Sentenza n. 45 del 2023

SENTENZA N. 45

ANNO 2023

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Silvana SCIARRA;

Giudici: Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 630, terzo comma, del codice di procedura civile, promosso dal Tribunale ordinario di Udine, sezione seconda civile, nel procedimento vertente tra M. L. V. e altro e S. S. e altro, con ordinanza del 21 aprile 2022, iscritta al n. 95 del registro ordinanze 2022 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 37, prima serie speciale, dell’anno 2022.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udita nella camera di consiglio del 25 gennaio 2023 la Giudice relatrice Emanuela Navarretta;

deliberato nella camera di consiglio del 6 febbraio 2023.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 21 aprile 2022, iscritta al n. 95 del registro ordinanze 2022, il Tribunale ordinario di Udine, sezione seconda civile, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 111, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 630, terzo comma, del codice di procedura civile, «nella parte in cui richiama l’applicazione dell’art. 178, quarto e quinto comma c.p.c., disponendo quindi che il reclamo si propone al giudice dell’esecuzione (con ricorso o all’udienza) e che del collegio giudicante sul reclamo faccia parte anche il giudice che ha emesso il provvedimento reclamato, anziché richiamare quanto previsto dall’art. 669-terdecies, comma secondo, primo periodo, c.p.c. o dall’art. 186-bis disp. att. c.p.c.».

2.– Il rimettente riferisce che, nell’ambito di una procedura di esecuzione immobiliare presso il Tribunale di Udine, il giudice dell’esecuzione, con ordinanza del 30 dicembre 2021, ha rigettato l’istanza di estinzione del giudizio avanzata dalle debitrici esecutate e che, avverso tale ordinanza, le debitrici hanno proposto tempestivo reclamo al collegio, ai sensi dell’art. 630, terzo comma, cod. proc. civ.

Costituitosi il collegio, le reclamanti hanno formulato, in riferimento agli artt. 3, 24, 25 e 111 Cost., un’eccezione di illegittimità costituzionale degli artt. 50-bis, 50-quater, 178, 630, 669-terdecies e 738 cod. proc. civ., nonché dell’art. 186-bis delle disposizioni per l’attuazione del codice di procedura civile, in quanto consentirebbero la partecipazione del giudice che ha adottato il provvedimento reclamato al collegio che decide sul reclamo.

3.– Il Tribunale di Udine ha sollevato questioni di legittimità costituzionale del solo art. 630, terzo comma, cod. proc. civ. nel suo rinvio all’art. 178, commi quarto e quinto, cod. proc. civ., in riferimento a parametri costituzionali parzialmente diversi: gli artt. 3, primo comma, 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6, paragrafo 1, CEDU.

Il giudice a quo ritiene che il citato rimando dell’art. 630, terzo comma, cod. proc. civ. all’art. 178, commi quarto e quinto, cod. proc. civ. comporti la necessaria partecipazione al collegio del reclamo del magistrato che, in veste di giudice dell’esecuzione, si è pronunciato sull’estinzione.

3.1.– In punto di rilevanza, il Tribunale di Udine afferma che, poiché nel giudizio a quo del collegio che esamina il reclamo fa parte anche il giudice-persona fisica che ha emesso l’ordinanza reclamata, la norma su cui vertono i dubbi di legittimità costituzionale sarebbe di «diretta applicazione [nel] giudizio», in quanto vòlta a «determinare la composizione [del] collegio giudicante».

3.2.– Quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente ravvisa plurime ragioni di contrasto con diverse norme costituzionali.

3.2.1.– In primo luogo, il Tribunale di Udine svolge una censura in riferimento all’art. 3 Cost., che si sviluppa a partire dalla considerazione che, nell’attuale ordinamento giuridico, numerose previsioni sono vòlte a impedire la partecipazione del giudice, che ha adottato un provvedimento, al successivo giudizio promosso contro il medesimo.

In particolare, ravvisa una irragionevole disparità di trattamento fra le disposizioni censurate e la disciplina relativa all’opposizione agli atti esecutivi, rispetto alla quale l’art. 186-bis disp. att. cod. proc. civ. prevede che «[i] giudizi di merito di cui all’articolo 618, secondo comma, del codice [di procedura civile] sono trattati da un magistrato diverso da quello che ha conosciuto degli atti avverso i quali è proposta opposizione».

Inoltre, muove un’ulteriore, analoga censura, adottando quale tertium comparationis anche la disposizione relativa al reclamo avverso l’ordinanza con la quale viene concesso o negato il provvedimento cautelare nell’ambito del processo esecutivo. Si tratta dell’art. 669-terdecies, secondo comma, primo periodo, cod. proc. civ., in base al quale «[i]l reclamo contro i provvedimenti del giudice singolo del tribunale si propone al collegio, del quale non può far parte il giudice che ha emanato il provvedimento reclamato».

3.2.2.– In secondo luogo, il rimettente sostiene che la partecipazione obbligatoria del giudice dell’esecuzione al giudizio di reclamo, unitamente all’omessa previsione della sua incompatibilità, arrechi un vulnus all’art. 111 Cost., secondo comma, Cost., nella parte in cui «prescrive che ogni processo si svolga dinanzi a un giudice imparziale».

A supporto di tale censura, invoca quanto chiarito da questa Corte in merito alla necessità che il legislatore impedisca «che il giudice possa pronunciarsi due volte sulla medesima res iudicanda (Corte Cost. n. 335/2002), onde evitare la c.d. forza della prevenzione».

In particolare, dopo aver dato atto – sempre sulla scorta della giurisprudenza di questa Corte – che le implicazioni del principio di imparzialità nel processo civile e in quello amministrativo non sono le stesse che il medesimo principio ha nel processo penale, il giudice a quo osserva che il giudizio di reclamo, ex art. 630, terzo comma, cod. proc. civ., è fondato su «un contraddittorio solamente cartolare» e si limita ad accertare il «verificarsi o meno di una fattispecie estintiva del processo, e cioè la stessa identica questione che il giudice dell’esecuzione ha affrontato, allorché è stato chiamato in prima battuta a risolvere l’eccezione sollevatagli o rilevata d’ufficio».

L’identità di res iudicanda tra la valutazione svolta dal giudice dell’esecuzione e quella destinata a compiersi dinanzi al collegio del reclamo implicherebbe la necessità costituzionale di non consentire la partecipazione del giudice dell’esecuzione alla fase del reclamo.

3.2.3.– Infine, le medesime considerazioni concernenti la forza della prevenzione inducono il rimettente a ravvisare una lesione anche dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6, paragrafo 1, CEDU, nella parte in cui «afferma il diritto di ogni persona a che il suo processo si svolga dinanzi ad un tribunale “imparziale”».

Il giudice a quo richiama, in proposito, diverse pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo sull’imparzialità del giudice (sentenze 1° febbraio 2005, Indra contro Slovacchia; 24 luglio 2012, Toziczka contro Polonia; 2 maggio 2019, Pasquini contro San Marino), osservando che, secondo la giurisprudenza convenzionale, «[u]na delle possibili situazioni in cui si può temere un difetto di imparzialità dell’organo giurisdizionale, di natura funzionale, può riguardare l’esercizio nel medesimo procedimento di diverse funzioni giudiziarie da parte della stessa persona».

Di qui, il dubbio di un contrasto delle disposizioni censurate anche con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6, paragrafo 1, CEDU, come interpretato dalla Corte EDU.

3.3.– Il rimettente sostiene di aver tentato un’interpretazione costituzionalmente orientata, ma di averla reputata impraticabile.

Sarebbe di ostacolo alla via ermeneutica, innanzitutto, il rinvio dell’art. 630 cod. proc. civ. all’art. 178, quinto comma, cod. proc. civ., nella parte in cui «prescrive, implicitamente ma chiaramente, che il giudice dell’esecuzione integra il collegio decidente».

Inoltre, non sarebbe applicabile la disposizione in materia di astensione obbligatoria di cui all’art. 51, primo comma, numero 4), cod. proc. civ., in quanto il reclamo, al pari dell’opposizione agli atti esecutivi, non configurerebbe tecnicamente un «altro grado del processo».

Il rimettente invoca, pertanto, una sentenza di questa Corte che dichiari costituzionalmente illegittimo l’art. 630 cod. proc. civ. nella parte in cui richiama l’art. 178, commi quarto e quinto, cod. proc. civ., disponendo che del collegio chiamato a decidere sul reclamo debba far parte il giudice che ha adottato l’ordinanza contestata, anziché prevedere una incompatibilità di tale giudice, come nelle fattispecie di cui agli artt. 669-terdecies, secondo comma, primo periodo, cod. proc. civ. e 186-bis disp. att. cod. proc. civ.

4.– È intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che le questioni di legittimità costituzionale siano dichiarate inammissibili e, in ogni caso, non fondate.

4.1.– I motivi di inammissibilità fatti valere sono due.

Innanzitutto, la difesa dello Stato osserva che l’estinzione del processo esecutivo può verificarsi per cause tipiche e atipiche, e che, secondo il diritto vivente, il reclamo ex art. 630 cod. proc. civ. costituisce rimedio appropriato solo avverso i provvedimenti concernenti cause tipiche di estinzione del processo. Viceversa, nell’ipotesi di estinzione per cause atipiche, il rimedio sarebbe dato dall’opposizione agli atti esecutivi.

Secondo l’Avvocatura dello Stato, il rimettente non avrebbe chiarito la ragione che giustificherebbe l’estinzione del processo nella fattispecie sottoposta al proprio esame.

Ne deriverebbe l’impossibilità di comprendere se il reclamo ex art. 630, terzo comma, cod. proc. civ. fosse lo strumento corretto per contestare il provvedimento del giudice dell’esecuzione o se, invece, dovesse essere riqualificato dal collegio. In sostanza, posto che la questione di legittimità costituzionale sollevata verrebbe in rilievo esclusivamente nell’ipotesi di effettiva ammissibilità del reclamo ex art. 630, terzo comma, cod. proc. civ., secondo la difesa statale non emergerebbe dall’ordinanza di rimessione «nessuna valutazione in ordine alla ammissibilità del mezzo di reclamo», sicché non vi sarebbero «i presupposti di una compiuta valutazione della rilevanza della questione posta».

Di seguito, l’Avvocatura dello Stato obietta che il tentativo di interpretazione conforme esperito dal giudice a quo sarebbe assistito da una motivazione meramente apodittica.

Dato che nessuna norma afferma esplicitamente che del collegio di reclamo debba necessariamente far parte il giudice-persona fisica che ha adottato l’ordinanza reclamata, la difesa statale ritiene che il rimettente avrebbe potuto ben desumere dai principi generali la sussistenza, anche in questo caso, di un dovere di astensione ex art. 51, primo comma, numero 4), cod. proc. civ. Tale conclusione sarebbe ulteriormente confortata dalla previsione per legge, nella parallela disciplina dell’opposizione agli atti esecutivi, dell’art. 186-bis disp. att. cod. proc. civ., che dispone l’incompatibilità tra giudice dell’esecuzione e giudice dell’opposizione.

4.2.– Nel merito, l’Avvocatura dello Stato reputa le questioni non fondate.

La difesa statale evoca al riguardo la giurisprudenza di questa Corte (ordinanza n. 497 del 2002) che, in materia di opposizione agli atti esecutivi, prima dell’introduzione dell’art. 186-bis disp. att. cod. proc. civ., aveva escluso l’incompatibilità tra giudice dell’esecuzione e giudice dell’opposizione, ritenendo l’opposizione non un incidente di esecuzione, ma un autonomo processo cognitivo che si colloca al di fuori della procedura esecutiva.

Quanto al richiamo al reclamo cautelare ex art. 669-terdecies cod. proc. civ., il Presidente del Consiglio dei ministri reputa lo stesso inconferente, data la disomogeneità fra i due rimedi.

Da ultimo, la difesa statale si riporta alla pronuncia di questa Corte (n. 460 del 2005), in tema di opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento, sostenendo che le argomentazioni spese in quell’occasione dalla Corte, circa la natura impugnatoria del rimedio e la definitività del provvedimento, ove non opposto, si possano riferire anche al giudizio di reclamo disciplinato dall’art. 630 cod. proc. civ.

Considerato in diritto

1.– Con ordinanza del 21 aprile 2022, iscritta al n. 95 del registro ordinanze 2022, il Tribunale di Udine, sezione seconda civile, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6, paragrafo 1, CEDU, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 630, terzo comma, cod. proc. civ., «nella parte in cui richiama l’applicazione dell’art. 178, quarto e quinto comma c.p.c., disponendo quindi che il reclamo si propone al giudice dell’esecuzione (con ricorso o all’udienza) e che del collegio giudicante sul reclamo faccia parte anche il giudice che ha emesso il provvedimento reclamato, anziché richiamare quanto previsto dall’art. 669-terdecies, comma secondo, primo periodo, c.p.c. o dall’art. 186-bis disp. att. c.p.c.».

2.– Il giudice a quo riferisce che, nell’ambito di una esecuzione immobiliare presso il Tribunale di Udine, il giudice dell’esecuzione ha rigettato l’istanza di estinzione avanzata dalle debitrici esecutate e che, avverso tale ordinanza, le debitrici hanno proposto reclamo al collegio ai sensi dell’art. 630, terzo comma, cod. proc. civ.

3.– Il Tribunale di Udine lamenta che la disposizione censurata vincoli il magistrato, che si è pronunciato sull’estinzione in veste di giudice dell’esecuzione, a partecipare al collegio del reclamo, anziché obbligarlo all’astensione.

3.1.– In punto di rilevanza, il rimettente sostiene che la norma processuale censurata viene «in diretta applicazione» nel giudizio a quo, in quanto determina la composizione del collegio giudicante, atteso che ne fa effettivamente parte il giudice-persona fisica che ha emanato l’ordinanza reclamata.

3.2.– In ordine alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo ravvisa, in primo luogo, una irragionevole disparità di trattamento, in contrasto con l’art. 3 Cost., fra la disposizione censurata e gli artt. 186-bis disp. att. cod. proc. civ. e 669-terdecies, secondo comma, primo periodo, cod. proc. civ., i quali prevedono la necessaria alterità fra il giudice che emette il provvedimento e quello chiamato a pronunciarsi sull’opposizione o sul reclamo avverso lo stesso.

In secondo luogo, il rimettente ritiene che la partecipazione obbligatoria del giudice dell’esecuzione al giudizio di reclamo e l’omessa previsione della sua incompatibilità arrechino un vulnus all’art. 111 Cost., secondo comma, Cost., là dove «prescrive che ogni processo si svolga dinanzi a un giudice imparziale».

Infine, il giudice a quo denuncia un contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6, paragrafo 1, CEDU, nella parte in cui «afferma il diritto di ogni persona a che il suo processo si svolga dinanzi ad un tribunale “imparziale”».

4.– L’Avvocatura generale dello Stato ha chiesto che le questioni di legittimità costituzionale siano dichiarate inammissibili e, in ogni caso, non fondate.

5.– In rito, la difesa statale ha sollevato due eccezioni.

5.1.– Con la prima, ha rilevato che il rimettente non avrebbe chiarito la ragione giustificativa dell’estinzione del processo nella fattispecie sottoposta al suo esame. Tale omissione inciderebbe sulla rilevanza, in quanto il rimedio del reclamo avverso il provvedimento di estinzione opererebbe solo per le ipotesi di estinzione tipica e non per quelle di estinzione cosiddetta atipica, per le quali andrebbe proposta l’opposizione agli atti esecutivi.

Nel caso in esame, posto che le questioni di legittimità costituzionalità sollevate verrebbero «in rilievo esclusivamente nell’ipotesi dell’effettiva ammissibilità del reclamo ex art. 630, terzo comma c.p.c.», non sussisterebbero «i presupposti di una compiuta valutazione della rilevanza della questione». In particolare, secondo l’Avvocatura dello Stato, non sarebbero decisive «né la qualificazione data dal G.E. al provvedimento adottato né quella data dalla parte al rimedio in concreto esperito, bensì quella offerta dal giudice “dell’impugnazione” nella decisione resa».

5.1.1.– L’eccezione non è fondata.

Il giudice dell’impugnazione, nel promuovere questioni di legittimità costituzionale dell’art. 630, terzo comma, cod. proc. civ. e nel motivare la loro rilevanza, sottintende che la causa estintiva su cui è chiamato a giudicare sia proprio quella regolata da tale disposizione, riferita all’estinzione per inattività delle parti.

Per converso, mancano nell’ordinanza elementi idonei a far ritenere di essere in presenza di fattispecie concrete diverse da quella espressamente disciplinata dall’art. 630 cod. proc. civ., il che esclude in radice il problema di stabilire se trovi applicazione detta disposizione o quella relativa all’opposizione agli atti esecutivi.

Né può condividersi il rilievo dell’Avvocatura dello Stato, secondo cui il rimettente non avrebbe qualificato il provvedimento impugnato. Nel motivare la rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 630, terzo comma, cod. proc. civ., il giudice a quo ha, infatti, inequivocabilmente operato un inquadramento normativo riferito alla citata disposizione e ha così riconosciuto la correttezza della qualifica data dal giudice dell’esecuzione e dalle reclamanti.

In definitiva, gli argomenti desumibili dall’ordinanza superano il vaglio di non implausibilità che questa Corte richiede per ritenere ammissibili le questioni sotto il profilo della rilevanza (ex multis, sentenze n. 193 e n. 88 del 2022 e n. 194 del 2021).

5.2.– Quanto alla seconda eccezione sollevata in rito dalla difesa statale, essa contesta il carattere apodittico della motivazione sulla impraticabilità di una interpretazione conforme a Costituzione della disposizione censurata. In particolare, secondo la difesa statale, il coordinamento normativo dell’art. 630, terzo comma, cod. proc. civ. con l’art. 178, commi quarto e quinto, cod. proc. civ. non imporrebbe affatto la partecipazione del giudice-persona fisica, che ha adottato l’ordinanza reclamata, al collegio chiamato a giudicare sul reclamo.

5.2.1.– Anche la seconda eccezione non è fondata.

In ordine alla rilevanza, questa Corte – come già ribadito (supra, punto 5.1.1.) – si limita a operare uno scrutinio meramente esterno, vòlto a verificare la non implausibilità dell’interpretazione posta dal giudice a quo a fondamento dell’incidente di legittimità costituzionale.

Nel caso in esame, è vero che le disposizioni censurate non prevedono espressamente la necessaria partecipazione del giudice dell’esecuzione al giudizio di reclamo.

Tuttavia, non è implausibile desumere dal rinvio dell’art. 630, terzo comma, cod. proc. civ. ai commi quarto e quinto dell’art. 178 cod. proc. civ., e in particolare dall’attribuzione al giudice dell’esecuzione del ruolo riferito al giudice istruttore, la sua necessaria partecipazione al collegio che giudica il reclamo.

Inoltre, va comunque sottolineato che la censura mossa dal rimettente è diretta nei confronti della norma non soltanto perché, a suo dire, contemplerebbe la suddetta partecipazione obbligatoria, ma anche perché ometterebbe di escludere la partecipazione del giudice dell’esecuzione al collegio del reclamo.

E, a tal riguardo, non è implausibile quanto argomenta il giudice a quo, sostenendo che la fattispecie al suo esame non «costituisc[a] tecnicamente “altro grado del medesimo processo”», sì da consentire l’applicazione dell’art. 51, primo comma, numero 4), cod. proc. civ.

6.– Nel merito, questa Corte – avvalendosi del potere di decidere discrezionalmente e insindacabilmente l’ordine delle questioni da affrontare (ex plurimis, sentenze n. 246 del 2020; n. 258 del 2019; n. 148 del 2018) – ritiene di dover esaminare in via prioritaria il dubbio di legittimità costituzionale sollevato in riferimento all’art. 111, secondo comma, Cost.

7.– La questione è fondata.

8.– È importante ribadire – nel solco della giurisprudenza di questa Corte – che il «principio di imparzialità-terzietà della giurisdizione ha pieno valore costituzionale con riferimento a qualunque tipo di processo (sentenze n. 51 del 1998; n. 326 del 1997)» (sentenza n. 387 del 1999).

Corollario del principio è «l’esigenza che il giudice non subisca la “forza della prevenzione” derivante da precedenti valutazioni relative alla stessa res iudicanda» (ordinanza n. 168 del 2002; nello stesso senso, ordinanza n. 28 del 2023 e sentenza n. 176 del 2001).

Vero è che questa Corte ha sottolineato come, in materia di imparzialità-terzietà, non si possano applicare «al processo civile ed ai processi amministrativi e tributari i principi elaborati con riferimento al processo penale, e segnatamente [le] incompatibilità di cui all’art. 34 del codice procedura penale, diverse essendo natura, struttura e funzione del processo penale (sentenze n. 326 del 1997, n. 51 del 1998, n. 363 del 1998 e, da ultimo, n. 78 del 2002)» (ordinanza n. 497 del 2002; più di recente, nello stesso senso, sentenza n. 78 del 2015).

Nondimeno, la giurisprudenza costituzionale ha riconosciuto che, anche con riferimento al processo civile, l’art. 111, secondo comma, Cost. ha rilevanti implicazioni.

In particolare, il principio induce a escludere che il medesimo giudice possa «ripercorrere l’identico itinerario logico precedentemente seguito; sicché, condizione necessaria per dover ritenere una incompatibilità endoprocessuale è la preesistenza di valutazioni che cadano sulla stessa res iudicanda (cfr. sentenza n. 131 del 1996)» (sentenza n. 387 del 1999).

8.1.– Facendo applicazione del principio, questa Corte, chiamata in passato a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale dell’art. 51, comma 1, numero 4), cod. proc. civ., che disciplina l’obbligo di astensione per il giudice che «“ha conosciuto” della causa “come magistrato in altro grado del processo”», ha ritenuto che l’«espressione “altro grado” non [possa] avere un ambito ristretto al solo diverso grado del processo, secondo l’ordine degli uffici giudiziari, come previsto dal [relativo] ordinamento» (sentenza n. 460 del 2005; nello stesso senso, sentenza n. 387 del 1999). Viceversa, la Corte ha sostenuto che la nozione debba «ricomprendere – con una interpretazione conforme a Costituzione – anche la fase che, in un processo civile, si succede con carattere di autonomia, avente contenuto impugnatorio, caratterizzata […] da pronuncia che attiene al medesimo oggetto e alle stesse valutazioni decisorie sul merito dell’azione proposta nella prima fase, ancorché avanti allo stesso organo giudiziario» (ancora sentenza n. 460 del 2005).

L’intrinseca natura impugnatoria viene, pertanto, ravvisata, innanzitutto, nell’avere «il provvedimento soggetto a revisio “una funzione decisoria idonea di per sé a realizzare un assetto dei rapporti tra le parti, non meramente incidentale o strumentale e provvisorio ovvero interinale (fino alla decisione del merito), ma anzi suscettibile – in caso di mancata opposizione – di assumere valore di pronuncia definitiva, con effetti di giudicato tra le parti”». Inoltre, la medesima natura impugnatoria si inferisce dall’«essere “la valutazione delle condizioni che legittimano il provvedimento” non divergente, quanto a parametri di giudizio, “da quella che deve compiere il giudice dell’eventuale opposizione, se non per il carattere del contraddittorio e della cognizione sommaria”» (sentenza n. 460 del 2005, che nuovamente riprende la sentenza n. 387 del 1999).

8.2.– Nel corso del tempo, il legislatore è poi intervenuto in numerose occasioni al fine di assicurare, nell’ambito del processo civile, l’imparzialità rispetto a mezzi espressamente qualificati come reclami e a cui, in buona parte delle ipotesi, può riconoscersi una natura impugnatoria, ancorché si propongano dinanzi al medesimo ufficio giudiziario.

8.2.1.– Si tratta di interventi che hanno riguardato molteplici procedimenti: di natura cautelare (art. 669-terdecies, secondo comma, cod. proc. civ., introdotto dall’art. 74, comma 2, della legge 26 novembre 1990, n. 353, recante «Provvedimenti urgenti per il processo civile» e modificato dall’art. 108 del decreto legislativo 19 febbraio 1998, n. 51, recante «Norme in materia di istituzione del giudice unico di primo grado»); relativi all’apertura della successione (art. 749, terzo comma, cod. proc. civ., come modificato dall’art. 113, comma 1, lettera c, del d.lgs. n. 51 del 1998); inerenti alle procedure concorsuali in senso stretto (artt. 25, secondo comma, e 99, decimo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, recante «Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa», come sostituiti rispettivamente dall’art. 22 del decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5, recante «Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali a norma dell’articolo 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005, n. 80» e dall’art. 6, comma 4, del decreto legislativo 12 settembre 2007, n. 169, recante «Disposizioni integrative e correttive al regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, nonché al decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5, in materia di disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa, ai sensi dell’articolo 1, commi 5, 5-bis e 6, della legge 14 maggio 2005, n. 80»); concernenti la composizione delle crisi da sovraindebitamento (artt. 10, comma 6, 11, comma 5, 12, comma 4, e 14, comma 5, della legge 27 gennaio 2012, n. 3, recante «Disposizioni in materia di usura e di estorsione, nonché di composizione delle crisi da sovraindebitamento», come modificata dal decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179, recante «Ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese», convertito, con modificazioni, nella legge 17 dicembre 2012, n. 221).

Anche di recente, il legislatore ha introdotto una nuova ipotesi di incompatibilità con l’art. 3, comma 50, del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 149 (Attuazione della legge 26 novembre 2021, n. 206, recante delega al Governo per l’efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie e misure urgenti di razionalizzazione dei procedimenti in materia di diritti delle persone e delle famiglie nonché in materia di esecuzione forzata), che ha modificato l’art. 739, primo comma, cod. proc. civ., relativo ai procedimenti in camera di consiglio in materia di famiglia e stato delle persone. Nel prevedere che, avverso i decreti del giudice tutelare non aventi contenuto patrimoniale o gestorio, è ammesso reclamo al tribunale in composizione collegiale, la disposizione appena richiamata stabilisce espressamente che «[d]el collegio non può fare parte il giudice che ha emesso il provvedimento reclamato».

Infine, la stessa fattispecie che regola l’opposizione agli atti esecutivi, e che trova applicazione anche alle cause cosiddette atipiche di estinzione del processo esecutivo, ha visto l’intervento del legislatore che, con l’art. 52 della legge 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile), ha introdotto l’art. 186-bis disp. att. cod. proc. civ. Quest’ultimo, in particolare, dispone che il giudizio di opposizione deve essere trattato da «un magistrato diverso da quello che ha conosciuto degli atti avverso i quali è stata proposta opposizione».

8.2.2.– La tecnica con cui è intervenuto il legislatore è stata, dunque, quella della tipizzazione delle fattispecie, con l’adozione di formule che variamente escludono dalla trattazione dell’opposizione o dalla partecipazione al collegio del reclamo il giudice che ha emanato il provvedimento opposto o reclamato.

La Corte di cassazione, chiamata a pronunciarsi su alcune delle citate ipotesi, ha chiarito trattarsi di una specificazione di obblighi di astensione per il giudice, dai quali consegue la facoltà per le parti di far valere la ricusazione, ai sensi dell’art. 52 cod. proc. civ. (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 20 gennaio 2017, n. 1545; nonché sezione terza civile, sentenze 9 aprile 2015, n. 7121 e sezione sesta civile 28 ottobre 2014, n. 22854, con riferimento all’art. 186-bis, disp. att. cod. proc. civ.; sezione prima civile, ordinanza 15 aprile 2019, n. 10492, sentenze 9 novembre 2016, n. 22835 e 4 dicembre 2015, n. 24718, in materia di opposizione al decreto che dichiara l’esecutività dello stato passivo fallimentare).

9.– Nell’odierno giudizio, il rimettente dubita della legittimità costituzionale della norma che regola il reclamo avverso l’ordinanza con cui il giudice dell’esecuzione dichiara l’estinzione del processo per inattività delle parti (o per le altre cause tipiche di estinzione) ovvero rigetta la relativa eccezione.

L’art. 630, terzo comma, cod. proc. civ. dispone che la proposizione del reclamo è ammessa, da parte del debitore o del creditore pignorante ovvero degli altri creditori intervenuti, con l’osservanza delle forme di cui all’art. 178, commi terzo, quarto e quinto, cod. proc. civ. e che il tribunale in composizione collegiale provvede in camera di consiglio con sentenza.

A sua volta, il rinvio ai commi quarto e quinto dell’art. 178 cod. proc. civ. comporta che il reclamo sia presentato al giudice dell’esecuzione – così dovendosi intendere, nell’economia dell’art. 630 cod. proc. civ., il riferimento al giudice istruttore –, il quale provvede ad assegnare alle parti i termini per le necessarie difese, scaduti i quali «il collegio provvede entro i quindici giorni successivi».

Ebbene, premesso che il reclamo ha quale destinatario il tribunale in composizione collegiale, l’aver previsto la sua proposizione al giudice dell’esecuzione se, da un lato, non depone nel senso della obbligatorietà di una sua partecipazione al collegio, da un altro lato, certamente non lascia inferire un suo obbligo di astensione e la possibilità di una sua ricusazione.

Queste, viceversa, si renderebbero necessarie, ove fosse implicato il principio di imparzialità-terzietà del giudice.

10.– Occorre, a questo punto, precisare che le istanze correlate al principio di imparzialità-terzietà del giudice, nell’ambito del processo civile, possono ben transitare anche attraverso una interpretazione sistematica e adeguatrice alla Costituzione dell’art. 51, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., relativamente alla nozione di «altro grado del processo».

Nondimeno le esigenze di certezza, particolarmente avvertite nella materia processuale, unitamente alla varietà e alla peculiarità delle ipotesi potenzialmente riconducibili alla ratio del gravame interno allo stesso ufficio giudiziario – come attesta il diffondersi di previsioni legislative che tipizzano la norma generale – sono tali da rendere la pronuncia additiva, invocata dal giudice rimettente, un rimedio funzionale alle citate esigenze.

E invero questa Corte è stata chiamata a valutare proprio con riguardo alla peculiare disciplina del reclamo, avverso i provvedimenti in materia di estinzione del processo esecutivo per cause tipiche, l’eventuale contrasto con il principio di imparzialità-terzietà.

È, dunque, tenuta a verificare se sussistano i presupposti per aggiungere una ulteriore, espressa ipotesi di incompatibilità del giudice, tale da implicare un suo obbligo di astensione e la conseguente facoltà per le parti di ricusazione, ai sensi dell’art. 52 cod. proc. civ. Come già ribadito da questa Corte, infatti, «[l]e insopprimibili esigenze di imparzialità del giudice sono risolvibili nel processo civile – per le sue caratteristiche – attraverso gli istituti della astensione e della ricusazione civile (ordinanze nn. 359 del 1998 e 356 del 1997 e sentenza n. 326 del 1997)» (sentenza n. 387 del 1999 e nello stesso senso sentenza n. 460 del 2005).

11.– Tanto premesso, occorre ricostruire il tipo di rapporto che intercorre fra il giudizio svolto dal giudice dell’esecuzione e quello che è chiamato a operare il collegio in sede di reclamo.

Sulla relazione fra questi due giudizi si sono espresse, di recente, sia pure per finalità diverse rispetto a quelle in esame, le sezioni unite civili della Corte di cassazione (sentenza 10 marzo 2022, n. 7877), che hanno posto in luce importanti indici ermeneutici vòlti a escludere i tratti del procedimento meramente bifasico.

In primo luogo, viene evidenziata la discontinuità fra il provvedimento del giudice dell’esecuzione e il reclamo, «che si dipana sullo sfondo dell’esecuzione forzata, ma del tutto al di fuori di essa» (così la già citata sentenza della Corte di cassazione n. 7877 del 2022), aprendo «un giudizio sul contrapposto interesse sostanziale dei creditori e del debitore a conseguire il risultato utile dell’espropriazione ovvero a riottenere la libera disponibilità dei beni pignorati o di quanto è stato ricavato dalla loro espropriazione» (ancora sentenza n. 7877 del 2022, richiamando Corte di cassazione, sezione terza civile, sentenza 1° luglio 2005, n. 14096).

In secondo luogo, viene sottolineato che il reclamo palesa «una chiara natura impugnatoria», in ragione del fatto che, «se esso non è proposto nei termini previsti, la decisione già adottata in punto di estinzione si stabilizza» (Corte di cassazione, sentenza n. 7877 del 2022), il che si traduce nella chiusura del processo esecutivo – con le conseguenze che ne derivano ai sensi dell’art. 632 cod. proc. civ., a partire dalla cancellazione della trascrizione del pignoramento – o nella irrevocabilità della decisione reiettiva della eccezione.

Questa Corte, nel prendere atto del rilievo che il diritto vivente assegna ai citati indici ermeneutici, riscontra la natura lato sensu impugnatoria propria del reclamo di cui all’art. 630, terzo comma, cod. proc. civ., corroborata dalla identità di res iudicanda oggetto dei due pronunciamenti, i quali parimenti esaminano la ricorrenza o meno delle cause tipiche di estinzione del processo esecutivo.

Né può ritenersi ostativa, rispetto a tale conclusione, la circostanza che il giudice dell’esecuzione può pronunciare anche d’ufficio l’estinzione del processo, mentre il giudizio di reclamo si svolge previa instaurazione del contraddittorio tra le parti. Si tratta, infatti, in ogni caso di un contraddittorio di natura semplificata e cartolare, tale da determinare una delibazione delle ragioni di estinzione del processo esecutivo, che non differisce in modo sostanziale da quella compiuta dal giudice dell’esecuzione. Questo conferma quel meccanismo di reiterazione provvedimentale, in cui può sprigionarsi la forza della prevenzione in termini contrari alle garanzie costituzionali.

In sostanza, il reclamo sollecita una revisio prioris instantiae, che devolve al collegio lo stesso tipo di valutazione sottesa al provvedimento adottato dal giudice dell’esecuzione.

I tratti sopra evidenziati inscrivono, dunque, il giudizio di reclamo fra i procedimenti di natura lato sensu impugnatoria, così attraendolo nella cornice delle garanzie costituzionali in tema di terzietà-imparzialità del giudice, che si protendono sino al processo esecutivo vòlto «a rendere effettiva l’attuazione dei provvedimenti giurisdizionali» (ex multis, sentenza n. 321 del 1998; nello stesso senso, sentenze n. 128 del 2021 e n. 522 del 2002).

12.– In conclusione, l’art. 630, terzo comma, cod. proc. civ., è costituzionalmente illegittimo nella parte in cui stabilisce che, contro l’ordinanza che dichiara l’estinzione del processo esecutivo ovvero rigetta la relativa eccezione, è ammesso reclamo al collegio con l’osservanza delle forme di cui all’art. 178, commi quarto e quinto, cod. proc. civ., senza prevedere che del collegio non possa far parte il giudice che ha emanato il provvedimento reclamato.

Ne conseguono l’obbligo per il giudice dell’esecuzione di astenersi e la facoltà per le parti di ricusarlo, ai sensi dell’art. 52 cod. proc. civ.

Sono assorbite le ulteriori censure.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 630, terzo comma, del codice di procedura civile, nella parte in cui stabilisce che, contro l’ordinanza che dichiara l’estinzione del processo esecutivo ovvero rigetta la relativa eccezione, è ammesso reclamo al collegio con l’osservanza delle forme di cui all’art. 178, commi quarto e quinto, cod. proc. civ., senza prevedere che del collegio non possa far parte il giudice che ha emanato il provvedimento reclamato.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 6 febbraio 2023.

F.to:

Silvana SCIARRA, Presidente

Emanuela NAVARRETTA, Redattrice

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

Depositata in Cancelleria il 17 marzo 2023.