Sentenza n.126 del 1985

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SENTENZA N. 126

ANNO 1985

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

Prof. Leopoldo ELIA, Presidente

Prof. Guglielmo ROEHRSSEN

Avv. Oronzo REALE

Dott. Brunetto BUCCIARELLI DUCCI

Avv. Alberto MALAGUGINI

Prof. Livio PALADIN

Prof. Antonio LA PERGOLA

Prof. Virgilio ANDRIOLI

Prof. Giuseppe FERRARI

Dott. Francesco SAJA

Prof. Giovanni CONSO

Prof. Ettore GALLO

Dott. Aldo CORASANITI

Prof. Giuseppe BORZELLINO

Dott. Francesco GRECO, Giudici,

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 180 del c.p.m.p. promossi con le seguenti ordinanze:

1) ordinanza emessa il 18 maggio 1982 dal Giudice Istruttore presso il Tribunale Militare Territoriale di Padova nei procedimenti penali riuniti a carico di La Forgia Pasquale ed altri iscritta al n. 989 del registro ordinanze 1983 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 102 dell'anno 1984;

2) ordinanza emessa il 30 gennaio 1984 dal Tribunale Militare di Cagliari nel procedimento penale a carico di Nobile Orlando ed altri iscritta al n. 486 del registro ordinanze 1984 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 266 dell'anno 1984.

Visto l'atto di costituzione di Nobile Orlando ed altri nonché l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 5 febbraio 1985 il Giudice relatore Aldo Corasaniti;

uditi l'avv. Mauro Mellini per Nobile Orlando ed altri e l'avvocato dello Stato Franco Chiarotti per il Presidente del Consiglio dei ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

1. - Nel corso dei procedimenti penali a carico di La Forgia Pasquale ed altri militari - imputati del reato di cui all'art. 180, comma primo, c.p.m.p. - e di Papa Teino ed altri militari - imputati del reato di cui all'art. 180, comma secondo, c.p.m.p. - il Giudice istruttore del Tribunale Militare Territoriale di Padova, con ordinanza 4 gennaio 1978, su iniziativa del P.M., sollevò questioni di legittimità costituzionale dell'art. 180, commi primo e secondo, c.p.m.p. in riferimento agli artt. 2, 3, 21, comma primo, 52, comma terzo, 97, comma primo, della Costituzione.

Il detto giudice rilevò che la norma impugnata si collega al regolamento di disciplina approvato con d.p.r. 31 ottobre 1964, il quale prescrive che i reclami e le domande debbono essere esclusivamente individuali (art. 42, n. 1), e qualifica, di conseguenza, illecita la presentazione di un'istanza da parte di due o più militari, collettivamente, o separatamente purché previo accordo (art. 42, n. 2), vietando altresì la presentazione di reclami o domande da parte di un solo militare, quando agisca per conto di altri (art. 42, n. 2).

Considerò, per lumeggiare la portata della norma impugnata, che l'art. 184, comma primo, c.p.m.p. punisce l'iniziativa di raccogliere sottoscrizioni, o anche la mera sottoscrizione, "per una collettiva rimostranza o protesta in cose di servizio militare o attinenti alla disciplina", e cioé un'attività che - qualora non si ritenga che la protesta e la rimostranza siano condotte ontologicamente differenziabili dal reclamo - deve qualificarsi come preparatoria di quella prevista dall'art. 180 c.p.m.p. e che l'art. 175, comma primo, n. 2, c.p.m.p. punisce, inoltre, come ammutinamento, e quindi allo stesso modo di una disobbedienza collettiva (art. 175, comma primo, n. 1), i militari che, in numero non inferiore a quattro, persistano nel presentare "a voce o per iscritto" una domanda, un esposto, o un reclamo, e cioé un'attività il cui realizzarsi presuppone l'avvenuta presentazione all'autorità militare di una istanza collettiva.

Osservò:

che la norma impugnata non distingue fra le varie ipotesi: che la domanda, l'esposto o il reclamo abbiano il loro presupposto in un interesse direttamente o indirettamente tutelato da norme giuridiche, o in un mero interesse di fatto; che si tratti di interessi individuali occasionalmente convergenti o di veri e propri interessi collettivi; che i proponenti siano i titolari dell'interesse in questione o che agiscano per conto di altri militari; che la pretesa fatta valere abbia, o no, fondamento (sicché la stessa rappresentazione collettiva all'autorità di veri e propri diritti soggettivi o interessi legittimi dei proponenti viene a configurare il delitto in argomento, non essendo applicabile nell'ordinamento penale militare, per testuale disposto dell'art. 40 c.p.m.p., l'esimente dell'esercizio di un diritto prevista nell'art. 51 c.p.);

che, pertanto, per effetto della norma impugnata, ogni diritto soggettivo, legittimo interesse o mero interesse del militare, purché suscettibile di soddisfazione previa presentazione di un'istanza all'autorità militare, subisce un condizionamento costituito dalle modalità con cui viene fatto valere: rimane, cioé, almeno temporaneamente, non soddisfatto, se rappresentato all'autorità mediante un'istanza collettiva (cfr. l'art. 41, n. 1, del regolamento di disciplina, che riconosce al militare il diritto di presentare istanze individuali e l'art. 42, n. 3, del regolamento di disciplina, per il quale "in ogni caso, reclami o domande collettive non sono presi in considerazione");

che col reato di cui all'art. 180 c.p.m.p. - la cui oggettività giuridica sta nella persecuzione delle pressioni morali esercitate sull'autorità militare mediante il numero degli istanti e nella tutela della libertà di decisione della detta autorità - é punita, in definitiva, la presentazione collettiva, o anche individuale purché riferibile ad un accordo dei proponenti, di una qualsiasi istanza rivolta all'autorità militare e, per ciò stesso, viene compresso in determinati suoi, aspetti, funzionali all'esigenza di far valere propri interessi e diritti nel seno di un'istituzione, il fondamentale diritto (art. 2 Cost.) di manifestazione del pensiero (art. 21, comma primo, Cost.), che comprende anche la facoltà di esprimere il pensiero in unione ad altre persone.

Considerò ancora il detto giudice:

che l'art. 52 Cost. prescrivendo che l'ordinamento militare "si informi allo spirito democratico della Repubblica", impone il contemperamento tra tutela dell'istituzione e tutela dell'individuo e della collettività, tenuti presenti, come punti di riferimento, le finalità istituzionali delle FF.AA. da un lato ed i diritti costituzionalmente garantiti al cittadino dall'altro; sicché appare ingiustificato - oltre che discriminatorio rispetto alla generalità dei cittadini (art. 3 Cost.) - il divieto fatto ai militari di ogni elementare, civile e rispettosa forma di prospettazione all'autorità militare di propri interessi, individuali o collettivi che essi siano;

che, inoltre, essendo la norma impugnata applicabile anche nel caso in cui gli agenti siano titolari di diritti o di interessi legittimi, la repressione penale riguarda persino l'istanza collettiva che prospetta all'autorità militare l'adozione di provvedimenti doverosi, in quanto imposti da norme giuridiche, sicché, da un lato, il richiamarsi alle finalità dell'istituzione militare e alle esigenze della disciplina apparirebbe un avallo della concezione, ormai insostenibile, delle Forze armate come corpo separato, dall'altro contrasterebbe con i principi del buon andamento e dell'imparzialità dell'amministrazione sanciti, anche con riferimento all'amministrazione militare, dall'art. 97, comma primo, Cost., e in relazione ai quali la proposizione di istanze collettive all'autorità militare rappresenterebbe un mezzo di controllo sulla legalità dell'azione amministrativa ed anzi consentirebbe forme di partecipazione indiretta della collettività militare alle decisioni di competenza della gerarchia.

Soggiunse il detto giudice che la dichiarazione d’illegittimità avrebbe dovuto essere estesa, ex art. 27, ultimo comma, legge n. 87 del 1953, per i motivi sopra esposti, all'art. 175, comma primo, n. 2, e 184, comma primo, c.p.m.p..

2. - Intervenne il Presidente del Consiglio dei ministri e chiese che le questioni di legittimità costituzionale fossero dichiarate non fondate per le seguenti ragioni:

a) la norma impugnata fa parte di un sistema imperniato sulla facoltà, da parte del militare in servizio, di far reclamo o domanda individualmente (art. 42 d.p.r. 31 ottobre 1964 - regolamento di disciplina). Essa, pertanto, non incide sulla libertà di manifestare il proprio pensiero, garantita dagli artt. 21 e 2 della Costituzione, quanto al contenuto, essendo possibili le manifestazioni individuali, ma si riferisce alle modalità, perché pone solo il divieto di manifestazioni collettive. E la Corte costituzionale, con particolare riferimento alla libertà di manifestazione del pensiero, ha più volte chiarito (ordinanza n. 106 del 1974) che la disciplina di una modalità di esercizio di un diritto non costituisce di per sé lesione di quest'ultimo, sempre che il diritto stesso non ne risulti snaturato o che il suo esercizio non sia reso difficile o addirittura impossibile.

b) l'art. 52, comma secondo, parte prima, Cost. dispone che "il servizio militare é obbligatorio nei limiti e nei modi stabiliti dalla legge", sicché, nell'ambito della tutela degli interessi collegati all'esistenza delle Forze armate, la norma dell'art. 180 c.p.m.p., in quanto non lesiva della libertà individuale di manifestare il pensiero, non esorbita dalla discrezionalità che é propria del legislatore.

3. - Questa Corte, con ordinanza 19 gennaio 1982, n. 25, dispose la restituzione degli atti al giudice istruttore del Tribunale Militare Territoriale di Padova, affinché procedesse ad una nuova valutazione della rilevanza della questione alla luce dei principi introdotti della sopravvenuta legge 11 luglio 1978, n. 382, contenente "Norme di principio sulla disciplina militare", della quale richiamò gli artt. 3, 9, 22 (abrogativo dell'art. 40 c.p.m.p.), 23 e 25.

4. - Con ordinanza emessa il 18 maggio 1982 il Giudice istruttore presso il Tribunale Militare di Padova ha nuovamente proposto la questione, negli stessi termini originariamente precisati, ritenendo che la legge 11 luglio 1978, n. 382 non ha inciso sulla sua rilevanza.

Ha ritenuto, infatti, il giudice a quo, che la legge n. 382 del 1978 non ha abrogato l'art. 180 c.p.m.p., sia perché l'art. 25 della citata legge si riferisce alla sola caducazione delle norme del regolamento di disciplina, sia perché non é ravvisabile una abrogazione tacita, ove si consideri che non vi é incompatibilità logica tra la normativa che istituisce gli organi di rappresentanza dei militari (artt. 18-20) e rende lecite le attività necessarie al loro funzionamento (art. 23), e le disposizioni incriminatrici, ivi compreso l'art. 180 c.p.m.p., la cui mancanza renderebbe leciti in ogni caso i comportamenti in esse delineati, anche se non inerenti o connessi all'attività degli organi predetti.

In tal senso si sarebbe d'altra parte espressa anche la Corte costituzionale con la sentenza n. 31 del 1982, la quale, pur dopo l'entrata in vigore della legge n. 382 del 1978, ha ritenuto vigente e legittimo l'art. 184, comma secondo, c.p.m.p., che punisce l'adunanza di militari per trattare di cose attinenti al servizio ed alla disciplina, e perciò comportamenti di sicura liceità, qualora si esplichino nell'ambito del funzionamento degli organi rappresentativi.

5. - Nel corso di procedimento penale a carico di Nobile Orlando ed altri sottufficiali, imputati di reclamo collettivo previo accordo aggravato (artt. 47, n. 2, e 180, comma primo, c.p.m.p.), il Tribunale Militare di Cagliari, con ordinanza emessa il 30 gennaio 1984 (R.O. n. 486/84) ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 180, comma primo, c.p.m.p. in riferimento agli artt. 2, 3, 21, comma primo, 52, comma terzo, Cost..

Il Tribunale - dopo aver richiamato adesivamente l'ordinanza 4 gennaio 1978 del Giudice istruttore del Tribunale Militare di Padova ed aver precisato che nel "reclamo" collettivo punito dall'art. 180, comma primo, c.p.m.p., rientra anche il mero comportamento (nella specie, astensione collettiva dalla consumazione dei pasti presso la mensa di servizio) - ha svolto osservazioni dirette anche esse a escludere che la nuova legge n. 382 del 1978 abbia abrogato l'art. 180 c.p.m.p. e a dimostrare come ne abbia anzi evidenziato il contrasto con le norme della Costituzione ora indicate.

In particolare ha considerato:

a) l'art. 3 della legge 11 luglio 1978, n. 382, contenente norme di principio sulla disciplina militare, somministra ulteriori argomenti a favore della tesi dell'illegittimità costituzionale dell'art. 180 c.p.m.p. per contrasto con i principi fondamentali della Carta, in quanto consente, per i militari, solo "limitazioni" nell'esercizio dei diritti costituzionali e non già divieti assoluti, qual é quello attinente il reclamo espresso in modo collettivo, indipendentemente dal suo contenuto. Sicché condizionamenti e limitazioni nei riguardi di diritti costituzionalmente garantiti - riconosciuti ai militari alla pari degli altri cittadini - sono da ritenere ammessi soltanto in funzione dell'assolvimento dei compiti delle Forze armate, il cui ordinamento deve informarsi allo spirito democratico della Repubblica (art. 52, comma terzo, Cost.).

b) A tale principio non sembra corrispondere l'art. 180 c.p.m.p., che punisce il reclamo collettivo, senza operare distinzioni circa la effettiva incidenza lesiva del suo contenuto nei confronti dell'organizzazione militare, sul presupposto dell'alto potere di suggestione e di incitamento a delinquere contro i principi della disciplina e della gerarchia militare che é insito nelle modalità del reclamo collettivo, ricompreso tra i reati di "sedizione". É significativo, al riguardo, che l'intera materia dei reati di sedizione é stata oggetto di profonda rielaborazione nel disegno di legge di iniziativa governativa n. 2531, concernente la delega al governo per l'emanazione del nuovo codice penale militare di pace (comunicato alla Presidenza della Camera dei deputati il 14 aprile 1981 e poi decaduto), dove la figura della sedizione viene ristretta ai soli comportamenti, collettivi o individuali, "caratterizzati da ribellione ed ostilità verso le autorità militari o verso le istituzioni". Ciò sembra convalidare l'assunto secondo il quale - essendo i diritti inviolabili dei militari suscettibili di condizionamenti solo in dipendenza dei limiti logici di ciascuna libertà - appare ingiustificato il condizionamento posto dall'art. 180 c.p.m.p. alla libertà di manifestazione del pensiero per i militari, collegando l'incriminazione al numero dei soggetti agenti, indipendentemente dalla valutazione del contenuto del comportamento, e della sua attitudine a ledere l'ordinamento costituzionale dello Stato.

c) Né, infine, può indurre a conclusioni diverse l'introduzione, anche nell'ordinamento penale militare, dell'esimente dell'esercizio di un diritto ex art. 51 c.p., a seguito dell'abrogazione, disposta dall'art. 22 della legge n. 382 del 1978, dell'art. 40 c.p.m.p., che espressamente ne escludeva l'applicazione, in quanto l'esimente attiene al momento patologico del fatto delittuoso, che, per ragioni particolari, viene consentito e rimane esente da pena, mentre l'ipotesi delittuosa delineata nell'art. 180 c.p.m.p. prescinde nella sua configurazione dall'esistenza di alcuna giustificazione e per tale motivo criminalizza ogni comportamento collettivo dei militari volto a presentare domande, esposti o reclami, che, quale espressione del diritto di libera manifestazione del pensiero, deve essere ammessa indipendentemente dal numero dei militari che se ne rendono autori.

Si sono costituiti i soggetti imputati nel giudizio a quo sollecitando l'accoglimento dell'eccezione di incostituzionalità.

É intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rilevando che la questione sollevata dal Tribunale Militare di Cagliari sostanzialmente coincide con quella proposta dal Giudice istruttore del Tribunale Militare di Padova con l'ordinanza emessa il 4 gennaio 1978 (R.O. n. 272/1978), e riproposta, a seguito di restituzione degli atti disposta dalla Corte costituzionale con l'ordinanza n. 25 del 1982, con ordinanza emessa il 18 maggio 1982 (R.O. n. 989/83) e richiamandosi conseguentemente alle deduzioni già svolte nel precedente intervento.

 

Considerato in diritto

 

1. - Poiché le due ordinanze in epigrafe del Giudice istruttore presso il Tribunale militare di Padova e del Tribunale di Cagliari hanno per oggetto questioni sostanzialmente identiche, i relativi giudizi possono essere riuniti e definiti con unica sentenza.

2. - L'ordinanza pronunciata il 18 maggio 1982 dal Giudice istruttore presso il Tribunale militare di Padova - dopo la restituzione degli atti disposta da questa Corte per il riesame della rilevanza delle questioni proposte con la precedente ordinanza del 4 gennaio 1978 a seguito della sopravvenuta legge 11 luglio 1978, n. 382 - ha così provveduto:

premesso il riferimento agli atti del processo contro Pasquale La Forgia e altri militari imputati del reato di cui all'art. 180, comma primo, c.p.m.p. (per avere presentato un reclamo collettivo scritto concernente l'asserita inagibilità della caserma a seguito di terremoto), nonché agli atti del processo contro Teino Papa ed altri militari, imputati del reato di cui all'art. 180, comma secondo, dello stesso codice (per avere presentato reclamo avente analogo oggetto nella forma comportamentale costituita dall'astensione collettiva dal rancio); premesso altresì il riferimento alla questione di "legittimità costituzionale dell'art. 180, comma primo, nella parte in cui punisce la domanda, l'esposto ed il reclamo collettivo scritto o verbale" già sollevata con l'ordinanza del 4 gennaio 1978 (nella quale peraltro la questione era stata posta relativamente a entrambi i commi dell'art. 180 c.p.m.p.); ha diffusamente motivato sulla rilevanza della medesima malgrado la sopravvenuta legge n. 382 del 1978, e ne ha sollecitato da questa Corte la decisione.

É certo che, in tal modo, il giudice a quo ha sollevato questione di legittimità, in riferimento ai parametri indicati nella precedente ordinanza, dell'art. 180, comma primo, il quale prevede come reato la presentazione collettiva ad opera di almeno dieci militari o di uno solo previo accordo con gli altri, di una istanza, esposto o reclamo. Viceversa non é altrettanto certo, e anzi sembra doversi escludere, che abbia sollevato analoga questione di legittimità relativamente all'art. 180, comma secondo, che prevede come distinto reato, e punisce con pena più severa, la presentazione collettiva ad opera di almeno quattro persone di un'istanza, esposto o reclamo mediante manifestazione pubblica.

Infatti, sempre in relazione alle modalità adottate, può ipotizzarsi tanto che il detto giudice abbia inteso non riproporre la questione di legittimità dell'art. 180, comma secondo, in argomento, già proposta con la precedente ordinanza 4 gennaio 1978 in ordine al fatto della presentazione di reclamo collettivo in forma comportamentale (astensione dal rancio) imputato sotto tale titolo a Teino Papa ed altri militari, quanto che abbia inteso ricondurre sotto il titolo di reclamo collettivo ai sensi dell'art. 180, comma primo, oltre alla presentazione del reclamo scritto contestata a Pasquale La Forgia e ad altri militari, anche il fatto comportamentale addebitato a Teino Papa e ad altri militari.

Ipotesi, quest'ultima, analoga a quella verificatasi nel caso dell'ordinanza del Tribunale militare di Cagliari 30 gennaio 1984, la quale ha sollevato questione di legittimità, in ordine agli stessi parametri, dell'art. 180, comma primo, c.p.m.p. - come si desume, malgrado il richiamo all'art. 180 del detto codice senza altra specificazione, dal riferimento, nell'esposizione del fatto addebitato, alla commissione di esso da parte di più di dieci persone - in relazione a un reclamo collettivo (contro un ordine di servizio), espresso mediante comportamento costituito da collettiva astensione dal rancio.

La pronuncia di questa Corte va dunque circoscritta alla questione di legittimità costituzionale dell'art. 180, comma primo, c.p.m.p. sollevata da entrambe le ordinanze in esame con analoghi argomenti (l'ordinanza del Tribunale di Cagliari espressamente si riporta a quelli svolti dalla precedente ordinanza 4 gennaio 1978 dal Giudice istruttore del Tribunale militare di Padova, facendoli propri) in riferimento agli artt. 2, 3, 21, 52, 97 Cost., in quanto vieta la presentazione collettiva da parte di dieci o più persone - secondo l'ordinanza del Tribunale militare di Cagliari anche nella forma comportamentale della astensione dal rancio - di una domanda, esposto o reclamo (per cose attinenti alla disciplina o al servizio) all'autorità militare.

3. - Si sostiene dai giudici a quibus che la norma impugnata, in quanto si riferisce indiscriminatamente ad ogni istanza o rimostranza rivolta in forma collettiva (da un certo numero di militari) all'autorità militare - quali che ne siano le ulteriori modalità o i contenuti, e anche se essi non siano tali da rendere illecita l'istanza o rimostranza diretta alla stessa autorità in forma individuale e addirittura anche se il contenuto consista in pretese fondate o comunque astrattamente formulabili sulla base della stessa normativa in vigore - finisce col comprimere il diritto fondamentale di libera manifestazione del pensiero in una modalità di esercizio da ritenere essenziale: qual é, appunto, la forma collettiva.

Secondo i giudici a quibus la compressione o limitazione oltre ad essere in sé inammissibile per la latitudine e gravità che viene ad assumere in relazione alla indeterminatezza del suo oggetto, non sarebbe giustificata dalla garanzia di valori protetti dall'art. 52 Cost., giacché questo da un lato impone un contemperamento fra tutela dell'istituzione e tutela "dell'individuo e della collettività", e dall'altro, enunciando il principio che l'ordinamento militare si informa allo spirito democratico della Repubblica, postula, anziché vietare, ogni pacifica e civile "prospettazione".

"Prospettazione", la quale, oltre a una forma di "partecipazione indiretta della collettività militare" alle decisioni dell'autorità - conforme allo spirito democratico suindicato - costituirebbe, soprattutto se diretta a far valere pretese fondate o comunque astrattamente formulabili sulla base della stessa normativa in vigore, uno strumento di controllo sull'osservanza dei principi di legalità e di buon andamento, sanciti anche per l'amministrazione militare dall'art. 97 Cost..

4. - La questione di legittimità della norma impugnata per violazione dell'art. 21 Cost. in riferimento agli artt. 3 e 52 Cost. (l'art. 2 é richiamato come garanzia generale dei diritti fondamentali, fra i quali é quello di libera manifestazione del pensiero) é fondata.

Non vi é dubbio che la norma impugnata - in quanto vieta la presentazione collettiva, anche in forma comportamentale, da parte di militari, di domande, esposti, reclami all'autorità militare, ponga un limite penalmente sancito alla libertà di manifestazione del dissenso - e alla correlata libertà di petizione - e quindi alla libertà di manifestazione del pensiero considerata in una sua modalità di esercizio: la forma collettiva.

Né ve é dubbio che la forma collettiva di manifestazione del pensiero sia garantita dall'art. 21 Cost. come essenziale alla libertà di cui si tratta. Ciò in quanto la forma collettiva (e così quella individuale in rappresentanza collettiva che in essa é compresa) é necessaria al fine di dare corpo e voce ai movimenti di opinione concernenti interessi superindividuali. D'altra parte la garanzia costituzionale si estende in linea di principio a ogni modalità di esercizio della libertà di manifestazione del pensiero, in relazione al particolare valore che questa riveste in ogni ordinamento democratico. Estensione che é stata più volte proclamata da questa Corte sia con riguardo all'uso dei mezzi di esternazione o di diffusione (sentenze n. 1 del 1956, 51 del 1960 e altre successive), sia con specifico riferimento alle modalità di esercizio. In proposito questa Corte, pur ammettendo che le dette modalità possono essere oggetto di regolamentazione, con conseguente limitazione all'esercizio del diritto, ha subordinato la legittimità della limitazione alla duplice condizione che essa non renda difficile o addirittura impossibile l'esercizio disciplinato e sia giustificata dalla protezione di altri valori costituzionali (fra le altre, le sentenze n. 9 del 1965, n. 131 del 1973, n. 106 del 1974).

Orbene non ricorre né l'una né l'altra condizione nel limite posto con la norma impugnata alla forma collettiva di manifestazione del pensiero dissenziente dei militari. Rettamente, infatti, i giudici a quibus hanno rappresentato da un canto che la limitazione, per l'eccessiva portata che assume a causa della genericità o indeterminatezza dell'oggetto finisce con il criminalizzare la forma collettiva di manifestazione come tale, e così con il vanificare in un suo atteggiamento essenziale la libertà in discorso; dall'altro che la limitazione stessa non trova sostegno nella protezione costituzionale di valori attinenti all'ordinamento delle Forze armate.

5. - In relazione al primo aspetto, che involge l'individuazione della portata della denunciata limitazione della libertà di manifestazione del pensiero, mette conto rilevare che esso é stato esplorato da questa Corte in riferimento a norme incriminatrici le quali, denunciate come indebite limitazioni della libertà di manifestazione del pensiero, sono state valutate sotto l'aspetto della loro riconducibilità al limite costituito dalla necessità di preservare l'ordine pubblico da turbative violente di esso.

La quale impostazione ha particolare importanza per la soluzione della questione in esame. E ciò in quanto nel codice penale militare di pace la norma che prevede il delitto di reclamo collettivo é collocata, sotto il titolo III del libro II, fra i reati contro la disciplina militare e in particolare, sotto il capo II, fra quelli di sedizione: sedizione che, secondo la dottrina e la giurisprudenza del Tribunale supremo militare prevalenti, é qualificata dal carattere di ribellione, e quindi di promozione di violenza, contro ordinamenti o istituzioni militari.

Nelle pronunce allora rese da questa Corte é chiaramente individuabile una tendenza nel senso di ritenere che per la configurabilità del limite suindicato non sia sufficiente la critica anche aspra delle istituzioni, la prospettazione della necessità di mutarle, la stessa contestazione dell'assetto politico sociale sul piano ideologico, ma occorra un incitamento all'azione e quindi un principio di azione, e così di violenza contro l'ordine legalmente costituito, come tale idoneo a porre questo in pericolo.

Quali espressioni della tendenza possono essere menzionate le seguenti sentenze: n. 120 del 1957, concernente la previsione del reato di grida e manifestazioni "sediziose", di cui all'art. 654 c.p.; n. 87 del 1966, concernente la previsione del delitto di propaganda e apologia sovversiva o antinazionale, di cui all'art. 272 c.p.; n. 65 del 1970, concernente la previsione del delitto di istigazione a delinquere, di cui all'art. 414 c.p.; n. 16 del 1973 concernente la previsione del delitto di istigazione all'odio fra le classi sociali di cui all'art. 415 c.p.; n. 71 del 1978, concernente ancora la previsione del delitto di istigazione di militari a disobbedire alle leggi di cui all'art. 266 c.p..

Alcune delle dette sentenze sono indotte a dare soluzioni interpretative, in quanto ritengono che in tali casi la manifestazione del pensiero, caratterizzandosi nel modo suindicato, abbia mutato la propria natura col divenire forma di induzione ad azioni o reazioni violente contro l'ordine pubblico e così abbia perso la garanzia apprestata dall'art. 21 Cost. (cfr. in particolare le sentenze n. 120 del 1957, n. 87 del 1966, n. 65 del 1970, n. 16 del 1973, n. 71 del 1978).

Talaltra volta la pronuncia, nel presupposto che la previsione considerata non consenta una sentenza interpretativa "di rigetto" o "di accoglimento", ne incide correttivamente il contenuto (in particolare la sentenza n. 16 del 1973 censura la norma impugnata in quanto, per l'indeterminatezza dell'oggetto, "non precisa che l'istigazione ivi prevista", per diversificare dalla mera manifestazione o diffusione di dottrine o di ideologie garantita dall'art. 21 Cost., "deve essere attuata in modo pericoloso per la pubblica tranquillità"; e conseguentemente la colpisce in tale mancata determinazione, cui pone rimedio con sentenza additiva).

Mal al di là delle varie tecniche impiegate, la tendenza é costante nei termini indicati.

Per quel che concerne specificamente la materia che qui interessa, la tendenza stessa trova poi riscontro nell'indirizzo interpretativo, che si é venuto affermando nella giurisprudenza del Tribunale supremo militare, nel senso di enucleare dalla fattispecie del reclamo collettivo, per ricondurle a fattispecie di sedizione in senso stretto (quali quelle di cui agli artt. 182 o 183 c.p.m.p.), le manifestazioni di dissenso le quali, soprattutto per le modalità o per le circostanze, siano caratterizzate dall'ostilità o ribellione verso le istituzioni o gli ordinamenti militari: dalla direzione e/o dall'idoneità, cioé, a porsi come espressioni di violenza sovvertitrice o ad innescare processi formativi od esplosivi di questa in danno delle istituzioni o degli ordinamenti suddetti.

Tali condotte - questa é la conclusione cui si perviene secondo l'interpretazione invalsa con riferimento all'ordinamento militare, in analogia con quella come sopra presupposta da questa Corte con riferimento all'ordinamento generale - sono fuori dell'ambito della manifestazione (anche collettiva) del dissenso, e viceversa questa é estranea all'ambito delle prime. E la conclusione trova indiretta conferma nella sentenza di questa Corte n. 29 del 1982, la quale dichiara infondata la questione di legittimità, in riferimento all'art. 21 Cost., della previsione incriminatrice contenuta nell'art. 182 c.p.m.p. (attività sediziosa), escludendo che la condotta che ne é oggetto possa consistere "nella critica anche aspra degli ordinamenti militari, sorretta come tale dalla libertà costituzionale della manifestazione del pensiero".

É così acclarato: a) che la previsione incriminatrice impugnata, colpendo la pacifica manifestazione collettiva di dissenso - o la pacifica formulazione collettiva di petizione - dei militari nei confronti dell'autorità militare, colpisce una mera manifestazione collettiva di pensiero in quanto tale; b) che ciò importa un limite penalmente sancito alla libertà di manifestazione del pensiero di così ampia portata, da comprimere il cennato diritto rendendo difficile o addirittura impossibile l'esercizio di questo in un suo atteggiamento essenziale.

6. - In riferimento al secondo aspetto della problematica sollevata dalle ordinanze di rimessione - se cioé una così ampia e grave limitazione del diritto fondamentale in argomento trovi comunque giustificazione nella protezione costituzionale di valori attinenti all'ordinamento delle Forze armate - valgano le seguenti considerazioni.

Anzitutto occorre ribadire la rilevanza centrale - emergente del resto dalla giurisprudenza di questa Corte sopra richiamata - che la libertà di manifestazione del pensiero, anche e soprattutto in forma collettiva, assume ai fini dell'attuazione del principio democratico non solo nel nostro ordinamento, che in relazione a tale principio solennemente si qualifica (art. 1 Cost.), ma nelle più significative espressioni della civiltà giuridico-politica che in esso trova la sua caratterizzazione di fondo.

Per altro verso occorre considerare la portata generale del precetto espresso con l'art. 52 Cost. - norma in cui la suindicata protezione costituzionale si incentra - secondo il quale l'ordinamento delle Forze armate é informato allo spirito democratico della Repubblica.

La valutazione coordinata dei due momenti normativi di rango costituzionale induce ad escludere che una libertà costituente cardine di democrazia nell'ordinamento generale possa subire una limitazione dell'ampiezza e gravità suindicate in relazione ad esigenze proprie dell'ordinamento militare.

Al contrario é da ritenere che la pacifica manifestazione del dissenso dei militari nei confronti dell'autorità militare - anche e soprattutto in forma collettiva per l'espressione di esigenze collettive attinenti alla disciplina o al servizio - non soltanto concorra alla garanzia di pretese fondate o astrattamente formulabili sulla base della normativa vigente e quindi all'attuazione di questa, ma promuova lo sviluppo in senso democratico dell'ordinamento delle Forze armate e quindi concorra ad attuare i comandamenti della Costituzione.

Ciò non importa obliterare quelle particolari esigenze di coesione dei corpi militari che si esprimono nei valori della disciplina e della gerarchia; ma importa negare che tali valori si avvantaggino di un eccesso di tutela in danno delle libertà fondamentali e della stessa democraticità dell'ordinamento delle Forze armate.

In realtà l'incriminazione del reclamo collettivo, introdotta dal c.p.m.p. ora in vigore col munire di sanzione penale un divieto espresso dal previgente regolamento di disciplina (che considerava il reclamo collettivo come "grave mancanza contro la subordinazione"), costituì un voluto incremento di tutela dei valori della disciplina, in relazione alla considerazione che ogni collettiva rimostranza o protesta, per il solo fatto di muovere da un "concerto" e di essere collettiva, anche se limitata alle "cose di servizio militare", é, per se stessa, un "fenomeno contagioso" da "tener lontano dalla milizia", un pericolo per la disciplina da reprimere al fine di porre "un più rigido freno" alla medesima (cfr. Relazione al progetto preliminare del codice della reale Commissione per la riforma, nn. 125 e 126).

Traspare evidente da tali note l'autoritarismo dell'orientamento di politica criminale che vi é sotteso, caratterizzato dall'esigenza di conferire particolare rigore alla disciplina, di esaltarne il valore, di assicurarne l'osservanza mediante la penalizzazione di condotte in ragione della mera "pericolosità presunta": in che consiste l'eccesso di tutela, desumibile indirettamente anche dallo sforzo sistematico impiegato per l'allargamento del concetto di "sedizione" (esteso ad ipotesi pur contestualmente definite "forme minori o complementari").

Eccesso ad escludere il quale é vano ravvisare l'oggettività giuridica del reato nella garanzia della libertà di decisione dell'autorità militare, che sarebbe particolarmente insidiata dalle forme di manifestazione collettiva del pensiero, attesoché tale insidia non può senza pretestuosità (connessa ad autoritarismo) ravvisarsi al di fuori della ipotesi di pericolosità concreta: ipotesi riconoscibile, semmai, nelle forme di sedizione in senso stretto, e non già nella condotta oggetto della previsione impugnata.

D'altra parte l'eccesso non é eliso dalla normativa introdotta con la legge 11 luglio 1978, n. 382 (Norme di principio sulla disciplina militare) giacché essa - secondo l'interpretazione dei giudici a quibus, che non ve é ragione di disattendere - non implica l'abrogazione della figura in parola. Anche se - affermando che spettano ai militari i diritti dei cittadini e prevedendo che, peraltro ex lege, possono essere imposte ai militari limitazioni nell'esercizio di tali diritti e l'osservanza di particolari doveri al (solo) fine di garantire l'assolvimento dei compiti propri delle Forze armate - essa rispecchia l'esigenza, la quale promana dalla Costituzione, che la democraticità dell'ordinamento delle Forze armate sia attuata nella massima misura compatibile col perseguimento da parte di queste dei propri fini istituzionali (perseguimento cui non osta la critica o la petizione collettiva pacifica dei militari).

E neppure l'eccesso può considerarsi adeguatamente ridotto, in relazione alla materia di cui si tratta, dalla istituzione e dalla disciplina, ad opera della legge ora indicata (artt. 18 e 19) e del relativo regolamento di attuazione dettato con d.p.r. 4 novembre 1979, n. 691, di organi di rappresentanza di militari. E ciò in quanto, pur essendo conferita a tali organi la funzione di rappresentare all'autorità istanze di carattere collettivo relative a determinati "campi di interesse" - e così essendo riconosciuta rilevanza e liceità di espressione agli interessi collettivi dei militari - non é coperto l'arco delle possibili istanze collettive e, soprattutto, non é giustificata la espropriazione penalmente sancita (o almeno non é giustificata l'incriminazione) della rappresentazione di tali istanze nei confronti dei loro soggetti reali.

7. - Va, dunque, dichiarata costituzionalmente illegittima la norma impugnata.

Il riconoscimento della fondatezza della questione e la conseguente dichiarazione d’illegittimità della norma impugnata in riferimento ai parametri sopra indicati importano l'assorbimento della questione di legittimità della norma stessa rispetto al parametro costituito dall'art. 97 Cost..

Il Giudice istruttore presso il Tribunale militare di Padova ha sollecitato la dichiarazione d’illegittimità conseguenziale ex art. 27 della legge n. 87 del 1953, degli artt. 184, comma primo e 175, comma primo, n. 2, c.p.m.p.. Ma la Corte non ritiene di poter dare corso alla sollecitazione.

La fattispecie legale di cui all'art. 184, comma primo, c.p.m.p., prevede una condotta preparatoria rispetto, oltre che a quella prevista dall'art. 180, comma primo, c.p.m.p. - qui dichiarato illegittimo - a quella prevista dall'art. 180, comma secondo, stesso codice - che non forma oggetto di sindacato - ed essendo collegata a entrambe le fattispecie, non può essere dichiarata illegittima in conseguenza della dichiarazione di illegittimità della norma che prevede una sola di esse. E analogamente può dirsi della fattispecie legale di cui all'art. 175, comma primo, n. 2, che prevede d'altra parte una condotta diversa - per il solo fatto di essere reiterativa - tanto da quella prevista dall'art. 180, comma primo, che qui é dichiarato illegittimo, tanto da quella prevista dall'art. 180, comma secondo, che non forma oggetto di sindacato.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 180, comma primo, del codice penale militare di pace.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 29 aprile 1985.

Leopoldo ELIA - Aldo CORASANITI

Depositata in cancelleria il 2 maggio 1985.