SENTENZA N. 208
ANNO 2024
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta da:
Presidente: Giovanni AMOROSO;
Giudici: Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 442, comma 2-bis, del codice di procedura penale, promosso dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Nola, in funzione di giudice dell’esecuzione, nel procedimento penale a carico di A. D. con ordinanza del 6 maggio 2024, iscritta al n. 106 del registro ordinanze 2024 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 24, prima serie speciale, dell’anno 2024.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 25 novembre 2024 il Giudice relatore Francesco Viganò;
deliberato nella camera di consiglio del 25 novembre 2024.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 6 maggio 2024, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Nola, in funzione di giudice dell’esecuzione, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 442, comma 2-bis, del codice di procedura penale, «nella parte in cui non prevede che il Giudice dell’esecuzione possa concedere la sospensione condizionale della pena e la non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale, ove la diminuzione automatica di pena per la mancata impugnazione della sentenza di condanna emessa in sede di giudizio abbreviato comporti l’applicazione di una pena contenuta nei limiti di legge di cui all’art. 163 c.p. e ricorrendone gli ulteriori presupposti», in riferimento agli artt. 3, 27, commi primo e terzo, 111, 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
1.1.– Il rimettente riferisce di avere condannato A. D. con sentenza del 4 aprile 2024, pronunciata in esito a giudizio abbreviato, alla pena di due anni e quattro mesi di reclusione e 800 euro di multa per i delitti di tentata estorsione e di ricettazione.
Il 16 aprile 2024 il condannato ha depositato dichiarazione di rinuncia all’impugnazione, chiedendo contestualmente, tra l’altro, la riduzione di un sesto della pena ai sensi della disposizione censurata e la concessione della sospensione condizionale e della non menzione della condanna, previa eventuale proposizione di una questione di legittimità costituzionale nell’ipotesi in cui il giudice ritenesse di non essere facoltizzato dalla medesima disposizione ad applicare tali benefici in sede di incidente di esecuzione.
Investito di tali istanze in qualità di giudice dell’esecuzione, il rimettente ha ridotto la pena a un anno, undici mesi e dieci giorni di reclusione, oltre a 667 euro di multa, e – con separata ordinanza – ha sollevato le questioni di legittimità costituzionale nei termini sopra riferiti.
1.2.– In ordine alla rilevanza delle questioni prospettate, il giudice a quo osserva come, a seguito della rideterminazione della pena, essa rientrerebbe ora nei limiti entro i quali è ammissibile la concessione della sospensione condizionale della stessa.
Nel caso di specie sussisterebbero, inoltre, elementi idonei a fondare una prognosi favorevole circa l’astensione da parte del condannato dalla commissione di ulteriori reati: in particolare, l’incensuratezza al momento dei fatti, la partecipazione ad un percorso di recupero dalla dipendenza dal gioco e l’assenza di violazioni della misura cautelare cui era stato nel frattempo sottoposto.
Il rimettente si confronta, infine, con la giurisprudenza di legittimità secondo la quale il giudice dell’esecuzione può compiere autonome valutazioni, in ordine alla concessione della sospensione condizionale della pena, solo allorché queste non contraddicano quelle del giudice della cognizione (è citata Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 20 dicembre 2005-6 febbraio 2006, n. 4687). Nessuna contraddizione sussisterebbe, tuttavia, nel caso di specie, poiché egli stesso, in qualità di giudice della cognizione, aveva escluso l’applicazione della sospensione condizionale della pena solo in ragione dell’entità della pena inflitta, mentre i riferimenti, presenti nella motivazione della sentenza, all’allarme sociale e alla gravità dei fatti commessi riguardava la diversa questione della possibile concessione di una pena sostitutiva. La citata sentenza delle Sezioni unite consentirebbe, comunque, un giudizio prognostico favorevole ai sensi dell’art. 164, comma primo, del codice penale, da parte del giudice dell’esecuzione, anche tenuto conto di elementi sopravvenuti; ciò che si verificherebbe, appunto, nel caso di specie, dovendosi registrare come elemento sopravvenuto il comportamento di A. D. successivo alla condanna e la sua partecipazione a un percorso di recupero trattamentale.
1.3.– Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo premette anzitutto che – «onde evitare inutili ripetizioni» – tutti gli argomenti spesi in relazione alla sospensione condizionale della pena debbono intendersi riferiti anche all’istituto «similare e affine» della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale.
In via ancora preliminare, il rimettente esclude che sia possibile un’interpretazione costituzionalmente conforme dell’art. 442, comma 2-bis, cod. proc. pen., che consenta al giudice dell’esecuzione di concedere la sospensione condizionale della pena a seguito della rideterminazione della stessa ai sensi della disposizione censurata.
Invero, sarebbe ormai pacifico che la sospensione condizionale della pena possa essere concessa in fase esecutiva. L’art. 671, comma 3, cod. proc. pen. lo prevede, infatti, espressamente nel caso di applicazione in executivis della disciplina della continuazione o del concorso formale di reati, mentre le sezioni unite della Corte di cassazione hanno riconosciuto al giudice dell’esecuzione analogo potere in altre ipotesi, «mediante una sapiente applicazione della cd. “teoria dei poteri impliciti”» (sono citate Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza n. 4687 del 2006 e 26 febbraio-15 settembre 2015, n. 37107), teoria poi ripresa in ulteriori ambiti dalle sezioni semplici della stessa Corte di cassazione (sono citate Corte di cassazione, sezione prima, sentenze 1° marzo-12 aprile 2013, n. 16679 e 30 ottobre 2018-15 novembre 2018, n. 51692).
Cionondimeno, non risulterebbe praticabile alcuna interpretazione costituzionalmente conforme della disposizione censurata, poiché essa si tradurrebbe in un’applicazione analogica dell’art. 671, comma 3, cod. proc. pen., la cui praticabilità sarebbe già stata esclusa dalle sezioni unite della Corte di cassazione rispetto alla concessione della sospensione condizionale della pena a seguito di revoca della condanna per abolitio criminis. In tale ipotesi, secondo le Sezioni unite, il giudice dell’esecuzione potrebbe applicare la sospensione condizionale soltanto perché l’art. 673, comma 1, cod. proc. pen. stabilisce che il giudice dell’esecuzione adotta «i provvedimenti conseguenti» alla revoca della condanna, mentre un’applicazione analogica dell’art. 671, comma 3, cod. proc. pen. sarebbe impedita dalla natura eccezionale di detta disposizione, «la quale deroga al principio generale secondo cui il giudizio prognostico sulla futura condotta del reo – costituente il presupposto per la concessione della sospensione condizionale – è ordinariamente riservato al giudice della cognizione, che ha accertato la responsabilità del soggetto per il fatto cui il beneficio andrebbe applicato» (è citata ancora Cass., n. 4687 del 2006). L’estensione in via analogica dell’art. 671, comma 3, cod. proc. pen. al caso ora all’esame, in assenza di qualsiasi appiglio normativo circa la possibilità di adottare provvedimenti conseguenti alla rideterminazione della pena ai sensi dell’art. 442, comma 2-bis, cod. proc. pen. si porrebbe pertanto in contrasto con l’art. 14 delle disposizioni sulla legge in generale, trattandosi di norma che fa eccezione al principio generale dell’ordinamento della «(tendenziale) immodificabilità del giudicato», il quale – secondo quanto affermato in più occasioni dalla giurisprudenza di legittimità – sarebbe derogabile nei soli casi previsti dalla legge (sono citate Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenze 24 ottobre 2013-7 maggio 2014, n. 18821 e 29 maggio-14 ottobre 2014, n. 42858).
1.3.1.– Quanto ai singoli profili di censura, la disposizione censurata darebbe anzitutto luogo a una «lacuna normativa intrinsecamente irragionevole in relazione alla funzione rieducativa».
Il rimettente osserva, in proposito, che la sospensione condizionale della pena avrebbe – come riconosciuto dall’unanime giurisprudenza di legittimità (è citata, tra le altre, Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 23 giugno-5 ottobre 2022, n. 37503) – una funzione specialpreventiva orientata alla rieducazione del condannato. Essa si collocherebbe, più in particolare, nel quadro degli istituti che mirano a evitare l’esecuzione in carcere delle pene detentive brevi, secondo una linea di politica criminale che trova rispondenza anche nella relazione di accompagnamento del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150 (Attuazione della legge 27 settembre 2021, n. 134, recante delega al Governo per l’efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari), cui si deve l’introduzione della disposizione censurata.
L’attuale impossibilità di concedere la sospensione condizionale della pena a seguito della riduzione di pena prevista da tale disposizione produrrebbe «effetti distonici rispetto agli scopi prefissati dal legislatore e, pertanto, sproporzionati ed irragionevoli».
La disciplina censurata determinerebbe, in particolare, una situazione di «vuoto giurisdizionale» – di per sé costituente «indice manifesto» di irragionevolezza – in quanto nessuna autorità giurisdizionale potrebbe vagliare la sussistenza dei presupposti per l’applicazione della sospensione condizionale della pena in un caso quale quello sottoposto all’esame del rimettente: non aveva infatti potuto farlo il giudice della cognizione, «in quanto inibito dal quantum di pena (originariamente) inflitto», né potrebbe farlo il giudice dell’esecuzione, che pure abbia rideterminato la pena detentiva al di sotto dei due anni.
Tale disciplina comporterebbe, «come conseguenza pressoché automatica, l’applicazione di una pena potenzialmente sproporzionata nei confronti del condannato, in astratto meritevole di un trattamento sanzionatorio alternativo quale quello rappresentato dalla sospensione condizionale». Essa violerebbe dunque i commi primo e terzo dell’art. 27 Cost., che richiedono l’individualizzazione del trattamento sanzionatorio e la proporzionalità della pena irrogata (sono citate le sentenze di questa Corte n. 40 del 2019, n. 102 del 2020, n. 222 del 2018, n. 236 del 2016, n. 68 del 2012 e n. 313 del 1990).
1.3.2.– In secondo luogo, l’evidenziata «lacuna normativa» risulterebbe «intrinsecamente irragionevole in relazione alla ragionevole durata del processo», principio di rilevanza costituzionale e convenzionale cui si ispirerebbe il disegno complessivo del legislatore del 2022, il quale avrebbe tra l’altro mirato – oltre che a consentire una anticipazione dell’alternativa al carcere all’esito del giudizio di cognizione, riconoscendo al giudice di cognizione il potere di applicare pene sostitutive di natura non detentiva – ad alleggerire il contenzioso penale, favorendo definizioni rapide dei processi.
Di contro, l’impossibilità per il giudice dell’esecuzione di applicare la sospensione condizionale in esito alla riduzione di pena prevista dalla disposizione censurata tramuterebbe il condannato «in un cd. “libero sospeso”, il cui trattamento sanzionatorio – con ogni probabilità, extracarcerario stante il quantum di pena – dovrà essere supervisionato e gestito dalla Magistratura di sorveglianza, previa emissione di un ordine di carcerazione da parte del PM, eventualmente sospeso ove ne ricorrano le condizioni». E ciò «in esatta antitesi» rispetto all’obiettivo che il d.lgs. n. 150 del 2022 si era prefisso, di riduzione del numero e di ridimensionamento della patologica situazione dei cosiddetti “liberi sospesi”.
Da ciò deriverebbe, in definitiva, che «la lacuna normativa censurata non solo non consente di raggiungere le finalità rieducative e di deflazione processuale connesse agli istituti coinvolti, ma si pone in chiave antagonista rispetto a queste ultime, ostacolando la realizzazione di trattamenti sanzionatori alternativi al carcere già in fase di cognizione ed inflazionando in misura deteriore il già gravato procedimento di sorveglianza».
2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate manifestamente inammissibili o, comunque, manifestamente infondate.
2.1.– L’Avvocatura generale dello Stato sostiene, in primo luogo, che le questioni di legittimità costituzionale sarebbero inammissibili per l’errata individuazione della norma da censurare.
Il giudice rimettente avrebbe infatti dovuto sottoporre allo scrutinio della Corte non già l’art. 442, comma 2-bis, cod. proc. pen., bensì l’art. 676, comma 3-bis, del medesimo codice, introdotto con il decreto legislativo 19 marzo 2024, n. 31 (Disposizioni integrative e correttive del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150, di attuazione della legge 27 settembre 2021, n. 134, recante delega al Governo per l’efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari), entrato in vigore il 4 aprile 2024 e – dunque – prima dell’ordinanza di rimessione, datata 6 maggio 2024. È questa seconda disposizione, osserva l’Avvocatura generale, a disciplinare il procedimento di riduzione della pena in seguito alla mancata impugnazione della sentenza di condanna resa in esito al giudizio abbreviato, mentre l’art. 442, comma 2-bis, cod. proc. pen. sarebbe «norma neutra» rispetto all’oggetto della questione di legittimità costituzionale, limitandosi soltanto a disporre la riduzione di un sesto della pena.
2.2.– Nel merito, le questioni sarebbero comunque manifestamente infondate.
Ciò deriverebbe già dalla «fraintesa natura giuridica del beneficio in questione ad opera del giudice rimettente», la disciplina censurata avendo natura processuale e non sostanziale. Tale natura implicherebbe l’impossibilità, per il giudice dell’esecuzione, di rimettere «in discussione i termini irrevocabili della irrogata condanna»: la riduzione di pena sarebbe infatti «destinata ad operare, in senso favorevole all’imputato, nel momento in cui si è già concluso il profilo sostanziale relativo al disvalore del fatto e alla personalità del reo essenziale alla definizione della pena più congrua ai sensi dell’art. 27 della Costituzione».
Da tali considerazioni emergerebbe l’infondatezza delle questioni sollevate, in riferimento a tutti i parametri costituzionali evocati: la disciplina censurata non violerebbe l’art. 27 Cost., né risulterebbe irragionevole o manifestamente arbitraria, «né tampoco in urto con il principio di ragionevole durata del processo (di cui l’evocazione pare anche inammissibile per genericità dei motivi) o con la ratio della novella».
Considerato in diritto
1.– Con l’ordinanza indicata in epigrafe, il GIP del Tribunale di Nola ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 442, comma 2-bis, cod. proc. pen., «nella parte in cui non prevede che il Giudice dell’esecuzione possa concedere la sospensione condizionale della pena e la non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale, ove la diminuzione automatica di pena per la mancata impugnazione della sentenza di condanna emessa in sede di giudizio abbreviato comporti l’applicazione di una pena contenuta nei limiti di legge di cui all’art. 163 c.p. e ricorrendone gli ulteriori presupposti», in riferimento agli artt. 3, 27, commi primo e terzo, 111, 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 CEDU.
La disposizione censurata, introdotta dall’art. 24, comma 1, lettera c), del d.lgs. n. 150 del 2022 nel testo dell’art. 442 cod. proc. pen. (disciplinante nel suo complesso la decisione del giudizio abbreviato), prevede che «[q]uando né l’imputato, né il suo difensore hanno proposto impugnazione contro la sentenza di condanna, la pena inflitta è ulteriormente ridotta di un sesto dal giudice dell’esecuzione».
Il rimettente – investito, in qualità di giudice dell’esecuzione, di una richiesta di riduzione della pena ai sensi della disposizione censurata, con contestuale istanza di sospensione condizionale della pena medesima e di non menzione della condanna – ritiene che il testo della disposizione gli precluda di provvedere sui benefici richiesti. E ciò anche quando, come nel caso oggetto del procedimento a quo, solo in seguito a tale riduzione la pena risulti contenuta entro i limiti di legge che consentono, in astratto, di applicare entrambi i benefici.
Il giudice a quo solleva dunque due distinti gruppi di questioni di legittimità costituzionale, in riferimento ai parametri menzionati, aventi a specifico oggetto la lacuna normativa rappresentata dalla mancata previsione, da parte della disposizione censurata, del potere del giudice dell’esecuzione di provvedere anche in merito a tali benefici.
Il primo ruota attorno alla denuncia di una «lacuna normativa intrinsecamente irragionevole in relazione alla funzione rieducativa», con conseguente violazione degli artt. 3 e 27, commi primo e terzo, Cost.
Il secondo gruppo di censure evidenzia invece l’esistenza di una «lacuna normativa intrinsecamente irragionevole in relazione alla ragionevole durata del processo», con conseguente violazione degli artt. 3, 111 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 CEDU.
2.– Le questioni sono ammissibili.
2.1.– Secondo l’Avvocatura generale dello Stato, l’ordinanza di rimessione sarebbe viziata in sostanza da aberratio ictus, in quanto il giudice a quo avrebbe dovuto dirigere le proprie censure sul nuovo art. 676, comma 3-bis, cod. proc. pen., introdotto con le disposizioni correttive e integrative del d.lgs. n. 150 del 2022, di cui al d.lgs. n. 31 del 2024, ed entrato in vigore prima del deposito dell’ordinanza di rimessione.
L’eccezione non merita accoglimento.
Occorre anzitutto precisare che già il d.lgs. n. 150 del 2022 aveva modificato l’art. 676 cod. proc. pen., dedicato residualmente alle «[a]ltre competenze» del giudice dell’esecuzione, rispetto a quelle disciplinate dettagliatamente negli articoli precedenti. In particolare, l’art. 39, comma 1, lettera b), del d.lgs. n. 150 del 2022 aveva aggiunto al comma 1 dell’art. 676 cod. proc. pen. l’inciso «e all’applicazione della riduzione della pena prevista dall’articolo 442, comma 2-bis», inciso che veniva così a chiudere la lista delle funzioni ulteriori del giudice dell’esecuzione previste dalla disposizione.
Peraltro, già nel 2022 l’esplicita previsione di tale potere nell’art. 676 cod. proc. pen. risultava – a stretto rigore – ridondante, dal momento che l’art. 442, comma 2-bis, cod. proc. pen., contestualmente introdotto, affidava (e continua oggi ad affidare) al giudice dell’esecuzione il compito di procedere alla riduzione della pena in seguito alla mancata impugnazione della sentenza di condanna pronunciata in esito al giudizio abbreviato.
Le disposizioni correttive e integrative di cui al d.lgs. n. 31 del 2024 non hanno modificato la disposizione censurata, ma hanno eliminato dal comma 1 dell’art. 676 cod. proc. pen. l’inciso «e all’applicazione della riduzione della pena prevista dall’articolo 442, comma 2-bis». Contestualmente, esse hanno introdotto ex novo il comma 3-bis, interamente dedicato al procedimento di rideterminazione della pena ai sensi dell’art. 442, comma 2-bis, cod. proc. pen. Tale nuova disposizione oggi prevede: «[i]l giudice dell’esecuzione è, altresì, competente a decidere in ordine all’applicazione della riduzione della pena prevista dall’articolo 442, comma 2-bis. In questo caso, il giudice procede d’ufficio prima della trasmissione dell’estratto del provvedimento divenuto irrevocabile».
Anche a seguito dei correttivi del 2024, dunque, la ridondanza segnalata permane, giacché tanto la disposizione censurata – l’art. 442, comma 2-bis, cod. proc. pen. –, quanto il nuovo art. 676, comma 3-bis, cod. proc. pen. continuano a sovrapporsi nel conferire al giudice dell’esecuzione il potere di provvedere sulla riduzione di pena in caso di mancata impugnazione della sentenza pronunciata con rito abbreviato.
Per altro verso, né l’una, né l’altra disposizione prevedono alcunché sul potere di quello stesso giudice di applicare la sospensione condizionale della pena o la non menzione della condanna. Ciò di cui, per l’appunto, il rimettente nella sostanza si duole.
Può, allora, concedersi all’Avvocatura generale dello Stato che, dal punto di vista della tecnica legislativa, la sede in astratto più appropriata in cui intervenire allo scopo di conferire questo potere al giudice dell’esecuzione sarebbe l’art. 676, comma 3-bis, cod. proc. pen., che disciplina nel dettaglio – nel contesto di un capo dedicato specificamente alle attribuzioni del giudice dell’esecuzione – il procedimento di riduzione della pena introdotto con il nuovo art. 442, comma 2-bis, cod. proc. pen.
Tuttavia, la scelta del rimettente di appuntare le proprie censure sullo stesso art. 442, comma 2-bis, cod. proc. pen. non può considerarsi erronea, al punto da determinare l’inammissibilità delle questioni per aberratio ictus. Infatti, anche questa disposizione individua nel giudice dell’esecuzione quello competente a operare la riduzione di pena, senza nulla prevedere in materia di sospensione della pena e di non menzione della condanna. L’addizione richiesta dal rimettente, dunque, ben potrebbe logicamente essere operata anche su questa disposizione, restando poi naturalmente il legislatore libero di disciplinare in modo più ordinato la materia, eliminando le inutili ridondanze.
2.2.– Le questioni – certamente rilevanti rispetto al giudizio a quo – sono ammissibili altresì con riguardo alla sufficienza della motivazione sulla non manifesta infondatezza relativamente ai parametri evocati.
Ciò vale anche rispetto ai parametri (interno e convenzionale) relativi alla ragionevole durata del processo, che l’Avvocatura generale dello Stato – pur senza formulare una specifica eccezione in proposito – ritiene non sufficientemente motivati. Infatti, il rimettente articola il secondo gruppo di censure precisamente attorno all’effetto di irragionevole ostacolo alla rapida definizione del processo determinato, a suo avviso, dalla lacuna normativa censurata.
2.3.– Infine, le questioni sono ammissibili anche rispetto all’onere, gravante sul giudice a quo, di sperimentare la possibilità di una interpretazione conforme a Costituzione della disposizione censurata.
In effetti, il rimettente dà conto, con motivazione articolata, delle ragioni per le quali non ritiene praticabile tale interpretazione, in particolare chiarendo perché non ritiene possibile colmare la lamentata lacuna normativa attraverso l’applicazione analogica dell’art. 671, comma 3, cod. proc. pen., che espressamente prevede il potere del giudice dell’esecuzione di concedere la sospensione condizionale della pena e la non menzione della condanna, quando ciò consegue al riconoscimento del concorso formale o della continuazione tra i reati accertati in più sentenze o decreti penali di condanna divenuti irrevocabili.
Tanto basta ai fini dell’ammissibilità delle questioni, restando poi riservata alla trattazione del merito della causa ogni valutazione circa la condivisibilità di tale premessa interpretativa da parte di questa Corte (ex multis, di recente, sentenze n. 163 del 2024, punto 2.2. del Considerato in diritto; n. 105 del 2024, punto 2.5. del Considerato in diritto).
3.– Quanto al merito delle censure, l’interpretazione della disposizione censurata secondo cui non sarebbe consentito al giudice dell’esecuzione provvedere, contestualmente alla riduzione di pena, sulle istanze di applicazione della sospensione condizionale e della non menzione della condanna, nemmeno quando solo per effetto di tale riduzione la pena risulti contenuta entro i limiti che in astratto consentono la concessione dei benefici, si pone effettivamente in contrasto con i parametri costituzionali evocati dal rimettente.
3.1.– Lungi dall’esprimere generiche istanze indulgenziali o di immotivata “fuga dalla sanzione” nei confronti degli autori di reato, tanto la sospensione condizionale della pena quanto la non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale sono istituti chiave nell’ottica della funzione oggi costituzionalmente assegnata alla pena dall’art. 27, terzo comma, Cost.
La sospensione condizionale – introdotta in Italia dalla legge 26 giugno 1904, n. 267 (Sospensione della esecuzione delle sentenze di condanna) per i condannati a pena detentiva di norma non superiore alla durata di sei mesi, poi progressivamente estesa sino a raggiungere i limiti attuali – fu sin dalla sua origine pensata come funzionale ad assicurare nel condannato per reati di non particolare gravità un effetto di monito associato alla sentenza di condanna pronunciata nei suoi confronti, risparmiandogli tuttavia, in particolare nel caso di prima condanna, l’esperienza del carcere. Da tempo la dottrina aveva, in effetti, mostrato come le pene detentive brevi – troppo brevi per provocare un cammino di rieducazione, ma già idonee a esporre il condannato all’influenza di subculture criminali e, comunque, a interrompere le sue relazioni affettive, familiari, sociali, lavorative con la comunità – producessero importanti effetti criminogeni e desocializzanti (sul punto, sentenza n. 28 del 2022, punto 5.1. del Considerato in diritto).
Tale ratio essenziale è ancor oggi alla base dell’istituto. E ciò in piena armonia con il principio costituzionale della finalità rieducativa della pena di cui all’art. 27, terzo comma, Cost.: finalità che la sospensione condizionale persegue, peraltro, non solo in forma negativa – evitando i menzionati effetti criminogeni e desocializzanti della pena detentiva breve –, ma anche attraverso la minaccia di revoca del beneficio, che stimola l’astensione da ulteriori reati da parte del condannato durante il periodo di sospensione, nonché attraverso gli obblighi riparatori, ripristinatori o di recupero che, secondo i casi, possono o debbono essere imposti al condannato ai sensi dell’art. 165 cod. pen., conferendo così un contenuto risocializzativo anche “positivo” al beneficio.
Quanto alla non menzione della condanna, si tratta anche in questo caso di beneficio – parimenti di antica tradizione nel nostro ordinamento – funzionale ad evitare, specie nei confronti di persone condannate per la prima volta e comunque per reati non gravi, gli effetti di stigmatizzazione determinati dalla segnalazione della condanna nel certificato del casellario giudiziale ad uso dei privati, e i conseguenti pregiudizi sull’onorabilità del condannato. I quali sono evidentemente suscettibili di tradursi, in particolare, in altrettanti ostacoli alle sue future possibilità di lavoro e rischiano di costituire, dunque, altrettanti fattori di desocializzazione (sentenze n. 179 del 2020, punto 6.2. del Considerato in diritto; n. 231 del 2018, punto 5.3. del Considerato in diritto).
Evidente, anche rispetto a questo beneficio, il nesso con il principio costituzionale di rieducazione del condannato di cui all’art. 27, terzo comma, Cost., sia pure declinato qui in forma essenzialmente negativa (come rivolto, cioè, ad evitare per quanto possibile gli effetti desocializzanti della pena).
3.2.– L’applicazione di entrambi i benefici è subordinata dalla legge a una serie di requisiti, tra i quali spicca un limite massimo di pena detentiva concretamente inflitta (ordinariamente, pari a due anni). Per effetto di questo meccanismo, la valutazione sull’applicazione di tali benefici da parte del giudice della cognizione diviene parte integrante del processo di “commisurazione in senso lato” della pena, di cui la sentenza di condanna deve dar conto nella parte motiva e nel dispositivo, e che ha ad oggetto non solo la tipologia e il quantum della pena applicata, ma anche la sua concreta eseguibilità e il suo regime di pubblicità per i privati.
Tale meccanismo vale anche nella generalità delle ipotesi in cui il codice di procedura penale prevede riduzioni di pena finalizzate a incentivare, a scopi deflattivi del contenzioso, definizioni processuali alternative rispetto al dibattimento (rito abbreviato, patteggiamento, procedimento per decreto). In tutte queste ipotesi, la diminuzione di pena connessa al rito si opera sulla pena già determinata in base alle regole generali del codice penale. È, quindi, la pena diminuita per il rito a costituire il punto di riferimento, ai sensi degli artt. 163 e 175 cod. pen., per la valutazione, da parte dello stesso giudice della cognizione, sull’eventuale applicazione della sospensione condizionale e della non menzione.
Il che ha, del resto, una solida giustificazione: la diminuzione della pena conseguente a scelte processuali individuali non è una graziosa concessione al condannato, ma riflette la precisa logica sinallagmatica – la cui legittimità costituzionale non è qui in discussione – adottata dal legislatore, che garantisce un minor carico sanzionatorio a chi volontariamente rinunci a esercitare parti integranti del proprio diritto costituzionale di difesa, fornendo così un contributo al più rapido ed efficiente funzionamento del sistema penale nel suo complesso: il che non è senza significato nemmeno ai fini della valutazione della “necessità di pena” del singolo condannato. Sicché è del tutto logico che la valutazione sui presupposti della sospensione condizionale e della non menzione venga operata rispetto alla pena così come determinata “a valle” delle scelte processuali dell’imputato, che costituiscono, esse pure, elementi significativi nella “commisurazione in senso lato” della pena a lui applicabile.
3.3.– Ora, l’art. 442, comma 2-bis, cod. proc. pen., in questa sede all’esame, stabilisce anch’esso un meccanismo premiale, per effetto del quale la pena viene «ridotta di un sesto» nell’ipotesi in cui il condannato in esito a un giudizio abbreviato non proponga impugnazione contro la sentenza. Tale riduzione è espressamente indicata quale “ulteriore” rispetto a quella della metà o di un terzo prevista dal comma 2.
In entrambi i meccanismi normativi, la pena originariamente determinata dal giudice sulla base degli ordinari criteri di cui agli artt. 133 e 133-bis cod. pen. subisce una modificazione ex lege, in omaggio a logiche deflattive del contenzioso penale: rispetto all’ipotesi del comma 2, al fine di incentivare il ricorso al rito abbreviato, caratterizzato dalla rinuncia alle garanzie del contraddittorio nella formazione della prova; rispetto a quella, ora all’esame, del comma 2-bis, allo scopo di indurre il condannato a rinunciare ad impugnazioni miranti unicamente a una riduzione della pena inflittagli (così la relazione finale della Commissione di studio per elaborare proposte di riforma in materia di processo e sistema sanzionatorio penale, nonché in materia di prescrizione del reato, attraverso la formulazione di emendamenti al disegno di legge A.C. 2435, pagina 27).
Nell’una e nell’altra ipotesi, il legislatore si ripromette dunque di ottenere un risparmio di tempi e di energie per il già sovraccarico sistema penale italiano, riducendo per quanto possibile – rispettivamente – il numero di giudizi dibattimentali e di impugnazioni.
La peculiarità della riduzione “ulteriore” di pena di cui al comma 2-bis risiede, però, nella circostanza che alla rideterminazione della pena è chiamato il giudice dell’esecuzione, anziché il giudice della cognizione. Ciò, da un lato, è conseguenza necessaria del meccanismo normativo, che presuppone la rinuncia all’impugnazione nei termini di legge da parte del condannato e, dunque, il passaggio in giudicato della sentenza di condanna. Dall’altro lato, questa peculiarità pone, sul piano esegetico, il quesito se, nel silenzio del legislatore, anche il giudice dell’esecuzione abbia il potere (o il dovere) di valutare se applicare la sospensione condizionale della pena e la non menzione della condanna, quando soltanto per effetto della nuova riduzione la pena risulti in concreto rientrare nei limiti di legge che rendono possibile l’applicazione di uno o entrambi i benefici.
3.4.– Questa Corte ritiene che una risposta negativa a tale quesito risulti, in effetti, incompatibile con i principi costituzionali evocati dal rimettente.
3.4.1.– Anzitutto, chi rinunci al proprio diritto all’impugnazione della sentenza di condanna pronunciata all’esito di un giudizio abbreviato, in cambio di un ulteriore sconto di pena rispetto a quello già ottenuto per effetto della scelta del rito, si troverebbe in una posizione significativamente deteriore rispetto a tutti coloro che si avvalgano di analoghi sconti di pena, in cambio della rinuncia a proprie facoltà processuali parimenti coperte dal diritto costituzionale di difesa e dai principi del giusto processo. Rispetto a tutti costoro, come si è già osservato, è la pena determinata “a valle” della riduzione di pena connessa al rito – e non già quella determinata dal giudice “a monte” di tale riduzione – a costituire il presupposto per l’eventuale applicazione della sospensione condizionale e della non menzione.
Una tale disparità di trattamento risulta difficilmente giustificabile al metro del principio di eguaglianza ex art. 3 Cost. E ciò tanto più in quanto, come già osservato, la rinuncia all’impugnazione della sentenza di condanna, dalla quale dipende la riduzione di un sesto della pena, è sacrificio diverso e ulteriore rispetto alla rinuncia alle garanzie del dibattimento, che è già “compensata” dalla riduzione della metà o di un terzo prevista dal comma 2 dell’art. 442 cod. proc. pen.
3.4.2.– Ma, soprattutto, la soluzione risulterebbe distonica rispetto alle ordinarie regole di “commisurazione in senso lato” della pena, a loro volta espressione del principio della finalità rieducativa di cui all’art. 27, terzo comma, Cost.
La regola di sistema vigente nel nostro ordinamento è che tutte le pene detentive determinate – in esito all’intero procedimento commisurativo – entro il limite dei due anni di reclusione sono soggette, ricorrendo gli ulteriori requisiti fissati dagli artt. 163, 164 e 175 cod. pen., a una valutazione ex officio da parte del giudice circa la necessità di una loro effettiva esecuzione, nonché circa la loro pubblicità ai privati. È, dunque, la misura finale della pena a costituire il presupposto di una preventiva valutazione del giudice sulla sua immediata eseguibilità, ovvero sulla sua sospensione condizionale, nonché sull’opportunità di evitare la sua iscrizione sul certificato del casellario giudiziale, in presenza dei requisiti di legge relativi all’applicabilità di tali benefici.
Questa regola di sistema dipende strettamente dalla poc’anzi rammentata scelta di fondo del legislatore di assicurare al condannato per reati non gravi, specie se alla prima condanna, una chance di sottrarsi agli effetti desocializzanti propri delle pene detentive brevi e all’effetto stigmatizzante derivante dall’iscrizione della condanna nel casellario giudiziale.
Pertanto, una soluzione interpretativa che imponesse comunque il passaggio alla fase esecutiva di pene detentive di durata non superiore a due anni, ovvero la necessaria menzione sul casellario giudiziale di pene contenute entro tale limite di durata, finirebbe per porsi in antitesi con le finalità rieducative perseguite dal legislatore attraverso i due istituti in esame, in adempimento del preciso mandato costituzionale di cui all’art. 27, terzo comma, Cost.
3.4.3.– Se è vero, poi, che la valutazione sui benefici in parola fa corpo con tutte le regole che presiedono alla “commisurazione della pena in senso lato”, allora l’impossibilità di procedervi nel momento in cui viene determinata la pena destinata a passare in esecuzione, pur quando essa rientri entro i limiti di legge previsti per l’applicazione dei benefici medesimi, finisce per privare il condannato di uno strumento essenziale per consentire al giudice di calibrare la risposta sanzionatoria a tutte le peculiarità del reato commesso e alle specifiche caratteristiche del condannato: incluse la valutazione del suo effettivo rischio di recidiva e la necessità di favorirne il percorso rieducativo evitando, per quanto possibile, gli effetti desocializzanti e criminogeni della pena detentiva breve. E ciò in violazione del principio costituzionale della personalità della responsabilità penale di cui all’art. 27, primo comma, Cost., che esige l’individualizzazione della sanzione rispetto al singolo fatto di reato e alla situazione del singolo condannato (ex multis, sentenze n. 91 del 2024, punto 9 del Considerato in diritto; n. 86 del 2024, punto 5.8. del Considerato in diritto; n. 197 del 2023, punto 5.5.1. del Considerato in diritto; n. 195 del 2023, punto 6.1. del Considerato in diritto; n. 40 del 2023, punto 5.2. del Considerato in diritto; n. 222 del 2018, punti 7.1. e 7.2. del Considerato in diritto).
3.4.4.– Infine, la soluzione ora in esame finirebbe per minare gravemente l’effettività dell’incentivo alla rinuncia all’impugnazione, sul quale ha scommesso la riforma del 2022, per chi sia stato condannato a una pena che, grazie alla riduzione di un sesto, potrebbe rientrare entro i limiti di legge per il riconoscimento di entrambi i benefici. In tal caso, infatti, il condannato avrebbe ogni incentivo per proporre appello, mirando a ottenere in quella sede una riduzione della pena, anche grazie al meccanismo del concordato con rinuncia ai motivi di appello di cui all’art. 599-bis cod. proc. pen.
Il che introdurrebbe, come a ragione osserva il rimettente, un elemento di intrinseca irrazionalità rispetto allo stesso scopo legislativo di favorire una più rapida definizione del contenzioso penale: con conseguente ulteriore profilo di frizione rispetto all’art. 3 Cost., in combinato disposto con gli artt. 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6, paragrafo 1, CEDU.
4.– Resta, a questo punto, da valutare – sul piano dell’individuazione del rimedio al vulnus riscontrato – se al risultato di assicurare al giudice dell’esecuzione la possibilità di valutare l’applicabilità della sospensione condizionale e della non menzione, dopo aver ridotto la pena di un sesto ai sensi della disposizione censurata, possa pervenire già il giudice comune attraverso una interpretazione costituzionalmente conforme di tale disposizione; ovvero se sia necessaria, allo scopo, una pronuncia di illegittimità costituzionalità parziale da parte di questa Corte.
4.1.– Al riguardo, occorre anzitutto considerare che ciò di cui il rimettente si duole è una lacuna normativa: e dunque, un mero silenzio del legislatore.
In linea di principio, il silenzio del legislatore non può essere inteso dall’interprete come decisivo nell’uno o nell’altro senso, dal momento che al criterio ubi lex voluit dixit, ubi tacuit noluit può agevolmente opporsi la normale applicabilità dell’analogia, legis o iuris, quale strumento idoneo a colmare le lacune lasciate aperte del legislatore, salvo che sussistano specifici impedimenti all’uso di tale strumento, quale segnatamente la natura eccezionale della disciplina di cui si tratta (art. 14 Preleggi).
4.1.1.– Il rimettente ritiene, per l’appunto, che l’applicazione analogica dell’unica disposizione che espressamente conferisce al giudice dell’esecuzione il potere di concedere la sospensione condizionale della pena e la non menzione – e cioè l’art. 671, comma 3, cod. proc. pen., previsto per l’ipotesi in cui siano riconosciuti in sede esecutiva il concorso formale o la continuazione tra più reati oggetto di più pronunce di condanna divenute irrevocabili – sia preclusa dalla natura eccezionale di tale disposizione. Quest’ultima derogherebbe, infatti, al principio generale secondo cui «il giudizio prognostico sulla futura condotta del reo – costituente il presupposto per la concessione della sospensione condizionale – è ordinariamente riservato al giudice della cognizione, che ha accertato la responsabilità del soggetto per il fatto cui il beneficio andrebbe applicato»; e derogherebbe, comunque, al principio generale dell’immodificabilità del giudicato da parte del giudice dell’esecuzione. Ciò si evincerebbe, ad avviso del rimettente, dalla giurisprudenza di legittimità, e in particolare dalla sentenza n. 4687 del 2006 delle Sezioni unite penali, le cui affermazioni sarebbero state più volte riprese dalla giurisprudenza successiva.
4.1.2.– Al riguardo, occorre però sottolineare che la sentenza delle Sezioni unite n. 4687 del 2006 ha affrontato la specifica questione, che era stata oggetto di un acceso contrasto giurisprudenziale, relativa al potere del giudice dell’esecuzione di disporre la sospensione condizionale della pena nel caso – previsto dall’art. 673 cod. proc. pen. – di revoca per abolitio criminis di sentenze di condanna che avevano impedito al giudice, nel giudizio di cognizione relativo ad altro reato, di concedere il beneficio in parola.
Nell’iter motivazionale che ha condotto a una risposta affermativa a tale questione, la Corte di cassazione ha escluso bensì la possibilità di un’estensione analogica dell’art. 671, comma 3, cod. proc. pen., ritenendo che tale disposizione abbia natura eccezionale rispetto al principio generale dell’immodificabilità del giudicato; ma al tempo stesso ha ritenuto che al risultato di ammettere la possibilità per il giudice dell’esecuzione di concedere la sospensione condizionale nel caso in esame – risultato, precisa la Cassazione, imposto dalla necessità di una interpretazione costituzionalmente orientata dello stesso art. 673 cod. proc. pen. (punto 4 dei Motivi della decisione) – si potesse pervenire valorizzando l’inciso «e adotta i provvedimenti conseguenti» presente nella disposizione (punto 5 dei Motivi della decisione).
La medesima sentenza ha, altresì chiarito che tale soluzione non si pone in contrasto con il principio dell’intangibilità del giudicato e con la carenza di poteri valutativi da parte del giudice dell’esecuzione, a ciò essendo agevole replicare «che evidenti esigenze di ordine logico, coessenziali alla razionalità del sistema, inducono a ritenere che, una volta dimostrato che la legge processuale demanda al giudice una determinata funzione, allo stesso giudice è conferita la titolarità di tutti i poteri necessari all’esercizio di quella medesima attribuzione» (punto 6 dei Motivi della decisione).
Laddove dunque – hanno concluso le Sezioni unite – nel giudizio pregresso l’unico motivo della mancata applicazione del beneficio sia stato l’effetto preclusivo della sentenza di condanna successivamente revocata per sopravvenuta abolitio criminis, «non può certamente ravvisarsi alcun reale vulnus al giudicato qualora quel giudizio prognostico che non è stato compiuto dal giudice della cognizione sia compiuto, poi, dal giudice dell’esecuzione», anche alla luce «di tutti i sopravvenuti elementi sintomatici che, allorché il giudice dell’esecuzione formula il giudizio prognostico, contribuiscono a giustificare il convincimento che il condannato si asterrà dal commettere ulteriori reati» (ancora, punto 6 dei Motivi della decisione).
4.1.3.– L’evoluzione successiva della giurisprudenza di legittimità mostra non solo un progressivo riconoscimento del potere del giudice dell’esecuzione di rideterminare la pena cristallizzata in una sentenza definitiva di condanna anche al di fuori delle ipotesi legislativamente previste (su tale evoluzione, sentenze n. 2 del 2022, punto 5.1.1. del Considerato in diritto, n. 68 del 2021, punto 2.2. del Considerato in diritto, e n. 210 del 2013, punto 7.3. del Considerato in diritto, e ivi ampi riferimenti alla giurisprudenza pertinente della Corte di cassazione); ma evidenzia altresì – per ciò che qui più direttamente rileva – un progressivo riconoscimento del suo potere di concedere la sospensione condizionale della pena in conseguenza di tale rideterminazione, una volta rimosso l’ostacolo normativo che aveva impedito al giudice della cognizione di provvedervi. E ciò anche in assenza di uno specifico appiglio normativo come quello rappresentato dalla formula, presente nell’art. 673 cod. proc. pen. e valorizzato dalle Sezioni unite nel 2006, «e adotta i provvedimenti conseguenti» (così, ad esempio, Cass., n. 16679 del 2013, rispetto ai poteri del giudice dell’esecuzione che abbia rideterminato la pena dopo l’annullamento senza rinvio di un solo capo della sentenza di condanna).
Nuovamente le Sezioni unite penali, pronunciandosi nel 2015 sui poteri – non stabiliti in modo espresso da alcuna norma processuale – del giudice dell’esecuzione di rideterminare la pena nel caso di dichiarazione di illegittimità costituzionale dei limiti edittali di pena previsti per una fattispecie criminosa, hanno invocato il precedente del 2006 per concludere che, nell’effettuare tale rideterminazione, il giudice dell’esecuzione ben può pronunciarsi anche sull’eventuale sospensione condizionale della pena così rideterminata, sulla base di «evidenti esigenze di ordine logico, coessenziali alla razionalità del sistema» (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 26 febbraio-15 settembre 2015, n. 37107, punto 9 dei Motivi della decisione).
In una successiva occasione, la Sezione prima penale ha parimenti riconosciuto il potere del giudice dell’esecuzione, chiamato a rideterminare la pena in conseguenza della revoca parziale della sentenza di condanna ai sensi dell’art. 669 cod. proc. pen., di procedere anche alla valutazione dei presupposti della sospensione condizionale. La pronuncia ha rammentato che le Sezioni unite avevano fatto leva, nel 2006, sul dato testuale rappresentato dall’inciso «e adotta i provvedimenti conseguenti», contenuto nell’art. 673 cod. proc. pen.; ma ha sottolineato altresì come già in quella pronuncia fosse stato utilizzato l’argomento dei «poteri impliciti» del giudice dell’esecuzione, poi ulteriormente sviluppato nella sentenza n. 37107 del 2015, essendosi così chiarito che – anche laddove manchi un appiglio testuale – il richiamo contenuto ai provvedimenti conseguenti di cui all’art. 673 cod. proc. pen., «lungi dal consegnare un’attribuzione in via eccezionale, è indicativo di una situazione di potere necessariamente implicata da quella che consente al giudice dell’esecuzione di rimuovere un giudicato». Direttamente in forza di tale principio, dunque, «e non già per applicazioni analogiche di disposizioni dettate per casi simili, il giudice dell’esecuzione può provvedere sulla sospensione condizionale – su cui in precedenza non si sarebbe potuto pronunciare per l’impedimento derivante dal giudicato di condanna revocato».
4.1.4.– Le pronunce appena riferite mostrano che un’interpretazione conforme a Costituzione della disposizione censurata sarebbe stata praticabile.
Ciò non solo in considerazione del silenzio serbato sul punto dal legislatore (e dunque dell’assenza di dati testuali incompatibili con tale interpretazione), ma anche alla luce dei principi gradatamente enucleati dalla giurisprudenza di legittimità, dai quali emerge che tra i poteri del giudice dell’esecuzione – fondati che siano su espresse disposizioni normative, su applicazioni analogiche di tali disposizioni ovvero su un’analogia iuris che muova dal principio generale del necessario adeguamento del titolo esecutivo a fatti sopravvenuti al giudicato stesso – rientra il potere di effettuare ogni valutazione conseguente alla rideterminazione della pena irrogata nella sentenza irrevocabile, a sua volta imposta dalle disposizioni di legge di volta in volta rilevanti. In simili ipotesi, il giudizio di esecuzione è chiamato a ospitare un «frammento di cognizione» (sentenza n. 183 del 2013, punto 6 del Considerato in diritto), sulla base del materiale raccolto in precedenza o – eventualmente – delle nuove evidenze necessarie a compiere le valutazioni in parola, sì da adeguare le statuizioni relative alla pena nel loro complesso alla mutata situazione sopravvenuta al giudicato, e alla quale il giudicato stesso deve essere conformato.
4.2.– È pur vero tuttavia che, nelle more del giudizio di legittimità costituzionale, almeno due pronunce della Corte di cassazione hanno escluso il potere del giudice dell’esecuzione di disporre la sospensione condizionale della pena e la non menzione della condanna a valle della rideterminazione della pena ai sensi della disposizione censurata, reiterando sostanzialmente l’argomento della natura eccezionale dei poteri d’intervento sul giudicato del giudice dell’esecuzione (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenze 26 marzo-17 luglio 2024, n. 28917 e 9 luglio-15 ottobre 2024, n. 37899).
Sebbene non si possa ritenere che due sole pronunce – rese in un brevissimo arco temporale – costituiscano già diritto vivente idoneo a essere assunto come oggetto del giudizio di legittimità costituzionale, questa Corte non può che prendere atto della circostanza che, allo stato, la Corte di cassazione ha ritenuto di non poter pervenire ad un’interpretazione costituzionalmente conforme, nel senso appena indicato, della disposizione censurata.
In considerazione delle esigenze di certezza giuridica, che sono particolarmente acute nella materia processuale, appare a questo punto opportuno intervenire, nel senso sollecitato dal rimettente, ad assicurare il rispetto dei principi costituzionali in gioco attraverso una pronuncia di accoglimento additiva (sentenze n. 179 del 2024, punto 7 del Considerato in diritto, e n. 45 del 2023, punto 10 del Considerato in diritto).
Tale intervento può essere effettuato semplicemente mutuando la disciplina di cui all’art. 671, comma 3, cod. proc. pen., che espressamente prevede il potere del giudice dell’esecuzione di concedere altresì la sospensione condizionale della pena e la non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale, quando il giudice della cognizione non abbia potuto provvedervi perché la pena allora determinata era superiore ai limiti di legge che consentono la concessione di tali benefici.
In questa ipotesi, il giudice dell’esecuzione (che peraltro coinciderà, nella normalità dei casi, con il GUP che ha già valutato gli atti ai fini della pronuncia della sentenza di condanna, non impugnata nei termini di legge) dovrà dunque valutare, secondo quanto già chiarito dalle Sezioni unite nella sentenza n. 4687 del 2006 poc’anzi estesamente richiamata, la sussistenza delle condizioni previste rispettivamente dagli artt. 163 e 164, nonché dall’art. 175 cod. pen.: e segnatamente – quanto alla sospensione condizionale – se sussista un pericolo di commissione di nuovi reati, alla luce degli elementi probatori già esaminati nel giudizio di cognizione, e di quelli ulteriori che dovessero essere nel frattempo emersi.
5.– In considerazione delle già segnalate esigenze di maggiore certezza giuridica, appare infine opportuno estendere in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), la medesima dichiarazione di illegittimità costituzionale parziale anche all’art. 676, comma 3-bis, cod. proc. pen., che detta un’espressa disciplina dei poteri del giudice dell’esecuzione nell’ipotesi di cui all’art. 442, comma 2-bis, cod. proc. pen.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 442, comma 2-bis, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che il giudice dell’esecuzione può concedere altresì la sospensione della pena e la non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale, quando il giudice della cognizione non abbia potuto provvedervi perché la pena allora determinata era superiore ai limiti di legge che consentono la concessione di tali benefici;
2) dichiara in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale dell’art. 676, comma 3-bis, cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede che il giudice dell’esecuzione può concedere altresì la sospensione della pena e la non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale, quando il giudice della cognizione non abbia potuto provvedervi perché la pena allora determinata era superiore ai limiti di legge che consentono la concessione di tali benefici.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 novembre 2024.
F.to:
Giovanni AMOROSO, Presidente
Francesco VIGANÒ, Redattore
Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria
Depositata in Cancelleria il 19 dicembre 2024