Sentenza n 219 del 1984

 CONSULTA ONLINE 

SENTENZA N. 219

ANNO 1984

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Prof. Leopoldo ELIA, Presidente

Prof. Antonino DE STEFANO

Prof. Guglielmo ROEHRSSEN

Avv. Oronzo REALE

Dott. Brunetto BUCCIARELLI DUCCI

Avv Albero MALAGUGINI

Prof. Livio PALADIN

Dott. Arnaldo MACCARONE

Prof. Virgilio ANDRIOLI

Prof. Giuseppe FERRARI

Dott. Francesco SAJA

Prof. Giovanni CONSO

Prof. Ettore GALLO

Dott. Aldo CORASANITI,Giudici,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale della legge 29 marzo 1983, n. 93 (Legge quadro sul pubblico impiego) promossi con ricorsi dei Presidenti delle regioni Trentino-Alto Adige, Lombardia, Friuli-Venezia Giulia, Veneto e Valle d'Aosta, dei Presidenti delle provincie autonome di Bolzano e di Trento e del Presidente della Regione Liguria, notificati il 5 e 6 maggio 1983, depositati in cancelleria rispettivamente nei giorni 11, 12, 13 e 16 maggio 1983, ed iscritti ai nn. 12, 13, 15, 16, 17, 18, 19 e 20 del registro ricorsi 1983.

Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 22 novembre 1983 il Giudice relatore Oronzo Reale;

uditi gli avv.ti Umberto Pototsching e Valerio Onida per le Regioni Trentino-Alto Adige e Lombardia, l'avv. Gaspare Pacia per la Regione Friuli-Venezia Giulia, gli avv.ti Guido Viola e Leonello D'Aloja per la Regione Veneto, l'avv. Enrico Romanelli per la Regione Valle d'Aosta, l'avv. Giuseppe Guarino per le Province autonome di Bolzano e di Trento, l'avv. Enrico Romanelli e Lorenzo Acquarone per la Regione Liguria, e l'avv. dello Stato Paolo Vittoria per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

  1. - Con distinti ricorsi, le regioni a statuto speciale Trentino-Alto Adige, Valle d'Aosta e Friuli-Venezia Giulia, le province autonome di Trento e Bolzano e le regioni a statuto ordinario Lombardia, Veneto e Liguria sollevano varie questioni di legittimità costituzionale in via principale concernenti la legge 29 marzo 1983, n. 93, Legge quadro sul pubblico impiego, sia nel suo complesso, sia riferite a singole disposizioni contenute nella legge suddetta.
  2. - In particolare, la Regione Trentino-Alto Adige (n. 12 del reg. ric. 1983) assume che l'art. 1 della legge n. 93 del 1983 sarebbe in contrasto con gli artt. 4 e 5 dello statuto speciale della regione stessa, in quanto il secondo comma del detto articolo definisce come legge di riforma economico-sociale i principi desumibili dalle disposizioni della legge stessa. Sul punto si osserva per un verso che nessun valore potrebbe essere attribuito, ai fini della valutazione giuridica, alla affermazione contenuta al riguardo nella legge e ciò perché la natura di norme di riforma economico - sociale non può essere sanzionata da qualificazioni provenienti dallo stesso legislatore statale ma deve al contrario essere desunta dagli aspetti sostanziali della normativa.

Tanto premesso, sempre con riferimento al dettato del secondo comma dell'art. 1 della legge, si assume che sarebbe contrastante con i principi desumibili dalle stesse norme statutarie surrichiamate che vengano considerate norme di riforma economico-sociale parametri non identificati puntualmente ed esattamente ma solo "desumibili" dalle disposizioni della legge e ciò in quanto l'individuazione di tali norme verrebbe, di fatto, demandata o alle scaturenti successive leggi regionali o alle decisioni del governo in sede di controllo su tali leggi regionali.

Ma, si osserva ancora, non sarebbe legittimo che venga riconosciuta tra le norme fondamentali della Repubblica una legge che, riferendosi ad aspetti salienti e numerosi di una normativa di siffatta portata, rimette ogni disciplina al riguardo ad una fonte di natura non legislativa, quali gli accordi di lavoro, rendendo la stessa vincolante anche nei confronti del legislatore regionale. Si tratterebbe pertanto di vere e proprie norme in bianco, destinate ad essere riempite con i futuri accordi; questi sarebbero dunque vincolanti per le regioni, mentre sarebbe innegabile che le norme di riforma economico-sociale debbano necessariamente riguardare materia riservata alla legge.

Si osserva poi che una lettura sistematica dell'intero art. 1 porterebbe a concludere che tutte le disposizioni della legge in questione siano da considerare principi fondamentali, sicché tautologica sarebbe la portata del primo e del secondo comma; la diversa formulazione non comporterebbe perciò diversità sostanziali, ma sarebbe stata originata dalla consapevolezza del legislatore statale che i limiti alla potestà legislativa delle regioni a statuto speciale e quelli relativi alle regioni a statuto ordinario sono diversi e necessitano perciò di definizione differenziata. Che questo sia il senso da attribuire all'art. 1 discenderebbe dagli artt. 5, secondo comma, 14, terzo comma, 15, ultimo comma, e 27, quarto comma, ove non v'é alcuna differenziazione tra le regioni a statuto speciale e quelle a statuto ordinario; lo stesso criterio parrebbe seguito anche negli artt. 2, che menziona le province autonome di Trento e Bolzano, e 3, che é in rapporto complementare con il citato art. 2. Non sarebbe decisiva in senso contrario la constatazione che l'art. 10 parli espressamente delle sole regioni a statuto ordinario per quanto attiene agli accordi sindacali per i dipendenti regionali.

Una lettura interpretativa da parte della Corte che escludesse tale argomentazione sarebbe comunque appagante per la regione, che, anche in siffatta ipotesi, lamenta che gli artt. 3 (riserva agli accordi delle materie ivi elencate), 5 (determinazione dei comparti), 11 (divieto di concedere trattamenti integrativi non previsti dagli accordi intercompartimentali), 12 (definizione degli accordi intercompartimentali) nonché 6 (competenza del Consiglio dei ministri a verificare la compatibilità finanziaria di qualunque accordo), 8, 9, 10, 12 e 14 (in quanto stabiliscono un vincolo che a seguito dell'accordo colpisce le regioni chiamate ad approvare passivamente una disciplina stabilita da altri) sarebbero comunque lesivi della competenza legislativa primaria della regione stessa in tema di ordinamenti degli uffici regionali.

Siffatta lesione si risolverebbe in una sostanziale espropriazione di tale potestà legislativa, atteso che le norme suindicate devolverebbero "stabilmente e per intero" ai futuri accordi sindacali la disciplina di aspetti rilevanti non solo del trattamento giuridico ed economico del personale, ma anche di profili direttamente concernenti l'organizzazione amministrativa.

La lamentata incostituzionalità permarrebbe anche ove si interpretasse la normativa de qua nel senso che le regioni debbano procedere alla definizione di accordi su scala regionale nel rispetto delle norme e delle procedure previste dalla legge stessa; si avrebbe in fatto un pressocché "totale svuotamento dell'autonomia regionale" nelle materie ivi disciplinate, con particolare riguardo alle procedure previste per la stipulazione degli accordi.

Infatti, laddove viene dettata la disciplina prevista per gli accordi concernenti il personale delle Camere di commercio, delle USL e dei Comuni, senza far contestualmente salva la speciale competenza della Regione Trentino-Alto Adige, ne risulterebbe che aspetti rilevanti del pubblico impiego presso amministrazioni pubbliche soggette al potere ordinamentale della regione stessa verrebbero ad essere disciplinati con atto e procedura di esclusiva competenza statale. Tale rilievo si evidenzierebbe in maggior misura in riferimento all'art. 12 della legge, che prevede un modo centralistico di disciplinare aspetti rilevanti per il pubblico impiego.

L'art. 10 della legge sarebbe poi in contrasto con lo statuto speciale di autonomia, in quanto, ad avviso della regione, si sostanzierebbe in un esproprio, con contestuale trasferimento dell'esercizio della potestà legislativa regionale ad una sede negoziale, condizionata per un verso alla volontà di soggetti estranei all'organizzazione costituzionale dello Stato e delle regioni, e dall'altro, ad +una volontà del negoziatore di parte pubblica alla cui formazione ciascuna regione può rimanere del tutto estranea od avere una parte comunque non decisiva.

La regione ricorrente lamenta altresì la violazione:

- dell'art. 4, n. 7, dello statuto speciale, che attribuisce alla regione stessa potestà legislativa primaria in materia di ordinamento degli enti sanitari ed ospedalieri, in quanto l'art. 9 della legge dispone che, per gli accordi sindacali dei dipendenti delle USL si applichino i procedimenti previsti dall'art. 8, accordi considerati fonte normativa anomala, cui la regione é estranea;

- degli artt. 5, n. 1, e 65 dello statuto, in quanto l'art. 8 della legge n. 93 del 1983 lederebbe la competenza legislativa concorrente in materia di ordinamento del personale dei comuni, in quanto vincolerebbe i comuni del Trentino-Alto Adige a recepire un accordo stipulato in sede nazionale, estromettendo la legge regionale dalla disciplina della materia in modo totale; ad analoghe conclusioni si perverrebbe qualora la detta norma fosse interpretata nel senso che l'accordo debba essere stipulato in sede regionale per essere poi approvato o recepito dalla regione senza possibilità di modifiche;

- dell'art. 4, n. 8, dello statuto, in quanto l'art. 26 detta norme per il personale delle Camere di Commercio, per la cui disciplina impone i procedimenti previsti dalla legge n. 93 del 1983. La citata norma statutaria attribuisce invece alla regione competenza legislativa primaria al riguardo.

Si lamenta infine che il quarto comma dell'art. 27 della legge n. 93 del 1983, laddove prevede una sorta di controllo sull'attività della regione da parte di cinque ispettori e cinque funzionari alle dipendenze della Presidenza del Consiglio, onde verificare la corretta applicazione degli accordi collettivi, introdurrebbe una forma di controllo non prevista dallo statuto speciale e pertanto illegittima costituzionalmente.

  1. - Nel suo ricorso, la Regione Valle d'Aosta (n. 17 del reg. ric. 1983) svolge in primo luogo argomentazioni, a proposito della autodefinizione contenuta nell'art. 1 della legge n. 93 del 1983 come di riforma economico-sociale, analoghe a quelle già esposte dalla Regione Trentino-Alto Adige: l'autoqualificazione non é ammissibile e sarebbe comunque ininfluente, atteso che tale caratteristica deriva alla legge da ragioni sostanziali, desumibili dall'interprete, non già da mere affermazioni in tal senso del legislatore statale.

Nella sostanza, si assume che la legge de qua non avrebbe le caratteristiche di una riforma economico-sociale, in quanto le disposizioni ivi contenute, e per la materia cui attengono e per il loro contenuto concernente previsioni normative già operanti nel settore del pubblico impiego, avrebbero le caratteristiche del coordinamento, non quelle di una normativa innovatrice, tale da rivestire i caratteri di una riforma.

Si rileva altresì che la legge nel suo complesso sarebbe volta a limitare la competenza normativa delle regioni a statuto speciale, che si ridurrebbe ad una legiferazione di carattere attuativo ed integrativo, se non addirittura di natura pressoché regolamentare, cosa questa in contrasto con l'art. 2 dello statuto, relativamente alle materie per cui é prevista competenza legislativa primaria.

La legge in questione, d'altronde, parrebbe imporre alla regione come principi dell'ordinamento dello Stato principi desumibili non dall'intero ordinamento, ma da una singola e particolare legge; l'impugnato art. 1 ed il complesso della legge sono di portata tale da lasciare margini ben ridotti al legislatore regionale, sicché ne risulterebbe svuotata di reale e sostanziale contenuto la competenza legislativa primaria spettante alla regione, con violazione, oltreché del ricordato art. 2 dello statuto, dell'art. 117 della Costituzione.

  1. - Analoghe ragioni adduce la Regione Friuli-Venezia

Giulia (n. 15 del reg. ric. 1983) a proposito della autoqualificazione, contenuta nella legge n. 93 del 1983, al secondo comma dell'art. 1, di norme fondamentali di riforma economico-sociale ai principi in essa legge contenuti.

Si rileva altresì al riguardo che tali non potrebbero comunque essere disposizioni estranee alla disciplina sostanziale della materia, rivolte soltanto a trasferire competenze regionali ad altri soggetti dell'ordinamento statale; altro senso non avrebbe il n. 1 dell'art. 3 della legge de qua che tenderebbe a sottrarre "il regime retributivo di attività" alla competenza della regione per attribuirlo ai soggetti della contrattazione collettiva.

Si conclude perché venga dichiarata l'illegittimità costituzionale della legge n. 93 del 1983 nella parte in cui attraverso le statuizioni dell'art. 1 e dell'art. 3 ed "ogni altra statuizione che ad essa si ricolleghi", lede le competenze della regione ricorrente in materia di stato giuridico ed economico del personale.

  1. - La Provincia autonoma di Bolzano ricorre (n. 18 del reg. ric. 1983) a sua volta avverso la legge n. 93 del 1983 nel suo complesso e relativamente a singole statuizioni di essa.

Si lamenta, in primo luogo, come il legislatore statale tenda ad operare una sorta di parificazione che, si sostanzia principalmente nella normativa impugnata, tra la competenza legislativa primaria in materia di ordinamento degli uffici del personale che spetta alla Provincia di Bolzano e la competenza legislativa, concorrente, che, al riguardo, spetta alle regioni a statuto ordinario ex art. 117 della Costituzione.

Premesso ancora che, come é del resto esplicitato nel primo comma dell'art. 1 della legge n. 93 del 1983, la stessa é una legge quadro, si nega che ad essa possano altresì essere riconosciute le caratteristiche di legge di riforma economico-sociale

La legge in argomento infatti sarebbe prevalentemente diretta non tanto ad innovare, quanto ad uniformare la disciplina del pubblico impiego, generalizzando regole e procedure già previste per singoli settori.

Mancherebbero, nella legge di cui si parla, quei caratteri di generalità e di effettiva ed incisiva innovatività nell'ordine dei rapporti economico - sociali, che sarebbero necessari per qualificare una legge come "di riforma economico-sociale". A nulla serve opporre a tali rilievi la dizione del secondo comma dell'art. 1, che qualifica come tali i principi desumibili dalle disposizioni della legge de qua, in considerazione anche del fatto che le caratteristiche sopraelencate non possono essere surrogate da una qualificazione meramente esteriore del legislatore.

In considerazione di quanto sin qui esposto, risulterebbe evidente che la disciplina scaturente dalla legge impugnata non sarebbe idonea a limitare la competenza legislativa primaria della Provincia di Bolzano; la norma (art. 1, comma secondo) che parrebbe imporre tale vincolo sarebbe viziata di incostituzionalità per violazione delle norme statutarie.

Si osserva ancora che il limite dei principi fondamentali stabiliti dalla legge dello Stato é un limite ulteriore rispetto a quello delle norme di riforma economico-sociale, in quanto la disciplina costituzionale presuppone una differenziazione tra i due limiti (in caso contrario non avrebbe senso la separata disciplina degli artt. 4 e 5 dello statuto del Trentino-Alto Adige) e non consente tra essi alcuna assimilazione.

Neppure potrebbe sostenersi che le norme fondamentali richiamate dal secondo comma dell'art. 1 della legge n. 93 del 1983 siano cosa diversa dai principi fondamentali di cui al primo comma, siccome non identiche a questi, ma da esse desumibili solo in via interpretativa. La lettura di tutto l'art. 1 porterebbe, secondo la difesa della regione ricorrente, ad una chiara tautologia tra il primo ed il secondo comma, di talché nessuna distinzione potrebbe operarsi tra i "principi fondamentali" del primo e le "norme fondamentali" del secondo donde l'incostituzionalità della disciplina stessa.

Tale rilievo, quale da ultimo estrinsecato, porta altresì la difesa della provincia ricorrente a formulare un ulteriore dubbio di incostituzionalità, ex art. 3 della Costituzione, nella disposizione di cui all'art. 1 della legge n. 93 del 1983, che peccherebbe di intrinseca contraddittorietà e di irragionevolezza conseguente, laddove pretenderebbe di "attribuire contemporaneamente ad una stessa realtà normativa due distinte qualificazioni giuridiche tra loro non assimilabili". Tale violazione dell'art. 3 della Costituzione viene ritenuta "intrinsecamente connessa e strumentale rispetto alla violazione delle succitate disposizioni statutarie" relative alle attribuzioni della provincia ricorrente, e può pertanto essere fatta valere in questa sede.

Anche gli artt. 2 e 3 della legge in questione si porrebbero in contrasto con gli artt. 8, n. 1, n. 19 e n. 29 che prevedono competenza legislativa primaria della Provincia di Bolzano in materia di rapporto di impiego, e 16, primo comma, dello statuto della Regione Trentino-Alto Adige, che prevede la "corrispondente pienezza di potestà amministrativa"; tali articoli infatti contengono una disciplina dettagliata della materia cui non può riconoscersi il carattere di norme o principi fondamentali (ex artt. 4 e 8 dello statuto), ma gli stessi, in base alla legge che li contiene, sarebbero vincolanti nei confronti delle potestà legislativa e amministrativa della Provincia di Bolzano.

La "pretesa" del legislatore statale ordinario di limitare la competenza normativa e regolamentare della provincia al riguardo sarebbe manifestamente lesiva dell'autonomia provinciale, siccome in contrasto con gli artt. 3, terzo comma, 8, n. 1, n. 19, n. 29, e 16, primo comma, dello statuto speciale di autonomia.

Si evidenzia inoltre una presunta incostituzionalità della disciplina introdotta in forza dell'art. 27, comma quarto, della legge in questione, laddove tale norma prevede l'esercizio da parte di funzionari dello Stato di funzioni ispettive in relazione alla corretta applicazione degli accordi collettivi stipulati. Infatti, ogni forma di controllo relativa all'attuazione della disciplina concernente l'attuazione degli accordi sindacali riguardanti i propri dipendenti, sia l'esercizio del controllo stesso, devono ritenersi attribuiti all'esclusiva competenza della provincia stessa.

Si denunziano ancora di incostituzionalità l'art. 9 della legge n. 93 del 1983, per violazione dell'art. 9, n. 10, dello statuto della Regione Trentino-Alto Adige, in quanto in forza della norma citata per ultima, la Provincia autonoma di Bolzano ha anche una competenza legislativa concorrente in materia di assistenza sanitaria ed ospedaliera, competenza questa ripetutamente esercitata, anche in relazione alle peculiari esigenze scaturenti dalla proporzionale etnica ed alla parificazione delle lingue italiana e tedesca.

L'art. 9, della cui costituzionalità si dubita, stabilisce che anche per quanto concerne gli accordi sindacali dei dipendenti delle USL si applicano le norme e i procedimenti di cui alla stessa legge; orbene, tale disposizione sarebbe incostituzionale laddove e nella misura in cui intenderebbe regolare con una analitica disciplina di carattere sostanziale e procedurale la competenza legislativa concorrente della provincia autonoma nonché la correlativa sua potestà amministrativa. Si tratterebbe di norme che nel delineare dettagliatamente ed analiticamente la materia, non avrebbero affatto quel carattere di principi fondamentali richiesti dalla disciplina costituzionale, ma piuttosto quello di norme di dettaglio, assolutamente inidonee a condizionare l'autonomia della provincia ricorrente.

Anche gli artt. 5, secondo comma, 6, quarto comma, 8, 9, 12, terzo comma, 14, 25 e 30, terzo comma, della legge in questione sarebbero viziati di incostituzionalità perché contravverrebbero al dettato dell'art. 89 dello statuto speciale e delle relative norme di attuazione; tutte queste disposizioni, infatti, nel disciplinare la composizione delle delegazioni sindacali che debbono partecipare alla stipulazione degli accordi previsti nella legge, attribuiscono il potere di far parte delle delegazioni ed organismi sindacali in questione ai soli rappresentanti delle organizzazioni sindacali di categoria maggiormente rappresentative ovvero alle confederazioni maggiormente rappresentative su base nazionale.

Ad avviso della difesa della provincia ricorrente, tali norme sarebbero incostituzionali laddove siano ritenute vincolanti nei suoi confronti; infatti, il citato art. 89 stabilisce principi peculiari ed inderogabili in ordine all'organizzazione dei pubblici Uffici nella Provincia di Bolzano, rivolti, tra l'altro, alla tutela delle minoranze linguistiche tedesche e ladine.

Infine, incostituzionale sarebbe anche la disciplina contenuta nell'art. 14 della legge n. 93 del 1983, concernente gli accordi decentrati riguardanti tra l'altro la formulazione di proposte per l'attuazione degli istituti concernenti la formazione professionale e l'addestramento nonché tutte le altre misure volte ad assicurare l'efficienza degli uffici, per preteso contrasto con l'art. 89 dello statuto speciale di autonomia e delle relative norme di attuazione; infatti, in forza dei peculiari principi, in precedenza ricordati, che regolano l'organizzazione dei pubblici uffici, anche statali, della Provincia di Bolzano, le norme di attuazione del citato art. 89 dello statuto speciale statuiscono la necessità di una intesa tra il commissario del Governo e la Provincia di Bolzano, sia per concordare i criteri per la valutazione della conoscenza delle due lingue, onde assicurare il buon andamento dei pubblici uffici, sia per la istituzione di corsi di addestramento linguistico, sia per la determinazione dei posti da mettere a concorso e dei tempi dei concorsi stessi. Per non aver tenuto conto di questa imprescindibile esigenza della previa intesa con la Provincia autonoma di Bolzano la disciplina legislativa impugnata sarebbe, anche sotto tale profilo, incostituzionale.

  1. - La Provincia autonoma di Trento (n. 19 del reg. ric. 1983), a sua volta, svolge relativamente agli artt. 1 e 2 della legge de qua, censure coincidenti con quelle addotte dalla Provincia di Bolzano.

In particolare con riferimento all'art. 2 della legge in questione, si fa notare che la norma de qua ha, se posta in relazione con il successivo art. 3, anche una funzione di limite, individuando l'area al di là della quale la legge non dovrebbe intervenire a dettare direttamente la disciplina del rapporto.

Considerato che la legge contiene una disciplina dettagliata della materia cui non può certo riconoscersi il carattere di norme (o principi) fondamentali ex artt. 4 e 8 dello statuto speciale del Trentino-Alto Adige, deve osservarsi come la competenza legislativa spettante alla provincia comporta che questa possa disciplinare per legge (o in base alla legge) qualsiasi aspetto dell'ordinamento del proprio personale come pure individuarne gli aspetti da disciplinare eventualmente sulla base di previ accordi con le organizzazioni sindacali (vedi la legge 29 aprile 1983, n. 12). Sarebbe pertanto incostituzionale la pretesa della legge statale di limitare questo fondamentale aspetto dell'esercizio dell'autonomia provinciale, stabilendo cosa debba o non essere disciplinato dalla legge e cosa invece debba o non debba essere disciplinato con accordo sindacale da recepire poi in un atto provinciale (amministrativo o legislativo), siccome lesiva dell'autonomia provinciale sancita al riguardo dai ricordati artt. 3, terzo comma, 8, n. 1, e 16, primo comma, dello statuto speciale del Trentino-Alto Adige.

  1. - La Regione Lombardia ha a sua volta proposto ricorso per la dichiarazione di illegittimità costituzionale degli artt. 1, primo comma, 9, 10, 12 e 27, quarto comma, della legge 29 marzo 1983, n. 93 (n. 13 del reg. ric. 1983).

Deve ritenersi, secondo l'avviso della regione ricorrente, che l'intervento legislativo statale in materia non potrebbe essere giustificato che dalla necessità di disciplinarne aspetti per i quali sussista una esigenza di uniformità di trattamento su base nazionale. Se tale esigenza é stata attuata mediante le norme contenute nel titolo II della legge, la disciplina contenuta nel titolo I non sarebbe né omogenea né di competenza statale. Infatti, la disciplina demandata agli accordi sindacali é tutta di competenza esclusivamente regionale.

Mentre la regione, pur con le riserve insite nelle caratteristiche pubblicistiche proprie dell'impiego presso enti pubblici, riconosce la validità del metodo della contrattazione collettiva anche in campo regionale, nello scendere all'esame delle singole norme lamenta che la legge impugnata avrebbe dettagliatamente regolato aspetti procedurali, ambiti, contenuti ed effetti di tale contrattazione, sì da pervenire ad un totale svuotamento dell'autonomia regionale in materia.

Si rileva ancora che dallo spirito della legge parrebbe potersi evincere che l'eventuale volontà contraria all'accordo di una o più regioni, almeno sino a che non assurga alla maggioranza delle regioni stesse, non potrebbe impedire la conclusione dell'accordo; inoltre, non sarebbe previsto alcun sistema di designazione delle delegazioni regionali, sicché parrebbe dubbio che la volontà manifestata in sede di accordo possa essere considerata il frutto della volontà "formatasi in modo costituzionale" delle regioni stesse.

Si osserva ancora che il confronto tra l'ultimo comma dell'art. 10 e l'ultimo comma dell'art. 6 dimostrerebbe che la introduzione della disciplina contenuta nell'accordo nella legislazione regionale altro non sarebbe che un recepimento puro e semplice dell'accordo stesso, in quanto la regione dovrebbe limitarsi ad approvare quanto statuito in sede negoziale senza poter regolare la materia in modo difforme.

Una riprova del completo esautoramento della potestà legislativa regionale verrebbe dal primo comma dell'art. 3, secondo il quale "in ogni caso" la disciplina degli oggetti ivi indicati deve essere quella prevista dalle procedure e dagli accordi previsti nella legge stessa; ciò dimostrebbe che l'accordo si sostituisce alla legge regionale nel ruolo di fonte normativa, relegandola ad un compito di formale recezione del contenuto dell'accordo stesso.

Si osserva ancora che i poteri riconosciuti alle regioni quanto alla contrattazione e alla recezione degli accordi per il personale non sono assimilabili a quelli che la legge n. 93 del 1983 riconosce agli organi statali. Il Governo conserva infatti una serie di poteri circa la formulazione dell'accordo, la verifica delle compatibilità finanziarie e l'autorizzazione alla sottoscrizione dell'accordo medesimo che non trova riscontro in analoghe facoltà delle regioni; l'accordo inoltre non vincola affatto il legislatore nazionale, che rimane libero di disciplinare la materia come crede, anche in difformità da esso. L'accordo, recepito nel d.P.R., vincola solo la potestà amministrativa e regolamentare del Governo, non la potestà legislativa del Parlamento.

Per ciò che attiene agli enti locali o strumentali, si deve rimarcare che questi non hanno potestà legislativa né autonomia costituzionalmente garantita in ordine al rapporto di lavoro dei propri dipendenti. Per contro, nel caso del personale regionale, l'accordo ha efficacia vincolante per lo stesso legislatore regionale, efficacia che viene definita "superlegislativa" e quale non si dà in alcuna delle altre ipotesi nelle quali tali accordi sono contemplati dalla legge, con conseguente violazione degli artt. 117-121 della Costituzione.

Se l'autonomia incontra il limite dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato, dall'esame delle disposizioni della legge n. 93 del 1983 discenderebbe che da essa non possono trarsi questi limiti, quanto meno da gran parte delle sue norme.

Secondo la difesa della Regione Lombardia l'art. 117 della Costituzione conterrebbe una riserva di legge statale in ordine ai principi; né la legge dello Stato potrebbe legittimamente rinviare, ai fini della statuizione dei principi (con rinvio che viene definito formale e non ricettizio siccome formulato nei riguardi di tutti i futuri accordi) ad altre fonti diverse e subordinate alla legge, quali gli accordi in questione, che risalgono per un verso alla volontà di organi estranei allo Stato e per la parte residua a decisione non del Parlamento ma dell'esecutivo statale.

Ancora, si evidenzia che, nel prevedere gli accordi sindacali, la legge demanda ad essi la disciplina di interi settori della materia del pubblico impiego, anche regionale; ciò non sarebbe conforme ai principi costituzionali di riserva di legge nell'organizzazione degli uffici, di imparzialità e di buon andamento della pubblica amministrazione, di cui all'art. 97 della Costituzione.

Secondo la Regione Lombardia, a salvaguardare l'esigenza del rispetto della riserva di legge non può essere considerato bastevole il disposto dell'art. 10, ultimo comma, laddove ammette (o presuppone) l'emanazione di leggi regionali, in quanto queste avrebbero una mera funzione di recepimento.

Ma il sistema della legge n. 93 del 1983 violerebbe altresì l'autonomia finanziaria regionale laddove prevede che la valutazione complessiva e preventiva delle risorse da destinare al pubblico impiego anche regionale e degli oneri finanziari discendenti dalla disciplina contrattuale dello stato giuridico ed economico del personale regionale sia "sostanzialmente riservata al Governo e al Parlamento". Le regioni, considerata la disciplina di cui agli artt. 15, primo, secondo, terzo e quarto comma, cui fa rinvio l'art. 10, secondo comma, 6, ottavo comma, cui si richiamano gli artt. 10, secondo comma, 11, secondo e terzo comma, e 15, sesto comma, dovrebbero solo provvedere a stanziare in bilancio le somme necessarie per l'esecuzione dell'accordo, senza poter incidere preventivamente ed in modo autonomo sulle scelte di ordine finanziario, che conseguono all'accordo stesso.

Del resto, ciò comporta che le regioni non hanno alcuna garanzia di poter disporre delle risorse finanziarie aggiuntive necessarie per far fronte all'accordo; cosa questa resa ancora più onerosa e preoccupante dal fatto che gli accordi non sono recepiti con leggi o atti dello Stato sicché non potrebbe neppure trovare applicazione l'art. 27 della legge n. 468 del 1978, che impone, a norma dell'art. 81 della Costituzione, come le leggi che comportano oneri a carico degli enti del settore pubblico allargato debbono indicare la copertura finanziaria. Una tale situazione comporterebbe una evidente violazione dell'autonomia finanziaria e di spesa delle regioni, nonché del principio costituzionale della copertura.

Viene inoltre sottolineata la differente realtà, sociale e locale, delle diverse regioni, in cui l'impiego pubblico ha finalità ed esigenze diverse a seconda dei singoli casi; un vincolo assoluto, scaturente dall'accordo sindacale stipulato a livello nazionale e imposto al recepimento delle singole regioni finirebbe per travalicare lo status dei dipendenti per attingere a importanti aspetti dell'organizzazione amministrativa.

Le stesse considerazioni svolte nei confronti dell'art. 10 della legge valgono anche in ordine alla disciplina degli accordi sindacali intercompartimentali, nella cui negoziazione le regioni hanno, a norma dell'art. 12, lo stesso ruolo minoritario e marginale già evidenziato: pertanto anche il citato art. 12 viola gli stessi principi costituzionali già ricordati.

Per ciò che attiene ancora agli accordi sindacali per i dipendenti del servizio sanitario nazionale si osserva che nel previgente sistema le regioni partecipavano alla formazione dell'accordo, cosa questa che ben lasciava intendere che il rapporto di impiego del personale sanitario era considerato dallo stesso legislatore statale materia in cui le regioni esplicano ampie e rilevanti competenze. La legge attuale sembra comportare l'applicazione, in ordine alla stipulazione degli accordi, delle norme generali di cui all'art. 6 e di quelle specifiche di cui all'art. 8; con la conseguenza che le regioni sarebbero escluse dalla delegazione delle pubbliche amministrazioni, con violazione della competenza regionale in tema di assistenza sanitaria, quale definita dall'art. 117 della Costituzione, e poi determinata dall'art. 27 del d.P.R. n. 616 del 1978 e dalla legge n. 833 del 1978; il tutto in violazione degli artt. 117, 118, 119 e 97 della Costituzione.

Infine l'art. 27 della legge n. 93 del 1983, prevede che cinque ispettori di finanza e cinque funzionari dell'amministrazione dell'interno, particolarmente esperti in materia, svolgano un ruolo di controllo sulla corretta applicazione degli accordi anche presso le regioni.

Poiché l'attività di tali ispettori non si raccorda in nessun modo con quella degli organi cui é demandato il controllo sugli atti amministrativi delle regioni né si pone come strumento ad essa, né si raccorda con l'attività degli organi (i Commissari del Governo) cui la Costituzione demanda di coordinare l'attività periferica dello Stato, lo stesso art. 27 si porrebbe in contrasto con il primo comma dell'art. 125 della Costituzione.

  1. - La Regione Veneto ha altresì proposto ricorso per la dichiarazione di illegittimità costituzionale degli artt. 10 e 12 della legge 29 marzo 1983, n. 93, in relazione agli artt. 1, 6 e 11 della legge 29 marzo 1983, n. 93, per violazione dell'art. 117 della Costituzione; nonché del quarto comma dell'art. 27 della stessa legge, per violazione degli artt. 124 e 125 della Costituzione (n. 16 del reg. ric. 1983).

Si assume che, secondo le norme di cui agli impugnati artt. 10 e l2 della legge 29 marzo 1983, n. 93, i fondamentali aspetti dell'organizzazione del lavoro e del rapporto di impiego regionale (nelle incisive parti di cui all'art. 3 e negli specifici istituti contemplati nell'art. 12) devono essere disciplinati da accordi collettivi compartimentali e intercompartimentali, che, salva l'autorizzazione (esclusiva) del consiglio dei ministri, devono essere senz'altro recepiti in provvedimenti regionali, con un "puro atto formale di integrale recezione" senza possibilità di varianti e adeguamenti e neppure con riserva di accordi articolati, negoziati con rappresentanze sindacali a livello regionale. Una tale situazione normativa sarebbe in palese contrasto con l'art. 117 della Costituzione, in quanto escluderebbe sostanzialmente qualsiasi competenza della regione in materia attinente all'ordinamento dei propri uffici.

Ad avviso della regione ricorrente, non può pertanto assolutamente parlarsi di enunciazione di principi generali entro i quali dovrebbe pur sussistere una potestà decisionale puranco con metodo negoziale, in quanto non verrebbe lasciato nessuno spazio alle autonomie regionali, neppure di integrazione, in ipotesi, con una contrattazione articolata della materia.

Pur accettando il principio della contrattazione collettiva, si rileva che la disciplina contenuta nella legge n. 93 annulla ogni autonomia; il ricorso a tale metodologia dovrebbe quanto meno essere armonizzato col rispetto della norma costituzionale che impone autonomia normativa della regione in materia, in ragione di specifici interessi e di situazioni particolari, presenti all'attenzione del Costituente nel momento in cui ritenne a questi prestare tutela, sancendo l'autonomia regionale al riguardo.

Assolutamente inidonea a giustificare tale trattamento normativo sarebbe l'esigenza di garantire una uniformità di trattamento, in quanto proprio gli istituti regoIati dalla legge attengono direttamente all'organizzazione del lavoro, la quale ben può atteggiarsi diversamente a seconda delle esigenze presenti nelle singole regioni, cosa questa che renderebbe evidente l'esigenza di specifiche discipline.

Con riferimento all'art. 27, quarto comma, della legge in questione, si rileva che in forza di tale disposizione si vorrebbe realizzare un sistema di controllo (e di controllori) che andrebbero ad "incidere" sull'attività della regione senza "alcun precisato carattere definitorio" e con una discrezionalità ancor meno precisata, alla dipendenza della Presidenza del Consiglio dei ministri. Ciò contrasterebbe, oltreché con l'art. 117, anche con gli artt. 124 e 125 della Costituzione che statuiscono un ben definito sistema di controllo nelle regioni.

  1. - La Regione Liguria ha pure proposto ricorso per la dichiarazione di illegittimità costituzionale della legge 29 marzo 1983, n. 93, ed in particolare degli artt. 1, 3, 5, 6, 10, 11, 12, 15, 23, secondo comma, 24, 25 e 27 (n. 20 del reg. ric. 1983).

Le norme contenute nella legge 29 marzo 1983, n. 93, sono qualificate in forza dell'art. 1 come principi fondamentali ai sensi dell'art. 117 della Costituzione; si osserva che le norme stesse non contengono enunciazioni di principio ma vere e proprie prescrizioni di dettaglio, univocamente e rigidamente vincolanti per la regione che non potrebbe se non applicarle in via immediata ovvero farne oggetto di legiferazione veramente attuativa e integrativa. Da ciò discenderebbe la violazione dell'art. 117 della Costituzione, in quanto, per le materie ivi elencate, l'autonomia regionale ha come solo limite i principi fondamentali e non le norme di dettaglio stabiliti nelle leggi dello Stato.

Si rileva inoltre che l'art. 3 della legge n. 93 del 1983 demanda ad accordi nazionali vincolanti per le regioni non solo la determinazione del trattamento economico ma anche l'attuazione della previsione delle leggi regionali di cui all'art. 2 della stessa legge, le quali "ovviamente" possono contenere soluzioni normative assolutamente diverse tra di loro.

Al riguardo si prospetta una lesione del "costituzionale principio di ragionevolezza"; non avrebbe infatti senso disciplinare nel dettaglio, con unico accordo nazionale, oggetti che diversamente si atteggiano nei singoli ordinamenti regionali e quindi non possono essere suscettibili di identica normazione attuativa, contrattata da tutti i rappresentanti delle regioni.

Si evidenzia altresì che gli accordi nazionali previsti dal combinato disposto degli artt. 3, 6 e 10 della legge sono vincolanti nei confronti della potestà legislativa regionale, prevista dall'art. 58 dello statuto. La legge in questione si proporrebbe di limitare l'autonomia regionale in forza di una fonte giuridica estranea all'ordinamento regionale che non ha né la sostanza né la forma della legge ordinaria di enunciazione dei principi.

Non v'ha dubbi, ad avviso della difesa della Regione Liguria, che l'accordo e il conseguente d.P.R. costituirebbero un atto di natura sicuramente non legislativa. il cui contenuto non può essere certamente considerato principio fondamentale ex art. 117 della Costituzione.

Le norme stesse contrasterebbero inoltre con l'art. 97 della Costituzione, in quanto gli oggetti indicati nell'art. 3 devono essere disciplinati direttamente con legge e non con accordo sindacale o atto amministrativo ricettivo dell'accordo stesso, per di più vincolante per il legislatore.

Si evidenzia ancora come le norme suindicate della legge n. 93 del 1983 conferirebbero all'accordo di lavoro un'efficacia obbligatoria generale senza che sia garantito il rispetto della condizione di contrattazione prevista dal quarto comma dell'art. 39 della Costituzione, con cui le norme stesse sarebbero in contrasto.

Anche l'art. 5, che prevede il frazionamento in comparti, determinati con decreto del Presidente della Repubblica, della disciplina del pubblico impiego, comprimerebbe l'autonomia regionale in materia ed é contrastante con gli artt. 97, 118 e 119 della Costituzione per le stesse ragioni già espresse.

L'art. 11, secondo comma, fa divieto alle pubbliche amministrazioni ed agli enti pubblici cui l'accordo si riferisce di concedere trattamenti integrativi non previsti dall'accordo stesso e comunque comportanti oneri aggiuntivi. Tale prescrizione limiterebbe l'autonomia regionale sancita dalle stesse norme costituzionali (artt. 39, 97, 117, 118 e 119 della Costituzione) per le stesse ragioni già esposte.

L'art. 15, nel sancire che il bilancio pluriennale dello Stato, predisposto ex art. 4 della legge 5 agosto 1978, n. 468, determina le compatibilità generali di tutti gli impegni di spesa da destinare al pubblico impiego, esproprierebbe la regione della capacità di spesa in materia; tale norma conseguentemente si porrebbe in conflitto con l'art. 119 della Costituzione che garantisce l'autonomia finanziaria.

Infine, l'art. 27 della legge n. 93 del 1983, che attribuisce a dieci ispettori di svolgere il compito di verificare la corretta applicazione degli accordi collettivi presso le regioni, introduce un procedimento di controllo del tutto atipico non rientrante tra quelli indicati in via tassativa dagli artt. 124, 125, 126 e 127 della Costituzione, che ne risulterebbero violati.

  1. - Si é costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri per il tramite dell'Avvocatura dello Stato, chiedendo articolatamente la reiezione di tutti i ricorsi.

Nell'atto di costituzione si sostiene che il punto fondamentale da affrontare é quello della natura della legge 29 marzo 1983, n. 93; e l'intento di portare omogeneità nelle posizioni giuridiche dei dipendenti pubblici, come condizione essenziale per perequarne i trattamenti economici e delineare il metodo per pervenire a fissare i contenuti della disciplina del pubblico impiego in modo da poter conseguire questi risultati non potrebbe non essere considerato che l'oggetto di una riforma economico-sociale. La raggiunta omogeneità dei trattamenti economici e normativi nell'ambito del pubblico impiego, nel realizzare i precetti costituzionali di cui agli artt. 3 e 36 della Costituzione, consentirebbe inoltre una stabilizzazione a medio tempo e la programmazione delle modifiche, sì da ottenere, per il tramite di un minor costo dell'apparato amministrativo, la possibilità di attuare una diversa ripartizione delle risorse finanziarie dello Stato in favore delle spese di investimento.

La disciplina attuata mediante la legge n. 93 del 1983, per la sua generalità e completezza, sarebbe idonea ad ovviare una riscontrata carenza normativa, evidenziata anche in alcune precedenti pronunce della Corte costituzionale, venendo a risolvere nel suo ambito la precedente frammentaria normazione sulla contrattazione collettiva.

Venendo a dire delle singole censure formulate dalle diverse regioni ricorrenti, l'Avvocatura osserva come la prospettata interpretazione secondo cui vi sarebbe coincidenza tra la portata del primo e del secondo comma dell'art. 1 sarebbe contraddetta, non solo dalla lettera delle due disposizioni, ma anche dal "tenore dell'art. 10", che espressamente restringerebbe alle sole regioni a statuto ordinario la disciplina del procedimento di formazione dell'accordo ivi considerato.

Le censure relative agli artt. 2 e 3 della legge investono in primo luogo il fatto che il legislatore statale ha dettato una norma non già di disciplina di un rapporto, ma sul modo di disciplinarlo, sicché il contenuto della regolamentazione, coperto da riserva di legge regionale, risulterebbe fissato attraverso determinazioni sottratte a quella competenza, o comunque tali da imporsi ad esse.

Se la disposizione posta dal legislatore statale costituisce momento o necessario sviluppo logico della disciplina di riforma ed ha natura di legge formale, questa può e deve essere qualificata legge di riforma non rilevando in contrario che la stessa ponga solo un limite procedimentale.

In secondo luogo, deve osservarsi che poiché il legislatore nazionale ha inteso imporre come norma fondamentale di riforma non la regolamentazione dettata con gli artt. 6 e 10, ma il principio da essi desumibile, non sarebbe giustificato il rilievo secondo cui il contenuto dell'accordo dovrebbe essere recepito nella sua interezza. Inoltre, l'approvazione prevista dal terzo comma dell'art. 10 della legge non si presterebbe ad essere intesa nel senso che fonte del regolamento dei rapporti sia da considerarsi l'accordo.

In questa ottica, perderebbe di rilievo anche la censura secondo cui, in contrasto con le norme statutarie, una parte della materia coperta da riserva di legge regionale subirebbe un processo di delegificazione. Difatti, sarebbe solo vero che, nell'ambito individuato dall'art. 3 della legge n. 93, la disciplina legislativa del rapporto può solo esercitarsi in quanto sia stato svolto "un procedimento inteso ad individuare i contenuti della nuova disciplina attraverso la contrattazione collettiva".

Venendo alla principale censura mossa dalla Regione Lombardia, si osserva che il fulcro della questione é costituito dalla interpretazione del terzo comma dell'art. 10. Tale norma comporta che, a norma dell'art. 3 della legge, gli aspetti dell'organizzazione del lavoro e del rapporto di impiego in esso considerati sono, in ogni caso, disciplinati con i procedimenti e gli accordi contemplati dalla stessa legge. Ciò significherebbe però che il procedimento preveduto per pervenire all'individuazione dei contenuti della disciplina deve essere necessariamente percorso e che il contenuto dell'accordo viene anche a porsi come termine di riferimento della successiva disciplina posta dalla regione, ai fini della valutazione del rispetto dei principi di omogeneizzazione di cui all'art. 4 della legge. Non si deve invece concludere che con l'accordo si sia voluta creare una fonte di produzione autonoma e giuridicamente sovraordinata alla legge regionale, che dovrebbe limitarsi a riprodurne pedissequamente i contenuti a pena di illegittimità.

Le disposizioni dettate dagli artt. 6 e 10 della legge non impedirebbero infatti ai competenti organi regionali di predeterminare la propria posizione in merito ai temi da trattare in sede di contrattazione sindacale, vincolando i propri rappresentanti al rispetto delle determinazioni assunte e pertanto a rifiutare l'assenso alla conclusione dell'accordo. Se la recezione dei contenuti dell'accordo ben potrà essere la normale conclusione di un procedimento di produzione normativa con la partecipazione della regione; se la legge prevede che il contenuto dell'accordo non rilevi sull'ordinamento regionale se non in quanto approvato nelle forme prevedute dallo stesso ordinamento, ciò comporta che la regione stessa ben potrà valutare i risultati dell'accordo, eventualmente rifiutando la recezione di punti che si pongano in contrasto con considerazioni scaturenti dal proprio ordinamento o anche di merito. La previsione del metodo della contrattazione collettiva non violerebbe pertanto né l'art. 117 né l'art. 97 della Costituzione.

Il procedimento di approvazione previsto dall'art. 6 con riferimento all'art. 15 non contrasta neppure con il principio dell'autonomia finanziaria delle regioni: "al riguardo va considerato che, a norma dell'art. 16, comma sesto, della legge 27 febbraio 1967, n. 48, sub art. 34 della legge 5 agosto 1978, n. 468, le regioni determinano gli obiettivi programmatici dei propri bilanci pluriennali in armonia con gli obiettivi programmatici risultanti dal bilancio pluriennale dello Stato, alla predisposizione del quale partecipano poi nei modi previsti dal comma quarto dello stesso art. 16".

Peraltro la verifica delle compatibilità finanziarie da parte del Consiglio dei ministri, compiuta con riferimento all'indicazione di spesa, quale é contenuta nel bilancio pluriennale dello Stato, non può comportare una incidenza sulla finanza delle singole regioni che non sia già prevista dai rispettivi bilanci pluriennali e ciò in forza del disposto del già richiamato art. 16 della legge n. 48 del 1967.

Infine, il fatto che il metodo della contrattazione collettiva sia stato previsto non regione per regione, ma in sede unica, a livello nazionale, con la partecipazione di rappresentanti regionali trova ragione nella "maggiore idoneità" di tale forma a consentire la perequazione retributiva nell'ambito del pubblico impiego ed é pertanto costituzionalmente legittima.

Si conclude perché tutte le questioni sollevate siano dichiarate infondate.

  1. - Nell'imminenza della discussione, le regioni Trentino-Alto Adige, Friuli-Venezia Giulia, Lombardia e Liguria, oltreché l'Avvocatura generale dello Stato, hanno presentato memorie con cui ribadiscono ed ampliano le argomentazioni già esposte a sostegno delle rispettive regioni.

Alla pubblica udienza, dopo che il giudice Oronzo Reale aveva svolto una dettagliata relazione sull'oggetto delle questioni sollevate, le parti hanno oralmente illustrato i rispettivi ricorsi.

Considerato in diritto

  1. - Gli otto ricorsi delle regioni autonome Trentino-Alto Adige, Friuli-Venezia Giulia e Valle d'Aosta, delle province autonome di Bolzano e di Trento, delle regioni Lombardia, Veneto e Liguria, indicati in epigrafe, sottopongono alla Corte questioni tutte attinenti alla legge 29 marzo 1983, n. 93 nel suo complesso o in sue singole disposizioni. Tali questioni sono in parte eguali o diseguali solo nei parametri invocati, in parte connesse. I ricorsi possono dunque essere riuniti per essere decisi con unica sentenza.
  2. - Le regioni a statuto speciale Trentino-Alto Adige, Valle d'Aosta, Friuli-Venezia Giulia e le province autonome di Bolzano e Trento con i loro ricorsi, il cui contenuto é largamente esposto in narrativa, denunciano in primo luogo come costituzionalmente illegittimi, ciascuna in riferimento alle disposizioni del rispettivo statuto speciale di autonomia, l'art. 1 della legge 29 marzo 1983, n. 93 in quanto esso afferma che "i principi desumibili dalla presente legge costituiscono... per le regioni a statuto speciale e per le province autonome di Trento e di Bolzano norme fondamentali di riforma economico-sociale della Repubblica", capaci quindi, a tenore dei loro rispettivi statuti, di costituire un limite alla loro autonomia legislativa e amministrativa.

Innanzi tutto viene negato che la natura di legge di riforma economico-sociale possa desumersi dalla semplice affermazione del legislatore anziché dall'effettivo contenuto della legge, del quale si esclude il carattere innovatore sostanziale (e non meramente procedimentale) proprio di ogni normativa che voglia assurgere a "riforma economico-sociale".

La Corte non ritiene che tale censura (la quale dalla Regione Friuli-Venezia Giulia é riferita al combinato disposto degli artt. 1 e 3, n. 1, della legge n. 93; dalla Provincia autonoma di Bolzano alla legge nel suo complesso, dalla Provincia autonoma di Trento all'art. 3 ed alla legge nel suo complesso) sia fondata.

  1. - É evidente che la natura di riforma economico-sociale di una normativa non può essere determinata dalla sola apodittica affermazione del legislatore e che essa deve invece ricercarsi nell'oggetto della normativa, nella sua motivazione politico-sociale, nel suo scopo, nel suo contenuto, nella modificazione che essa apporta nei rapporti sociali.

Ora la considerazione di tutti questi elementi consente di attribuire alla legge n. 93 la portata di riforma economico-sociale.

La legge costituisce, come é noto, il punto di approdo di un dibattito politico, sociale e dottrinale ultra decennale. A partire dalle note denunce della "giungla delle retribuzioni", attraverso la istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta (la Commissione Coppo) le cui conclusioni ufficializzarono sperequazioni e rincorsa di retribuzioni, difetto di informazione del Parlamento e del Governo, mancanza di ogni indirizzo e controllo della dinamica delle posizioni giuridiche ed economiche dei pubblici dipendenti, e la conseguente necessità di una omogeneizzazione dei trattamenti in ambito nazionale si giunse nel novembre 1978 all'approvazione unanime, da parte del Senato, di una mozione nella quale il Governo veniva impegnato a "proporre al Parlamento una legge - quadro per tutto il settore del pubblico impiego nella quale si definiscano i soggetti ad ogni livello della pubblica amministrazione, titolari della contrattazione sindacale, in particolare autorità governativa dotata di poteri di negoziazione con i sindacati dei lavoratori dello Stato e degli enti pubblici e di poteri di indirizzo e coordinamento della politica retributiva di regioni, province, comuni e aziende collegate; si prevedano procedure per la formazione e l'applicazione degli accordi sindacali in detto settore, che dovranno avvenire nel quadro delle direttive fissate dal Parlamento anche in relazione alla spesa pubblica; siano contenute nuove norme per alcuni aspetti comuni del rapporto di impiego, come la selezione, l'assunzione, l'addestramento; e siano previsti ordinamenti unificanti, per grandi branche della pubblica amministrazione, dei principali istituti normativi, come l'orario di lavoro, le ferie, le aspettative, i congedi, i permessi, i trasferimenti, nonché disposizioni tendenti ad adeguare, per quanto possibile, i diritti sindacali dei pubblici dipendenti a quelli dei dipendenti privati".

La stessa Corte costituzionale, del resto, non aveva mancato l'occasione di sottolineare la necessità di una "disciplina generale che presuppone evidentemente la possibilità di definire una corrispondenza abbastanza precisa tra qualifiche, mansioni e trattamenti economici", aggiungendo che in tal modo si sarebbe realizzato "nel rispetto delle autonomie regionali e provinciali, quel contenuto essenziale di eguaglianza (in relazione agli artt. 3 e 36 della Costituzione) che é richiesto dall'assetto unitario della Repubblica e dal principio del buon andamento della pubblica amministrazione" (sent. n. 21/1978).

In quale misura le finalità della legge n. 93, corrispondenti all'auspicio della Corte costituzionale e alle conclusioni del prolungato dibattito politico-sociale, verranno realizzate, non può essere ancora verificato, a poco più di un anno dall'emanazione della legge stessa. Certo é, però, il proposito del legislatore e finalizzati al suo raggiungimento sono gli strumenti che egli ha scelto e che realizzano sicuramente un novum nel rapporto di pubblico impiego.

Negare che la legge realizzi una grande riforma economico-sociale non si può senza dimenticare i principi da essa desumibili, quali sono certamente quello della "disciplina in base ad accordi" sia nella sede nazionale che in quella delle regioni e province a statuto speciale (art. 3), con la definizione della materia riservata a "disciplina di legge" (art. 2); il "principio di omogeneizzazione" delle posizioni e trattamenti (art. 4), quello della "mobilità" (art. 19), quelli in tema di responsabilità (art. 22, secondo comma).

  1. - Le difese delle ricorrenti regioni e province a statuto speciale negano la "novità" di tali principi (e quindi la loro attitudine a sostanziare una "riforma"); ma la Corte ritiene che anticipazioni parziali che possono essersi verificate costituiscono punti di partenza o intermedi di un percorso, il cui punto di arrivo nella generalizzazione e sistemazione della legge n. 93 consente di attribuirle senz'altro il valore di riforma economico-sociale.

Nella relazione al disegno di legge poi approvato veniva evidenziata la "svolta di rilievo storico nell'ambito del pubblico impiego, in quanto (la legge) sanziona il definitivo abbandono di un sistema che fino a pochi anni fa era tutto incentrato sul momento autoritativo in favore di un altro sistema che al contrario fa perno sul consenso dei soggetti interessati".

E, quanto al valore di principio di riforma economico-sociale che deve essere riconosciuto alla omogeneizzazione dei trattamenti prevista dalla legge, si deve sottolineare che già la Corte costituzionale nella sentenza n. 45 del 1978, e proprio nei confronti di regioni e province a statuto speciale, aveva affermato che "il principio... per cui il trattamento di contingenza dev'essere in linea di massima comune per tutti i lavoratori interessati e comunque contenuto entro certi limiti" (principio ricavato dal d.l. n. 13 del 1977 convertito nella legge n. 91 del 1977) "potrebbe venire classificato tra le " norme fondamentali delle riforme economico-sociali della Repubblica "".

  1. - Le difese delle ricorrenti affermano che di riforma economico-sociale non si può parlare a proposito di una riforma meramente procedimentale, quale sarebbe appunto quella della legge n. 93. Senonché i principi di questa legge non sono soltanto quelli relativi ai "procedimenti" ed agli "accordi contemplati nella presente legge", ma sono tutti quelli sostanziali, che dalla legge si desumono. E inoltre, anche una riforma di contenuto cosiddetto procedimentale (si pensi, fra l'altro, alla procedura della programmazione) ben potrebbe assurgere a riforma economico-sociale.

Le difese delle ricorrenti osservano ancora che i "principi" dovrebbero essere espressi, non "desumibili dalla disciplina", come dispone il secondo comma dell'art. 1 della legge. Ma si tratta di un falso problema, una volta che si riconosca che nella legge i principi ci sono, né costituisce obiezione di pregio il fatto che, come tante altre norme generali o particolari, essi debbano essere individuati e qualificati in via interpretativa.

Le difese delle ricorrenti affermano infine che primo e secondo comma dell'art. 1 finiscono col dare diversa definizione ("principi fondamentali ai sensi dell'art. 117 della Costituzione"; "norme fondamentali di riforma economico-sociale della Repubblica") alla stessa materia normativa, col conseguente rischio di vincolare ai principi fondamentali di cui all'art. 117 anche le regioni e province a statuto speciale. Sostanzialmente analoga é la censura svolta dalla Regione Valle d'Aosta con riferimento all'art. 2 dello statuto e all'art. 117 della Costituzione. Ma anche questa affermazione va respinta.

Quale che sia il grado di perfezione tecnica che si voglia riconoscere alla formulazione dell'art. 1 della legge, la confusione non é possibile quando - come si deve - tutta la legge, e non solo un articolo, venga presa in considerazione.

Tanto meno é possibile supporre che anche le regioni e province a statuto speciale siano soggette all'applicazione degli accordi sindacali raggiunti in sede nazionale. Su questa ipotesi, prospettata dalle regioni ricorrenti e contestata dall'Avvocatura dello Stato, hanno insistito le parti anche nella discussione all'udienza. Ma l'ipotesi é inconsistente, dipendendo da una errata lettura dell'art. 10 della legge n. 93, il quale - benché nell'epigrafe parli di "accordi sindacali per i dipendenti delle regioni e degli enti pubblici non economici da esse dipendenti" - nel testo regola solo gli accordi "riguardanti il personale delle regioni a statuto ordinario nonché degli enti pubblici non economici da esse dipendenti", escludendo quindi dal procedimento le regioni a statuto speciale.

Ciò, del resto, é confermato anche dalla circostanza che nel disegno di legge n. 678 il testo dell'art. 9 (poi diventato art. 10 della legge n. 93) prevedeva la partecipazione alla delegazione regionale di "sette membri in rappresentanza delle regioni anche a statuto speciale" e che, invece, il testo approvato non menziona in alcun modo le regioni stesse.

  1. - La difesa della Regione Trentino-Alto Adige afferma inoltre che in ogni caso l'accordo non costituirebbe solo un vincolo all'autonomia regionale, ma di fatto si sostituirebbe alla legge delle regioni, la quale dovrebbe limitarsi ad "approvare" la disciplina contenuta nell'accordo. E ciò perché se "anche l'art. 10 della legge fosse ritenuto non applicabile direttamente alle regioni a statuto speciale, si deve presumere che esso esprima un "principio" desumibile dalla legge e che come tale esso vincoli anche il Trentino-Alto Adige".

Ma questa "presunzione" non é fondata per le ragioni sopra esposte: l'art. 10 si riferisce letteralmente alle sole regioni a statuto ordinario, e non é possibile desumerne un principio da applicare anche alle regioni e province a statuto speciale. Che se poi la difesa della regione intendesse riferirsi non già agli accordi sindacali nazionali, ma a quelli regionali, per sostenere che anche il cosiddetto loro "recepimento" nella legge regionale costituirebbe violazione della potestà legislativa della regione, la quale verrebbe vincolata dagli accordi medesimi, basterebbe per dimostrare l'inconsistenza della doglianza, il rilievo che in tale ipotesi le regioni finirebbero con l'approvare per legge il contenuto di accordi da esse medesime liberamente contratti.

Ma ad escludere, in ogni caso, che la legge regionale debba puramente, semplicemente e addirittura formalmente accogliere il contenuto degli accordi sindacali, come la ricorrente asserisce al fine di dimostrare lo svuotamento della sua potestà legislativa, stanno (a fortiori per le regioni e le province a statuto speciale) le conclusioni cui la Corte, come più oltre si esporrà perviene circa la illegittimità del terzo comma dell'art. 10 della legge n. 93, che le regioni a statuto ordinario hanno indicato come fonte del loro obbligo di mero "recepimento" dell'accordo sindacale nelle leggi regionali.

  1. - Sempre a sostegno della presunta illegittimità costituzionale dell'art. 1 della legge n. 93 (questa volta con riferimento all'art. 3 della Costituzione) la Provincia autonoma di Bolzano afferma che, non sussistendo nella legge alcuna distinzione tra "principi fondamentali ai sensi dell'art. 117 della Costituzione" e "norme fondamentali di riforma economico-sociale della Repubblica", si pretenderebbe di attribuire contemporaneamente ad una stessa realtà normativa due distinte qualificazioni giuridiche, con la conseguenza di un trattamento eguale per le regioni e province a statuto speciale e per le regioni a statuto ordinario. Ma l'affermazione non ha fondamento: dalle considerazioni che precedono e da quelle che seguiranno appare ben distinto l'impatto della legge quadro con le leggi delle regioni e province a statuto speciale e con quelle delle regioni a statuto ordinario.

Lo stesso é a dirsi per la denunzia di incostituzionalità che la Provincia di Trento riferisce al complesso della legge ed agli artt. 1, secondo comma, e 2 (in relazione al 3) della legge stessa, in quanto prescrivono ciò che dev'essere disciplinato con legge e ciò che deve formare oggetto di accordo sindacale. Come si é già più sopra osservato, questa distinzione tra materia riservata alla legge e materia che presuppone l'accordo sindacale costituisce un principio fondamentale della riforma, mentre la fonte normativa ultima é sempre la legge, non l'accordo sindacale, che, quando ciò é prescritto, ne costituisce il presupposto necessario.

  1. - A questo punto la Corte ritiene di poter concludere che, una volta interpretati correttamente i primi due commi dell'art. 10 della legge n. 93, e quindi esclusa l'applicazione alle regioni e province autonome a statuto speciale del procedimento in essi previsto, le doglianze delle dette regioni e province fin qui esaminate, cioé relative al sistema della legge, sono infondate.
  2. - La Regione Trentino-Alto Adige denuncia di incostituzionalità l'art. 8 della legge n. 93, relativo agli accordi sindacali per "i dipendenti dei comuni, delle province, delle comunità montane e dei loro consorzi e associazioni". L'ultimo comma del detto articolo stabilisce che "gli enti locali emanano gli atti amministrativi conseguenti alla disciplina fissata nel decreto del Presidente della Repubblica di cui al precedente articolo 6, ultimo comma". La regione rileva che questo procedimento, in sede nazionale, essendo eguale a quello che l'art. 6 stabilisce per i dipendenti dello Stato (con in più la partecipazione agli accordi di cinque membri dell'ANCI, di quattro dell'UPI e di due rappresentanti dell'UNCEM, senza rappresentanti regionali) e concludendosi con un decreto presidenziale seguito dagli atti amministrativi degli enti locali, estromette totalmente la legge regionale dalla disciplina della materia, con violazione degli artt. 5, n. 1 e 65 dello Statuto speciale del Trentino-Alto Adige.

La censura é fondata. L'art. 5, n. 1, infatti, attribuisce alle province della regione la "potestà di emanare norme legislative" in materia di "ordinamento degli uffici provinciali e del personale ad essi addetto", e l'art. 65 stabilisce che "l'ordinamento del personale dei comuni é regolato dai comuni stessi, salva l'osservanza dei principi generali che potranno essere stabiliti con legge regionale".

Trattasi di una competenza legislativa tipica, che lo statuto attribuisce alla regione. La Corte, giudicando in sede di conflitto di attribuzione (sent. n. 100 del l980), ha già dichiarato che "non spetta allo Stato il potere di dettare la disciplina del rapporto di lavoro del personale degli enti locali, senza far salve le attribuzioni spettanti alla Regione Trentino-Alto Adige in base all'art. 65 dello statuto speciale". É quindi evidente che l'art. 8 della legge n. 93, nella parte in cui dispone per i dipendenti delle amministrazioni dei comuni e delle province senza far salve le competenze regionali indicate nello statuto, é costituzionalmente illegittimo e tale deve essere dichiarato.

  1. - La Regione Trentino-Alto Adige con riferimento all'art. 4, n. 7, dello statuto, che attribuisce alle regioni potestà legislativa in materia di ordinamento degli enti sanitari e ospedalieri, denuncia come incostituzionale l'art. 9 della legge n. 93 il quale dispone che per gli accordi sindacali dei dipendenti delle Unità Sanitarie Locali (USL) si applicano "le norme e i procedimenti della stessa legge" e che "é abrogata ogni contraria disposizione".

La stessa censura é rivolta all'art. 9 della legge n. 93 dalla Provincia autonoma di Bolzano con riferimento all'art. 9, n. 10, dello statuto e anche in relazione alle peculiari esigenze derivanti nella provincia dalla proporzionale etnica e dalla parificazione delle lingue italiana e tedesca.

Infine anche la Regione Lombardia con riferimento agli artt. 117, 118, 119 e 97 della Costituzione, imputa all'art. 9 della legge n. 93 la violazione della competenza regionale in materia sanitaria, aggiungendo che le regioni risulterebbero escluse dalla delegazione della pubblica amministrazione e quindi da ogni partecipazione all'accordo sindacale.

La questione così variamente sollevata può essere unitariamente esaminata.

L'Avvocatura dello Stato, per negare la denunciata illegittimità della norma, afferma che, essendo le Unità Sanitarie Locali gestite dalle regioni per disposizione del d.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761 e dell'art. 47 della legge istitutiva del servizio sanitario nazionale, il procedimento da applicare per gli accordi sindacali per i dipendenti delle USL sia, per le regioni a statuto ordinario, quello previsto dall'art. 10 della legge n. 93.

Senonché il testo del denunciato art. 9 non consente questa interpretazione.

I dipendenti delle USL non sono dipendenti delle regioni: l'art. 9, infatti, parla di "dipendenti delle Unità Sanitarie Locali", mentre l'art. 10 si riferisce al "personale delle regioni a statuto ordinario". Né, d'altra parte, le USL possono venire assimilate a quegli enti "dipendenti dalle regioni, dei quali si tratta nello stesso art. 10 (trattandosi invece, di "una struttura operativa dei comuni, singoli o associati, e delle Comunità montane", ai sensi dell'art. 15, primo comma, della legge n. 833 del 1978). Pertanto il procedimento richiamato dall'art. 9 risulta non quello dell'art. 10, ma quello centralizzato che l'art. 8 prescrive per i dipendenti dei comuni e delle province e che si conclude col decreto presidenziale di cui all'ultimo comma dell'art. 6 della legge n. 93.

Il procedimento esclude, quindi, le regioni e viola lo spazio di competenza che la Costituzione riserva loro nella materia. Spazio che la Corte (sent. n. 307 del 1983), affermando che "l'ente deputato alla supervisione delle esigenze rappresentate dalle Unità Sanitarie Locali per l'assunzione di personale in deroga al blocco vigente per l'anno 1983, ed alla conseguente emanazione, ricorrendone i presupposti, di puntuali provvedimenti autorizzativi, non può essere altri che la regione territorialmente competente", ha riconosciuto alle regioni in virtù della loro autonomia, dichiarando in conseguenza la illegittimità costituzionale dell'art. 9, quarto comma, della legge 26 aprile 1983, n. 130, "nella parte in cui non prevede che siano le regioni - anziché il Presidente del Consiglio dei ministri, sentito il Ministro del Tesoro - a determinare, valutate le eventuali necessità, i singoli casi in cui sia indispensabile procedere ad assunzione di personale nelle Unità Sanitarie Locali esistenti nell'ambito territoriale di rispettiva competenza, ferme restando le funzioni di indirizzo e coordinamento previste dall'art. 5 della legge 23 dicembre 1978, n. 833".

Nella lettura che il suo testo impone l'art. 9 della legge é costituzionalmente illegittimo, conclusione che vale sia per quanto riguarda le regioni a statuto ordinario, che, a fortiori, per quanto riguarda le regioni e province a statuto speciale.

  1. - La Regione Trentino-Alto Adige denuncia come illegittimo l'art. 26, primo comma, della legge n. 93, in quanto dispone che "la presente legge si applica anche ai dipendenti... delle Camere di Commercio". La Regione afferma che questa disposizione si pone in contrasto con l'art. 4, n. 8, dello statuto speciale, che le attribuisce, per quanto attiene al personale delle Camere di Commercio, competenza legislativa primaria, concretamente esercitata con la legge regionale 9 agosto 1982, n. 7.

Ma tale contrasto non sussiste sulla base di una corretta interpretazione della norma impugnata e del suo ambito territoriale di operatività.

In effetti la Corte costituzionale, con la sentenza n. 65 del 1982, ha dichiarato la competenza della Regione Friuli-Venezia Giulia, in materia di trattamento del personale camerale, pure in assenza, nello statuto, di una norma espressa come quella dello statuto Trentino-Alto Adige. E che la competenza della Regione Trentino-Alto Adige debba ritenersi salva anche dopo l'entrata in vigore della legge n. 93, risulta dal fatto che nessuno dei procedimenti specificamente previsti dalla legge stessa é suscettibile di applicazione diretta ai dipendenti delle Camere di Commercio site in quella regione.

Ciò non esclude, tuttavia, che in applicazione del principio generale della disciplina in base ad accordi che vale anche, come si é visto, per le regioni e province a statuto speciale, queste debbano legiferare anche in materia di personale delle Camere di Commercio col presupposto dell'accordo sindacale in sede regionale.

  1. - La Regione Trentino-Alto Adige e la Provincia autonoma di Bolzano impugnano l'art. 27, quarto comma, della legge n. 93, il quale prevede la nomina di cinque ispettori alla dipendenza della Presidenza del Consiglio col "compito di verificare la corretta applicazione degli accordi collettivi stipulati... presso le regioni, le province, i comuni e gli altri enti pubblici di cui alla presente legge. Gli ispettori, nell'esercizio delle loro funzioni, hanno piena autonomia funzionale ed hanno l'obbligo di denunciare alla Procura Generale della Corte dei conti le irregolarità riscontrate". Questa forma di controllo - assumono le ricorrenti - non é prevista dallo statuto speciale e perciò é in contrasto con l'autonomia delle regioni e delle province.

La stessa impugnazione viene proposta dalla Regione Lombardia con riferimento agli artt. 118, 124 e 125 della Costituzione; dalla Regione Veneto con riferimento agli artt. 117, 124 e 125 della Costituzione; dalla Regione Liguria con riferimento agli artt. 124, 125 e 127 della Costituzione. Quello disposto dall'art. 27, quarto comma, della legge n. 93, sarebbe infatti un controllo anomalo, lesivo dell'autonomia regionale legislativa e amministrativa perché diverso dal controllo che si esprime nel visto del Commissario di Governo per le leggi e dal controllo di legittimità di cui all'art. 125 della Costituzione.

La censura di illegittimità non ha fondamento.

L'art. 27, comma quarto, della legge n. 93, infatti, attribuisce agli ispettori solo lo svolgimento di una attività conoscitiva, di verificazione, che può essere utilizzata dal Dipartimento della funzione pubblica sia ai fini del coordinamento e della programmazione, sia ai fini della predisposizione della relazione al Parlamento di cui all'art. 16 della legge n. 93; ed é a questa attività conoscitiva che inerisce l'obbligo di denunciare alla Procura Generale della Corte dei conti le eventuali irregolarità amministrative riscontrate.

Questa attività conoscitiva attribuita agli ispettori é cosa ben diversa dal controllo sulle leggi regionali, ai fini del visto, disposto dall'art. 127 della Costituzione e dal controllo di legittimità sugli atti amministrativi di cui all'art. 125 della Costituzione, e non può ritenersi che essa violi l'autonomia delle regioni.

  1. - La Provincia autonoma di Bolzano impugna come incostituzionali, per contrasto con l'art. 89 dello statuto speciale della regione, gli artt. 5, secondo comma, 6, quarto comma, 8, 9, 12, terzo comma, 14, 25 e 30, terzo comma, della legge n. 93 "nella misura in cui (tale disciplina) pretenda di essere vincolante anche nei confronti della Provincia di Bolzano".

La incostituzionalità delle disposizioni impugnate deriverebbe dal fatto che esse "attribuiscono il potere di far parte delle delegazioni ed organismi sindacali in questione ai soli rappresentanti delle organizzazioni nazionali di categoria maggiormente rappresentative, ovvero alle confederazioni maggiormente rappresentative su base nazionale", senza tenere conto dei "principi rivolti in particolare alla tutela delle minoranze tedesca e ladina", dai quali discende, come specificato nell'art. 9 delle Norme di attuazione dello statuto che, in ordine all'esercizio di qualsiasi attività sindacale, alle associazioni sindacali costituite esclusivamente tra lavoratori delle minoranze linguistiche tedesca e ladina "debbano essere garantiti tutti i diritti riconosciuti alle associazioni aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale".

La Corte ritiene che le norme di legge impugnate non violino quelle di valore costituzionale richiamate come parametro, solo che si affermi come si deve, che tali norme di legge debbono essere applicate per la Provincia autonoma di Bolzano solo compatibilmente con la tutela delle minoranze disposta con gli artt. 89 dello statuto della Regione Trentino-Alto Adige e 9 delle relative Norme di attuazione.

  1. - La Provincia autonoma di Bolzano denuncia come incostituzionale l'art. 14 della legge n. 93 concernente gli "accordi decentrati per singole branche della pubblica amministrazione e per singoli enti, anche per aree territorialmente delimitate negli accordi di comparto", accordi che la detta norma consente al fine di determinare "i criteri per l'organizzazione del lavoro di cui all'art. 3, n. 2, la disciplina dei carichi di lavoro, la formulazione di proposte per l'attuazione degli istituti concernenti la formazione professionale e l'addestramento nonché tutte le altre misure volte ad assicurare la efficienza degli uffici".

Poiché il citato art. 14 stabilisce nel secondo comma che tali accordi sono stipulati fra la delegazione sindacale, da un lato, e, "qualora l'accordo riguardi una pluralità di uffici locali dello Stato", da una delegazione statale presieduta "dal Commissario del Governo o dal corrispondente organo nelle regioni a statuto speciale" la Provincia di Bolzano assume la illegittimità di "tale disciplina, nella misura in cui debba intendersi riferita anche agli Uffici statali della Provincia di Bolzano", per contrasto con i peculiari principi che regolano l'organizzazione dei pubblici uffici anche statali della Provincia di Bolzano stabiliti nell'art. 89 dello statuto della Regione Trentino-Alto Adige e nelle relative Norme di attuazione (art. 5 del d.P.R. n. 752 del 1976, nel testo modificato dall'art. 31 del d.P.R. n. 571 del 1978, art. 13 del d.P.R. n. 752 del 1976), e in virtù dei quali, in ispecie a garanzia della proporzionale etnica e del bilinguismo nel pubblico impiego, é richiesta un'intesa fra il Commissario del Governo e la Provincia di Bolzano per ciò che concerne i criteri per la valutazione della conoscenza delle due lingue onde assicurare il buon andamento del servizio, la istituzione dei corsi di addestramento linguistico, la determinazione dei posti da mettere a concorso e dei tempi di questo.

La Corte ritiene che la denunciata (o meglio ipotizzata) incostituzionalità non esista perché la disciplina dell'art. 14 della legge non é applicabile alla Provincia di Bolzano: ciò che non solo deriva dalla specificità delle disposizioni del suo statuto e delle relative norme di attuazione, ma si può desumere anche dal testo stesso dell'art. 14, secondo comma, il quale, nel regolare le delegazioni per gli accordi relativi ad una pluralità di uffici locali dello Stato aventi sede nella medesima regione, stabilisce che essa sia presieduta "dal Commissario del Governo e dal corrispondente organo nelle regioni a statuto speciale", senza menzionare le provincie autonome.

  1. - Passando a trattare delle censure contenute nei ricorsi delle regioni Lombardia, Veneto e Liguria non ancora esaminate unitamente a quelle delle regioni e province a statuto speciale, occorre innanzitutto darsi carico di una questione proposta dalla Regione Liguria.

La legge n. 93, prevedendo all'art. 3 una disciplina in base ad accordi sindacali e prevedendo che la delegazione sindacale é composta dai rappresentanti delle categorie maggiormente rappresentative per ogni singolo comparto e dalle confederazioni maggiormente rappresentative su base nazionale, violerebbe l'art. 39, quarto comma, della Costituzione, relativo alla facoltà dei sindacati registrati aventi personalità giuridica di stipulare, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria.

La questione é inammissibile. Nel ricorso della Regione Liguria manca, infatti, ogni motivazione non solo in ordine alla supposta identificazione della "disciplina in base ad accordi" di cui all'art. 3 della legge n. 93, con la contrattazione collettiva, direttamente operante, di cui all'art. 39 della Costituzione; ma anche in merito alla attinenza del parametro invocato alla lamentata lesione dell'autonomia regionale (che costituisce l'oggetto e il limite della impugnazione diretta della regione).

Del pari inammissibili, perché non sorrette da alcun riferimento specifico alle norme censurate, sono le questioni relative agli artt. 12, 23, secondo comma, 24 e 25 della legge n. 93, globalmente impugnati in relazione all'art. 117 della Costituzione.

  1. - La Regione Lombardia impugnando l'intero titolo I della legge n. 93 con riferimento agli artt. 97, 117 e 5 della Costituzione, la Regione Veneto impugnando gli artt. 10 e 12 della legge medesima con riferimento all'art. 113 della Costituzione, la Regione Liguria impugnando gli artt. 3, 5, 6 e 10 della legge con riferimento agli artt. 97, 117, 118 e 119 della Costituzione, denunciano che, come risulta dall'ultimo comma dell'art. 10 della legge confrontato con l'ultimo comma dell'art. 6, il "recepimento" degli accordi sindacali nella legge regionale non sarebbe altro che un atto di formale recezione escludente ogni ambito di autonomia legislativa regionale in materia di organizzazione degli uffici e di conseguente determinazione della spesa.

La Regione Liguria parla addirittura di "accordo nazionale e d.P.R. che lo sanziona", e ciò con evidente errore, giacché il d.P.R. é previsto dalla legge n. 93 (art. 6, ultimo comma) solo per gli "accordi sindacali per i dipendenti delle amministrazioni dello Stato anche ad ordinamento autonomo".

In effetti, tuttavia, l'ultimo comma dell'art. 10 della legge n. 93, il quale stabilisce che "al fine del rispetto dei principi della presente legge, la disciplina contenuta nell'accordo é approvata con provvedimento regionale in conformità ai singoli ordinamenti", non lascia spazio alcuno alla autonomia regionale. Ciò, se non addirittura una negazione, costituisce una non necessaria e inammissibile forzatura del sistema di disciplina "in base" ad accordi regolata nell'art. 3 della legge. E a quanto risulta, nella prassi applicativa della legge n. 93, si pretende una perfetta corrispondenza delle leggi regionali (naturalmente delle regioni a statuto ordinario) al contenuto dell'accordo. Il che non può essere considerato conforme all'art. 117 della Costituzione, il quale attribuisce alle regioni la potestà di emanare nei limiti dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato norme legislative relative agli ordinamenti degli uffici.

Ora il principio della disciplina in base ad accordi desunto dall'art. 3 della legge n. 93 non può essere identificato senza tener conto che, nel regolare la disciplina in base ad accordi, l'art. 3 richiama la necessaria "osservanza dei principi di cui all'art. 97 della Costituzione e di quanto previsto dal precedente art. 2". E ciò significa che, nella sua operatività, il principio della disciplina in base ad accordi va conciliato col principio enunciato nell'art. 2 della stessa legge n. 93, secondo il quale, nelle regioni, deve essere regolato con legge, l'ordinamento degli uffici e del personale ad essi addetto, quanto agli ambiti indicati nel medesimo articolo.

Ne consegue che spetta alle leggi regionali non la pura e semplice riproduzione dell'accordo sindacale in sede nazionale, ma il suo adeguamento, quando sia necessario, alle peculiarità dell'ordinamento degli uffici ed alle disponibilità del bilancio regionale.

Conclusione questa che rende superflua la considerazione della generica doglianza, pure sollevata dalla Regione Liguria, di "confliggenza della norma appena citata (art. 3 della legge n. 93) con il costituzionale principio di ragionevolezza".

Nella sua formulazione, il terzo comma dell'art. 10 della legge n. 93 esclude ogni flessibilità, ogni possibilità di adattamento dell'accordo sindacale nazionale alle peculiarità regionali. Per questo ed in questi limiti esso deve reputarsi in contrasto con l'art. 117 nonché con l'art. 97 della Costituzione.

Questa conclusione dispensa la Corte dall'esaminare la questione di legittimità costituzionale dell'art. 10 della legge n. 93 che la Regione Lombardia solleva nel suo ricorso anche con riferimento all'art. 81 della Costituzione.

  1. - É invece non fondata la specifica censura della Regione Liguria all'art. 11, comma secondo, della legge n. 93, che fa divieto (anche alle regioni) di concedere ai dipendenti trattamenti integrativi e comunque importanti oneri aggiuntivi. Questo divieto costituisce non una proposizione eventuale degli accordi sindacali di cui parla l'art. 10, ma un principio stabilito dalla legge n. 93 e come tale operante prima in sede di accordo, poi in sede di legislazione regionale. Escluderne, dunque, la illegittimità costituzionale non é in contrasto con le conclusioni cui la Corte é pervenuta a proposito del terzo comma dell'art. 10 della legge n. 93.
  2. - A questo punto, raccogliendo le cose fin qui dette con lo scarso ordine sistematico consentito dal numero, dalla sovrapposizione e dall'intreccio delle questioni sottopostele, la Corte può concludere che l'accoglimento di alcune censure, il rigetto di altre nei sensi di cui in motivazione, la dichiarata inammissibilità di alcune questioni, l'infondatezza di tutte le altre, cioé il risultato complessivo dell'esame della Corte, quale é registrato nel dispositivo della presente sentenza, consentono di esprimere l'auspicio che nell'applicazione della legge i rapporti tra Stato e Regioni ubbidiscano assai più che a una gelosa, puntigliosa e formalistica difesa di posizioni, competenze e prerogative, a quel modello di cooperazione e integrazione nel segno dei grandi interessi unitari della Nazione, che la Corte ritiene compatibile col carattere garantistico delle norme costituzionali.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

  1. - dichiara inammissibili la questione di legittimità costituzionale degli artt. 3, 6 e 10 della legge 29 marzo 1983, n. 93, sollevata dalla Regione Liguria col ricorso n. 20 del reg. ric. 1983 di cui in epigrafe, in riferimento all'art. 39, comma quarto, della Costituzione, e le questioni sollevate dalla stessa regione, degli artt. 12, 23, secondo comma, 24 e 25 della legge n. 93 in riferimento all'art. 117 della Costituzione;
  2. - dichiara la illegittimità costituzionale dell'art. 8 della legge 29 marzo 1983, n. 93, nella parte in cui non fa salva la competenza della Regione Trentino-Alto Adige in materia di ordinamento del personale dei comuni prevista dall'art. 65 dello statuto speciale della regione;
  3. - dichiara la illegittimità costituzionale dell'art. 9 della legge 29 marzo 1983, n. 93;
  4. - dichiara la illegittimità costituzionale dell'art. 10, terzo comma, della legge 29 marzo 1983, n. 93 nella parte in cui non prevede che la legge regionale approvativa dell'accordo possa apportare gli adeguamenti resi necessari dalla "disciplina di legge" in materia di ordinamento degli uffici regionali e del personale ad essi addetto, prevista dal precedente art. 2 e quelli richiesti dalle altre peculiarità del rispettivo ordinamento, nonché dalle disponibilità del bilancio regionale;
  5. - dichiara non fondata nei sensi di cui in motivazione la questione di legittimità costituzionale degli artt. 5, secondo comma, 6, quarto comma, 8, 9, 12, terzo comma, 14, 25 e 30, terzo comma, della legge 29 marzo 1983, n. 93, sollevata in riferimento all'art. 89 dello statuto della Regione Trentino-Alto Adige dalla Provincia autonoma di Bolzano col ricorso n. 18 del reg. ric. 1983 di cui in epigrafe;
  6. - dichiara non fondata nei sensi di cui in motivazione la questione di legittimità costituzionale dell'art. 14 della legge 29 marzo 1983, n. 93, sollevata dalla Provincia autonoma di Bolzano con ricorso n. 18 del reg. ric. 1983 di cui in epigrafe, in riferimento all'art. 89 dello statuto della Regione Trentino-Alto Adige;
  7. - dichiara non fondata nei sensi di cui in motivazione la questione di legittimità costituzionale dell'art. 26, primo comma, della legge 29 marzo 1983, n. 93, sollevata dalla Regione Trentino-Alto Adige con il ricorso n. 12 del reg. ric. 1983 di cui in epigrafe, in riferimento all'art. 4, n. 8, dello statuto regionale;
  8. - dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1 della legge 29 marzo 1983, n. 93, sollevata dalla Regione Trentino-Alto Adige e dalle province autonome di Bolzano e di Trento con i ricorsi nn. 12, 18 e 19 del reg. ric. 1983 di cui in epigrafe, in riferimento agli artt. 4 e 5 dello statuto speciale della Regione Trentino-Alto Adige;
  9. - dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma secondo, della legge 29 marzo 1983, n. 93, sollevata dalle regioni Trentino - Alto Adige, Valle d'Aosta, Friuli-Venezia Giulia e dalle province autonome di Bolzano e di Trento, con i ricorsi nn. 12, 17, 15, 18 e 19 del reg. ric. 1983, di cui in epigrafe, in riferimento agli artt. 4 e 5 dello statuto speciale della Regione Valle d'Aosta e 4, n. 1, dello statuto speciale della Regione Friuli-Venezia Giulia;
  10. - dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1 della legge 29 marzo 1983, n. 93, sollevata dalla Regione Liguria con il ricorso n. 20 del reg ric. 1983 di cui in epigrafe, in riferimento all'art. 117 della Costituzione;
  11. - dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 3, 5, 6, 10, 11 e 15 della legge 29 marzo 1983, n. 93, sollevate dalla Regione Liguria con il ricorso n. 20 del reg. ric. 1983 di cui in epigrafe, in riferimento agli artt. 117, 118, 119, 3 e 97 della Costituzione;
  12. - dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale del titolo I della legge 29 marzo 1983, n. 93, sollevata dalla Regione Lombardia con il ricorso n. 13 del reg. ric. 1983 di cui in epigrafe, in riferimento agli artt. 117, 118, 119, 120 e 121 della Costituzione;
  13. - dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 27, quarto comma, della legge 29 marzo 1983, n. 93, sollevata dalle regioni Trentino - Alto Adige, Lombardia e Liguria nonché dalla Provincia autonoma di Bolzano con i ricorsi nn. 12, 13, 20 e 18 del reg. ric. 1983 di cui in epigrafe, in riferimento allo statuto della Regione Trentino-Alto Adige ed agli artt. 118, 124, 125 e 127 della Costituzione.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 luglio 1984.

Leopoldo ELIA - Antonino DE STEFANO - Guglielmo ROEHRSSEN - Oronzo REALE - Brunetto BUCCIARELLI DUCCI – Alberto MALAGUGINI - Livio PALADIN - Arnaldo MACCARONE - Virgilio ANDRIOLI - Giuseppe FERRARI - Francesco SAJA  - Giovanni CONSO - Ettore GALLO - Aldo CORASANITI

Depositata in cancelleria il 25 luglio 1984.