Sentenza n.173 del 1981
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SENTENZA N. 173

ANNO 1981

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori giudici

Dott. Giulio GIONFRIDA, Presidente

Prof. Edoardo VOLTERRA

Dott. Michele ROSSANO

Prof. Antonino DE STEFANO

Prof. Leopoldo ELIA

Prof. Guglielmo ROEHRSSEN

Avv. Oronzo REALE

Dott. Brunetto BUCCIARELLI DUCCI

Avv. Alberto MALAGUGINI

Prof. Livio PALADIN

Dott. Arnaldo MACCARONE

Prof. Antonio LA PERGOLA

Prof. Giuseppe FERRARI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 25, comma quinto, del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616 (Attuazione della delega di cui all'art. 1 della legge 22 luglio 1975, n. 382) e dell'art. 1 della legge 17 luglio 1890, n. 6972 (Norme sulle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza), promossi con le seguenti ordinanze:

1) ordinanza emessa il 14 dicembre 1978 dal giudice istruttore del Tribunale di Milano sul ricorso proposto dalla Pia Fondazione Rhodense ed altra contro il Comune di Rho, iscritta al n. 200 del registro ordinanze 1979 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 119 del 2 maggio 1979;

2) due ordinanze emesse il 22 marzo 1979 dal Tribunale di Milano sui ricorsi proposti dall'Opera Pia Fondazione Biffi e Opera Pia don Adalberto Catena contro il Comune di Milano e la Regione Lombardia ed altro, iscritte ai nn. 558 e 559 del registro ordinanze 1979 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 265 del 26 settembre 1979.

Visti gli atti di costituzione della Pia Fondazione Rhodense, dell'Opera Pia Don Adalberto Catena, dell'Opera Pia Fondazione Biffi e del Comune di Milano e gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri e della Regione Lombardia;

udito nell'udienza pubblica del 29 aprile 1981 il giudice relatore Leopoldo Elia;

uditi gli avvocati Aldo Sandulli per le Opere Pie Fondazione Biffi e don Adalberto Catena, Pietro Marchese e Mario Bassani per il Comune di Milano, Paolo De Camelis per la Pia Fondazione Rhodense e l'avvocato dello Stato Giorgio Azzariti per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. - Con ordinanza emessa il 14 dicembre 1978 il giudice istruttore del Tribunale di Milano, nel corso del procedimento cautelare (sequestro giudiziario) promosso dalla Pia Fondazione Rhodense, in pendenza di giudizio di merito, relativo all'accertamento del diritto di detta fondazione di conservare la titolarità delle sue funzioni e dei suoi beni, pur dopo la nuova normativa che prevede il trasferimento dei beni IPAB ai comuni (art. 25, quinto comma, del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, recante "Attuazione della delega di cui all'art. 1 della legge 22 luglio 1975, n. 382") e nell'imminenza di tale trasferimento (previsto per il 1 gennaio 1979 dalla detta norma) oltre che in pendenza di regolamento di giurisdizione (in seguito al quale il giudizio di merito era stato sospeso), sollevava questione di legittimità costituzionale del detto art. 25, quinto comma, del d.P.R. n. 616 del 1977, per contrasto con gli artt. 76, 77, primo comma, 117, 118, 38, ultimo comma, della Costituzione e dell'art. 1 della legge 17 luglio 1890, n. 6972 e successive modificazioni, recante "Norme sulle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza", che sottopone a regime pubblicistico tali istituti, per contrasto con l'art. 38, ultimo comma, della Costituzione.

La questione sarebbe rilevante, ad avviso del giudice a quo, dato che, ove fosse dichiarata l'incostituzionalità delle norme che ne sono oggetto, verrebbe anche ad esistere il fumus boni juris necessario per concedere il provvedimento cautelare.

Sussisterebbe del pari la "non manifesta infondatezza". L'art. 1, lettere a), b) ed e) della legge 22 luglio 1975, n. 382 - Norme sull'ordinamento regionale e sulla organizzazione della pubblica amministrazione - delega infatti il Governo ad emanare uno o più decreti aventi valore di legge, diretti a trasferire alle regioni, tra l'altro, le funzioni amministrative statali necessarie a completare quelle già attribuite, nonché le funzioni in precedenza esercitate da enti pubblici nazionali od interregionali ed a trasferire ai comuni, alle province ed alle comunità montane funzioni di esclusivo interesse locale. L'art. 25, quinto comma, del d.P.R. n. 616 del 1977, nel prevedere a sua volta il trasferimento di "funzioni, personale e beni" delle IPAB regionali in favore dei comuni, risulterebbe illegittimo, sotto almeno tre profili: perchè la legge di delega, con riferimento ai comuni, non consentirebbe il trasferimento di funzioni in precedenza esercitate da enti con personalità giuridica autonoma (la qual cosa esplicitamente consente solo con riferimento alla regione) e perchè non consentirebbe il trasferimento di qualsiasi funzione infraregionale ai comuni medesimi ma solo di funzioni aventi interesse esclusivamente locale. Il trasferimento previsto dalla legge n. 382 del 1975 dovrebbe intendersi infine, mancando esplicite disposizioni in senso contrario, riferito ai soli enti in rapporto strumentale rispetto allo Stato e non a tutti gli enti pubblici.

Un trasferimento più ampio sarebbe, del resto, incompatibile con gli artt. 117 e 118 della Costituzione che si riferiscono alle attività qualificabili come "funzione amministrativa" esercitate in precedenza dallo Stato o, a tutto concedere, anche da enti strumentali ma non alle attività esercitate da enti autonomi che perseguono fini propri, pur quando sono dotati di personalità giuridica pubblica.

Il trasferimento ai comuni delle IPAB contrasterebbe inoltre con il principio di libertà dell'assistenza privata enunziato dall'art. 38, ultimo comma, della Costituzione. Vero è che l'art. 1 della legge 17 luglio 1890, n. 6972 conferisce carattere pubblicistico, al fine di assoggettarlo ai controlli governativi, a qualunque istituto sia diretto a prestare ai poveri "assistenza, educazione, istruzione, avviamento a qualche professione, arte o mestiere"; ma il principio di libertà dell'assistenza privata esigerebbe, quanto meno, che non venissero alterati i caratteri essenziali dell'ente, pur pubblicizzato, quando questo sia sorto dall'iniziativa privata e sia alimentato con denaro privato. Ove questo limite non si ritenesse di poter affermare, la censura di costituzionalità verrebbe allora ad investire lo stesso art. 1 della menzionata legge n. 6972 del 1890, dato che lascerebbe alla beneficenza privata margini talmente ristretti (comitati temporanei di soccorso, fondazioni di famiglia) da non essere compatibili con l'affermata libertà della medesima.

2. - Interveniva il Presidente del Consiglio dei ministri, attraverso l'Avvocatura dello Stato, deducendo l'infondatezza della questione.

Non sarebbe significativa la differenza, rilevata nell'ordinanza del giudice a quo, tra la dizione delle lettere a) e b) dell'art. 1 della legge n. 382 del 1975 e la dizione della lettera e): nel primo caso, infatti, ad avviso dell'Avvocatura dello Stato, occorreva precisare (per correggere l'indirizzo restrittivo in proposito affermato dall'art. 17 della precedente legge 16 maggio 1970, n. 281) che le attribuzioni trasferite erano sia quelle in precedenza svolte dallo Stato sia quelle svolte da enti pubblici; nel secondo caso nessuna precisazione occorreva dato che nulla in precedenza era stato disposto in ordine ai comuni ed alle province. Le parole "funzioni amministrative" di cui alla lettera e) dovrebbero dunque intendersi comprensive di ambedue le ipotesi contemplate dalle precedenti lettere a) e b) e cioè sia delle funzioni svolte dallo Stato sia delle funzioni svolte da enti pubblici con personalità giuridica autonoma. Il terzo comma del medesimo art. 1 della legge n. 382 del 1975, del resto, precisando, senza distinguere fra trasferimento ai comuni, alle province od alle regioni, che il legislatore delegato dovrà uniformarsi a criteri oggettivi al fine di ricomporre settori organici di materie, senza aver riguardo alle competenze dei Ministeri, degli organi periferici dello Stato e delle altre istituzioni pubbliche, eliminerebbe ogni residuo dubbio, escludendo appunto che in qualsiasi caso possa aver rilievo il criterio dell'appartenenza soggettiva della funzione stessa.

Le istituzioni di pubblica beneficenza infraregionali trasferite dal d.P.R. n. 616 del 1977 ai comuni svolgerebbero, d'altra parte, quelle funzioni di interesse locale cui si riferisce l'art. 1, lettera e) della legge n. 382 del 1975: neppure sotto questo profilo sussisterebbe dunque eccesso di delega.

Quanto disposto corrisponderebbe al disegno tracciato dagli artt. 117 e 118 della Costituzione, che definiscono le competenze regionali mediante criteri strettamente oggettivi, in relazione alle materie, senza distinguere tra competenze precedentemente svolte dallo Stato, da enti pubblici strumentali od ausiliari. Limitazioni soggettive non risultano neppure dalle norme che concernono gli enti territoriali minori (art. 128, Cost.). Argomenti in senso contrario non potrebbero desumersi dalla VIII disposizione transitoria che regolerebbe un solo aspetto (forse il più cospicuo) del trasferimento di poteri alle regioni ma non intenderebbe modificare il disegno complessivo delineato dagli artt. 117 e 118 della Costituzione.

Una volta poi che lo Stato ha assunto tra i propri compiti quello di provvedere anche all'assistenza dei bisognosi non può, ad avviso dell'Avvocatura dello Stato, revocarsi in dubbio che l'attività conseguente sia riconducibile al concetto di "funzione amministrativa".

La libertà dell'assistenza privata non implicherebbe, d'altra parte, un dovere di ripristinare quelle istituzioni che già con la legge del 1890 erano state dichiarate pubbliche, nè un limite alla estensione dell'assistenza pubblica in generale. Ove la Costituzione ha inteso garantire più intensamente l'attività sociale dei privati, ad esempio in materia scolastica, le norme hanno assunto diversa e ben maggiore precisione. Nella stessa Assemblea costituente, del resto, si sarebbe affermato che il principio di libertà dell'assistenza privata era diretto a garantire quelle forme di beneficenza più schietta e generosa che la legge del 1890 non intese e non poteva disciplinare e si sarebbe sottolineato che si trattava di norma forse superflua, utile solo ad eliminare eventuali residui dubbi. La Corte, del resto, già con la sentenza n. 139 del 1972, avrebbe correttamente distinto l'ambito della beneficenza pubblica, così come delineato dalla legge del 1890, dall'assistenza privata, libera ai sensi dell'ultimo comma dell'art. 38 della Costituzione.

Non esiguo peraltro sarebbe il campo in cui può esplicarsi l'assistenza privata ricomprende le istituzioni temporanee, quelle a vantaggio di famiglie determinate, le società, le associazioni, le fondazioni aventi carattere meramente privatistico, la beneficenza individuale.

3. - Si costituiva la Pia Fondazione Rhodense soffermandosi in breve sul tema della legittimazione del giudice a quo e chiedendo l'accoglimento della questione proposta, pur senza rinunziare agli ulteriori motivi - implicitamente disattesi dall'ordinanza introduttiva del presente giudizio che - erano stati posti a base della istanza di sequestro giudiziario e concernevano il carattere educativo-religioso dell'ente e la sua dimensione interregionale.

4. - Questioni del tutto analoghe venivano sollevate dal Tribunale civile di Milano, con ordinanze di identico tenore emesse il 22 marzo 1979 nei procedimenti civili tra l'Opera Pia Fondazione Biffi ed il Comune di Milano e tra l'Opera Pia don Adalberto Catena, la Regione Lombardia ed il Comune di Milano.

Nel primo caso l'Opera Pia Fondazione Biffi, IPAB infraregionale, aveva convenuto il Comune di Milano per l'accertamento del suo diritto a continuare ad esistere e svolgere l'attività di istituto. Ciò perchè essa Opera Pia Fondazione Biffi avrebbe natura di fondazione privata ed illegittimamente sarebbe stata ricompresa tra le IPAB, in contrasto con la volontà espressa nell'atto di fondazione (testamento) e senza tener conto della sua natura e dei suoi scopi (che non sono quelli di prestare assistenza ai bisognosi, ma di offrire ospitalità a signore anziane, qualificate da determinati requisiti di ceto, provenienza, educazione); perchè, ove anche i suoi scopi dovessero ritenersi riconducibili a quelli indicati dalla legge n. 6972 del 1890, risulterebbe contrario a Costituzione (per i motivi già illustrati nell'esporre il contenuto della precedente ordinanza) il trasferimento del patrimonio delle Opere Pie ai comuni.

Nel secondo caso analoga azione di accertamento era stata promossa dall'Opera Pia don Adalberto Catena sulla base di rilievi particolari attinenti alla sua natura ed ai suoi scopi (cura balneare salsoiodica ad ammalati poveri iscritti nel registro della popolazione del Comune di Milano, con preferenza per quelli che abitano nella parrocchia San Fedele, indissolubilmente congiunta ad educazione religiosa) e contestando in generale, per i motivi anzidetti, la costituzionalità del trasferimento dei beni delle IPAB ai comuni.

Il tribunale, ritenuta l'esistenza di un interesse ad agire (conseguente allo stato di incertezza effettivamente venutosi a creare dopo l'entrata in vigore della nuova normativa) e ritenuta la legittimazione passiva del Comune di Milano, oltreché della regione, valutava preliminarmente, in seguito ad eccezione di parte convenuta, l'esistenza della giurisdizione del giudice ordinario. Riteneva rilevante, a tal fine, questione di legittimità costituzionale della norma che prevede il trasferimento dei beni dalle istituzioni pubbliche di assistenza e di beneficenza e della norma (contenuta nella legge n. 6972 del 1890) che sottopone a regime pubblicistico tali istituti, osservando che, ove una di tali norme od entrambe venissero a mancare, verrebbe meno, in radice, il potere dell'ente territoriale di acquisire al proprio patrimonio tali beni e si configurerebbe un vero diritto soggettivo all'esistenza delle istituzioni medesime, divenendo quindi incontestabile la giurisdizione del giudice ordinario.

In occasione del procedimento promosso dall'Opera Pia don Adalberto Catena il tribunale sollevava, in base ai medesimi parametri, questione di costituzionalità anche dell'art. 113 del d.P.R. n. 616 del 1977, non risultando allo stato ancora accertata la dimensione dell'ente (infraregionale, interregionale, nazionale).

5. - Si costituiva, in entrambi i giudizi, il Presidente del Consiglio dei ministri, attraverso l'Avvocatura dello Stato, deducendo l'infondatezza delle questioni con argomenti analoghi a quelli svolti nel giudizio di cui già si è fatto cenno.

Si costituivano l'Opera Pia Fondazione Biffi e l'Opera Pia don Adalberto Catena aderendo alle censure di costituzionalità prospettate nelle ordinanze introduttive. Si costituiva anche, in entrambi i giudizi, il Comune di Milano, deducendo l'infondatezza delle questioni. L'intento del legislatore delegante di trasferire alle regioni settori organici di materie, secondo "criteri oggettivi, desumibili dal pieno significato che esse hanno e dalla più stretta connessione esistente tra funzioni affini, strumentali e complementari" ed a province, comuni, comunità montane "funzioni amministrative di interesse esclusivamente locale nelle materie indicate dall'art. 117 della Costituzione nonché ... altre funzioni di interesse locale che valgano a rendere possibile l'esercizio organico delle funzioni amministrative loro attribuite a norma della legislazione vigente ...", chiaramente espresso nell'art. 1 della legge di delega, risulterebbe pienamente rispettato. Nessuna distinzione il legislatore ha introdotto tra funzioni dello Stato e degli enti pubblici e nessuna distinzione deve introdurre l'interprete, tanto più che una distinzione finirebbe con il risultare incompatibile con la ratio, così chiaramente espressa, della riforma.

Tutto ciò escluderebbe anche il lamentato contrasto con gli artt. 117 e 118 della Costituzione, che si ispirano ad analoghi criteri oggettivi.

Neppure sarebbe pertinente il richiamo alla libertà dell'assistenza privata, garantita dall'art. 38, ultimo comma, della Costituzione, dato che la norma in esame provvede ad una ricomposizione della sfera pubblica e non tocca né limita la sfera rimasta privata pur dopo la riforma del 1890. Tale sfera a sua volta sarebbe sufficientemente ampia non risultando limitata ai comitati di soccorso (con carattere temporaneo) ed alle fondazioni di famiglia ma comprendendo, secondo l'espresso dettato legislativo, le società e le associazioni rette da ordinamento privatistico.

Nel giudizio che ha origine dall'azione proposta dalla Opera Pia don Adalberto Catena presentava le sue deduzioni, fuori termine, la Regione Lombardia; la sua costituzione deve pertanto considerarsi inammissibile.

6. - I giudizi, come sopra promossi, venivano portati all'udienza di discussione del 29 aprile 1981, in seguito all'ordinanza 17 ottobre 1980, n. 145, di questa Corte. In tale sede le parti sviluppavano ulteriormente i rispettivi assunti.

Considerato in diritto

1. - I giudizi promossi dall'ordinanza del giudice istruttore del Tribunale di Milano e dalle due successive ordinanze del Tribunale di Milano hanno tutti ad oggetto l'art. 25, comma quinto, del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616 (cui si aggiunge, nella seconda ordinanza del tribunale, l'art. 113 dello stesso decreto) per violazione degli artt. 76, 77, comma primo, 117, 118 e 38, ultimo comma, della Costituzione; nonché l'art. 1 della legge 17 luglio 1890, n. 6972, per violazione dell'art. 38, ultimo comma, della Costituzione. I tre giudizi vanno pertanto decisi con unica sentenza.

2. - Dev'essere preliminarmente dichiarata inammissibile la questione sollevata dal giudice istruttore del Tribunale di Milano, con ordinanza emessa dopo che era stata proposta dalla parte resistente istanza alle Sezioni Unite Civili della Corte di cassazione per regolamento preventivo di giurisdizione.

A parte ogni questione circa la competenza del giudice istruttore a norma dell'art. 673, secondo comma, del codice di procedura civile, insuscettibile di presa in considerazione in questa sede (sentenza n. 65 del 1962), deve confermarsi (sentenze nn. 221 del 1972 e 135 del 1975) che è inammissibile la questione di legittimità costituzionale sollevata dal giudice di merito dopo la proposizione del ricorso per regolamento di giurisdizione giacché, a seguito della sospensione del processo in corso, non possono essere compiuti atti del procedimento ed è perciò preclusa al giudice ogni pronunzia anche in tema di pregiudiziali (combinato disposto degli artt. 41, 298 e 367 cod. proc. civ.). Pur se a tale regola può derogarsi per gli atti urgenti e per i provvedimenti cautelari in ispecie (sentenze nn. 73 e 177 del 1973), è altresì indubbio che il giudice è legittimato a sollevare questioni di legittimità costituzionale soltanto quando si riferiscono esclusivamente alle norme da applicare in quella sede e non rilevino, come nel caso di specie, proprio per la risoluzione della questione di giurisdizione (cfr. in particolare sentenze n. 73 del 1973, n. 135 del 1975, n. 118 del 1976 e n. 186 del 1976).

3. - In ordine alle questioni residue, la Corte si è prospettata il dubbio se, per il sopravvenire della legge della Regione Lombardia 7 marzo 1981, n. 13 ("Modalità di trasferimento, ai sensi dell'art. 25 del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, dei beni e del personale relativi a talune IPAB operanti nell'ambito regionale", in Suppl. ordinario al n. 10 - 11 marzo 1981 del Bollettino Ufficiale della Regione Lombardia), si dovessero restituire gli atti al giudice a quo per il riesame della rilevanza. Ma il carattere attuativo in ordine ai disposti del citato art. 25 enunziato nella stessa legge lombarda e la portata parziale di essa in ordine ai complesso delle IPAB infraregionali prese in considerazione dalla disposizione denunziata hanno indotto questa Corte a ritenere tuttora rilevanti le questioni sollevate.

4. - Occorre innanzitutto esaminare la censura di violazione degli artt. 76 e 77, primo comma, della Costituzione per eccesso di delega rispetto all'oggetto e alle finalità determinate nella legge 22 luglio 1975, n. 382. Secondo le ordinanze di rimessione la legge delega "non contemplava, sotto alcun profilo, la possibilità di attuare trasferimenti di funzioni precedentemente esplicate da enti operanti in un ambito infraregionale: e ciò con riferimento sia ai trasferimenti contemplati dalle menzionate lettere a) e b) (dell'art. 1, comma primo) a favore delle regioni; sia con riferimento ai trasferimenti previsti dalla lettera e) a favore delle province e dei comuni".

La questione così proposta è fondata.

5. - L'esame del testo dell'art. 1 della legge n. 382 del 1975 fa emergere in modo assai chiaro che il legislatore delegante, per ciò che concerne il trasferimento di funzioni amministrative alle regioni nelle materie di loro spettanza (trasferimento precedente, da un punto di vista logico, ad ogni attribuzione di funzioni dello stesso tipo agli enti locali di cui all'art. 118, comma primo, Cost.) ha considerato soltanto enti pubblici nazionali ed interregionali, specificando che il trasferimento stesso riguardava anche gli uffici, i beni ed il personale indispensabile all'esercizio delle funzioni trasferite. Ora, anche a voler assumere, in ipotesi, che il legislatore intendesse attribuire ai comuni funzioni di altri enti, per così dire omisso medio e cioè senza premettere, nemmeno in via di enunciazione, il trasferimento previo alle regioni, resterebbe inesplicabile come mai di tali enti in ambito infraregionale non si sia fatta menzione alcuna nella lettera e) dell'art. 1, comma primo, della citata legge di delega, e tantomeno risulti indicato il trasferimento ai comuni dei beni e del personale di queste pubbliche istituzioni. L'Avvocatura dello Stato oppone che la formula della lettera e) deve intendersi come comprensiva sia della ipotesi prevista nella lettera a) (funzioni già esercitate dalle amministrazioni statali) sia di quella ritenuta nella lettera b) (funzioni già esercitate dagli enti pubblici); e ciò perchè solo per gli enti di carattere nazionale ed interregionale era necessaria una espressa menzione, dato che la precedente legge delega di trasferimento delle funzioni amministrative alle regioni a statuto ordinario (art. 17 della legge n. 281 del 1970) limitava il trasferimento stesso alle funzioni già esercitate dalle amministrazioni statali; mentre l'attribuzione agli enti locali di funzioni ex art. 118, primo comma, disposta solo con la legge n. 382 del 1975, non richiedeva la distinzione tra funzioni delle amministrazioni dello Stato e quelle di altri enti pubblici. Ma, al contrario, deve osservarsi che una espressa indicazione sarebbe stata a fortiori necessaria, perchè, come più analiticamente si dirà in seguito, le istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza erano già state prese in considerazione dal legislatore delegato del 1972, allorché aveva trasferito alle regioni le funzioni concernenti le IPAB previste dalla legge 17 luglio 1890, n. 6972, e successive modificazioni ed integrazioni, operanti nel territorio regionale (art. 1, comma secondo, lett. a) dei d.P.R. 15 gennaio 1972, n. 9 "Trasferimento alle Regioni a statuto ordinario delle funzioni amministrative statali in materia di beneficenza pubblica e del relativo personale").

Né potrebbe, in via interpretativa, ritenersi, come afferma l'Avvocatura dello Stato, che l'indicazione degli enti nazionali "maggiori" in rapporto alle regioni nella lettera b) dell'art. 1, comma primo, legge n. 382 dei 1975, comporti, per una sorta di parallelismo, che quella degli enti "minori" in rapporto ai comuni sia da sottointendersi perchè logicamente implicata: a tacer d'altro, per la profonda differenza che corre tra i caratteri più significativi degli enti nazionali e interregionali, autentiche proiezioni, di regola, dell'organizzazione statuale, e gli enti infraregionali della categoria IPAB, non essendo sufficiente a unificarli, da questo punto di vista, il carattere della comune "pubblicità".

Chi sostiene la legittimità costituzionale dell'art. 25, comma quinto, del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, afferma che tale conclusione sarebbe confermata dalle formule usate dal legislatore delegante nella lettera e) dell'art. 1, primo comma, della legge n. 382 del 1975; in effetti questo testo parlerebbe di "attribuzione" in termini ampi, contrapponendosi nettamente ai "trasferimenti" di cui alle precedenti lettere a) e b). Sì può peraltro osservare che, a parte la priorità logica dei "trasferimenti" sulle attribuzioni (che non potrebbero comunque contrapporsi ai primi per maggior ampiezza), non si può conferire sicuro rilievo interpretativo ad una formulazione che ricalca pedissequamente quella contenuta nell'art. 118, primo comma, della Costituzione. Né è possibile ritenere con l'Avvocatura dello Stato che il criterio direttivo di cui al n. 1, dell'art. 1, terzo comma, della citata legge delega (identificazione delle materie da trasferire in base a criteri oggettivi e non alle competenze degli organi centrali e periferici dallo Stato) rechi conforto all'opinione favorevole alla legittimità costituzionale dell'art. 25, comma quinto: in realtà, parlandosi di "trasferimento" delle funzioni concernenti le materie identificate secondo il criterio oggettivo, si deve escludere che il criterio stesso si riferisca anche alla lettera e) del primo comma, nella quale, per l'esercizio organico delle funzioni "attribuite", è prevista la possibilità di attribuire ulteriori funzioni di interesse locale, rendendosi così ultroneo il richiamo alle funzioni affini, strumentali e complementari contenuto nel n. 1 dell'art. 1, comma terzo. Senza dire che il "trasferimento" è ivi espressamente previsto in rapporto alle "attribuzioni costituzionalmente spettanti alle regioni per il territorio e il corpo sociale". Inoltre l'accenno, nell'ultima parte della lettera e), art. 1, comma primo, a discipline disposte dal legislatore delegato "per regolare i relativi rapporti finanziari" - riferibile all'intera normativa contenuta nella lettera e) - sembra alludere a rapporti con le amministrazioni statali, determinati, appunto, dall'attribuzione di funzioni amministrative esercitate fino allora da tali amministrazioni. Infine, non appare ammissibile, per precetti che comporterebbero la soppressione di enti a caratteristiche peculiari come la IPAB infraregionali, adottare canoni ermeneutici che, al fine di determinare l'"oggetto" o gli "oggetti" la cui definitezza è imposta al legislatore delegante dall'art. 76 della Costituzione, darebbe assoluta prevalenza al criterio oggettivo (definizione della materia) su quello soggettivo (tipo di enti considerati).

6. - Va pure sottolineato che la legge n. 382 del 1975 (al pari della legge 16 maggio 1970, n. 281) disciplina negli articoli che qui interessano un particolare tipo di delega finalizzata al trasferimento di funzioni amministrative dallo Stato e dagli enti pubblici nazionali e interregionali alle regioni di diritto comune, nonché all'attribuzione, peraltro facoltativa per il legislatore delegante, di funzioni agli enti locali ex art. 118, primo comma, della Costituzione. Tuttavia, a parte il carattere di delega per l'attuazione costituzionale (Disp. trans. e fin. Cost. VIII e IX) che assumono queste leggi, è da dire che in realtà le deleghe di trasferimento non possono non comportare, in situazioni come queste, anche una delega per parziale riforma delle materie e dei settori di materie considerate; mentre riforme di carattere generale restano condizionate all'adozione da parte del Parlamento di leggi contenenti i nuovi principi fondamentali ex art. 117 della Costituzione. Del resto, più forte è la carica riformatrice contenuta nelle deleghe di trasferimento, più evidente è la necessità che l'"oggetto" della riforma sia in termini chiari previsto nei tratti normativi e fattuali che le connotano e che siano previsti principi e criteri direttivi in ordine al superamento della normativa vigente (nella fattispecie la legge 17 luglio 1890, n. 6972).

Se è vero che la legge n. 382 del 1975, a differenza della legge n. 281 del 1970, ha valorizzato, per l'identificazione delle materie da trasferire, accanto al criterio oggettivo anche quello teleologico a favore delle regioni, è altresì certo che il fine complessivo della delega consisteva nel "completare" il trasferimento delle funzioni amministrative statali e parastatali, considerate per settori organici. Peraltro, l'art. 25, comma quinto, del d.P.R. n. 616 del 1977 non completa affatto la disciplina di trasferimento già realizzata con il citato art. 1, comma secondo, lettera a) del d.P.R. 15 gennaio 1972, n. 9, ma piuttosto la modifica radicalmente in quanto, invece di mantenere i poteri delle regioni sugli enti previsti dalla legge Crispi del 1890, attribuisce ai comuni le funzioni degli enti IPAB a tal fine soppresse. É manifesto che un mutamento così profondo nel regime di queste istituzioni, tale da determinarne in via generale l'eliminazione (con la clausola di salvezza per quelle attive precipuamente nella sfera educativo-religiosa), presupponeva da parte del legislatore delegante una indicazione in termini non equivoci del thema transferendum.

7. - Ulteriori sintomi di una effettiva forzatura realizzatasi, rispetto alla legge di delega, con l'art. 25, comma quinto, del d.P.R. n. 616 del 1977, possono poi ravvisarsi in due regole di carattere collaterale. Non si intende in base a quale presunzione le funzioni delle IPAB infraregionali siano state senza alcuna distinzione considerate di interesse esclusivamente locale (nella fattispecie, comunale), quando è fin troppo noto che in numerosi casi la loro funzione è ultracomunale. Mentre rimane priva di ogni ragionevole spiegazione la differenza di trattamento adottato a danno degli enti (quelli infraregionali) che avevano, diversamente da quelli nazionali, caratteristiche storiche e peculiarità attuali di autonoma gestione: non consentendo a questi ultimi di poter valorizzare la struttura associativa che eventualmente avessero (art. 115 del d.P.R. n. 616 del 1977) per sottrarsi al trasferimento ai comuni.

8. - Dai lavori preparatori della legge n. 382 del 1975 non si traggono elementi di sostegno alla opinione favorevole alla legittimità costituzionale dell'art. 25, comma quinto, del d.P.R. n. 616 del 1977; anzi emergono dati significativamente contrari.

Innanzitutto non si rinviene negli atti di entrambe le Camere, né in Commissione né in Assemblea, alcun cenno alla possibilità per il legislatore delegato di addivenire alla soppressione delle IPAB o di enti infraregionali con caratteristiche analoghe. Vero è che una autentica discussione generale, come ci si attenderebbe su disegni di legge di così grande rilievo politico e istituzionale, non ebbe luogo né al Senato della Repubblica né alla Camera dei Deputati: la singolarità della vicenda è da attribuirsi al modo nel quale il testo del disegno di legge inizialmente sottoposto al Senato per prorogare una delega in materia di riordinamento dell'amministrazione (Sen. Rep., VI Leg., d.d.l. n. 114) fu in pratica accantonato con una serie di emendamenti integralmente sostitutivi sia del vecchio testo governativo che di quello elaborato nella prima Commissione del Senato. É appunto a tale commissione che il Ministro per l'organizzazione della pubblica amministrazione, d'intesa con il Ministro per i problemi relativi all'attuazione delle regioni, presentò gli emendamenti che contenevano le nuove norme sul trasferimento alle regioni delle funzioni amministrative dello Stato e degli enti nazionali (Sen. Rep., VI Leg., Res. somm. 5, 13 e 20 febbraio 1974). La successiva discussione, durante la quale al Senato ma soprattutto alla Camera furono abbandonate le parti più rilevanti del nuovo testo in tema di riordinamento degli uffici centrali e periferici della pubblica amministrazione, lasciò in pratica intatto il complesso normativo predisposto per gli ulteriori trasferimenti di funzioni alle regioni di diritto comune, confermandosi così la scelta decisamente regionalista maturata nei mesi che precedettero la presentazione degli emendamenti (Camera dei dep., VI Leg., d.d.l. n. 3157 e 3157 bis).

In particolare, tra gli emendamenti presentati allora dal Ministro per l'organizzazione della pubblica amministrazione, figurava una lettera e) dell'art. 1, comma primo, relativo alla delega al Governo per l'attribuzione ai comuni ed agli altri enti locali di funzioni di interesse esclusivamente locale: nella commissione senatoriale, ma senza successo, esponenti dell'opposizione proposero che la attribuzione delle nuove funzioni ai comuni ed agli altri enti locali riguardassero materie diverse da quelle indicate nell'art. 117 della Costituzione (Sen. Rep., VI Leg., Res. somm. 13 febbraio 1974, pag. 27). Il testo della lettera e), approvato dalla Commissione, perveniva dunque all'assemblea del Senato in una formulazione che anticipava non solo nella sostanza, ma anche, per gran parte, nella lettera, la redazione della lettera e), prima parte, quale è poi passata nella legge n. 382 del 1975. É peraltro da notare che il testo sottoposto all'assemblea senatoriale conteneva al secondo comma dell'art. 1 un principio o criterio direttivo per l'assolvimento della delega di cui alla lettera e) così formulato: "4) l'attribuzione diretta a province, comuni ed altri enti locali di funzioni di interesse esclusivamente locale obbedirà a criteri di omogeneità evitando la coesistenza di competenze residue della regione; saranno altresì regolati i rapporti finanziari tra i vari enti".

Nella discussione in assemblea furono respinti gli emendamenti presentati da esponenti dell'opposizione (emendamenti 1/19 e 1/20 in Sen. Rep., VI Leg., Res. sten. 6 giugno 1974) tendenti in via principale a far cadere per intero la delega della lettera e), ed in subordinata a limitare alle materie diverse da quelle previste nell'art. 117 della Costituzione le attribuzioni agli enti locali. Emergeva chiaramente in tali proposte il timore che il Governo potesse servirsi della delega della lettera e) al fine di perseguire un disegno di compressione delle attribuzioni regionali, attraverso lo spostamento agli enti locali di funzioni già trasferite alle regioni. Tra l'altro veniva criticata la formulazione della delega nella lettera e) perchè riproduttiva; puramente e semplicemente, di quella dell'art. 118, comma primo, della Costituzione. Del resto, mentre risultava soppresso il criterio direttivo n. 4, secondo comma, già citato, era approvato un testo più restrittivo della lettera e) perchè il legislatore delegato poteva attribuire agli enti locali solo le funzioni amministrative che alla data di entrata in vigore della futura n. 382 non fossero state trasferite alle regioni (clausola limitativa cancellata dalla Camera); peraltro il Governo era pure delegato, ai sensi degli artt. 5 e 128 della Costituzione (riferimento poi venuto meno) ad attribuire le ulteriori funzioni di cui è parola nel testo definitivo della lettera e), seconda parte, così come passata nella legge.

É poi degno di nota che gli autori di tutti i disegni e proposte di legge per la riforma dell'assistenza presentate dopo l'entrata in vigore della legge n. 382 del 1975 (con i più diversi intendimenti verso le IPAB: dal riordinamento alla soppressione) siano partiti dal presupposto che le IPAB stesse, quanto alla loro sopravvivenza, non erano minimamente ricomprese nel raggio dei poteri conferiti al legislatore delegato. Né dalle relazioni dei presentatori emerge in alcun modo che si tendesse, esplicitamente o anche implicitamente, a revocare una delega accordata in parte qua con la legge n. 382 del 1975 (Camera dep., VII Leg., proposta Cassanmagnago ed altri, n. 19, art. 15; proposta Massari, n. 870, art. 5; proposta Lodi ed altri, n. 1173, art. 12; proposta Aniasi ed altri, n. 1237, art. 14; proposta Cassanmagnago, n. 1484, art. 13). E non è senza significato che le ultime quattro proposte di legge di cui si è fatto cenno siano state presentate nel periodo febbraio-maggio 1977, quando il dibattito sull'attuazione della legge di delega n. 382 del 1975 aveva già trovato ampi sviluppi.

9. - Non si può poi trascurare - nella fattispecie l'atteggiamento della Commissione ministeriale (Commissione Giannini) in ordine alle IPAB infraregionali. Il testo delle proposizioni normative IV e XXIII allegato alla relazione per la parte relativa alla sanità e servizi sociali è chiaramente indicativo dei limiti entro i quali, secondo la commissione, poteva operare il legislatore delegato. Nella proposizione IV, lettera d) tra le funzioni amministrative trasferite alle regioni era compresa quella relativa: "all'istituzione, modificazione e soppressione degli enti pubblici infraregionali, diversi da comuni, province e comunità montane, i quali operino esclusivamente nelle materie di competenza regionale"; e nella proposizione XXIII si aggiungeva: "Nell'esercizio delle funzioni previste dal precedente art. 4, lettera d), le regioni si atterranno alle norme vigenti fino a quando non avranno disciplinato con legge nuovi procedimenti per il riordino e la riorganizzazione degli enti, ivi compresa la loro soppressione qualora il passaggio ai comuni delle relative funzioni sia necessario od opportuno per assicurarne l'esercizio in modo integrato con le funzioni ad essi attribuite a norma del precedente art. 18".

"In caso di fusione o di trasformazione, in qualsiasi forma, di istituzioni pubbliche di assistenza o beneficenza, soggette alla legge 17 luglio 1890, n. 6972, nel Consiglio di amministrazione dei nuovi enti dovrà essere assicurata la rappresentanza degli interessi originari dell'ente o degli enti fusi o trasformati".

Sarebbe fuori luogo in questa sede ogni valutazione circa la rispondenza delle citate proposizioni normative ai canoni della legge di delega: ciò che importa è rilevare come esse presupponessero il permanere della disciplina dettata dalla legge 17 luglio 1890, n. 6972, e successive modificazioni, fino a quando non fossero intervenute leggi regionali ad hoc, vincolate comunque "ad assicurare" nelle nuove strutture " la rappresentanza degli interessi originari" dei vecchi enti.

10. - Come è noto, il procedimento per l'attuazione della legge di delega n. 382 del 1975 era circondato da particolari garanzie: soprattutto era previsto un doppio intervento consultivo della Commissione bicamerale per le questioni regionali. Tale innovazione dimostrava l'intento del legislatore delegante di recuperare così un contributo di particolare rilievo da parte di un organo parlamentare: contributo che per le note vicende politiche, culminate nel voto della Camera dei Deputati del 15 luglio 1977, acquistava una importanza anche maggiore di quella prevedibile nel periodo di elaborazione della legge di delega. Ed è proprio in seno a tale commissione che, con qualche dubbio circa un possibile "eccesso di delega", si stabilì di includere la norma sul trasferimento delle funzioni, del personale e dei beni delle IPAB infraregionali nell'art. 26 della legge delegata, divenuto poi art. 25 nel testo approvato dal Consiglio dei ministri (Camera dei Deputati - Senato della Repubblica, L'attuazione della "382", 1977, II, pagg. 925 e 966-967; sedute della Commissione 16 giugno (prima lettura) e 19 luglio 1977 (seconda lettura)) . L'unico elemento evocato a sostegno della proposta (L'attuazione, cit., pagg. 865 e 883) è un richiamo alla disciplina della legge 20 marzo 1975, n. 70 (Disposizioni sul riordinamento degli enti pubblici e del rapporto di lavoro del personale dipendente), richiamo che non appare pertinente dato che l'art. 2 della legge n. 70 del 1975 esclude in modo espresso le IPAB dall'applicazione della legge stessa. Piuttosto, risulta evidente l'intento di assimilare, nel trasferimento delle funzioni, del personale e dei beni, gli enti nazionali e gli enti infraregionali, in quanto le funzionì ineriscono alle materie indicate nell'art. 117 della Costituzione (L'attuazione, pag. 865).

Circa l'autorevolezza del parere definitivo della Commissione intercamerale per le questioni regionali, essa è testimoniata dalla mozione votata a larghissima maggioranza dalla Camera dei Deputati tra il 15 e il 16 luglio 1977, nella quale si impegnava il Governo ad attuare la legge n. 382 "sulla base delle conclusioni definitive a cui perverrà la Commissione interparlamentare per le questioni regionali". Nell'allegato, poi, che riproduceva il testo dell'accordo tra i partiti, in sento negli atti parlamentari, le forze politiche dichiaravano di impegnarsi "ad ogni livello di responsabilità istituzionale, per una piena assunzione dell'intesa unitaria" (raggiunta in Commissione) "nel provvedimento definitivo previsto dalla legge delega n. 382". Nella mozione programmatica già citata si riteneva tra l'altro necessaria, per l'attuazione della legge n. 382, "la definizione conseguente del potere degli enti locali allo scopo di eliminare il disordine creato nelle istituzioni e per la incontrollata dilatazione della spesa pubblica, dal proliferare di enti intermedi ai quali manca ogni raccordo istituzionale".

Malgrado questi ulteriori elementi di non trascurabile rilievo, è però da confermare che il parere della Commissione parlamentare, chiamata ad intervenire nel procedimento di attuazione della legge di delega, non solo non è vincolante (sentenza n. 78 del 1957), ma non può esprimere interpretazioni autentiche delle leggi di delega. Tantomeno la "lacuna" della legge di delegazione potrebbe essere colmata con l'approvazione di una mozione o di un ordine del giorno di una assemblea legislativa (come l'ordine del giorno 18 dicembre 1970 del Senato), perchè non è per queste vie che si può estendere l'oggetto della delega.

11. - Da quanto si è esposto risulta con chiarezza che il Parlamento, durante tutto l'iter della legge di delegazione (febbraio 1974-luglio 1975), non intese abbinare alla delega per il trasferimento di funzioni una delega per la riforma, sia pure parziale, del regime delle IPAB infraregionali; non intese, cioè, di anticipare su questo punto la legge generale di riforma dell'assistenza. Tra l'altro, la realizzazione di un simile intento avrebbe richiesto un esame sia pure sommario dei criteri di superamento del regime contenuto nella legge 17 luglio 1890, n. 6972. Non poteva essere ignorato lo spessore storico delle istituzioni disciplinate da questa legge organica nè si poteva omettere una riconsiderazione dei principi fondamentali che la ispirarono (rispetto della volontà dei fondatori, controlli giustificati dal fine pubblico dell'attività svolta in situazioni di autonomia). Inoltre sarebbe stato motivo di riflessione la pluralità di forme e di modi in cui l'attività assistenziale viene prestata, differenze non prese come tali in considerazione dalla legge Crispi, preoccupata di unificare sul piano delle figure soggettive (al fine di sottoporle al controllo dell'autorità civile) i vari tipi di Opere Pie formatesi nel corso di una vicenda di durata ultrasecolare. Ma, dopo l'entrata in vigore della Costituzione repubblicana, intraprendere una riforma del sistema, come è configurato dalla legge Crispi, comporta che si faccia debito conto dei precetti contenuti negli artt. 18, 19, 33 e 38 della Carta costituzionale e che sia affrontato, alla luce dell'art. 38, ultimo comma, il tema del pluralismo delle istituzioni in relazione alle possibilità di pluralismo nelle istituzioni (XXIII proposizione normativa Commissione Giannini). Fin quando ciò non sia avvenuto, è necessario che in sede di trasferimento di funzioni amministrative alle regioni e di attribuzioni di altre funzioni agli enti locali si osservino i principi della legislazione statale vigente, come aveva in realtà fatto, su questo punto, il legislatore delegato del 1972. Anticipare in sede di legislazione delegata, senza un puntuale sostegno nella legge di delega, principi così innovatori di riforma (tali da comportare l'eliminazione generalizzata delle IPAB infraregionali) significa prendere una scorciatoia che la disciplina costituzionale della delegazione legislativa rende del tutto impraticabile.

In effetti, come dimostra la giurisprudenza di questa Corte (in particolare le sentenze nn. 35 del 1960 e 243 del 1976), presentano carattere specifico, pur nell'ambito della più comprensiva figura dell'"eccesso di delega" (sentenza n. 3 del 1957), quei vizi della legge delegata che riguardano i cosiddetti limiti strutturali imposti in via preliminare dall'art. 76 della Costituzione e dalla legge di delega: limiti attinenti appunto al tempo determinato per l'attuazione della delega stessa ed all'oggetto o agli oggetti definiti sui quali dovrà operare la nuova disciplina. In particolare, l'eccedere dai limiti della delegazione configura piuttosto un difetto, sia pur parziale, di delega o meglio un eccesso dalla delega, che si distingue dalle ipotesi di relativa difformità della normativa delegata dai principi e criteri direttivi contenuti nella legge di delegazione o deducibili aliunde. Pur non potendosi trascurare situazioni di interferenza tra "oggetto definito" e "principi e criteri direttivi", vi sono fattispecie nelle quali l'eccesso dalla delega assume, come nel caso esaminato in questa pronuncia, autonomo, preliminare e dirimente rilievo.

12. - Assai serie sono le conseguenze della mancanza, a tutt'oggi, della legge sulla riforma dell'assistenza pubblica. Com'é noto, dopo l'entrata in vigore del d.P.R. n. 616 del 1977, sono intervenuti nuovi provvedimenti e nuove iniziative non certo ispirate ai criteri che hanno presieduto all'approvazione dell'art. 25, comma quinto, della predetta legge delegata. Innanzitutto il 17 maggio 1978 fu presentato alla Camera dei Deputati un disegno di legge del Ministro dell'interno "ad interim" (Riordinamento dell'assistenza sociale), poi rimasto senza seguito, che all'art. 15 escludeva dal trasferimento ai comuni le IPAB "che non svolgono in modo precipuo attività inerenti la sfera educativo-religiosa e che sono in grado, per l'efficiente organizzazione di strutture e di personale, anche volontario, di continuare la propria attività". Successivamente due decreti-legge non convertiti (d.l. 29 marzo 1979, n. 113 e d.l. 19 giugno 1979, n. 209 "Norme per la disciplina del trasferimento ai comuni delle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza operanti nell'ambito regionale") contenevano importanti esclusioni dal trasferimento di intere categorie di IPAB diverse da quelle previste nell'art. 25 del d.P.R. n. 616 del 1977. In particolare, secondo i decreti-legge non convertiti, sarebbero state escluse dal trasferimento ai comuni le IPAB aventi struttura associativa, quelle promosse ed amministrate da privati e operanti prevalentemente con mezzi di provenienza privata nonché le IPAB di ispirazione religiosa. Né ulteriori iniziative per risolvere il nodo delle IPAB, in sede di elaborazione della legge per la riforma dell'assistenza, hanno avuto finora un esito positivo. (Ma deve farsi menzione dell'art. 45 della legge 23 dicembre 1978, n. 833 "Istituzione del servizio sanitario nazionale", articolo che esclude dal trasferimento ai comuni le associazioni di volontariato che concorrono ai fini istituzionali del servizio sanitario, anche se attualmente riconosciute come IPAB).

La conseguenza più ovvia di questa situazione, a dir poco incerta, è davvero paradossale: mentre il legislatore delegato del 1977 aveva utilizzato ultra vires come dato unificante la "pubblicità" delle IPAB, gli eventi successivi provocavano profonde disparità di trattamento, del tutto ingiustificate, tra IPAB considerate in genere e, inoltre, tra IPAB di diverse regioni.

Quanto al primo punto, basti ricordare come non si sia consentito alla Commissione di cui al sesto comma dell'art. 25 di completare la propria attività, risultando così non scrutinato, ai fini della esclusione dal trasferimento (attività inerenti la sfera educativo-religiosa), un numero cospicuo di enti.

Quanto al secondo punto, vanno rilevate talune differenze di ordine non secondario tra leggi regionali adottate per una prima attuazione dell'art. 25 (leggi della Regione Emilia-Romagna 8 aprile 1980, n. 25; della Regione Piemonte 10 aprile 1980, n. 20; della Regione Umbria 17 maggio 1980, n. 46; della Regione Basilicata 4 dicembre 1980, n. 50 e della Regione Lombardia 7 marzo 1981, n. 13). Infine, si deve ricordare che il d.P.R. 19 giugno 1979, n. 348 (Norme di attuazione dello Statuto speciale per la Sardegna in riferimento alla legge 22 luglio 1975, n. 382 e al decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1977, n. 616) ha escluso dal trasferimento varie categorie di IPAB, adottando in pieno tutti i criteri di esclusione accolti nei decreti-legge del 1979, peraltro non convertiti. E ciò a tacere di situazioni ulteriormente differenziate in altre regioni a Statuto speciale.

Tale stato di cose, se da un lato conferma una parziale operatività delle norme dell'art. 25, che non hanno dunque natura meramente programmatica, dall'altro mette in luce gravi disparità di trattamento tra IPAB e IPAB in relazione a circostanze che non dovrebbero influire sulla concreta applicabilità del principio d'eguaglianza alle persone giuridiche, comprese quelle pubbliche (sent. n. 25 del 1966).

13. - L'accoglimento della prima censura di incostituzionalità rivolta all'art. 25, comma quinto, per violazione degli artt. 76 e 77, comma primo, della Costituzione, rende superfluo l'esame delle altre censure per contrasto con gli artt. 117, 118 e 38, ultimo comma, della Costituzione; nonchè il controllo sulla legittimità costituzionale dell'art. 1 della legge 17 luglio 1890, n. 6972. Quanto all'art. 113 del d.P.R. n. 616 del 1977, esso non è richiamato a proposito in un giudizio promosso per verificare la legittimità costituzionale dell'art. 25, comma quinto, del d.P.R. n. 616 del 1977.

Accertata la illegittimità costituzionale dell'art. 25, comma quinto, del decreto citato, si rende necessaria l'applicazione dell'art. 27, primo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 al fine di dichiarare la conseguenziale illegittimità di altre disposizioni dello stesso art. 25.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 25, quinto comma, del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616 "Attuazione della delega di cui all'art. 1 della legge 22 luglio 1975, n. 382";

dichiara, inoltre, a norma dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l'illegittimità costituzionale:

a) del comma sesto dello stesso art. 25;

b) del comma settimo dello stesso art. 25 limitatamente alle parole: "L'elenco di cui al comma precedente è approvato con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri. Ove, entro il 1 gennaio 1979, non sia approvata la legge di riforma di cui al precedente quinto comma" e alle parole "nonché il trasferimento dei beni delle IPAB di cui ai commi precedenti";

c) del comma nono dello stesso art. 25 limitatamente alle parole: "e delle IPAB di cui al presente articolo".

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 17 luglio 1981.

Giulio GIONFRIDA - Edoardo VOLTERRA - Michele ROSSANO - ANTONINO DE STEFANO - Leopoldo ELIA - Guglielmo ROEHRSSEN - Oronzo REALE - Brunetto BUCCIARELLI DUCCI - Alberto MALAGUGINI - Livio PALADIN - Arnaldo MACCARONE - Antonio LA PERGOLA - Giuseppe FERRARI.

Giovanni VITALE - Cancelliere

 

Depositata in cancelleria il 30 luglio 1981.