SENTENZA N. 16
ANNO 1973
REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori giudici
Prof. Giuseppe CHIARELLI, Presidente
Dott. Giuseppe VERZÌ
Dott. Giovanni BATTISTA BENEDETTI
Prof. Francesco PAOLO BONIFACIO
Dott. Luigi OGGIONI
Dott. Angelo DE MARCO
Avv. Ercole ROCCHETTI
Prof. Enzo CAPALOZZA
Prof. Vincenzo MICHELE TRIMARCHI
Prof. Vezio CRISAFULLI
Dott. Nicola REALE
Prof. Paolo ROSSI
Avv. Leonetto AMADEI
Prof. Giulio GIONFRIDA
Prof. Edoardo VOLTERRA, Giudici,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 266 del codice penale, promossi con le seguenti ordinanze:
1) ordinanza emessa il 28 aprile 1970 dal giudice istruttore del tribunale di Torino nel procedimento penale a carico di Marasso Giuseppe, iscritta al n. 210 del registro ordinanze 1970 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 184 del 22 luglio 1970;
2) ordinanza emessa l'8 marzo 1971 dalla Corte di assise di Imperia nel procedimento penale a carico di Quaranta Giovanni, iscritta al n. 148 del registro ordinanze 1971 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 119 del 12 maggio 1971;
3) ordinanza emessa il 3 giugno 1971 dalla Corte d'assise di Bari nel procedimento penale a carico di Panza Leonardo ed altro, iscritta al n. 260 del registro ordinanze 1971 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 233 del 15 settembre 1971.
Visto l'atto d'intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell'udienza pubblica del 24 gennaio 1973 il Giudice relatore Paolo Rossi;
udito il sostituto avvocato generale dello Stato Renato Carafa, per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1. - Nel corso del procedimento penale a carico di Marasso Giuseppe, imputato del delitto previsto e punito dall'art. 266 del codice penale, per avere, durante una manifestazione di piazza, "pubblicamente istigato i Carabinieri di guardia della Caserma Cernaia a disertare, gridando ripetutamente... "disertate, disertate", il giudice istruttore presso il tribunale di Torino ha sollevato questione incidentale di legittimità costituzionale dell'art. 266, primo comma, c.p., in riferimento alla libertà di manifestazione del pensiero garantita dall'art. 21 della Costituzione.
Premette il giudice a quo che l'espressione addebitata all'imputato, pur accentuando il momento della mozione di volontà e di orientamento della volontà altrui, può essere riportata nello schema della istigazione diretta o indiretta, il che consentirebbe di considerare penalmente illecita la propaganda antimilitaristica utilizzata per esplicare un'influenza "sobillatrice" sulla condotta dei militari, in contrasto con la libertà di manifestazione del pensiero assicurata dall'art. 21 della Costituzione. L'ordinanza di rimessione soggiunge che la fattispecie incriminatrice configura un reato di mera condotta sicché, prescindendosi da un qualsiasi esame in ordine all'effettivo verificarsi di un pericolo per l'interesse tutelato, la condotta di istigazione é autonomamente rilevante alla sola condizione che abbia un contenuto antitetico ai doveri inerenti allo stato di militare.
Il giudice a quo conclude infine rilevando che non sembrano potersi dedurre precise limitazioni al diritto di libera manifestazione del pensiero dalle disposizioni costituzionali relative al dovere di fedeltà alla Repubblica o al dovere sacro di difesa della Patria (artt. 54 e 52 Cost.).
É intervenuta in giudizio la Presidenza del Consiglio dei ministri, rappresentata e difesa dall'Avvocatura generale dello Stato, con atto di intervento depositato il 21 luglio 1970, chiedendo dichiararsi l'infondatezza della questione proposta.
La difesa dello Stato rileva una fondamentale differenza tra l'attività di istigazione, che é determinazione o eccitamento di altri all'azione, e la manifestazione del pensiero, che é tra le libertà fondamentali proclamate e protette dalla Costituzione, differenza di tutta evidenza anche nella fattispecie concreta, poiché all'imputato era stato addebitato di aver reiteratamente rivolto a carabinieri in servizio il grido di "disertate disertate".
L'Avvocatura generale osserva infine che, quand'anche si voglia considerare che il divieto dei fatti di istigazione previsto dalla norma impugnata possa trovare applicazione a fatti di manifestazione del pensiero, non é lecito ignorare che anche la libertà in questione, come ogni altra, può subire limitazioni sostanziali semprechè le medesime trovino fondamento in principi costituzionali espressamente enunciati o ricavati per interpretazione (Corte cost. sentenze n. 9 del 1965; n. 87 del 1966; n. 84 del 1969). In particolare la stessa Corte costituzionale - ricorda la difesa dello Stato - ha già affermato (sentenza n. 65 del 1970), con riferimento all'apologia di delitto, che la libertà di manifestazione del pensiero "trova i suoi limiti non soltanto nella tutela del buon costume, ma anche nella necessità di proteggere altri beni di rilievo costituzionale e nella esigenza di prevenire e far cessare turbamenti della sicurezza pubblica la cui tutela costituisce una finalità immanente del sistema". Sarebbe quindi pienamente giustificata l'esigenza di tutelare la difesa interna ed esterna dello Stato, e con essa l'ordine costituito.
2. - Nel corso del dibattimento penale a carico di tale Quaranta Giovanni, imputato del delitto previsto e punito dall'art. 266 c.p. per avere, mediante diffusione di un opuscolo intitolato "L'obbedienza non é più una virtù", istigato i marinai del Cacciatorpediniere Intrepido "a violare i doveri della disciplina militare o altri doveri inerenti al loro stato", la Corte d'assise di Imperia ha sollevato questione incidentale di legittimità costituzionale dell'art. 266 c.p., in riferimento alla libertà di manifestazione del pensiero garantita dall'art. 21 della Costituzione.
Osserva il giudice a quo che la norma incriminatrice impugnata, vietando qualsiasi fatto istigativo o apologetico, e quindi ogni critica all'attuale sistema d'organizzazione delle forze armate - in particolare in tema di obiezione di coscienza - e configurando un reato di mera condotta, non consentirebbe di procedere a quegli accertamenti diretti a distinguere i fatti di eccitamento alla violazione della disciplina e dei doveri militari, dalla lecita diffusione di un opuscolo tendente a sottolineare l'esigenza di una diversa regolamentazione della materia. Sotto tale aspetto quindi la norma impugnata contrasterebbe con l'art. 21 della Costituzione.
3. - Nel corso del dibattimento penale a carico di tali Panza e Ventricelli, tratti a giudizio per rispondere del reato di cui all'art. 266 c.p., per aver "istigato" militari in libera uscita "a violare i doveri della disciplina militare", distribuendo loro stampati ciclostilati, la Corte d'assise di Bari ha sollevato questione incidentale di legittimità costituzionale dell'art. 266 c.p., in riferimento all'art. 21 della Costituzione.
Osserva il giudice a quo che la norma impugnata, incriminando non solo le manifestazioni del pensiero intese a minare l'organizzazione delle forze armate quale istituzione destinata a presidio della Patria, ma anche quelle espressioni che appaiono in contrasto con ogni dovere inerente allo stato di militare del destinatario, contrasterebbe con la libertà di manifestazione del pensiero garantita dall'art. 21 della Costituzione.
Considerato in diritto
1. - Le cause vanno riunite, perché concernono le medesime questioni, e decise con unica sentenza.
2. - La questione sottoposta alla Corte dall'ordinanza 28 aprile 1970 del giudice istruttore del tribunale di Torino, e da quelle 8 marzo e 3 giugno 1971 delle Corti di assise di Imperia e di Bari che ne riprendono più succintamente gli argomenti, può così epigrafarsi: se l'art. 266 del codice penale, che punisce chiunque istiga i militari a disobbedire alle leggi o a violare il giuramento dato o i doveri della disciplina militare o altri doveri inerenti al proprio stato, non costituisca un limite inammissibile alla libera manifestazione del pensiero garantita dall'art. 21, primo comma, della Costituzione.
Il dubbio é infondato. Una grossolana manifestazione di pensiero, come protesta contro l'ordinamento sociale, propaganda per più liberi costumi, ecc., può ritrovarsi in qualunque reato e la materialità di alcuni delitti, come la diffamazione, l'ingiuria, l'oltraggio a pubblico ufficiale, il vilipendio, presuppone sempre un sommario giudizio di valore ed é costituita, tipicamente, da una rozza manifestazione di pensiero.
Scaturiscono sempre, in ultima analisi, da un atto di pensiero i reati di istigazione o apologia. Ma ciò non significa affatto che per ciò solo siano incostituzionali come contrarie all'art. 21 Cost. le relative norme incriminatrici. La libertà di pensiero non può venire invocata quando l'espressione del pensiero si attua mediante un'offesa a beni e diritti che meritano tutela.
L'istigazione di militare all'infedeltà, o al tradimento, in tutte le forme previste dall'art. 266 c.p. (disobbedire alle leggi, violare il giuramento dato o i doveri della disciplina militare o altri doveri inerenti al proprio stato), offende e minaccia un bene cui la Costituzione riconosce un supremo valore e accorda una tutela privilegiata, in conformità di tutte le costituzioni moderne, da qualsiasi ideologia siano ispirate e da qualunque regime politico-sociale siano espresse.
Una volta soltanto si ritrova nella nostra Carta fondamentale la locuzione sacro dovere, e ciò avviene appunto nell'art. 52 per qualificare più fortemente, rispetto a tutti gli altri doveri, quello di difesa della Patria. La formula, approvata all'unanimità dalla Prima Sottocommissione della Costituente nella seduta del 15 novembre 1946, fu riprodotta identicamente nell'art. 49 del Progetto della Commissione plenaria e votata dall'Assemblea (col numero 52) nomine contraddicente.
Tutti gli interpreti riconoscono che il dovere di difesa della Patria, specificazione del più generico dovere di fedeltà alla Repubblica e di obbedienza alla Costituzione e alle leggi (articolo 54), contempla in primo luogo il dovere militare, organizzato nelle forze armate, presidio dell'indipendenza e libertà della nazione. É, dunque, antinomico immaginare che l'istigazione di militari a violare il giuramento prestato, disobbedire alle leggi e ai doveri inerenti al loro stato, possa considerarsi una forma indiretta e lecita di esprimere il proprio pensiero.
Rispetto alla norma incriminatrice dell'art. 266 c.p. la libertà garantita dall'art. 21 Cost. può consentire modi di manifestazione e propaganda per la pace universale, la non violenza, la riduzione della ferma, l'ammissibilità dell'obiezione di coscienza, la riforma del regolamento di disciplina o altri, che non si concretino mai in una istigazione a disertare (come in uno dei casi per cui é stata sollevata questione), a commettere altri reati, a violare in genere i doveri imposti al militare dalle leggi. L'istigazione, infatti, non é pura manifestazione di pensiero, ma é azione e diretto incitamento all'azione, sicché essa non risulta tutelata dall'art. 21 della Costituzione.
Le ordinanze adombrano, senza sollevarla nominativamente, questione in ordine alla seconda condotta commissiva capace di integrare gli estremi del delitto di cui all'art. 266 c.p., e cioè l'apologia. In proposito può farsi riferimento, per quanto occorre, oltre agli argomenti sopra svolti, alla sentenza di questa Corte n. 65 del 1970.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 266 del codice penale, sollevata, in riferimento all'art. 21 della Costituzione, con le ordinanze in epigrafe indicate.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14 febbraio 1973.
Giuseppe CHIARELLI – Giuseppe VERZÌ – Giovanni BATTISTA BENEDETTI – Francesco PAOLO BONIFACIO – Luigi OGGIONI – Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA – Vincenzo MICHELE TRIMARCHI - Vezio CRISAFULLI – Nicola REALE - Paolo ROSSI –Leonetto AMADEI - Giulio GIONFRIDA - Edoardo VOLTERRA,
Arduino Salustri – Cancelliere
Depositata in cancelleria il 27 febbraio 1973.