senso, gli artt. 50, 51 e 52 del decreto devono essere valutati nel contesto sistematico della disciplina posta dal decreto stesso, con particolare riferimento agli artt. da 63 a 67, in materia di controllo della spesa, che assumono un particolare rilievo rispetto al fine perseguito dal legislatore di realizzare un sistema di efficace valutazione dei costi e di trasparenza dei meccanismi di spesa.
In questo quadro, la partecipazione delle Regioni alla formazione delle direttive, nella forma della consultazione preventiva della Conferenza dei Presidenti regionali, così come prevista dall'art. 50, terzo comma, unitamente agli altri momenti partecipativi previsti dal decreto a favore delle Regioni, sarebbe - secondo l'Avvocatura dello Stato - idonea a garantire il ruolo regionale, in rapporto all'oggetto delle direttive, come sopra precisato.
8. - L'Avvocatura dello Stato ha presentato, inoltre, una memoria in relazione al ricorso n. 19/1993 della Regione Lombardia.
In tale memoria l'Avvocatura dello Stato si sofferma in particolare sugli aspetti inerenti al personale del Servizio sanitario nazionale, per rilevare che l'applicabilità della normativa delegata a tale personale è stata esplicitamente prevista dall'art. 1, lett. q), della legge di delega n. 421 del 1992. A giudizio dell'Avvocatura dello Stato la nuova configurazione delle Unità sanitarie locali quali "enti strumentali" delle Regioni, di cui al decreto legislativo n. 502 del 1992, non avrebbe modificato il principio di omogeneità della disciplina del personale, necessaria, tra l'altro, a consentire le procedure di mobilità di cui all'art. 2, primo comma, lett.r), della stessa legge n. 42l. Tale preminente interesse di carattere nazionale giustificherebbe, pertanto, il mantenimento allo Stato della competenza in materia di personale sanitario, ferma restando, per le Regioni, la facoltà, sancita dall'art. 1, terzo comma, del decreto impugnato, di attuare le norme statali tenendo conto della peculiarità dei rispettivi ordinamenti.
Considerato in diritto
l. - I due ricorsi avanzati dalla Regione Veneto ed il ricorso promosso dalla Regione Lombardia sollevano questioni in parte identiche ed in parte connesse: possono essere, pertanto, riuniti al fine di essere decisi con un'unica pronuncia.
2. - Con il primo dei due ricorsi (n. 70 del 1992) la Regione Veneto impugna l'art. 2, primo comma, lett. b), della legge 23 ottobre 1992, n. 421, recante "Delega al Governo per la razionalizzazione e la revisione delle discipline in materia di sanità, di pubblico impiego, di previdenza e di finanza territoriale".
Secondo la ricorrente, la norma in questione, nel conferire al Governo il potere di prevedere, mediante legge delegata, "strumenti per la rappresentanza negoziale della parte pubblica, autonoma ed obbligatoria, mediante un apposito organismo tecnico, dotato di personalità giuridica, sottoposto alla vigilanza della Presidenza del Consiglio dei ministri ed operante in conformità alle direttive impartite dal Presidente del Consiglio", avrebbe violato l'art. 117 della Costituzione, con riferimento alla competenza regionale in tema di ordinamento degli uffici, nonchè l'art. 97 della Costituzione, che assicura il buon andamento e l'imparzialità della amministrazione.
La questione non è fondata.
La norma di delegazione in questione, nella generalità della sua previsione, non è tale da apportare lesione alla sfera dell'autonomia regionale nè al principio di cui all'art. 97 della Costituzione, dal momento che, pur prevedendo per la rappresentanza della parte pubblica nella contrattazione collettiva un organismo unitario sottoposto alla vigilanza e operante in conformità alle direttive del Presidente del Consiglio, non esclude la possibilità di una partecipazione adeguata delle Regioni alle attività di tale organismo ed alle procedure della contrattazione, ove le stesse vengano a investire, con carattere vincolante, la disciplina dei rapporti di lavoro e di impiego alle dipendenze delle stesse Regioni e degli enti regionali. Tale partecipazione regionale appare, anzi, sottintesa negli stessi principi espressi dalla norma impugnata là dove essa, nel suo primo inciso, conferisce al Governo il potere di prevedere "criteri di rappresentatività" ai fini della tutela dei diritti sindacali e delle procedure di contrattazione "compatibili con le norme costituzionali".
La lesione della sfera dell'autonomia regionale, là dove essa - come vedremo - si è verificata, è stata, pertanto, determinata, non dalla norma di delegazione espressa dall'art. 2, primo comma, lett. b), della legge n.421 del 1992, bensì dal modo come questa disposizione è stata, in concreto, attuata attraverso alcune delle norme contenute nel decreto legislativo n. 29 del 1993: norme anch'esse impugnate dalla Regione Veneto con il successivo ricorso n. 20 del 1993, oggetto dell'esame che verrà condotto, congiuntamente a quello relativo al ricorso proposto dalla Regione Lombardia, nei paragrafi che seguono.
3. - Formano oggetto delle impugnative proposte con il secondo ricorso della Regione Veneto (n. 20 del 1993) e con il ricorso della Regione Lombardia (n.19 del 1993) numerose disposizioni contenute nel decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, recante "Razionalizzazione dell'organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego, a norma dell'art. 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421".
Con tale decreto - emanato in attuazione della delega contenuta nell'art. 2 della legge n. 421 del 1992 (Delega al Governo per la razionalizzazione e la revisione delle discipline in materia di sanità, di pubblico impiego, di previdenza e di finanza territoriale) - è stata formulata una nuova disciplina organica della materia dell'organizzazione degli uffici e dei rapporti di lavoro e di impiego nell'ambito delle amministrazioni pubbliche, disciplina ispirata alle finalità di "accrescere l'efficienza delle amministrazioni in relazione a quella dei corrispondenti uffici e servizi dei paesi della Comunità europea", di "razionalizzare il costo del lavoro pubblico, contenendo la spesa complessiva per il personale, diretta e indiretta, entro i vincoli della finanza pubblica", di "integrare gradualmente la disciplina del lavoro pubblico con quella del lavoro privato" (v. art.1).
La normazione espressa nel decreto n. 29 del 1993 ha profondamente innovato la disciplina in precedenza posta dalla legge quadro sul pubblico impiego (L. 29 marzo 1983, n. 93), ricostruendo l'intera materia intorno ai nuovi principi della "privatizzazione" e della "contrattualizzazione" enunciati nell'art. 2, primo comma, lett. a), della legge n. 421 del 1992 e attuati, nel decreto n.29 del 1993, mediante l'inquadramento dei rapporti d'impiego pubblico nella cornice del diritto civile e nella contrattazione collettiva e individuale.
Le Regioni ricorrenti non contestano le linee di fondo di questa riforma, ma ritengono che le sue modalità attuative, così come articolate nel decreto legislativo n. 29, siano tali da incidere e menomare, per vari aspetti, la sfera dell'autonomia regionale.
Più in particolare, la Regione Veneto contesta - per violazione degli artt.97 e 117 della Costituzione - la disciplina posta dal decreto legislativo in tema di Agenzia per le relazioni sindacali, di sottoscrizione dei contratti e di risorse destinate alla contrattazione collettiva (artt. 50, 51 e 52).
A sua volta, la Regione Lombardia impugna - per violazione degli artt. 39, 76, 117, 118, 119 e 124 della Costituzione - numerose disposizioni concernenti: a) l'efficacia della nuova disciplina nei confronti delle Regioni (art. 1, terzo comma); b) la dirigenza (artt.13; 15, secondo comma; 18, primo comma; 26; 27, secondo e quarto comma; 28);c) il personale delle Unità Sanitarie locali (artt. 26; 26, quarto comma;28, decimo comma; d) gli uffici, le piante organiche, la modalità e gli accessi (artt. 30, secondo comma; 31; 32; 33; 34; 35;41, primo e terzo comma; 42, secondo comma;43); e) la contrattazione collettiva e la rappresentatività sindacale (artt. 45; 47; 49, secondo comma; 50, 51, 52 e 54); f) il rapporto di lavoro, con riferimento all'orario di servizio e di lavoro ed alla disciplina della pari opportunità tra uomini e donne (artt. 60 e 61, secondo comma); g) il controllo della spesa (artt. 63, secondo comma; 64; 65 e 70, secondo comma); h) i poteri del Commissario del Governo (art. 67).
4. - I ricorsi sono in parte fondati.
Per procedere ad un esame ordinato delle varie censure converrà, in primo luogo, muovere dalla valutazione dei profili di illegittimità che vengono a investire gli aspetti più generali della nuova disciplina (art. 1, terzo comma, e disposizioni contenute nel titolo III, in tema di contrattazione collettiva e rappresentatività sindacale), per poi passare allo scrutinio delle questioni più particolari, secondo l'ordine di collocazione nel testo della legge delegata delle disposizioni impugnate.
5. - La prima censura che va esaminata è quel la che la Regione Lombardia ha formulato nei confronti del terzo comma dell'art. 1, dove si stabilisce - in attuazione di quanto previsto dall'art. 2, secondo comma, della legge n.421 del 1992 - che le disposizioni contenute nel decreto n. 29 del 1993 "costituiscono principi fondamentali ai sensi dell'art. 117 della Costituzione" e che le Regioni ordinarie "si attengono ad esse tenendo conto delle peculiarità dei rispettivi ordinamenti".
Ad avviso della ricorrente tale norma - anche a voler ammettere la possibilità di formulare principi fondamentali di cui all'art.117 della Costituzione, in una legge delegata - sarebbe incostituzionale, dal momento che verrebbe a vincolare le Regioni al rispetto indiscriminato di tutte le disposizioni enunciate nel decreto n. 29, ivi comprese quelle contenenti discipline di estremo dettaglio.
La questione non è fondata.
Mentre non possono sussistere dubbi in ordine alla possibilità che i "principi fondamentali" di cui all'art. 117 della Costituzione possano essere enunciati anche in una legge delegata, stante la diversa natura ed il diverso grado di generalità che detti principi possono assumere rispetto ai "principi e criteri direttivi" previsti in tema di legislazione delegata dall'art. 76 della Costituzione, va in concreto rilevato che la norma impugnata, nella sua integrale e corretta lettura, non è tale da produrre quegli effetti di vincolo assoluto e generalizzato che la Regione lamenta.
Le disposizioni formulate nel decreto legislativo vincolano, infatti, le Regioni a statuto ordinario non tanto in relazione alla mera qualifica formale di "principi fondamentali" riconosciuta dalla legge, quanto in relazione alla natura oggettiva di normazione di principio che le disposizioni stesse, in conformità alla loro qualifica formale, vengono a manifestare (v., analogamente, con riferimento alle leggi di riforma economico-sociale, sentt. nn. 219 del 1984; 192 del 1987; 85 del 1990; 349 del 1991): di talchè le stesse Regioni saranno tenute alla loro osservanza non indiscriminatamente, ma nella misura in cui tali disposizioni siano suscettibili di esprimere, per il loro contenuto e la loro formulazione, un principio fondamentale e non una norma di dettaglio.
Diversamente non sarebbe neppure possibile spiegare la stessa formulazione della norma impugnata che vincola le Regioni ad osservare le disposizioni del decreto legislativo come espressione di "principi fondamentali", ma tenendo conto "delle peculiarità dei rispettivi ordinamenti".
6. - Passando all'esame delle censure prospettate dalla Regione Veneto e, con maggiore ampiezza, dalla Regione Lombardia nei confronti delle norme formulate nel titolo III del decreto n. 29 del 1993 in tema di contrattazione collettiva e di rappresentatività sindacale, conviene innanzi tutto richiamare i tratti essenziali della nuova disciplina espressa nell'ambito di tale titolo.
Questa disciplina s'incentra sui punti seguenti:
a) tutte le materie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze di amministrazioni pubbliche - ad eccezione di quelle riservate alla legge, ai sensi dell'art. 2, primo comma, lett. e), della legge n. 421 del 1992 - sono regolate mediante contratti collettivi, nazionali e decentrati (cui si possono aggiungere contratti collettivi quadro, destinati a disciplinare in modo uniforme per tutte le aree di contrattazione collettiva la durata dei contratti e specifiche materie) (artt. 45, primo, secondo e quinto comma);
b) la contrattazione nazionale è attuata per comparti comprendenti settori omogenei o affini, individuati, sulla base di accordi sindacali, con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, sentita la Conferenza dei Presidenti delle Regioni per gli aspetti di interesse regionale (art. 45, terzo comma). La contrattazione decentrata si svolge sulle materie e nei limiti stabiliti dai contratti nazionali (art. 45, quarto comma);
c) i contratti collettivi, una volta sotto scritti, vincolano immediatamente le amministrazioni pubbliche, che sono tenute a garantire ai propri dipendenti trattamenti non inferiori a quelli previsti nei rispettivi contratti (artt. 45, nono comma, e 49, secondo comma). Risulta, pertanto, eliminata la fase del "recepimento" o della "approvazione" degli accordi collettivi mediante atto normativo (statale o regionale), già prevista dalla legge quadro sul pubblico impiego (artt. 6 e 10 L. n. 93 del 1983);
d) i contratti collettivi nazionali ed i contratti quadro sono stipulati, per la parte pubblica, dalla Agenzia per le relazioni sindacali, istituita dall'art. 50, e per la parte sindacale dalle Confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale. L'Agenzia - cui spetta la rappresentanza di tutte le amministrazioni pubbliche (ivi comprese le Regioni a statuto ordinario, mentre le Regioni a statuto speciale e le Province autonome "possono" avvalersi dell'attività dell'Agenzia) - è un organismo dotato di personalità giuridica, sottoposto alla vigilanza del Presidente del Consiglio, disciplinato da un regolamento governativo ed il cui direttore è nominato con decreto del Presidente del Consiglio.
L'Agenzia si attiene, nella contrattazione, alle direttive impartite dal Presidente del Consiglio, sentita la Conferenza dei Presidenti delle Regioni per gli aspetti di interesse regionale. Ulteriori indicazioni, per i contratti relativi al comparto regionale, possono essere date all'Agenzia dalla Conferenza dei Presidenti delle Regioni. L'Agenzia, per lo svolgimento dei suoi compiti, si avvale, tra l'altro, di consulenti prescelti tenendo anche conto delle indicazioni delle Regioni. Il direttore dell'Agenzia è coadiuvato, per le questioni concernenti il personale degli enti locali, da un comitato di coordinamento i cui membri sono in parte designati dalla Conferenza dei Presidenti delle Regioni (art. 50);
e) per quanto concerne la parte sindacale la maggiore rappresentatività sul piano nazionale vie ne definita in base ad un apposito accordo tra Presidente del Consiglio e Confederazioni sindacali (individuate ai sensi dell'art. 8 del d.P.R. 23 agosto 1988, n. 395), accordo recepito con decreto del Presidente della Repubblica (art. 47);
f) i contratti decentrati vengono stipulati, per la parte pubblica, da una delegazione composta dal titolare del potere di rappresentanza delle singole amministrazioni e per la parte sindacale da una rappresentanza composta secondo modalità da definire in sede di contratto nazionale (art. 45, ottavo comma);
g) la sottoscrizione dei contratti nazionali è operata dall'Agenzia in base ad autorizzazione del Governo sottoposta al controllo della Corte dei conti e regolata da un'apposita procedura. Il Governo assume il parere della Conferenza dei Presidenti delle Regioni per gli aspetti di interesse regionale (art. 51);
h) la quantificazione degli oneri derivanti dalla contrattazione collettiva è affidata, per tutte le amministrazioni pubbliche, al Ministero del Tesoro e le risorse vengono ripartite tra le varie amministrazioni con la particolare procedura fissata nell'art. 5l. Al Presidente del Consiglio spetta impartire direttive all'Agenzia per i rinnovi contrattuali, indicando le riserve complessiva mente disponibili per i comparti ed i criteri generali di distribuzione delle risorse (art.51, secondo comma);
i) un apposito accordo tra Presidente del Consiglio e sindacati maggiormente rappresentativi regola i limiti massimi delle aspettative e dei permessi sindacali nel settore pubblico (art. 54).
7. - Larga parte di tale normazione viene impugnata dalle Regioni ricorrenti, in quanto ritenuta lesiva delle competenze regionali, anche in relazione alla disciplina in precedenza posta, per gli accordi collettivi relativi al comparto regionale, dalla legge quadro sul pubblico impiego (e, in particolare, dall'art. 10, ultimo comma), nonchè alla giurisprudenza di questa Corte elaborata in relazione a tale legge (sentt. n. 219 del 1984; n. 217 del 1987; nn. 1001 e 1003 del 1988). Ad avviso della ricorrente, infatti, la nuova procedura di contrattazione fissata dal decreto legislativo n. 29 sarebbe venuta a spogliare le Regioni delle competenze costituzionali alle stesse spettanti in tema di disciplina dei propri rapporti d'impiego sotto un duplice profilo: da un lato, escludendo del tutto le Regioni dalla fase contrattuale, affidata in esclusiva ad un organismo statale qual'è l'Agenzia per le relazioni sindacali; dall'altro, sottraendo alla sfera regionale il potere di approvazione (e di adeguamento) degli accordi sindacali relativi al comparto regionale già previsto dall'art. 10, ultimo comma, della legge n. 93 del 1983. La vincolatività piena che il decreto legislativo n. 29 conferisce - ai sensi degli artt. 45, nono comma, e 49, secondo comma - ai contratti stipulati per il comparto regionale senza il concorso attivo delle Regioni verrebbe, di conseguenza, a determinare una violazione sia dell'art. 117 che dell'art. 39 della Costituzione.
8. - Tali doglianze si presentano in parte fondate, con riferimento al loro nucleo centrale che investe la procedura prevista per la contrattazione nazionale.
Non si può, infatti, negare che tale procedura - riducendo lo spazio riservato alla legge regionale ed eliminando la fase normativa di recepimento degli accordi già prevista dalla legge n. 93 del 1983 - sia venuta a limitare notevolmente l'ambito d'intervento consentito alle Regioni a statuto ordinario dall'art. 117 della Costituzione in tema di disciplina dei propri rapporti di lavoro e di impiego senza, di contro, compensare tale limitazione attraverso una presenza adeguata delle stesse Regioni nella fase della trattativa e della sottoscrizione del contratto.
L'affidamento in esclusiva, con effetti vincolanti, di tale fase - e della relativa rappresentanza della parte pubblica - ad un organismo quale l'Agenzia - dotato di propria personalità, ma sottoposto alla vigilanza della Presidenza del Consiglio - non può, d'altro canto, non incidere nella sfera dell'autonomia connessa alla contrattazione collettiva, che anche per quanto concerne le Regioni a statuto ordinario viene a discendere dai principi di cui all'art. 39 della Costituzione: autonomia la cui limitazione risulta aggravata dalla procedura di individuazione delle controparti contrattuali, da cui le stesse Regioni si trovano, ai sensi dell'art. 47, primo e secondo comma, del tutto escluse.
Nè compensazioni adeguate alla sottrazione di potere normativo e contrattuale operato nei confronti delle Regioni dalla disciplina in esame possono essere individuate nelle funzioni consultive e d'indirizzo attribuite alla Conferenza dei Presi denti delle Regioni dall'art. 50, terzo e quarto comma, e dall'art.51, primo comma, e neppure negli apporti all'organizzazione dell'Agenzia consentiti alla stessa Conferenza dall'art. 50, ottavo e decimo comma. E invero tali funzioni e tali apporti vengono pur sempre a configurarsi come secondari e marginali rispetto alla formazione della volontà contrattuale, nè sono tali da giustificare l'assenza della Regione come parte sostanziale del rapporto.
9. - Le osservazioni che precedono conducono, dunque, ad affermare l'illegittimità delle norme espresse nel titolo III del decreto impugnato, suscettibili di riferirsi alla contrattazione nazionale relativa ai rapporti di lavoro e d'impiego delle Regioni ordinarie e degli enti amministrativi dipendenti dalle stesse. La dichiarazione di illegittimità costituzionale colpisce, di conseguenza, gli artt. 45, settimo e nono comma; 47; 49, secondo comma; 50, secondo, terzo, quarto, ottavo e decimo comma; 51, primo comma, del decreto legislativo n. 29 del 1993, nella parte in cui tali disposizioni risultino applicabili alle Regioni a statuto ordinario con riferimento alla contrattazione nazionale relativa ai rapporti di lavoro e di impiego alle dipendenze delle stesse Regioni e degli enti regionali.
La pronuncia di illegittimità non colpisce, invece, le altre norme del titolo III che formano oggetto d'impugnativa, dal momento che le stesse o non incidono nella sfera di autonomia delle Regioni ordinarie (art. 45, quinto e sesto comma) od offrono a tale autonomia un riconoscimento adeguato (art. 45, terzo e ottavo comma; art. 51, terzo comma) o sono tali da trovare la loro giustificazione in esigenze primarie di rilievo nazionale ispiratrici della riforma, quali quelle connesse allo sviluppo della produttività dell'amministrazione ed al controllo della spesa pubblica relativa al personale (artt. 51, quarto comma; 52; 54).
D'altro canto, è appena il caso di osservare che la pronuncia di illegittimità delle norme sopra elencate, con riferimento ai profili denunciati, non comporta che il legislatore, in sede di formulazione della nuova disciplina che dovrà sostituire quella ora caducata, non possa pur sempre ispirarsi ai principi enunciati nell'art. 2 della legge n. 421 del 1992 - che più hanno innovato rispetto alla legge n. 93 del 1983 - sia in tema di "contrattualizzazione" del rapporto di impiego pubblico (con la relativa separazione della fase normativa dalla fase contrattuale) che in tema di imputazione dell'attività di contrattazione ad un unico organismo tecnico.
Tale pronuncia comporta, invece, che, nel- l'adottare la nuova disciplina della contrattazione nazionale, lo stesso legislatore debba in ogni caso adottare soluzioni organizzative e procedurali in grado di garantire una partecipazione effettiva dei soggetti regionali tanto alla fase della formazione che a quella della sottoscrizione dei con tratti collettivi concernenti i rapporti di lavoro e di impiego imputabili alle Regioni ordinarie.
10. - Passando ora all'esame dei profili più particolari enunciati nel solo ricorso della Regione Lombardia, le prime questioni che vanno affrontate sono quelle prospettate nei confronti degli artt. 13; 15, secondo comma; 18, primo comma; 27, secondo comma, e 28, concernenti la disciplina della dirigenza.
Ad avviso della ricorrente tali disposizioni - se applicabili alla dirigenza regionale - dovrebbero ritenersi lesive delle competenze costituzionali proprie delle Regioni in tema di pubblico impiego, in quanto dirette a imporre l'unicità della qualifica dirigenziale (art. 15, secondo comma) ed a regolare in dettaglio i poteri di coordinamento dei dirigenti regionali (art. 27, secondo comma). Vengono, inoltre, censurati l'art. 18, primo comma, per il fatto di attribuire ad un organismo interamente statale il compito di definire, in base alle indicazioni del Ministero del Tesoro, "i criteri e le procedure per l'analisi e la valutazione dei costi dei singoli uffici", nonchè l'art. 28, per il fatto di regolare con norme di estremo dettaglio l'accesso alla qualifica dirigenziale, conferendo al Presidente del Consiglio dei ministri il compito di definire le modalità dei concorsi e delle selezioni.
Tali questioni non sono fondate.
Va, infatti, escluso che gli artt. 15, secondo comma, e 27, secondo comma, pongano norme suscettibili di qualificarsi come discipline di dettaglio, mentre va riconosciuto allo Stato il potere di formulare - in sede di riassetto della funzione dirigenziale - principi suscettibili di vincolare la sfera regionale sia in ordine ai possibili livelli di tale funzione che al carattere temporalmente limitato dell'attività di coordinamento affidata dalle Regioni ai propri dirigenti: e questo tanto più ove si considerino quelle esigenze di "armonizzazione" tra i diversi tipi di dirigenza, statale e regionale, che, anche di recente, la Corte ha già avuto modo di sottolineare (sent. n. 493 del 1991).
Infondata risulta anche la questione relativa al primo comma dell'art. 18, dal momento che la definizione dei criteri e delle procedure per l'analisi e la valutazione dei costi degli uffici si presenta strumentale ad un'attività conoscitiva che in tanto potrà conseguire risultati utili, sul piano dell'economicità dell'azione amministrativa e della verifica dei risultati, in quanto venga attuata attraverso un organismo dotato di specifiche competenze tecniche e in grado di operare sulla base di apporti informativi omogenei e comparabili.
Infine, si presenta infondata anche la censura prospettata nei confronti dell'art. 28, dal momento che tale disposizione riguarda l'accesso alla dirigenza statale e agli enti pubblici non economici, ma non detta alcuna disciplina in tema di accesso alla dirigenza regionale.
1l. - Sempre sul piano dei profili particolari prospettati nel ricorso della Regione Lombardia, un secondo ordine di censure investe gli artt. 13, 26, 27, quarto comma, e 28, decimo comma, in tema di dirigenza del Servizio sanitario nazionale.
Secondo la Regione tali disposizioni sarebbero lesive della sfera di autonomia regionale per il fatto di avere esteso tutte le norme sulla dirigenza alle amministrazioni, enti ed aziende del Servi zio sanitario nazionale (art. 13); di aver dettato una disciplina di dettaglio sia in via transitoria (art. 26) che di accesso alla dirigenza sanitaria (art. 28, decimo comma); di aver previsto un potere sostitutivo del Presidente del Consiglio non preceduto da diffida (art. 27, quarto comma): censure tutte collegate alla premessa che l'unità sanitaria locale - a seguito della riforma introdotta con il decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 - è stata configurata come "ente strumentale della Regione", con la conseguenza che la disciplina del personale degli enti sanitari dovrebbe oggi risultare affidata, ai sensi dell'art. 117, alla Regione.
Tali questioni non sono fondate.
In primo luogo va rilevato che l'art. 13 del decreto n. 29, nell'estendere la normazione sulla dirigenza anche al Servizio sanitario nazionale, ha fatto espressamente salvo quanto stabilito per il ruolo sanitario dal decreto legislativo n. 502 del 1992, dove, all'art. 15, è stata formulata una disciplina speciale per la dirigenza sanitaria. Le norme enunciate in tema di dirigenza dal decreto n. 29 si estendono, dunque, al ruolo sanitario non in distintamente, ma solo compatibilmente con tale disciplina speciale.
In secondo luogo, va sottolineato che il nuovo inquadramento delle Unità sanitarie locali disposto con l'art. 3 del decreto legislativo n. 502 del 1992 non ha fatto venire meno quelle esigenze di uniformità che hanno a suo tempo indotto il legislatore statale a riservare alla propria sfera di competenza la disciplina del personale sanitario (v. art. 47, terzo e quarto comma, L. 23 dicembre 1978, n.833), esigenze ripetutamente convalidate anche dalla giurisprudenza di questa Corte (v. sentt. nn. 294 del 1986; 112 e 308 del 1990). Dal che la conseguente infondatezza delle censure mosse alle disposizioni di cui agli artt. 26 e 28, decimo comma, del decreto n. 29, con riferimento al loro carattere di discipline di dettaglio.
Infine, va riconosciuta infondata la censura relativa al potere sostitutivo conferito dall'art. 27, quarto comma, al Presidente del Consiglio. L'assenza della diffida, nel caso di specie, si può, infatti, spiegare tenendo conto della particolarità del potere d'intervento conferito allo stesso Presidente, in relazione al potere regionale di individuazione dell'organo competente a nominare i "nuclei di valutazione" (potere esercitato una tantum, nella fase di avvio della nuova disciplina), nonchè alla necessità di non creare ritardi nella messa in atto di un istituto particolarmente rilevante per gli scopi di efficienza e produttività perseguiti dalla riforma.
12. - Un terzo ordine di doglianze viene formulato nei confronti degli artt.30, secondo comma, e 31, in tema di uffici e piante organiche.
In proposito, la ricorrente lamenta che, ai sensi dell'art. 30, secondo comma, la ridefinizione triennale delle piante organiche sia sottoposta alle direttive del Dipartimento della funzione pubblica, di concerto con il Ministro del Tesoro e che, ai sensi dell'art.31, la Regione sia tenuta, in sede di prima applicazione della nuova disciplina, a provvedere alla rilevazione di tutto il personale; alla formulazione di una proposta di ridefinizione dei propri uffici e delle piante organiche (con una riduzione per accorpamento degli uffici dirigenziali in misura non inferiore al 10% e con la riserva di un contingente di dirigenti all'esercizio delle funzioni di direzione dei sistemi informatico-statistici); alla trasmissione al Dipartimento della funzione pubblica della rilevazione e delle proposte, con la previsione di un potere sostitutivo del Presidente del Consiglio in caso di inerzia dell'amministrazione. Viene, infine, censurato il blocco delle assunzioni disposto dal sesto comma dell'art. 31 fino a quando non siano state approvate le proposte di ridefinizione delle piante organiche.
Anche tali censure non sono fondate.
Innanzitutto va rilevato che l'art. 30, secondo comma, nel richiamare la procedura di cui all'art. 6 del decreto legislativo, limita chiaramente la sua operatività alle amministrazioni statali, rispetto a cui la procedura stessa risulta specificamente configurata. Inoltre, dai vari aspetti della disciplina posta dall'art. 31 non viene a discendere alcuna lesione dell'autonomia regionale, dal momento che alle Regioni, se da un lato viene imposto un obbligo di rilevazione e di proposta, nonchè di trasmissione delle rilevazioni e delle proposte, dall'altro viene anche riservato il potere di approvazione delle stesse proposte "con i provvedimenti e nei tempi previsti dai rispettivi ordinamenti" (art. 31, quarto comma). Mentre, d'altro canto, i vincoli più specifici imposti dallo stesso articolo (riduzione delle dotazioni organiche del personale dirigenziale; riserva di una quota di detto personale per attività informatiche; blocco temporaneo delle assunzioni) possono - al pari del potere sostitutivo riconosciuto al Presidente del Consiglio - trovare la loro giustificazione nei fini stessi della riforma, fondata, in prevalenza, sulla razionalizzazione degli uffici e sul controllo della spesa connessa al personale, nonchè nell'interesse nazionale sotteso alla sua riuscita.
13. - Un quarto ordine di censure investe poi gli artt. 32, 33, 34 e 35, in tema di mobilità del personale. Tali disposizioni vengono impugnate per il fatto di prevedere una disciplina minuziosa e centralizzata della mobilità estesa anche al personale regionale, ma senza alcun intervento delle Regioni.
La questione è in parte fondata.
Per quanto concerne la sfera delle competenze regionali, nessun rilievo si può formulare in ordine alla disciplina posta dagli artt. 32 (in tema di ricognizione delle vacanze), 33 (in tema di competenze dei comitati provinciali e metropolitani), 34 (in tema di messa in disponibilità), nonchè in or dine al procedimento per l'attuazione della mobilità descritto nell'art. 35, primo, secondo, terzo, quinto, sesto e settimo comma), dal momento che la disciplina in questione realizza, con procedura appropriata, le finalità peculiari dell'istituto della mobilità, così come lo stesso si è andato configurando, in stretta connessione con esigenze di interesse nazionale, dopo la legge quadro sul pubblico impiego del 1983.
Una lesione dell'autonomia regionale viene, invece, a manifestarsi con riferimento all'art.35, quarto comma, che affida ad un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri i trasferimenti connessi alla mobilità esterna alle singole amministrazioni, quand'anche gli stessi comportino spostamenti di personale da e verso le Regioni.
Questa Corte ha già avuto modo di affermare che, ove le procedure di mobilità riguardino movimenti di personale da e verso le Regioni, così da determinare una penetrante interferenza nell'autonomia regionale, alle stesse Regioni, ai fini del rispetto del principio di "leale collaborazione", debba essere assicurato "un momento partecipativo, quanto meno nella forma della consultazione" (sent. n. 407 del 1989).
Tale principio va qui confermato e comporta, di conseguenza, la dichiarazione di illegittimità della norma in esame, nella parte in cui la stessa non prevede, per i processi di mobilità da e verso le Regioni, una consultazione delle Regioni interessate.
La Regione lamenta, in particolare, che la disciplina dei requisiti di accesso all'impiego e delle modalità concorsuali risulti affidata ad un regolamento governativo, da adottare ai sensi dell'art. 17 della legge n.400 del 1988 (art. 41); che sulla promozione e sulla proposta di programmi di assunzione per portatori di handicap siano previste direttive del Dipartimento della funzione pubblica (art.42, secondo comma); che agli assunti all'impiego nelle amministrazioni pubbliche vengano estese le norme di cui all'art. 7, quinto e settimo comma, della legge n. 444 del 1985 (in tema di presentazione dei documenti e di efficacia dei provvedimenti di nomina) e venga imposto l'obbligo di permanenza nella sede di prima destinazione per un periodo non inferiore a sette anni (art. 43).
Anche tali questioni non si presentano fondate.
Per quanto concerne l'art. 41, va rilevato che il regolamento governativo ivi previsto al primo comma non può non attenere al solo impiego statale, stante l'esplicito divieto, espresso nell'art. 17, secondo comma, lett. b), della legge n. 400 del 1988, di interventi regolamentari del Governo in materie riservate alla competenza regionale. Resta, pertanto, inalterata, in ordine alla disciplina dell'accesso e delle modalità concorsuali nell'impiego regionale, la competenza normalmente affidata alle fonti regionali.
Per quanto concerne poi l'art. 42, secondo comma, il dato da considerare è che le direttive ivi previste risultano fondate nella legge nè possono considerarsi lesive dell'autonomia regionale ove vengano espresse, come dovuto, nelle forme appropriate dell'indirizzo e del coordinamento.
Infine, con riferimento alle censure mosse nei confronti dell'art. 43, va rilevato che le norme espresse in tale articolo - nonostante la specificità dei loro contenuti - assumono, nel quadro dei criteri di omogeneità ispiratori della riforma, valore di norme di principio, suscettibili di operare nei confronti di tutte le amministrazioni pubbliche.
15. - Il ricorso formula poi censure nei confronti degli artt. 60 e 61, secondo comma, concernenti rispettivamente l'orario di servizio e di lavoro e le direttive in tema di pari opportunità tra uomini e donne. La Regione ritiene tali disposizioni lesive dell'autonomia regionale, dal momento che la prima porrebbe norme di estremo dettaglio e la seconda prevederebbe una funzione di indirizzo contrastante con il principio di legalità sostanziale.
Anche tali questioni non sono fondate.
La disciplina dell'orario di servizio e di lavoro prevista nell'art. 60 si riferisce a situazioni ordinarie ("di norma"): essa consente, pertanto, alle Regioni di adattare i principi desumibili dalla nuova disciplina "alle peculiarità dei rispettivi ordinamenti" (art. 1, terzo comma).
Con riferimento all'art. 61, secondo comma, va, d'altro canto, rilevato che la norma affida alle singole amministrazioni il potere di attuare le direttive della Comunità europea in tema di pari opportunità e che le "disposizioni" della Presidenza del Consiglio richiamate da tale norma, ove rivolte alle Regioni, non potranno non assumere le forme proprie della funzione d'indirizzo e coordinamento, che, in questo caso, verrà a trovare la sua base legale nella stessa direttiva comunitaria.
16. - Ulteriori censure vengono poi formulate nei confronti degli artt. 63, secondo comma, 64, 65 e 70, secondo comma, in tema di controllo della spesa per il personale. La ricorrente ritiene che le norme espresse in tali articoli siano lesive dell'autonomia regionale in quanto dirette ad assoggettare la Regione a poteri di direttiva, di de terminazione e di controllo di organi centrali.
La questione è priva di fondamento.
Le attività di rilevazione dei flussi finanziari delle varie amministrazioni e dei costi imputabili alle stesse, di cui agli artt.63 e 64, sono previste in funzione del controllo sulla spesa pubblica e sul costo del personale tanto in sede nazionale che locale: esse, per risultare efficaci, non potranno non svolgersi secondo criteri e parametri omogenei e sottostare a indirizzi fissati in sede centrale. Si spiega, pertanto, il potere d'indirizzo e coordinamento affidato in materia alla Presidenza del Consiglio dei ministri dal quarto comma dell'art. 64, potere che viene a trovare il suo fondamento legale sia nel fine di "omogeneizzazione delle procedure" enunciato dalla stessa norma, sia, più in generale, nel complesso della disciplina posta dal titolo V del decreto legislativo.
Per quanto concerne, poi, il controllo del costo del lavoro di cui all'art.65 - controllo che comporta, tra l'altro, l'obbligo per la Regione di presentare un conto annuale delle spese per il personale rilevato secondo un modello elaborato dal Ministero del Tesoro - nonchè i poteri di verifica sulla applicazione dei contratti di cui all'art. 70, secondo comma, affidati al Ministero del Tesoro ed al Dipartimento della funzione pubblica, è sufficiente osservare che tali istituti appaiono conformi alle finalità primarie della riforma, che trova il suo fondamento nell'interesse nazionale al riequilibrio della finanza pubblica ed alla migliore efficienza e qualità delle prestazioni rese dalle amministrazioni pubbliche ai cittadini.
17. - L'ultima censura proposta nel ricorso dalla Regione Lombardia investe l'art. 67, che ha affidato al Commissario del Governo la rappresentanza dello Stato nel territorio regionale, nonchè la responsabilità verso il Governo del flusso di informazioni degli enti pubblici operanti nel territorio, conferendo altresì allo stesso il compito di trasmettere tutte le comunicazioni del Governo alla Regione.
Ad avviso della ricorrente tale configurazione del ruolo e dei compiti del Commissario verrebbe a violare l'art. 124 della Costituzione, che affida a tale organo solo il compito di sovrintendere alle funzioni amministrative esercitate dallo Stato e di coordinarle con quelle esercitate dalla Regione.
La questione non è fondata.
La norma, che ricalca in parte la disciplina già posta dall'art. 13 della legge n. 400 del 1988 - oltre a rispondere ad un principio di autorganizzazione dello Stato di per se non lesivo della sfera dell'autonomia regionale - non altera la fisionomia costituzionale del Commissario, ma ne specifica la natura secondo linee implicite nello stesso disegno costituzionale. E invero, sia i compiti di rappresentanza dello Stato che i compiti di trasmissione delle informazioni da e verso la Regione, che l'art. 67 affida al Commissario, possono essere fatti derivare tanto dalle funzioni di "sovraintendenza" che da quelle di "coordinamento" che la Costituzione ha espressamente affidate a tale organo.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i ricorsi:
dichiara l'illegittimità costituzionale degli artt. 45, settimo e nono comma; 47; 49, secondo comma; 50, secondo, terzo, quarto, ottavo e decimo comma; 51, primo comma, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, nella parte in cui disciplinano la contrattazione nazionale relativa ai rapporti di lavoro e di impiego alle dipendenze delle Regioni a statuto ordinario e degli enti regionali;
dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 35, quarto comma, dello stesso decreto legislativo n. 29 del 1993, nella parte in cui non prevede, per i processi di mobilità da e verso le Regioni, la consultazione delle stesse;
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate, con i ricorsi di cui in epigrafe, nei confronti dell'art. 2, primo comma, lett. b), della legge 23 ottobre 1992, n. 421, e degli artt. 1, terzo comma;13; 15, secondo comma; 18, primo comma;26; 27, secondo e quarto comma; 28; 30, secondo comma; 31; 32; 33; 34; 35, primo, secondo, terzo, quinto, sesto e settimo comma; 41, primo e terzo comma; 42, secondo comma; 43; 45, primo, secondo, terzo, quarto, quinto, sesto e ottavo comma; 50, primo, quinto, sesto, settimo e nono comma; 51, secondo, terzo e quarto comma; 52; 54; 60; 61, secondo comma; 63, secondo comma; 64; 65; 67; 70, secondo comma, dello stesso decreto legislativo n. 29 del 1993, con riferimento agli artt. 39, 97, 76, 117, 118, 119 e 124 della Costituzione: Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 26/07/93.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 novembre 1997.
Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente
Enzo CHELI, Redattore
Depositata in cancelleria il 30/07/93.