Sentenza n. 68 del 1983

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SENTENZA N. 68

ANNO 1983

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

Prof. Leopoldo ELIA, Presidente

Dott. Michele ROSSANO

Prof. Antonino DE STEFANO

Prof. Guglielmo ROEHRSSEN

Avv. Oronzo REALE

Dott. Brunetto BUCCIARELLI DUCCI

Prof. Livio PALADIN

          Dott. Arnaldo MACCARONE

          Prof. Antonio LA PERGOLA

Prof. Virgilio ANDRIOLI

Prof. Giuseppe FERRARI

Dott. Francesco SAJA

Prof. Giovanni CONSO

Prof. Ettore GALLO,

          ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 12 della legge 3 agosto 1978, n. 405 (Delega al Presidente della Repubblica per la concessione di amnistia e di indulto e disposizioni sull'azione civile in seguito ad amnistia), promossi con ordinanze emesse il 6 giugno 1979 e il 24 giugno 1981 dalla Corte di Cassazione sui ricorsi proposti da Serafini Danilo e da Galiberti Gustavo, rispettivamente iscritte al n. 221 del registro ordinanze 1980 e al n. 164 del reg. ord. 1982 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 145 del 1980 e n. 227 del 1982.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica dell'8 febbraio 1983 il Giudice relatore Giovanni Conso;

udito l'avvocato dello Stato Carlo Salimei, per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

La Corte di cassazione, con ordinanza del 6 giugno 1979 emessa, su eccezione del Procuratore Generale, nel procedimento a carico di Serafini Danilo, condannato con sentenza del Pretore di Roma, confermata dal Tribunale in sede di gravame, per il delitto di omicidio colposo alla pena di lire 200.000 di multa ed al risarcimento dei danni a favore della parte lesa costituitasi parte civile, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 12 legge 3 agosto 1978, n. 405, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, "nella parte in cui la disposizione impugnata limita al solo caso di estinzione del reato per amnistia l'obbligo del giudice della impugnazione di decidere sull'impugnazione stessa ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili".

Premesso che nelle more del giudizio a quo era maturato il termine previsto dagli artt. 157 n. 4 e 160, ultimo comma, c.p. per la prescrizione del reato e che l'imputato aveva dichiarato di rinunciare all'amnistia di cui al d.P.R. n. 413 del 1978, la Corte ha rilevato che la ratio della disposizione denunciata, la quale, modificando l'art. 23 c.p.p., impone al giudice dell'impugnazione, che dichiari estinto il reato per amnistia, di decidere egualmente sulla impugnazione stessa ai soli effetti delle disposizioni civili, ricorre anche - pur tenendo conto delle peculiari caratteristiche di ogni singola causa di estinzione del reato - nell'ipotesi in cui l'estinzione stessa venga dichiarata per prescrizione, identiche essendo (come affermato dalla stessa relazione ministeriale) le esigenze che sottostanno ad una tale disciplina: quella di evitare che il provvedimento di clemenza si risolva in un pregiudizio per il danneggiato (che si vedrebbe costretto ad iniziare un nuovo processo davanti al giudice civile) e quella di realizzare l'economia processuale.

L'ordinanza, ritualmente comunicata e notificata, é stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 145 del 28 maggio 1980.

É intervenuta la Presidenza del Consiglio dei ministri, rappresentata e difesa dall'Avvocatura Generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.

Deduce l 'Avvocatura che questa Corte ha costantemente ritenuto che "il contrasto con il principio d'eguaglianza é rilevabile dal giudice della legittimità costituzionale, cui é precluso ogni apprezzamento di merito, solo quando la disparità di trattamento risultante dal confronto tra le discipline adottate dal legislatore in ordine a più fattispecie relativamente omogenee, sia tale da non trovare alcun ragionevole fondamento nella diversità delle situazioni alle quali ognuna di esse ha inteso provvedere" (si cita la sentenza n. 22 del 9 marzo 1967). "Nel caso che ne occupa, la disparità di trattamento, se non voglia essere riferita ad un lapsus che non si é autorizzati, in alcun modo, ad ammettere, sembra trovare riscontro" - conclude l'Avvocatura - "nella necessità che la soluzione dei problemi non agevoli, che l'accertamento della prescrizione estintiva del diritto al risarcimento dei danni spesso comporta, sia riservata al Giudice civile e non affidata al Giudice penale, dell'altro meno uso alla soluzione di detti problemi".

Questione sostanzialmente identica la Corte di cassazione ha sollevato, sempre su eccezione del Procuratore Generale, il 24 giugno 1982, nel procedimento promosso da Galiberti Gustavo, all'atto di dichiarare l'estinzione del reato di omicidio colposo contestato all'imputato per prescrizione intervenuta antecedentemente alla decisione di secondo grado che aveva condannato il ricorrente alla pena di anni due di reclusione.

L'ordinanza, ritualmente comunicata e notificata, é stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 227 del 18 agosto 1982.

In quest'ultimo giudizio non vi é stato intervento dell'Avvocatura Generale dello Stato, né si é costituita la parte privata.

Considerato in diritto

1. - Le due ordinanze della Corte di cassazione sollevano una questione di legittimità costituzionale sostanzialmente identica: i relativi giudizi vanno, pertanto, riuniti per essere decisi con un'unica sentenza.

2. - La questione, prospettata con riferimento all'art. 3 della Costituzione, ha per oggetto l'art. 12 legge 3 agosto 1978, n. 405, "nella parte in cui limita al solo caso di estinzione del reato per amnistia l'obbligo del giudice dell'impugnazione di decidere sull'impugnazione stessa ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili" (così puntualizza il dispositivo della prima delle due ordinanze) o, come maggiormente specifica il dispositivo della seconda ordinanza, "nella parte in cui non prevede altre cause di estinzione del reato, all'infuori dell'amnistia, per potere decidere sull'impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili".

Peraltro, dalla motivazione delle due ordinanze, là dove esse danno conto del requisito rappresentato dalla rilevanza della questione dedotta, emerge in modo indiscutibile che questa si impernia sulla mancata estensione del particolare trattamento introdotto per l'amnistia dalla legge n. 405 del 1978 aquell'altra causa di estinzione del reato che la Corte di cassazione riscontra operante in entrambi i procedimenti, cioè la prescrizione del reato.

Ed infatti, ad avviso del giudice a quo, il principio di eguaglianza parrebbe "vulnerato" in quanto le stesse esigenze, che hanno indotto il legislatore ad emanare in ordine all'"ipotesi di dichiarata amnistia" la disposizione qui censurata, "ricorrono evidentemente anche nell'ipotesi in cui l'estinzione del reato venga dichiarata per prescrizione".

3. - La questione, così come prospettata con riferimento al parametro costituzionale di cui all'art. 3, non é fondata.

Nessun dubbio che le esigenze sottostanti all'emanazione dell'art. 12 della legge n. 405 del 1978 sono quelle indicate dalla Corte di cassazione: "evitare che il provvedimento di clemenza si risolva in un pregiudizio per il danneggiato (che si vedrebbe costretto ad iniziare un nuovo procedimento davanti al giudice civile)" e "realizzare l'economia processuale". A tali esigenze si é, del resto, espressamente richiamata anche questa Corte, allorché (sent. n. 186 del 1980) ha ritenuto non fondate altre questioni di legittimità aventi ad oggetto lo stesso art. 12, e, più precisamente, i suoi commi primo e terzo, considerati nella loro globalità.

Nessun dubbio, del pari, che l'esigenza di "evitare" che la declaratoria di estinzione del reato si risolva in un pregiudizio per il danneggiato e così pure l'esigenza di "realizzare" l'economia processuale ben meritano di essere considerate e tutelate non solo quando l'estinzione del reato sia determinata dall'amnistia, ma anche quando a determinarla sia la prescrizione. Queste esigenze il legislatore ordinario deve tenere presenti nell'operare le scelte di sua competenza, ma ciò non significa che sia senz'altro in contrasto con l'art. 3 Cost. una disposizione preordinata a meglio soddisfare le esigenze in parola con riguardo ad una causa di estinzione del reato, quale l'amnistia, e non anche con riguardo ad un'altra causa di estinzione del reato, quale la prescrizione.

Poiché soltanto una palese irrazionalità é in grado di rendere costituzionalmente illegittima la previsione di un trattamento differenziato tra due istituti giuridici aventi natura affine, non basta certo il richiamo ad esigenze comuni per trarne il corollario che ogni differenza di regolamentazione incidente sul perseguimento di tali esigenze si risolva in una violazione dell'art. 3 Cost.

Viceversa, le ordinanze di rimessione, pur riconoscendo che ogni causa di estinzione del reato ha "peculiari caratteristiche", affermano perentoriamente che "non esistono elementi obiettivi che possano razionalmente giustificare la differenza di trattamento fra le due situazioni considerate", appunto l'amnistia e la prescrizione.

Ma proprio questo - delle "peculiari caratteristiche" e della "specifica differenza di trattamento" in esame - era (ed é) l'aspetto da affrontare in maniera approfondita, tanto più che nella precedente giurisprudenza della medesima Corte di cassazione non erano mancate le decisioni orientate nel senso della manifesta infondatezza di questa stessa questione, ponendo a base della relativa motivazione la "sostanziale diversità degli istituti giuridici relativi alle varie cause di estinzione del reato".

4. - Per dimostrare l'esistenza di un contrasto con l'art. 3 Cost., le due ordinanze di rimessione adducono, tutto sommato, un solo argomento, per giunta indirettamente ricavato, costituito com'è dal puro e semplice riferimento ad un precedente di questa Corte (sent. n. 22 del 1967).

Ma, anche a non rilevare che tale precedente viene invocato dall'Avvocatura dello Stato a sostegno della tesi della non fondatezza (invero, non si comprende come esso sia utilizzabile in siffatta direzione), non si possono sottovalutare le particolarità che contraddistinguono le norme in quell'occasione dichiarate illegittime (art. 4, quinto comma, r. d. 17 agosto 1935, n. 1765; art. 10, quinto comma, d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124) nella parte in cui non menzionavano l'ipotesi di prescrizione del reato a fianco delle ipotesi di amnistia e di morte dell'imputato.

Diversamente dalla fattispecie ora in causa, là erano in discussione i poteri di cognizione del giudice civile dopo l'esaurirsi della giurisdizione penale, con specifico riguardo ad un limite che, se conservato, avrebbe comportato secondo il giudice a quo un pregiudizio definitivo, irreparabile, per il danneggiato, non potendo ormai questi in nessuna sede far valere il proprio diritto al risarcimento del danno non patrimoniale. Né va dimenticato che, nel motivare la ricordata sentenza, questa Corte aveva premesso che "l'anomalia potrebbe venire superata anche in via di interpretazione sistematica, dato che questa conduce a far ritenere estensibile alla prescrizione la norma stabilita per la morte o per l'amnistia", optando poi in favore della soluzione dell'accoglimento soltanto "per meglio assicurare la certezza del diritto". Con il che si dava implicito riconoscimento alla possibile operatività, per via di interpretazione sistematica, di un principio generale, valevole anche per la prescrizione del reato.

Nulla di tutto questo é riscontrabile nei confronti dell'art. 12 della legge n. 405 del 1978: ad essere in discussione sono i poteri di cognizione del giudice penale, indipendentemente dall'esaurirsi o no della giurisdizione civile (anzi, si dà per scontato che l'azione civile sia tuttora esercitabile), con la conseguenza che la mancata inclusione della prescrizione del reato accanto all'amnistia non comporta di per sé un pregiudizio definitivo ed irreparabile per il danneggiato (ciò accadrebbe unicamente qualora in concreto la prescrizione dell'illecito civile coincidesse con la prescrizione del reato, o addirittura la precedesse, ma in tali casi non vi sarebbe spazio in linea di fatto né per un'ulteriore cognizione del giudice civile né per un'ulteriore cognizione del giudice penale), traducendosi, invece, in un allungamento dei tempi e delle procedure necessarie a far riconoscere, se ancora possibile, il diritto al risarcimento del danno.

Inoltre l'art. 12 della legge n. 405 del 1978, dettato con chiaro, esplicito, riferimento alla sola amnistia (l'ipotesi di un lapsus ventilata dall'Avvocatura dello Stato non é in alcun modo condivisibile), preclude ogni possibilità di interpretazione estensiva in grado di ricomprendere anche la prescrizione del reato, non potendosi neppure ovviare al silenzio legislativo attraverso l'interpretazione sistematica. Il principio base che regola i rapporti tra azione civile ed azione penale condiziona tuttora la possibilità che il giudice penale si pronunzi sull'azione civile all'eventualità di una sentenza di condanna (art. 23 codice di procedura penale), salvi soltanto i casi espressamente eccettuati dalla legge o in seguito a declaratoria di illegittimità da parte di questa Corte (sent. n. 1 del 1970 e n. 29 del 1972, che hanno entrambe riconosciuto la fondatezza di questioni prospettate in relazione all'art. 111, secondo comma, Cost. , dopo aver escluso, nella prima delle due vicende, una lesione dei parametri di cui agli artt. 3 e 24, l'ultimo dei quali, peraltro, invocato dal giudice a quo soltanto con riferimento al secondo comma). L'art. 12 della legge n. 405 del 1978, presentandosi, dunque, come norma derogatoria, si distacca così sensibilmente, anche per natura, oltreché per contenuti, dagli artt. 4, quinto comma, r. d. 17 agosto 1935, n. 1765, e 10, quinto comma, d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, oggetto entrambi della pronuncia di illegittimità invocata come precedente dalle ordinanze di rimessione, da non consentirne una utilizzazione diretta. Ne risulta, anzi, rafforzata la necessità di verificare se la scelta operata dal legislatore del 1978 nell'introdurre una deroga per l'ipotesi di amnistia e non anche per l'ipotesi di prescrizione del reato sia inficiata o no da palese irragionevolezza e conseguente arbitrarietà (cfr. sent. n. 162 del 1981, n. 263 del 1976 e n. 117 del 1975; nonché, più specificamente, quanto ai rapporti tra disciplina generale e norme derogatorie nell'ambito dei giudizi di costituzionalità impostati sull'art. 3 Cost., sent. n. 2 del 1982 e n. 71 del 1979).

5. - Altro, e meno remoto, é il precedente cui occorre risalire allorché si tratta di porre a raffronto amnistia e prescrizione del reato. É stato, infatti, con la sentenza n. 202 del 1971, che questa Corte, intervenendo a brevissima distanza di tempo dalla sentenza (n. 175 del 1971) in cui era stata dichiarata illegittima la normativa sull'amnistia là dove privava l'imputato del diritto ad ottenere una pronuncia nel merito di fronte al sopravvenire di tale causa d'estinzione del reato, ha messo in evidenza le fondamentali ragioni che differenziano la prescrizione dall'amnistia, così da giustificare - in ordine all'analogo dubbio di legittimità derivante dalla mancata previsione per l'imputato del diritto ad ottenere una sentenza nel merito di fronte al verificarsi della prescrizione - una soluzione di non fondatezza, opposta, quindi, a quella adottata per l'amnistia.

Nella prescrizione, ha osservato la Corte, l'effetto estintivo si fa "discendere non già, come nel caso dell'amnistia, da statuizioni di volta in volta emesse dal legislatore, sotto l'influsso di considerazioni politiche, ma da un evento come il decorso del termine, sottratto ad ogni discrezionalità". Un meccanismo predeterminato che - si legge nella prima parte della stessa sentenza - rende spiegabile il sacrificio dell'interesse del prevenuto ad ottenere una sentenza di assoluzione nel merito, in quanto "tale interesse nel caso di prescrizione non può non cedere di fronte all'interesse generale di non più perseguire i reati rispetto ai quali il lungo tempo decorso dopo la loro commissione abbia fatto venire meno, o notevolmente attenuato, insieme al loro ricordo, anche l'allarme della coscienza comune, ed altresì reso difficile, a volte, l'acquisizione del materiale probatorio".

La circostanza che tali affermazioni siano state formulate con riguardo ad una questione che concerneva in particolare l'art. 24, secondo comma, Cost., visto, per di più, sotto la prospettiva dei diritti dell'imputato, non incide sulla portata generale degli argomenti dianzi richiamati, soprattutto là dove ne viene evidenziata una netta contrapposizione tra la prescrizione, fatto giuridico dagli effetti automatici, e l'amnistia, provvedimento di clemenza, come tale imprevedibile e concedibile in qualsiasi momento. Dai lavori preparatori di quella che sarebbe diventata la legge n. 405 del 1978 si ricava chiaramente (v. già sent. n. 186 del 1980 di questa Corte, ricordata all'inizio) che l'attuale art. 12 é nato dall'intento di "conciliare" l'ennesima amnistia, che ci si accingeva a concedere per una scelta politica fortemente criticata in linea di principio, con la tutela delle persone danneggiate dal reato, tanto più doverosa stante la clemenza usata nei confronti dell'imputato, ad evitare che questi abbia a trarne beneficio sotto il profilo civilistico, oltreché sotto il profilo penalistico, deludendo inopinatamente le aspettative anche più fondate.

6. - Incardinato sulle differenze di ordine socio - politico dianzi ricordate, il duplice intervento espressosi nelle sentenze n. 175 e n. 202 del 1971 si é tradotto in quella che può dirsi la più significativa differenza fra queste due cause di estinzione del reato sul piano della regolamentazione giuridica vigente: l'amnistia é sempre rinunciabile dall'imputato, mentre la prescrizione non é mai suscettibile di rifiuto, rientrando nella sfera di disponibilità dell'imputato soltanto quelle poche fra le cause di sospensione e di interruzione della prescrizione sulle quali il suo comportamento processuale può incidere più o meno direttamente.

Ma una seconda differenza tra amnistia e prescrizione, a parte altre minori e comunque qui non rilevanti (così si dica per tutta la tematica che contrappone all'amnistia propria l'amnistia impropria ed alla prescrizione del reato la prescrizione della pena), riveste ai presenti fini non trascurabile importanza, collegata com'è alle regole che disciplinano l'incidenza dell'amnistia e della prescrizione del reato sulla prescrizione del diritto al risarcimento del danno nascente da reato: il diritto, appunto, oggetto dell'accertamento che l'art. 12 della legge n. 405 del 1978 demanda al giudice dell'impugnazione penale per il caso di sopravvenuta amnistia e che, con il suo silenzio nei confronti delle altre cause di estinzione del reato, lascia al giudice civile per il caso di intervenuta prescrizione. Si tratta della differenza che emerge non appena si pongano fra loro a confronto la prima e la seconda parte del terzo comma dell'art. 2947 c.c.

A tale differenza, o meglio a quanto statuisce la prima parte del terzo comma dell'art. 2947 c.c. nei riguardi della prescrizione del reato, pare richiamarsi l'Avvocatura dello Stato nel già menzionato atto di costituzione per la Presidenza del Consiglio dei Ministri, allorché afferma che la disparità di trattamento lamentata dalle ordinanze di rimessione "sembra trovar riscontro nella necessità che la soluzione di problemi non agevoli, che l'accertamento della prescrizione del diritto al risarcimento del danno spesso comporta, sia riservata al Giudice civile e non affidata al Giudice penale, dell'altro meno uso alla soluzione di detti problemi". Ed invero, anche se la ricerca, qui ultronea, delle vere ragioni di simili scelte potrebbe non avallare la tesi della necessità di riservare al giudice civile l'accertamento della prescrizione del diritto al risarcimento del danno, evidenziando una scelta di semplice opportunità, si deve riconoscere che i diversi criteri adottati dall'art. 2947, terzo comma, c.c. per il computo della prescrizione del diritto al risarcimento del danno derivante da reato contribuiscono ad escludere la palese irrazionalità della differenza oggetto della questione in esame.

Mentre, infatti, alla stregua della seconda parte del comma predetto, il diritto al risarcimento del danno si prescrive nei cosiddetti termini brevi (cinque anni e, nel caso di danno prodotto dalla circolazione di veicoli, due anni) "se il reato é estinto per causa diversa dalla prescrizione... con decorrenza dalla data di estinzione del reato", senza che occorrano particolari verifiche al di là di quelle concernenti il danno da accertare, la prima parte dello stesso comma estende alla prescrizione del diritto al risarcimento del danno i periodi prescrizionali fissati dall'art. 157 c.p. ogni volta che la legge penale stabilisce una prescrizione più lunga delle prescrizioni brevi.

La situazione che ne consegue é ben lontana da quella correlata all'amnistia. Può accadere che l'azione di risarcimento si prescriva nello stesso termine del reato, così vanificando ogni ulteriore possibilità di accertamento in qualsiasi sede. Può accadere che il diritto al risarcimento del danno si estingua prima, vanificando a maggior ragione ogni ulteriore accertamento anche in sede penale. Può accadere, infine, che il diritto al risarcimento sopravviva al reato per il vario intrecciarsi delle sospensioni e delle interruzioni previste dagli artt. 159 - 160 c.p. e dagli artt. 2941 - 2945 c.c.: e tale indagine effettivamente abbisogna di un apposito vaglio.

Tutto ciò non esclude - é appena il caso di ripeterlo - che il legislatore ordinario possa adottare (su tale linea é, anzi, impostato il più recente progetto preliminare di un nuovo codice di procedura penale, predisposto nel 1978 dalla Commissione ministeriale all'uopo nominata) anche per l'ipotesi di prescrizione del reato una soluzione analoga a quella introdotta per l'ipotesi di amnistia, ma impedisce di ravvisare un contrasto con l'art. 3 Cost. nell'attuale non equiparazione delle due ipotesi.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 12 della legge 3 agosto 1978, n. 405, sollevata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dalla Corte di cassazione con le due ordinanze in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 marzo 1983.

Leopoldo ELIA - Michele ROSSANO -  Antonino DE STEFANO - Guglielmo ROEHRSSEN - Oronzo REALE – Brunetto BUCCIARELLI DUCCI - Livio PALADIN – Arnaldo MACCARONE -  Antonio LA PERGOLA - Virgilio ANDRIOLI - Giuseppe FERRARI - Francesco SAJA - Giovanni CONSO - Ettore GALLO.

Giovanni VITALE - Cancelliere

          Depositata in cancelleria il 19 marzo 1983.