SENTENZA N. 51
ANNO 1960
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
Dott. GAETANO AZZARITI, Presidente
Avv. GIUSEPPE CAPPI
Prof. TOMASO PERASSI
Prof. GASPARE AMBROSINI
Dott. MARIO COSATTI
Prof. FRANCESCO PANTALEO GABRIELI
Prof. GIUSEPPE CASTELLI AVOLIO
Prof. ANTONINO PAPALDO
Prof. NICOLA JAEGER
Prof. GIOVANNI CASSANDRO
Prof. BIAGIO PETROCELLI
Dott. ANTONIO MANCA
Prof. ALDO SANDULLI
Prof. GIUSEPPE BRANCA
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 268, 269 e 270 del T.U. delle leggi sulla finanza locale, modificati dall'art. 27 della legge 20 marzo 1941, n. 366, promosso con ordinanza emessa il 26 giugno 1959 dal Tribunale di Bologna nel procedimento civile vertente tra la "Società italiana per l'industria degli zuccheri" e il Comune di Bologna, iscritta al n. 93 del Registro ordinanze 1959 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 239 del 3 ottobre 1959;
Vista la dichiarazione di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;
udita nell'udienza pubblica dell'8 giugno 1960 la relazione del Giudice Gaspare Ambrosini;
uditi gli avvocati Carlo Arturo Jemolo e Victor Uckmar, per la "Società italiana per l'industria degli zuccheri", Francesco Gherardi, per il Comune di Bologna, e il vice avvocato generale dello Stato Achille Salerni, per il Presidente del Consiglio dei Ministri.
Ritenuto in fatto
La "Società italiana per l'industria degli zuccheri" convenne il Comune di Bologna con atto di citazione del 1 luglio 1958 avanti al Tribunale di Bologna, chiedendo in via principale la condanna del Comune al rimborso di lire 4.101.869, oltre le maturande rate, ammontare della tassa per rifiuti solidi urbani impostale per gli anni 1950-55, ed in via subordinata la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale per decidere se gli artt. 268, 269 e 270 del T.U. delle leggi sulla finanza locale (R. D. 14 settembre 1931, n. 1175) modificati dall'art. 27 della legge 20 marzo 1941, n. 366, siano in contrasto con l'art. 23 della Costituzione.
Nell'ordinanza del 26 giugno 1959, con la quale é stata accolta la richiesta subordinata della ditta attrice, il Tribunale ha ritenuto che il suindicato art. 270, modificato dalla legge citata, pur specificando che i Comuni impositori debbono commisurare il tributo alla superficie dei locali serviti ed all'uso a cui gli stessi vengono destinati, non indica criteri idonei a contenere la misura della tassa entro limiti ben definiti, e ha rilevato che, in mancanza dell'indicazione di un limite massimo del tributo, é dubbio se il sistema dei controlli tutori previsti dallo stesso T.U. delle leggi per la finanza locale sia sufficiente a preservare il contribuente da una eventuale arbitraria imposizione da parte dei Comuni.
Richiamate poi a conforto della fondatezza di tali dubbi le pronunce della Corte nn. 4, 30 e 47 del 1957, nonché la sentenza della Corte di cassazione a sezioni unite n. 2465 del 14 luglio 1954, il Tribunale ha formulato la questione di legittimità costituzionale testualmente come segue: "se le disposizioni di cui agli artt. 268, 269 e 270 del T.U. delle leggi per la finanza locale, modificati dall'art. 27 della legge 20 marzo 1941, n. 366, siano compatibili con la norma dettata dall'art. 23 della Costituzione della Repubblica".
Sospeso il giudizio e trasmessi gli atti alla Corte costituzionale, l'ordinanza é stata notificata alle parti in causa e al Presidente del Consiglio dei Ministri, e comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 3 ottobre 1959, n. 239.
Nel giudizio davanti alla Corte costituzionale si sono costituite le parti ed é intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri.
Nelle sue deduzioni depositate il 23 luglio 1959 la Società italiana per l'industria degli zuccheri richiama, per illustrare la portata dell'art. 23 della Costituzione, le sentenze della Corte costituzionale n. 4 del 26 gennaio 1957, n. 47 del 18 marzo dello stesso anno e n. 36 del 27 giugno 1959; osserva che la Corte, se non ha ritenuto necessario, per il rispetto dell'art. 23 della Costituzione, che la legge che conferisce il potere di imporre una prestazione, contenga l'indicazione del "limite massimo" della prestazione imponibile, ha però ritenuto essenziale che una tale legge non lasci all'arbitrio dell'ente impositore la determinazione della prestazione; e rileva che la Corte dichiarò, nella sentenza n. 36 del 27 giugno 1959, costituzionalmente illegittimo il disposto dell'art. 2 del D.L. C.P.S. 8 novembre 1947, n. 1417, in materia di finanza locale, perché mancante di qualsiasi direttiva per la determinazione del tributo, sì da potere costituire un criterio limite per fissarne il quantum.
Sulla incostituzionalità della tassa per la raccolta ed il trasporto dei rifiuti solidi urbani interni la difesa della Società, dopo avere sostenuto il carattere obbligatorio della tassa e, quindi, la natura tributaria delle prestazioni patrimoniali relative, osserva che l'unico criterio direttivo per la determinazione delle tariffe sarebbe offerto dall'art. 270, che dispone una variazione di aliquota in relazione all'uso al quale sono destinati i locali, ma lascia arbitra l'Amministrazione di stabilire le classi di locali e, quindi, le variazioni di incidenza, dando luogo a sperequazioni del tipo di quella che si verifica nel Comune di Bologna, dove per i locali degli stabilimenti industriali l'incidenza é quadrupla in confronto a quella relativa alle case di abitazione ed é inferiore solo a quella che vale per i locali di divertimento e di lusso, e, per di più, viene commisurata alla superficie dei locali stessi. Ne risulta che il tributo si dimostra particolarmente oneroso per gli stabilimenti industriali, i quali, peraltro, generalmente, non hanno rifiuti ordinari da sgombrare, ma rifiuti non ordinari che per l'art. 28 della legge del 1941, n. 366, non rientrano nel servizio di privativa. Le tariffe sarebbero stabilite con assoluta discrezionalità.
La difesa della Società rileva, inoltre, che i previsti controlli, che sono attribuiti soltanto ad organi della pubblica Amministrazione, non hanno efficacia di limite alla discrezionalità dell'ente impositore. Osserva altresì che, mentre la generalità dei Comuni applica una aliquota inversamente proporzionale alla superficie degli stabilimenti industriali e una tassa inferiore o al massimo uguale a quella che viene applicata per le case di abitazione, il Comune di Bologna impone agli opifici una tassa la cui aliquota é pressoché doppia di quella vigente per le case di lusso. E produce un'ampia tabella, nella quale sono indicate le aliquote per i locali di abitazione o per gli opifici in dieci Comuni della Repubblica, per mostrare il grande divario che sussiste in Italia nell'applicazione della tassa. Rilevato infine che lo stesso Governo, rendendosi conto della deficienza della legislazione in materia, ha predisposto un progetto di legge inteso a dettare precisi limiti al potere impositivo dei Comuni, la difesa della Società conclude che nell'attesa che tale progetto divenga legge, venga salvaguardata la proprietà individuale, e che, quindi, la Corte costituzionale dichiari la illegittimità costituzionale degli artt. 268, 269 e 270 del T.U. leggi sulla finanza locale, modificati dall'art. 27 della legge 20 marzo 1941, n. 366, in relazione all'art. 23 della Costituzione.
Il Comune di Bologna, nelle sue deduzioni depositate in data 20 luglio 1959, nega che i citati artt. 268, 269 e 270 del T.U. sulla finanza locale, siano in contrasto con l'art. 23 della Costituzione, e sostiene che le disposizioni impugnate contengono quei criteri e quei limiti, che la Corte costituzionale, con le sentenze n. 4 del 16 gennaio 1957, e n. 30 del 23 gennaio 1957, ha dichiarato necessari ai sensi dell'art. 23 della Costituzione. Rileva che la legge che conferisce il potere di imporre una prestazione non deve necessariamente contenere il limite massimo della prestazione imponibile, essendo sufficiente che la determinazione del tributo sia soggetta a limiti e controlli idonei a garantire i soggetti obbligati.
Contro l'obiezione che tali controlli, per essere di competenza del potere esecutivo, non garantirebbero il privato dagli eccessi dell'ente impositore, che fa parte dello stesso potere, il Comune di Bologna osserva che la natura pubblica dell'ente stesso di per sé assicurerebbe la garanzia del cittadino contro imposizioni arbitrarie e tariffe sproporzionate all'effettiva entità dei servizi forniti.
La difesa del Comune, poi, si sofferma sul carattere locale del tributo in questione per sottolineare l'esigenza di un'elasticità dell'imposizione, sia per quanto riguarda la diversa importanza e le diverse disponibilità degli enti impositori, sia con riferimento al tipo di prestazione contemplata dal singolo tributo. In materia di finanza locale questa elasticità é presente in vario modo in tutti quei tributi dei quali il legislatore ha rimesso ai Comuni la determinazione delle tariffe. Vieppiù necessaria sarebbe l'elasticità quanto alla tassa per la raccolta dei rifiuti, attesa la natura specifica di "servizio" della prestazione data dal Comune al cittadino.
Per il Presidente del Consiglio dei Ministri l'Avvocatura dello Stato, nelle deduzioni a stampa presentate in data 1 agosto 1959, sostiene la infondatezza della proposta questione di legittimità costituzionale, richiamandosi al principio stabilito dalla Corte costituzionale, secondo cui non occorre, ai sensi dell'art. 23 della Costituzione, che la legge con la quale si conferisce il potere di imporre una prestazione, contenga l'indicazione del limite massimo di essa, purché indichi i criteri idonei a delimitare la discrezionalità dell'ente impositore, in modo da impedire l'arbitrio dell'ente stesso nella determinazione della prestazione. Osserva, quindi, che l'art. 270 del T.U. delle leggi della finanza locale contiene l'indicazione di quegli elementi, che, valutati nel loro complesso, costituiscono limiti e garanzie sufficienti per escludere la violazione dell'art. 23 della Costituzione.
L'Avvocatura generale dello Stato rileva infine che, ove il Comune di Bologna non avesse osservato i precetti del regolamento che ha emanato per la tassa di raccolta dei rifiuti, la questione - costituendo giudizio di merito - esulerebbe in modo assoluto dalla competenza della Corte costituzionale.
Nei termini di rito le parti hanno depositato in cancelleria memorie illustrative.
Nella memoria del 20 maggio 1960, la difesa della "Società italiana per l'industria degli zuccheri", richiamata la distinzione delle pubbliche entrate in imposte e tasse, rileva che il T.U. per la finanza locale 14 settembre 1931, n. 1175, parla di proventi di servizi municipalizzati e di tariffe e di un corrispettivo per il servizio di ritiro e trasporto delle immondizie, mentre la legge 20 marzo 1941, n. 366, ha mutato sistema continuando a parlare di tassa, malgrado che non vi sia più l'esonero per chi non si serva del servizio. Dal che deduce che vi sarebbe una prima e fondamentale illegittimità nell'imposizione di una tassa che talvolta é e tal altra non é corrispettivo di servizio, e che non si può giustificare come imposta non avendo alcun rapporto con la capacità contributiva, né con un indice qualsiasi di questa.
Ribadendo quanto aveva esposto nelle precedenti deduzioni, sostiene, in relazione all'art. 23 della Costituzione, che il criterio legislativo della commisurazione della tassa alla superficie non dà alcun affidamento, potendo a parità di superficie esservi diversità di cubatura, ma sopratutto potendo esservi gli usi più diversi, usi poveri ed usi ricchi. Aggiunge che l'altro criterio, stabilito dalla norma impugnata, di un sistema di controlli attraverso un iter di uffici amministrativi per l'applicazione del tributo, non fornisce le garanzie richieste dall'art. 23 della Costituzione, per l'attuazione del quale occorrerebbe, invece, fissare criteri obiettivi, in particolare un massimo, di solito segnato da un massimo di percentuale. Rileva ancora che dalla diversità di applicazione della tassa nei vari Comuni d'Italia può dedursi come la stessa eguaglianza dei cittadini di fronte a questo tributo resti fortemente incrinata
Infine, la "Società italiana per l'industria degli zuccheri" richiama la sentenza n. 36 del 1959 di questa Corte, affermando che essa vale nel suo caso come un a fortiori, in quanto ci si trova di fronte ad un'imposizione cui nessuno può sottrarsi anche se non richieda e non abbia il servizio. E conclude chiedendo che la Corte voglia ritenere l'illegittimità costituzionale delle disposizioni in esame.
Nella memoria depositata il 26 maggio 1960 l'Avvocatura generale dello Stato osserva che é, anzitutto, utile rilevare la qualificazione giuridica della prestazione patrimoniale prevista dagli artt. 268, 269 e 270 del T.U. per la finanza locale. A tale fine ricorda: che l'attuale tassa per la raccolta ed il trasporto dei rifiuti solidi urbani interni trae la sua origine dal R. D. 27 dicembre 1923, n. 2962, il quale autorizza i Comuni a riscuotere dei corrispettivi a rimborso della spesa effettivamente sostenuta per detto servizio, che il T.U. per la finanza locale del 1931 confermò tale impostazione; e che, infine, la legge n. 366 del 1941 ha sostituito al corrispettivo la tassa in argomento. Sotto il regime della nuova legge il servizio di raccolta trasporto e smaltimento dei rifiuti solidi urbani viene svolto dai Comuni con diritto di privativa, sicché trattasi di uno dei vari servizi che gli enti pubblici disimpegnano per il soddisfacimento di pubblici bisogni, verso corrispettivo da parte di coloro che ne traggano profitto e comunque ne risentano beneficio. E nota che, in sede di istruzioni relative alla predetta legge n. 366 emanate dal Ministero dell'interno (circ. 2 gennaio 1942, n. 906 2/A/224), le tariffe della tassa in oggetto devono sempre essere fissate in misura non superiore all'ammontare delle spese del relativo servizio. L'Avvocatura dello Stato, ritenendo che l'imposizione di che trattasi rappresenta in definitiva il compenso per la prestazione di un pubblico servizio, prospetta il dubbio se le disposizioni impugnate possano considerarsi rientranti nell'ambito proprio dell'art. 23 della Costituzione.
A conforto di tale tesi richiama la sentenza n. 36 del 1959, pronunziata dalla Corte costituzionale nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 2 del D.L.C.P.S. 8 novembre 1947, n. 1417.
Passando ad esaminare l'ipotesi che l'espressione "prestazione patrimoniale imposta", di cui nell'art. 23 della Costituzione, venga intesa nel senso più ampio, sì da comprendervi qualsiasi tipo di prestazione, l'Avvocatura generale dello Stato sostiene che, anche in tal caso, gli artt. 268, 269 e 270 in questione non sono in contrasto con l'art. 23 della Costituzione per il solo fatto che non contengono la indicazione di un limite massimo, non superabile, del quantum del tributo. E mette in rilievo che le disposizioni di legge in esame contengono criteri sufficienti a delimitare la discrezionalità dell'ente impositore, sia per la materia oggetto dell'imposizione, sia per i soggetti passivi di essa, sia per la commisurazione del tributo alla superficie dei locali serviti ed all'uso cui essi sono destinati, sia per il sistema di controlli cui é sottoposto l'ente impositore, e sia, in definitiva, per lo stesso ammontare complessivo del tributo, che non può superare il costo del servizio.
E infine, per confutare l'assunto della Soc. it. per l'industria degli zuccheri - secondo cui il suo stabilimento non avrebbe mai usufruito del servizio comunale di raccolta dei rifiuti -, l'Avvocatura dello Stato osserva che il carattere di corrispettività di servizio reso al singolo, che distingue la tassa dalla imposta, non viene dalla legge sempre rapportato ad una effettiva e materiale prestazione del servizio stesso. In molti casi la legge impone la tassa in relazione ad uno stato di fatto, che fa presumere l'utenza; così la legge 20 marzo 1941, n. 366, che, abolendo ogni esenzione, ha sostituito al principio dell'utenza effettiva la semplice potenzialità dell'utenza.
Pertanto, l'Avvocatura conclude affermando che la sollevata questione di legittimità costituzionale degli artt. 268, 269 e 270 del T.U. delle leggi sulla finanza locale é manifestamente infondata.
Nella memoria illustrativa depositata il 26 maggio u. s., il Comune di Bologna si riporta integralmente alle precedenti deduzioni, e sostiene, alla stregua delle sentenze nn. 4, 30 e 47 del 1957 della Corte costituzionale, che gli artt. 268, 269 e 270 del T.U. della finanza locale sono compatibili con l'art. 23 della Costituzione. Osserva che nella sentenza n. 36 del 1959, cui la Soc. it. zuccheri si richiama, trova, invece, conforto l'assunto del Comune, giacché essa afferma il principio che non occorre che la legge contenga l'indicazione del limite massimo della prestazione da imporre.
Il Comune di Bologna ribadisce, poi, l'assunto secondo cui le norme impugnate indicano in maniera completa ed efficiente i criteri e le direttive per l'applicazione e la commisurazione della tassa in discorso, facendo riferimento ai due elementi (superficie dei locali e loro uso) che in linea di principio é possibile predeterminare. Nessuna altra precisazione il legislatore avrebbe potuto stabilire in presenza di un servizio che può assumere, da Comune a Comune, le forme ed i mezzi più svariati e, quindi, implicare costi assai diversi. Il Comune rileva, inoltre, che il previsto sistema di controlli, di cui quello della G. P. A. incide sul merito, esclude che l'ente impositore possa usare di poteri discrezionali sino a sconfinare nell'arbitrio. Riferendosi alle deduzioni della Società nella parte in cui si censurano, in concreto e in dettaglio, le modalità di applicazione della tassa in discorso, il Comune sostiene che riguarderebbero esclusivamente il merito della controversia e non potrebbero spiegare alcuna influenza sulla presente questione di legittimità costituzionale. Insiste, pertanto, colle conclusioni già indicate nelle deduzioni del 20 luglio 1959.
Considerato in diritto
La Corte ritiene che l'imposizione prevista dalle norme degli artt. 268, 269 e 270 del T.U. delle leggi per la finanza locale approvato con R. D. 14 settembre 1931, n. 1175, modificate dall'art. 27 della legge 20 marzo 1941, n. 366, non ha natura di corrispettivo di un servizio individuale per la raccolta ed il tra sporto dei rifiuti solidi urbani interni, bensì riveste il carattere di prelevamento coattivo che i Comuni possono operare in base a tariffa in rapporto al costo complessivo del servizio.
Questo carattere della imposizione rende ancora più evidente che la disciplina di essa rientra nel disposto dell'art. 23 della Costituzione, per cui non può essere imposta se non in base alla legge.
La Corte si é occupata in varie occasioni del significato e della portata del suddetto art. 23 ed ha stabilito (sentenze nn. 4, 30 e 47 del 1957 e n. 36 del 1959) che il precetto costituzionale deve ritenersi rispettato quando la legge che prevede l'imposizione pur non fissandone il massimo, determini criteri, condizioni limiti e controlli idonei a contenere la discrezionalità dell'ente impositore nell'esercizio del potere attribuitogli e ad evitare così che essa possa trasmodare in arbitrio. Onde é che la determinazione dei presupposti del rapporto tributario e la delimitazione del suo contenuto devono desumersi di volta in volta dalla concreta regolamentazione fatta dalla legge che prevede l'imposizione.
Per risolvere la questione di legittimità costituzionale degli articoli sopracitati si devono, quindi, esaminare le singole disposizioni collegandole nel sistema voluto dal legislatore.
Il servizio pubblico gestito dai Comuni é disciplinato dalla legge nel titolo V che ha per rubrica "Tassa per la raccolta ed il trasporto dei rifiuti solidi urbani interni".
L'art. 268 determina l'oggetto, "fabbricati a qualunque uso adibiti". L'art. 269 vieppiù precisa l'oggetto ed indica, altresì, i soggetti passivi, disponendo nel comma primo che la tassa é dovuta da chiunque occupi oppure conduca locali a qualsiasi uso adibiti, esistenti nel territorio comunale in cui il servizio di raccolta e trasporto é istituito secondo le norme di legge vigenti in materia. L'art. 270, primo comma, detta inoltre criteri obiettivi per la misura dell'imposizione, stabilendo che "la tassa é commisurata alla superficie dei locali serviti ed all'uso cui i medesimi vengono destinati".
Nei successivi commi l'art. 270 dispone che per l'applicazione della tassa i Comuni sono tenuti ad adottare appositi regolamenti, i quali debbono essere sottoposti all'approvazione della Giunta provinciale amministrativa e poi all'omologazione del Ministero delle finanze, previo parere del Ministero dell'interno, e prevede altresì che le tariffe stabilite in applicazione dei regolamenti debitamente omologati devono riportare l'approvazione della Giunta provinciale amministrativa ed essere comunicati al Ministro delle finanze ai sensi dell'art. 273.
Nell'ordinanza del Tribunale che ha proposto la questione di legittimità costituzionale delle norme dei succitati artt. 268, 269 e 270, ed ampiamente nelle difese della "Società italiana per l'industria degli zuccheri" si assume che tali norme non contengano i requisiti necessari al fine di delimitare la discrezionalità del potere dell'ente impositore, perché manca l'indicazione dell'aliquota massima dell'imposizione, perché gli elementi, indicati nell'art. 270, della superficie e dell'uso dei locali non bastano a contenere la misura della tassa entro limiti ben definiti, e perché i controlli affidati ad organi della pubblica Amministrazione non hanno efficacia di limite all'esercizio del potere discrezionale attribuito dalla legge ai Comuni.
La Corte ritiene, invece, che il sistema di imposizione in questione riguardato nel suo insieme soddisfa ai requisiti indispensabili per evitare l'arbitrio dei Comuni nella determinazione della tassa.
Occorre soffermarsi sulla esistenza di tali requisiti nelle norme in questione.
A differenza di quanto sostengono la difesa del Comune di Bologna e l'Avvocatura generale dello Stato, che individuano nella superficie e nell'uso dei locali, a mente del primo comma dell'articolo 270, i criteri necessari e sufficienti per una circoscritta commisurazione del tributo, - nell'ordinanza del Tribunale di Bologna e nelle difese della "Società italiana per l'industria degli zuccheri" si sostiene che il richiamo fatto dall'art. 270 alla superficie ed all'uso dei locali non dà affatto i criteri idonei a contenere la misura della tassa entro limiti ben definiti, e che, quindi, i Comuni resterebbero arbitri nella determinazione del quantum del tributo.
Ed in effetti potrebbe dubitarsi della idoneità di siffatte indicazioni per concretare i criteri e i limiti che la legge deve avere per non essere in contrasto con la norma dell'art. 23 della Costituzione.
Senonché, nella fattispecie in esame, la Corte ritiene che ai suindicati elementi della superficie e dell'uso, di cui all'art. 270, se ne aggiunge un altro di grande importanza che si trae dalla interpretazione dell'art. 268, nel senso che l'imposizione deve ragguagliarsi anche alla spesa effettiva che l'ente impositore sostiene per l'espletamento del servizio.
Vero é che nel nuovo testo (del 1941) dell'art. 268 non é stato riprodotto il secondo comma del vecchio testo (del 1931) dello stesso articolo, in cui espressamente si limitava il gettito totale del tributo alla spesa effettiva sostenuta dal Comune per il servizio in questione; ma é altrettanto vero che nella sostanza lo stesso criterio limite é rimasto nel nuovo testo dell'art. 268, che consta di un solo comma del seguente tenore: "Per i servizi relativi alla raccolta ed al trasporto delle immondizie ed in genere degli ordinari rifiuti dei fabbricati a qualunque uso adibiti (rifiuti urbani interni) i Comuni possono istituire apposita tassa annuale in base a tariffa".
Ora, dal fatto che l'art. 268 dispone che "per i servizi" i Comuni possono istituire "apposita tassa", si può ben desumere che il legislatore abbia in sostanza lasciato inalterato il sistema di commisurazione del tributo alla spesa sostenuta dal Comune.
Al lume di questa interpretazione dell'art. 268, il sistema dell'imposizione soddisfa a quel principio della determinazione dei criteri e limiti che la legge d'imposizione deve contenere per evitare l'arbitrio dell'ente impositore, e non é, quindi, in contrasto con l'art. 23 della Costituzione; mentre contrasterebbe con esso se la norma suddetta venisse interpretata in senso diverso, cioè nel senso che non prescriva alcuna corrispondenza tra tributo e spesa del servizio.
L'interpretazione suesposta dell'attuale art. 268 trova riscontro nella circolare del Ministero dell'interno del 2 gennaio 1942, n. 906.22/A 244 (richiamata dall'Avvocatura generale dello Stato), la quale dispone che le tariffe debbono essere commisurate alla spesa, arrivando così a stabilire quale può essere in definitiva il massimo dell'imposizione.
La discrezionalità dei Comuni nell'imporre la tassa in questione (che non può essere eguale in tutti i Comuni data la diversità della popolazione e delle complesse situazioni locali) é dunque contenuta in sufficienti limiti obiettivi, cui essi Comuni debbono attenersi e nell'adottare gli appositi regolamenti, che, ai sensi del comma terzo dell'art. 270, debbono essere sottoposti all'approvazione della Giunta provinciale amministrativa ed alla successiva omologazione da parte del Ministero delle finanze, sentito il Ministero dell'interno, e nello stabilire, in applicazione dei regolamenti debitamente omologati, le tariffe, che a loro volta debbono riportare, in base al disposto dell'ultimo comma dello stesso art. 270, l'approvazione della Giunta provinciale amministrativa ed essere comunicate al Ministero delle finanze ai sensi del successivo art. 273.
Si tratta di un sistema di controlli tale da escludere che la discrezionalità dell'ente impositore possa trasmodare in arbitrio.
Pertanto, deve ritenersi che le norme degli artt. 268, 269 e 270 non contrastano con l'art. 23 della Costituzione.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione proposta con l'ordinanza del Tribunale di Bologna in data 26 giugno 1959, sulla legittimità costituzionale degli artt. 268, 269 e 270 del T.U. delle leggi sulla finanza locale, modificati dall'art. 27 della legge 20 marzo 1941, n. 366, in riferimento all'art. 23 della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 giugno 1960.
Gaetano AZZARITI - Giuseppe CAPPI - Tomaso PERASSI - Gaspare AMBROSINI - Mario COSATTI - Francesco PANTALEO GABRIELI - Giuseppe CASTELLI AVOLIO - Antonino PAPALDO - Giovanni CASSANDRO - Biagio PETROCELLI - Antonio MANCA - Aldo SANDULLI - Giuseppe BRANCA.
Depositata in Cancelleria il 6 luglio 1960.