SENTENZA N. 142
ANNO 1973
REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori giudici
Prof. Francesco PAOLO BONIFACIO, Presidente
Dott. Giuseppe VERZÌ
Dott. Giovanni BATTISTA BENEDETTI
Dott. Luigi OGGIONI
Dott. Angelo DE MARCO
Avv. Ercole ROCCHETTI
Prof. Enzo CAPALOZZA
Prof. Vincenzo MICHELE TRIMARCHI
Prof. Vezio CRISAFULLI
Dott. Nicola REALE
Prof. Paolo ROSSI
Avv. Leonetto AMADEI
Prof. Giulio GIONFRIDA
Prof. Edoardo VOLTERRA
Prof. Guido ASTUTI
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 313, terzo comma, e degli artt. 266, 270, 272, 305 e 415 del codice penale, promossi con le seguenti ordinanze:
1) ordinanza emessa il 22 febbraio 1971 dal giudice istruttore del tribunale di La Spezia nel procedimento penale a carico di Marrone Franco, iscritta al n. 127 del registro ordinanze 1971 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 112 del 5 maggio 1971;
2) ordinanza emessa il 22 febbraio 1971 dalla Corte d'assise di Roma nel procedimento penale a carico di De Medio Paolo ed altri, iscritta al n. 16 del registro ordinanze 1972 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 65 dell'8 marzo 1972;
3) ordinanza emessa il 21 settembre 1971 dal giudice istruttore del tribunale di Genova nel procedimento penale a carico di Gibelli Giovanni Battista ed altri, iscritta al n. 41 del registro ordinanze 1972 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 90 del 5 aprile 1972.
Visti gli atti d'intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell'udienza pubblica del 3 maggio 1973 il Giudice relatore Vezio Crisafulli;
udito il vice avvocato generale dello Stato Raffaello Bronzini, per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1. - Con ordinanza emessa il 22 febbraio 1971 nel corso di un procedimento penale a carico di Marrone Franco, il giudice istruttore presso il tribunale di La Spezia ha sollevato questione di legittimità costituzionale - per contrasto con le disposizioni contenute nel titolo quarto, sezione prima, della parte seconda e, segnatamente, con l'art. 104, nonché in relazione all'art. 3 della Costituzione - dell'art. 313, secondo capoverso, del codice penale, limitatamente alla parte in cui prevede che l'autorizzazione a procedere venga concessa dal Ministro della giustizia anziché dal Consiglio superiore della magistratura.
Sotto il profilo della rilevanza, il giudice a quo fa notare che l'eventuale accoglimento della questione farebbe mancare la condizione di procedibilità in ordine al reato in oggetto.
Nel merito, l'ordinanza si richiama alla sentenza n. 15 del 1969 di questa Corte, che ha dichiarato illegittima la stessa disposizione, nella parte in cui attribuiva il potere di concedere l'autorizzazione a procedere al Ministro di grazia e giustizia, anziché alla Corte stessa, per il reato di vilipendio in danno di essa: nella specie, trattandosi di vilipendio all'ordine giudiziario, la correlativa potestà dovrebbe spettare al Consiglio superiore della magistratura, che ne é l'organo rappresentativo.
La norma impugnata contrasterebbe, inoltre, con il principio di eguaglianza, verificandosi un'ingiustificata disparità di trattamento fra coloro che siano imputati del reato di vilipendio nei confronti delle Camere o della Corte costituzionale e chi debba rispondere dello stesso reato nei confronti dell'ordine giudiziario, poiché in questa seconda ipotesi la valutazione sull'opportunità del promuovimento dell'azione penale risulterebbe priva delle garanzie di forma e di sostanza connesse alla deliberazione di un organo collegiale e spetterebbe per di più ad un organo appartenente ad un potere diverso da quello cui inerisce l'istituzione offesa.
2. - Questione sostanzialmente analoga, ma limitatamente al primo dei due profili di legittimità costituzionale innanzi menzionati, é stata dedotta dalla Corte di assise di Roma, con ordinanza emessa il 22 febbraio 1971 nel corso di un procedimento penale a carico di De Medio Paolo ed altri.
3. - In questo secondo giudizio é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocato generale dello Stato, con deduzioni depositate il 22 marzo 1972, nelle quali sostiene fra l'altro, che il precedente costituito dalla sentenza n. 15 del 1969, già ricordata, verrebbe nella specie male invocato, non potendosi considerare valevole anche per l'ordine giudiziario il criterio analogico seguito dal legislatore costituzionale nel regolare la posizione della Corte costituzionale e dei suoi componenti alla stregua di quella del Parlamento e dei suoi membri: la scelta dell'organo più idoneo a pronunciarsi sull'autorizzazione dovrebbe perciò considerarsi rimessa alla discrezionalità del legislatore.
Le conclusioni dell'Avvocatura dello Stato si precisano nella richiesta di una dichiarazione di infondatezza della questione.
4. - Una terza ordinanza, emessa dal giudice istruttore presso il tribunale di Genova il 21 settembre 1971, nel corso di un procedimento penale a carico di Gibelli Giovanni Battista ed altri, propone questioni di legittimità costituzionale:
a) dell'art. 313 cod. pen., nella parte in cui subordina all'autorizzazione del Ministro di grazia e giustizia l'esercizio dell'azione penale per il reato di vilipendio alla Magistratura, per contrasto con gli artt. 102 e 104 della Costituzione;
b) degli artt. 266, 270, 272, 305, 415 cod. pen. per contrasto con l'art. 3 della Costituzione, nell'assunto che la disciplina in essi contenuta per reati politici dia luogo ad una ingiustificata disparità di trattamento rispetto alle non dissimili fattispecie, rispettivamente previste all'art. 414 o all'art. 416 del codice penale.
La prima questione viene dedotta sotto un duplice profilo: contrasto della norma in esame con l'art. 104 Cost. secondo una motivazione sostanzialmente analoga a quella delle ordinanze che precedono; ed inoltre, più radicalmente, contrasto dell'istituto dell'autorizzazione a procedere con l'art. 102 Cost., perché il suo diniego se non anche la sua concessione integrerebbe, comunque, un modo di esercizio della funzione giurisdizionale da parte di un organo amministrativo o politico.
Le altre questioni muovono tutte dalla comune premessa che le norme impugnate costituiscano puntualizzazioni di più ampie ipotesi criminose trattate meno severamente dal legislatore: la diversità di valutazione che giuoca, cioè, in senso favorevole ai reati non politici sarebbe priva di ragionevole fondamento in un regime basato sui principi della democrazia e della libertà di perseguire collettivamente fini non vietati ai singoli dalla legge penale e per conseguenza violerebbe il principio costituzionale di eguaglianza.
In particolare, la pubblica istigazione ai militari a disobbedire alle leggi o a violare il giuramento dato o i doveri della disciplina militare o altri doveri inerenti al proprio stato (art. 266 cod. pen.) é punita con una pena superiore nel minimo ed uguale nel massimo rispetto alla generica pubblica istigazione a commettere uno o più delitti, eventualmente anche fra quelli maggiormente ripugnanti alla coscienza sociale (art. 414 cod. pen.); la promozione, Costituzione, organizzazione di associazioni sovversive (art. 270 cod. pen.) sono punite più severamente delle analoghe attività relative a comuni associazioni per delinquere (art. 416 cod. pen.); la propaganda per il mutamento con metodi violenti dell'ordine costituito (art. 272 cod. pen.) é punita allo stesso modo, od eventualmente applicandosi la circostanza diminuente di cui all'art. 311 cod. pen. in modo poco differente, rispetto alla istigazione a commettere uno o più delitti di qualsiasi, anche più intensa, gravità (art. 414, erroneamente indicato come art. 415, cod. pen.); la associazione per commettere delitti contro la personalità interna e quella internazionale dello Stato puniti con pena detentiva (art. 305 cod. pen.) é valutata più severamente della associazione per commettere delitti comuni, eventualmente anche più gravi di quelli politici (art. 416 cod. pen.) ed analoga disparità di trattamento sussiste per le rispettive e maggiormente qualificate affinità di promozione, Costituzione ed organizzazione; infine, per la pubblica istigazione a disobbedire alle leggi di ordine pubblico ovvero all'odio fra le classi sociali (art. 415 cod. pen.) é comminata una pena edittale inferiore solo nel minimo a quella stabilita per la più grave fattispecie di istigazione a delinquere (art. 414 cod. pen.).
5. - Anche in questo giudizio é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocato generale dello Stato, con deduzioni depositate il 7 gennaio 1972, nelle quali sostiene anzitutto che l'autorizzazione a procedere non costituisce esercizio di (od ingerenza arbitraria in) una funzione giurisdizionale, bensì condizione di procedibilità che assolve ad una esigenza di garanzia politica in considerazione della qualità della persona offesa dal reato o della particolare natura del bene giuridico leso. Ciò premesso, non soltanto non sussisterebbe violazione dell'art. 102 della Costituzione, ma nemmeno del principio di autonomia e di indipendenza della Magistratura (art. 104 Cost.), posto che l'attribuzione di un tale potere al Ministro di grazia e giustizia, anziché al Consiglio superiore della magistratura, non contrasterebbe con la posizione costituzionalmente sancita per quest'ultimo organo, cui competono non la cura particolare di interessi dell'ordine giudiziario, come tali distinti da quelli dello Stato, ma soltanto quelle funzioni amministrative e giurisdizionali di cui lo Stato si riserva la titolarità nel quadro della disciplina legislativa del pubblico impiego giudiziario.
Per quanto concerne, poi, le altre questioni, l'Avvocatura dello Stato rileva che la eterogeneità delle fattispecie criminose poste a raffronto non ne consentirebbe una valutazione in termini di legittimità costituzionale ex art. 3, essendo comunque rimesso alla competenza esclusiva del legislatore ordinario di vagliare se esse corrispondano o meno all'attuale stato della coscienza sociale ed allo spirito informatore della Costituzione repubblicana.
Le conclusioni si precisano in una richiesta di declaratoria di infondatezza di tutte le questioni sollevate.
6. - All'udienza la parte intervenuta ha insistito nelle conclusioni già formulate.
Considerato in diritto
1. - I giudizi promossi con le ordinanze del giudice istruttore presso il tribunale di La Spezia, della Corte di assise di Roma e del giudice istruttore presso il tribunale di Genova hanno ad oggetto questioni identiche o connesse e possono perciò essere decisi congiuntamente con unica sentenza.
2. - Logicamente preliminare é la questione di legittimità costituzionale dell'art. 313, terzo comma, del codice penale, sollevata dal giudice istruttore del tribunale di Genova con riguardo all'istituto dell'autorizzazione a procedere in quanto contrastante, di per sé, con l'art. 102 della Costituzione: alla quale strettamente si collega poi, nella stessa ordinanza, l'ulteriore questione, sollevata anche - come questione autonoma - dalla Corte d'assise di Roma e dal giudice istruttore del tribunale di La Spezia, e concernente l'asserita illegittimità della menzionata disposizione del codice nella parte in cui conferisce il potere autorizzativo in oggetto, per i reati di vilipendio dell'ordine giudiziario, al Ministro per la giustizia anziché al Consiglio superiore della magistratura, deducendosi, sotto questo particolare aspetto, violazione dell'art. 3 e delle disposizioni del titolo IV, sezione I, della parte seconda della Costituzione. ed in particolare dell'art. 104, primo comma.
3. - In ordine alla prima questione, che investe in termini generali l'istituto della autorizzazione a procedere, non può che essere confermata la precedente giurisprudenza di questa Corte, formatasi anche con specifico e puntuale riguardo allo stesso art. 102 Cost., che viene ora nuovamente invocato quale norma parametro (sent. n. 17 del 1973).
Nel senso, precisamente, che l'attività esplicata dal Ministro per la giustizia dando o negando l'autorizzazione a procedere non é in alcun modo assimilabile alla funzione giurisdizionale né incide sul libero e indipendente esercizio di questa da parte del giudice. E poiché non sono addotti profili nuovi e non si ravvisano ragioni che possano indurre a mutare avviso in proposito, la questione dev'essere dichiarata manifestamente infondata.
4. - Passando ora all'ultima, più circoscritta e particolare questione concernente il terzo comma dell'art. 313 cod. pen., limitatamente alla parte in cui, con riferimento all'ipotesi di procedimenti per vilipendio dell'ordine giudiziario, attribuisce il potere autorizzativo al Ministro per la giustizia anziché al Consiglio superiore della magistratura, per contrasto con l'art. 104, primo comma, Cost., é da osservare anzitutto che, nella misura in cui questa disposizione costituzionale ha significato confermativo del principio della indipendenza garantita a tutti i magistrati nell'esercizio delle loro funzioni anche tale questione ha già trovato soluzione nella precedente giurisprudenza della Corte (sent. n. 22 del 1959, esplicitamente ribadita, sul punto, dalla successiva sentenza n. 91 del 1971). Se, infatti, l'autorizzazione a procedere non menoma l'indipendenza del singolo giudice nell'atto del giudicare e pertanto non incide sulla autonomia e indipendenza dell'ordine giudiziario complessivamente riguardato, non c'é motivo per giungere a diversa conclusione quando detta autorizzazione sia richiesta per procedere contro chi sia imputato del reato di vilipendio dello stesso ordine giudiziario.
Ma i termini della questione, così come viene ora prospettata, sono più complessi.
Da un lato, infatti, il principio del primo comma dell'art. 104, specie se sistematicamente inquadrato nel contesto delle altre disposizioni della sezione I del titolo IV, alle quali non per nulla globalmente si richiamano le ordinanze, non si esaurisce in una mera ripetizione del principio dell'indipendenza dei giudici di cui all'art. 101, secondo comma (pur comprendente anche questo aspetto); d'altro lato, se ben si guarda, l'impostazione comune a tutte le ordinanze si basa sulla premessa di una identità di ratio tra il caso del vilipendio della Corte costituzionale, deciso con la sentenza n. 15 del 1969, ed il caso dell'autorizzazione per vilipendio dell'ordine giudiziario.
Non tanto viene, allora, in considerazione l'indipendenza del giudice, nell'esercizio delle sue funzioni, che, del resto, dev'essere assicurata dalla legge anche ai giudici speciali, come risulta dall'art. 108, secondo comma, Cost., sebbene a questi non si estendano affatto le attribuzioni del Consiglio superiore, quanto piuttosto la "posizione" che all'ordine giudiziario, nel suo duplice aspetto di complesso di uffici e di ordo personarum, risulta costituzionalmente garantita verso la menzione della sua "autonomia", cui allude, distintamente dalla indipendenza ma in stretta connessione con questa, la dizione letterale dell'art. 104, primo comma. La parola é qui usata in senso generico e non tecnico, a indicare la disciplina diversificata che la Costituzione riserva, e vuole sia riservata, per quanto attiene allo stato giuridico dei magistrati dell'ordine giudiziario, sia garantendo loro direttamente l'inamovibilità, nei sensi e alle condizioni di cui all'art. 107, comma primo, sia sottraendoli, anche per quel che concerne tutte le vicende del predetto stato, ad ogni dipendenza da organi del potere esecutivo. Strumento essenziale di siffatta autonomia, e quindi della stessa indipendenza dei magistrati nell'esercizio delle loro funzioni, che essa é istituzionalmente rivolta a rafforzare, sono le competenze attribuite al Consiglio superiore dagli artt. 105, 106 e 107 Cost., nelle quali deve rientrare ogni provvedimento che direttamente o indirettamente possa menomarla.
5. - Ciò premesso, é da soggiungere che la posizione dell'ordine giudiziario nel sistema é tuttavia diversa da quella della Corte costituzionale, quale é stata precisata nella menzionata sentenza n. 15 del 1969, e non sussiste perciò quella identità di ratio che, secondo l'assunto delle ordinanze, dovrebbe condurre a identiche conclusioni quanto alla spettanza del potere di concedere l'autorizzazione a procedere, puramente e semplicemente sostituendosi alla Corte, immediatamente offesa dal reato, cui si riferiva l'anzidetta sentenza, il Consiglio superiore della magistratura, allorché il vilipendiosia invece diretto contro l'ordine giudiziario.
Per prima cosa, é da dire che, a differenza dalla Corte costituzionale (e dalle Camere), l'ordine giudiziario non é un collegio, né comunque un organo singolo, anche se complesso, idoneo a porsi come titolare di un interesse pubblico differenziato e specializzato, ad un tempo leso dal vilipendio e suscettibile di ricevere un danno maggiore della stessa offesa dallo svolgimento di un processo a carico dei responsabili del reato. Nelle ipotesi delle Assemblee legislative e della Corte costituzionale, invece, vi ha perfetta e piena coincidenza tra l'organo al quale l'offesa é rivolta e l'organo al quale spetta - a maggior tutela della propria indipendenza, anche colta nelle sue manifestazioni esteriori - la valutazione dell'opportunità politica di consentire o meno il proseguimento dell'azione penale.
Né può affermarsi, come si assume, che il Consiglio superiore rappresenti, in senso tecnico, l'ordine giudiziario, di guisa che, attraverso di esso, se ne realizzi immediatamente il cosiddetto autogoverno (espressione, anche questa, da accogliersi piuttosto in senso figurato che in una rigorosa accezione giuridica): con la conseguenza che, esercitando il potere autorizzativo in questione, esso verrebbe ad agire in luogo, per conto ed in nome dell'ordine giudiziario medesimo. La composizione mista dell'organo, solo in parte - anche se prevalente - formato mediante elezione da parte dei magistrati, e per altra parte, invece, da membri eletti dal Parlamento (tra i quali dev'essere scelto il Vicepresidente), oltre che da membri di diritto, tra cui il Capo dello Stato, che lo presiede, si oppone chiaramente ad una simile raffigurazione.
Al più - e questa stessa definizione, com'é noto, é controversa in dottrina - potrebbe parlarsi di organo a composizione parzialmente rappresentativa; ma é certo comunque, ed é argomento decisivo, che la presenza nel Consiglio di membri non tratti dall'ordine giudiziario e la particolare disciplina costituzionalmente dettata quanto alla presidenza di esso rispondono all'esigenza (che fu avvertita dai costituenti) di evitare che l'ordine giudiziario abbia a porsi come un corpo separato. Sono stati predisposti, perciò, accorgimenti idonei ad attuarne e mantenerne una costante saldatura con l'apparato unitario dello Stato, pur senza intaccarne le proclamate e garantite autonomia e indipendenza.
A questo medesimo fine sono rivolte le disposizioni del testo costituzionale e della legge di attuazione del 24 marzo 1958, n. 195, che stabiliscono gli opportuni raccordi tra Consiglio superiore e Ministro per la giustizia, il quale ultimo rimane l'unico organo politicamente responsabile davanti al Parlamento, secondo i principi, di quanto attiene all'organizzazione della giustizia ed al suo funzionamento (sent. n. 168 del 1963).
Ed infatti, in forza dell'art. 107, secondo comma, Cost., spetta al Ministro la facoltà di promuovere l'azione disciplinare nei confronti dei magistrati (facoltà che la legge del 1958 ha esteso anche al Procuratore generale presso la Corte di cassazione, nella sua qualità di pubblico ministero presso la sezione disciplinare del Consiglio superiore); ciò che giustifica, come ebbe a ritenere questa Corte con la citata sentenza n. 168 del 1963, che alle ulteriori attribuzioni demandate allo stesso Ministro dal successivo art. 110, concernenti "l'organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia", non possa darsi un'interpretazione restrittiva, dovendovisi includere "sia l'organizzazione degli uffici nella loro efficienza numerica, con l'assegnazione dei magistrati in base alle piante organiche, sia il funzionamento dei medesimi in relazione all'attività e al comportamento dei magistrati che vi sono addetti".
In forza poi della citata legge del 1958, spetta altresì al Ministro - non illegittimamente, stando a quanto deciso in detta sentenza - la facoltà di richiedere al Consiglio, e senza intaccarne l'autonoma iniziativa nelle materie di sua competenza, di deliberare in ordine ai provvedimenti di cui all'art. 10 n. 1 (assunzioni, assegnazioni di sedi e di funzioni, trasferimenti e promozioni, e quanto altro inerisce allo stato dei magistrati). Spetta inoltre al Ministro di dare esecuzione, in generale, alle deliberazioni del Consiglio, le quali - a norma dell'art. 17 della legge più volte ricordata, ed eccezion fatta per le decisioni della sezione disciplinare - prendono la forma di decreti del Presidente della Repubblica o di decreti ministeriali: soggetti, gli uni come gli altri, al controllo preventivo della Corte dei conti e ad eventuale ricorso al Consiglio di Stato in sede giurisdizionale. Anche qui, non illegittimamente, come ebbe a giudicare questa Corte con la sentenza più volte richiamata, non essendo la magistratura "avulsa dall'ordinamento generale dello Stato" ed avendo tali provvedimenti "carattere sostanzialmente amministrativo" (si veda anche la successiva sentenza n. 44 del 1968).
6. - Da quanto fin qui detto, risulta, dunque, confermata l'assenza di vere analogie strutturali tra ordine giudiziario e Corte costituzionale, come pure l'impossibilità di supplirvi ricorrendo al concetto di una integrale rappresentanza di quello da parte del Consiglio superiore.
Ma anche sotto molteplici altri aspetti, a taluno dei quali si é già accennato di passaggio, la posizione costituzionale dell'ordine giudiziario differisce da quella della Corte (e delle Camere, cui questa - sotto il profilo che qui interessa é da assimilare). Per la Corte, nessuna ingerenza, diretta o indiretta, é riconosciuta (né sarebbe ammissibile) ad alcun altro organo, sia per quel che ne concerne il funzionamento sia per quel che più strettamente attiene allo status dei suoi componenti. Tutte le sue deliberazioni sono sottratte assolutamente a qualsiasi forma di controllo e di impugnativa. Ad essa é conferita la più larga autonomia regolamentare e finanziaria; esclusivamente di fronte ad essa può verificarsi una responsabilità dei giudici nell'ipotesi dell'art. 3 della legge costituzionale n. 1 del 1948 (in relazione all'art. 7 della legge cost. n. 1 del 1953). E spetta soltanto alla Corte deliberare sulla rimozione dei giudici per sopravvenuta incapacità fisica o civile nonché deliberarne la decadenza dalla carica, ove ricorra il caso di cui all'art. 8 della legge costituzionale n. 1 del 1953.
Ai giudici costituzionali, inoltre, si estendono, in forza dello specifico ed espresso rinvio fatto dall'art. 3 della legge costituzionale n. 1 del 1948 all'art. 68 Cost., le immunità proprie dei membri del Parlamento. A proposito delle quali, non é fuori luogo rammentare che tra gli argomenti che indussero questa Corte, nella sentenza n. 15 del 1969, a ritenere che il potere di dare l'autorizzazione a procedere contro i responsabili di vilipendio della Corte doveva appartenere alla medesima, considerevole rilievo ebbe quello tratto dalla sostanziale affinità tra le valutazioni politiche cui tale autorizzazione é, per sua natura, subordinata con quelle che la Corte é chiamata ad operare allorché si tratti di dare o negare l'autorizzazione a procedere nei confronti dei suoi membri, a carico dei quali sia aperto o stia per aprirsi un procedimento penale.
Siffatto complesso di guarentigie, che non trovano riscontro alcuno in quelle dell'ordine giudiziario, si ricollega alle supreme funzioni di tutela della legalità costituzionale, ad ogni livello, che la Corte é chiamata ad assolvere, ed alle quali la sent. n. 15 del 1969 ebbe a fare espresso riferimento.
7. - Non c'é nulla, dunque, nella posizione costituzionale dell'ordine giudiziario e nel modo in cui sono regolati i suoi rapporti con il Consiglio superiore, che imponga una deroga al principio generale, secondo cui il Ministro per la giustizia é l'organo tecnicamente qualificato e politicamente idoneo a presiedere alle relazioni tra il Governo e l'Amministrazione della giustizia, esplicando a tal fine il potere di dare o rifiutare le autorizzazioni a procedere, nonché di fare istanza e richiesta di procedimento nei casi previsti dalla legge.
Nulla vieta d'altronde che, con riferimento all'ipotesi di vilipendio dell'ordine giudiziario, lo stesso Ministro possa, nella sua prudente discrezionalità, richiedere, ove lo reputi necessario in particolari casi, un parere del Consiglio superiore (non vincolante) a norma dell'art. 10, penultimo comma, della legge del 1958.
8. - La questione non é fondata neppure sotto il profilo di violazione dell'art. 3, per la pretesa disparità di trattamento tra coloro che siano imputati di vilipendio dell'ordine giudiziario e coloro che siano imputati del medesimo reato nei confronti, invece, delle Camere e della Corte costituzionale.
Giuridicamente diverse sono, infatti, le situazioni che vengono prospettate nell'ordinanza del giudice istruttore di La Spezia, così come diversa é la situazione di chi sia imputato di un reato per il quale sia necessaria l'autorizzazione a procedere e quella di chi sia imputato di un qualsiasi altro reato, per il quale debba procedersi d'ufficio.
E poiché, d'altro canto, come affermato nella sentenza n. 17 del 1973, in precedenza ricordata, non sussiste un diritto o anche solo un interesse legittimo di chi sia indiziato di reato ad essere o a non essere sottoposto a procedimento penale, nessun contrasto con il principio di eguaglianza é ravvisabile nell'attribuzione all'uno o all'altro organo del potere autorizzativo in oggetto.
9. - L'ordinanza del giudice istruttore di Genova solleva altresì questione di legittimità costituzionale, per contrasto con l'art. 3 Cost., di una serie di disposizioni del codice penale che puniscono determinati reati, in largo senso politici, più severamente o con la medesima pena di reati comuni, analoghi ed anche ad avviso del giudicante più gravi.
Si tratta, precisamente, dell'art. 266 (istigazione di militari a disobbedire alle leggi), dell'art. 270 (associazioni sovversive), dell'art. 272 (propaganda ed apologia sovversive), dell'art. 305 in relazione all'art. 302 (cospirazione politica mediante associazione) e dell'art. 415 (istigazione a disobbedire alle leggi): che l'ordinanza mette a raffronto con gli artt. 414 (erroneamente indicato come art. 415) e 416, relativi, rispettivamente, all'istigazione a delinquere ed all'associazione per delinquere in genere.
Anche questa terza questione non é fondata perché, come ha ritenuto la costante giurisprudenza di questa Corte (sentenze n. 45 del 1967, n. 109 del 1968, n. 45 del 1970, n. 22 del 1971 ecc.), la valutazione in ordine alla congruenza delle pene edittali alle singole fattispecie di reato é di natura essenzialmente politica ed appartiene, come tale, alla discrezionalità del legislatore, non sindacabile in questa se de se non nell'ipotesi di manifesta irragionevolezza. E, nel caso che forma oggetto del presente giudizio, detto limite non risulta oltrepassato.
Infatti, fermo rimanendo - coerentemente con quanto ora osservato - che resta riservato al legislatore ogni eventuale adeguamento delle previsioni incriminatrici e delle corrispondenti sanzioni alle esigenze attuali, non può negarsi che le figure di reato cui si riferisce l'ordinanza tendono alla protezione di beni e valori essenziali alla pacifica convivenza associata e all'ordinato funzionamento del sistema costituzionale.
Tali sono certamente l'esclusione di qualsiasi forma di violenza e di anacronistica cospirazione nella lotta politica, il rispetto delle leggi e la lealtà nei confronti delle istituzioni democratiche (ciò che non esclude, ovviamente, la critica e le eventuali iniziative dirette a riformarle con le procedure costituzionalmente previste), la saldezza anche morale delle forze armate (sent. n. 16 del 1973).
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 313, terzo comma, del codice penale, sollevata, in riferimento all'art. 102 della Costituzione, dall'ordinanza del giudice istruttore presso il tribunale di Genova;
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dello stesso art. 313, terzo comma, del codice penale, nella parte in cui attribuisce il potere di dare l'autorizzazione a procedere per il reato di vilipendio dell'ordine giudiziario al Ministro per la giustizia anziché al Consiglio superiore della magistratura, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 104 della Costituzione, dalle ordinanze dei giudici istruttori presso i tribunali di La Spezia e di Genova e della Corte di assise di Roma;
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 266, 270, 272, 305 e 415 del codice penale, sollevata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, con l'ordinanza del giudice istruttore presso il tribunale di Genova.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 28 giugno 1973.
Francesco PAOLO BONIFACIO – Giuseppe VERZÌ – Giovanni BATTISTA BENEDETTI – Luigi OGGIONI – Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA – Vincenzo MICHELE TRIMARCHI - Vezio CRISAFULLI – Nicola REALE – Paolo ROSSI – Leonetto AMADEI - Giulio GIONFRIDA. – Edoardo VOLTERRA – Guido ASTUTI
Arduino SALUSTRI – Cancelliere
Depositata in cancelleria il 18 luglio 1973.