SENTENZA N.51
ANNO 1998
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Dott. Renato GRANATA, Presidente
- Prof. Giuliano VASSALLI
- Prof. Francesco GUIZZI
- Prof. Cesare MIRABELLI
- Prof. Fernando SANTOSUOSSO
- Avv. Massimo VARI
- Dott. Cesare RUPERTO
- Dott. Riccardo CHIEPPA
- Prof. Gustavo ZAGREBELSKY
- Prof. Carlo MEZZANOTTE
- Avv. Fernanda CONTRI
- Prof. Guido NEPPI MODONA
- Prof. Annibale MARINI
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. da 18 a 36 del codice di procedura civile, promossi con ordinanze emesse il 18 dicembre 1996 dalla Corte d’appello di Roma nei procedimenti civili riuniti vertenti tra la R.C.S. Rizzoli Periodici S.p.A. ed altri e Filocamo Felice Maria, iscritta al n. 270 del registro ordinanze 1997 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 21, prima serie speciale, dell’anno 1997 e l’11 novembre 1996 dal Tribunale di Roma nel procedimento civile vertente tra Stabile Carmine e la Società Editrice Il Messaggero S.p.A. ed altro, iscritta al n. 279 del registro ordinanze 1997 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 22, prima serie speciale, dell’anno 1997.
Visti gli atti di costituzione della R.C.S. Rizzoli Periodici S.p.A., di Filocamo Felice Maria e di Stabile Carmine nonchè gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 9 dicembre 1997 il Giudice relatore Cesare Ruperto;
uditi gli avvocati Paolo Barile per la R.C.S. Rizzoli Periodici S.p.A., Enzo Musco per Filocamo Felice Maria, Giovanni Giacobbe per Stabile Carmine e l’Avvocato dello Stato Ignazio Francesco Caramazza per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.1. - Nel corso di un giudizio civile - promosso da un magistrato per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e morali subìti a cagione di una dedotta diffamazione a mezzo stampa - la Corte d’appello di Roma, con ordinanza emessa il 18 dicembre 1996 ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 101 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. da 18 a 35 del codice di procedura civile, "nella parte in cui non prevedono che, nel caso in cui un magistrato sia attore o convenuto in un procedimento civile, si determini uno spostamento della competenza per territorio secondo princìpi predeterminati quali quelli previsti, per il processo penale, dall'art. 11 del codice di procedura penale"; ovvero, "in linea subordinata, limitatamente al caso in cui il giudizio civile abbia ad oggetto fatti la cui rilevanza penale debba essere incidentalmente accertata"; ovvero ancora, "nei procedimenti civili per diffamazione a mezzo stampa in cui sia applicabile la sanzione di cui all'art. 12 della legge sulla stampa".
Osserva preliminarmente la Corte rimettente che il fatto che l'attore non svolgesse funzioni giurisdizionali al momento in cui ebbe a proporre la domanda giudiziale - prestando all'epoca servizio presso il Ministero di grazia e giustizia - non incide sulla rilevanza della questione, ove questi, come nella fattispecie, nel corso del processo ha iniziato ad esercitare nuovamente tali funzioni.
Quanto, poi, alla proponibilità della questione di costituzionalità, ritiene il giudice a quo che l'intervenuta pronuncia della Cassazione - la quale, a séguito di regolamento di competenza proposto nel corso dello stesso giudizio, aveva affermato la competenza territoriale del Tribunale di Roma - non precluderebbe la successiva proposizione di una questione attinente alla legittimità costituzionale di quelle stesse norme che radicano la competenza in capo al giudice individuato dalla Cassazione in concreto.
Nel merito, la Corte d’appello di Roma si duole dell'asserita illogicità di un sistema giurisdizionale in cui il giudizio penale afferente a magistrati, siano essi imputati o parte offesa, viene per legge (ex art. 11 cod. proc. pen.) attribuito alla competenza territoriale del capoluogo del distretto vicino a quello in cui il magistrato stesso presta o prestava servizio, mentre altrettanto non viene disposto nel caso in cui un magistrato sia attore o convenuto in un giudizio civile.
La Corte d’appello - pur rammentando che la Cassazione, investita di una questione sostanzialmente coincidente, ne ha dichiarato la manifesta infondatezza sotto il duplice profilo della diversa rilevanza degli interessi dedotti nel giudizio penale ed in quello civile e della sussistenza, nel sistema, di strumenti di salvaguardia, quali la ricusazione e l'astensione - ritiene tuttavia la palese inidoneità di tale secondo argomento a svolgere quella funzione cautelatrice che ad esso si attribuisce. Rileva, in proposito, che la funzione giurisdizionale riveste caratteristiche peculiari e del tutto specifiche, in quanto la credibilità di essa si basa non solo e non tanto sulla tutela dell'indipendenza dei giudici in astratto, ma piuttosto, e ben più significativamente, sulla trasparenza, anche all'esterno di essa; di talchè, pur non sussistendo in ipotesi motivi di astensione, egualmente apparirebbe congruo che la funzione fosse devoluta a giudici "estranei" all'ufficio in cui il magistrato che é parte presta o prestava servizio. Laddove, poi, i richiamati strumenti di salvaguardia (astensione e ricusazione) sono presenti anche nel giudizio penale, il che non ha impedito al legislatore di disciplinare espressamente l'ipotesi del magistrato esercente nel distretto, dettando l'art. 11 cod. proc. pen.
Ne deriva quindi, ad avviso del giudice a quo, l’irrazionalità di un sistema che - pur essendo unica la giurisdizione e dovendosi salvaguardare l'indipendenza del giudice in ogni occasione in cui la giurisdizione stessa viene esercitata - solo nella sede penale garantisce tale trasparenza, mentre nell'àmbito del processo civile nulla dispone al riguardo; e ciò non tanto per il principio della disparità (ingiustificata) di trattamento, che pure sussiste, quanto per l’illogicità manifesta di un sistema che si preoccupa del problema soltanto nell'àmbito penale senza porsi analoga problematica per il processo civile, con conseguente ulteriore vulnus sia all'art. 3 sia all'art. 101 Cost. Tanto più in quanto, come nel caso concreto, ci si deve far carico della specifica situazione che si verifica allorchè in sede civile si debba giudicare in tema di risarcimento del danno susseguente a diffamazione a mezzo stampa, per statuire sul quale il giudice civile dovrà, sia pure incidenter tantum, giudicare sulla sussistenza o meno del reato in questione.
1.2. - E' intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, eccependo preliminarmente l'inammissibilità della sollevata questione per difetto di rilevanza sotto il duplice profilo: a) che la competenza territoriale del Tribunale di Roma (in primo grado) era stata affermata dalla Corte di cassazione in sede di regolamento di competenza, con formazione sul punto del giudicato interno preclusivo della proponibilità di una questione di legittimità costituzionale il cui esito non potrebbe avere rilevanza nel giudizio a quo; b) che la competenza si era ormai definitivamente radicata in forza del principio della perpetuatio iurisdictionis, sancito dall’art. 5 cod. proc. civ., secondo cui la competenza si determina con riguardo allo stato di fatto esistente al momento della proposizione della domanda, senza che abbiano rilevanza i successivi mutamenti, anche conseguenti ad un'eventuale pronuncia di incostituzionalità.
Nel merito, osserva l'Avvocatura come la differenza riscontrabile tra processo penale e processo civile trovi una giustificazione pienamente razionale nell'ontologica diversità dei fini perseguiti e degli interessi coinvolti, che si esprime, solo quanto al primo processo, nel carattere istituzionalmente e monopolisticamente "pubblico" dell'azione, e nella sua diretta incidenza sul valore cardine della libertà personale del soggetto contro il quale l'azione stessa é rivolta. Sostiene quindi l'Avvocatura che appare ragionevole la scelta operata dal legislatore, nella sua discrezionalità, di affidare la garanzia dell'indipendenza ed imparzialità del giudice nel processo civile esclusivamente alle regole in tema di astensione e ricusazione.
1.3. - Si é costituito l'attore del giudizio a quo, concludendo preliminarmente per l'inammissibilità della sollevata questione con considerazioni sostanzialmente analoghe a quelle svolte dall'Avvocatura dello Stato.
Ulteriori profili d’inammissibilità, secondo la parte privata, vanno rinvenuti: a) nell'assunzione quale tertium comparationis dell'art. 11 cod. proc. pen. del 1988, che - al momento della proposizione della domanda - ancora non era entrato in vigore; laddove, in applicazione dell'art. 41-bis al tempo vigente, la competenza a conoscere del reato sarebbe ugualmente stata del Tribunale di Roma; b) nella richiesta di un intervento sostanzialmente creativo della Corte costituzionale, sostitutivo della discrezionalità che, in materia, la Corte ha sempre riconosciuto al legislatore nella scelta dei vari possibili criteri idonei a preservare l'imparzialità del giudice.
Nel merito, la parte conclude per la manifesta infondatezza della questione, sulla base di motivazioni analoghe a quelle svolte dall'Avvocatura dello Stato sia in tema di diversità ontologica del sistema processuale penale rispetto a quello civile sia in ordine alla sufficienza dei rimedi dell'astensione e della ricusazione. Aggiungendo, peraltro, che la simmetria tra i due sistemi processuali, affermata dal rimettente, in realtà non sussiste, come emerge anche dalla diversità di disciplina in materia di incompatibilità del magistrato (inesistente nel processo civile), a dimostrazione della differente modulazione della tutela dell'imparzialità del giudice, che il legislatore riconnette alla maggiore o minore intensità degli interessi pubblici sottesi al giudizio.
1.4. - Si é costituita, altresì, la società editrice delle pubblicazioni denunciate dall'attore come diffamatorie, concludendo nel senso della fondatezza della sollevata questione, con riserva di ulteriori deduzioni, svolte poi con memoria depositata nell’imminenza dell’udienza, nella quale - fatte proprie le considerazioni svolte dal rimettente circa la violazione degli evocati parametri costituzionali - vengono puntualmente contrastate le argomentazioni svolte dall’Avvocatura generale e dalle controparti private.
2.1. - Nel corso di analogo procedimento civile, il Tribunale di Roma, con ordinanza emessa l'11 novembre 1996, ha a sua volta sollevato - in riferimento agli artt. 3, 24, 25 e 101 della Costituzione - questione di legittimità costituzionale degli artt. da 18 a 36 del codice di procedura civile, "nella parte in cui non prevedono l’applicabilità' del criterio di competenza territoriale stabilito dall'art. 11 del codice di procedura penale, anche ai giudizi civili nei quali sia attore o convenuto un magistrato e che abbiano ad oggetto una domanda di risarcimento dei danni derivanti da un reato, di cui il magistrato, parte del giudizio civile, si assume essere l'autore ovvero la persona offesa o il danneggiato".
Motivando l’incidente di costituzionalità con considerazioni sostanzialmente conformi a quelle della Corte d’appello, osserva in particolare il rimettente che la diversità di natura del processo civile e di quello penale non é idonea a giustificare la dedotta disparità di trattamento, atteso che la norma del processo penale é espressione del valore di imparzialità del giudice, di cui partecipano tanto il processo penale tanto il processo civile per essere entrambi finalizzati alla realizzazione dell'interesse pubblico al corretto esercizio della funzione statale giurisdizionale. Nè la preordinazione dell'uno alla realizzazione della potestà punitiva dello Stato, da un lato, e la preordinazione dell'altro alla realizzazione di situazioni soggettive individuali, dall'altro lato, attenua la primarietà di questo valore, che, garantito dalla Costituzione principalmente negli artt. 24, 25 e 101, non é adeguatamente tutelato dagli istituti dell'astensione e della ricusazione. Affermazione, questa, che il rimettente ritiene comprovata dalla previsione nel processo civile di criteri di competenza territoriale non derogabile, nonchè dalla riproduzione della ripartizione della competenza ex art. 11 cod. proc. pen. nel caso di azione di risarcimento dei danni cagionati dall'esercizio delle funzioni giurisdizionali ai sensi dell'art. 4 della legge 13 aprile 1988, n. 117.
2.2. - Anche in questo giudizio é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato, il quale ha concluso, nel merito, per la infondatezza della questione con considerazioni sostanzialmente identiche a quelle svolte nel precedente giudizio.
2.3. - Si é costituito, altresì, l'attore del giudizio a quo, concludendo per l'inammissibilità della sollevata questione, prospettata - secondo la parte - sull'erroneo presupposto della configurabilità di un'azione tesa all'attribuzione alla parte convenuta di un fatto costituente reato, essendo stato chiamato, al contrario, il giudice non a decidere in ordine alle conseguenze derivanti dalla commissione del reato ma soltanto a verificare se il comportamento assunto come illecito civile possa considerarsi astrattamente inquadrabile, per i limitati fini dell'applicabilità dell'art. 2059 cod. civ., in una fattispecie civilmente rilevante.
Secondo la parte privata, dunque, l'eventuale accoglimento della sollevata questione di legittimità non avrebbe alcuna incidenza nel processo in corso, atteso che l'àmbito della decisione resterebbe limitato agli effetti dell'applicazione degli artt. 2043 e 2059 cod. civ., che, essendo relativi a materia avente carattere esclusivo di responsabilità civile, rientrano, quanto alla competenza, nella disciplina dettata dal codice di procedura civile.
Nel merito, la parte - con motivazioni ulteriormente illustrate in una memoria depositata nell’imminenza dell’udienza - conclude per l’infondatezza della questione, richiamandosi al consolidato orientamento giurisprudenziale di questa Corte, secondo cui rientra nell'esclusiva competenza del legislatore statuire se ed in quale misura i rapporti che nell'àmbito dell'organizzazione giudiziaria si creano tra organi e singoli componenti e tra singoli componenti, debbano influire sulla determinazione della competenza, e quali siano le soluzioni più idonee a garantire il prestigio e l'indipendenza della magistratura.
Considerato in diritto
1. - La Corte d’appello di Roma sospetta d’illegittimità costituzionale il combinato disposto degli artt. da 18 a 35 cod. proc. civ., nella parte in cui non viene previsto uno spostamento della competenza per territorio secondo princìpi predeterminati quali quelli previsti, per il processo penale, dall’art. 11 cod. proc. pen.: a) nel caso in cui un magistrato sia attore o convenuto in un procedimento civile; b) ovvero, in linea subordinata, "limitatamente al caso in cui il giudizio civile abbia ad oggetto fatti la cui rilevanza penale debba essere incidentalmente accertata"; c) ovvero, in via ulteriormente subordinata, "nei procedimenti civili per diffamazione a mezzo stampa in cui sia applicabile la sanzione di cui all’art. 12 legge sulla stampa".
A sua volta, il Tribunale di Roma solleva questione di legittimità costituzionale degli artt. da 18 a 36 cod. proc. civ., "nella parte in cui non prevedono l’applicabilità del criterio di competenza territoriale stabilito dall’art. 11 del codice di procedura penale anche ai giudizi civili nei quali sia attore o convenuto un magistrato e che abbiano ad oggetto una domanda di risarcimento dei danni derivanti da un reato, di cui il magistrato, parte del giudizio civile, si assume essere l’autore ovvero la persona offesa o il danneggiato".
Secondo entrambi i rimettenti, le norme censurate si porrebbero in contrasto: a) con l’art. 3 Cost., per la lesione del principio di uguaglianza derivante dalla diversa regolamentazione di situazioni sostanzialmente identiche (tanto più allorquando il giudice civile sia chiamato, in via alternativa, a pronunciarsi - seppure incidenter tantum - su una richiesta risarcitoria fondata su una dedotta lesione derivante da un fatto-reato), nonchè per l’irragionevolezza di un sistema che si preoccupa di prevedere il predetto spostamento di competenza territoriale solo in àmbito penale e non anche in quello civile; b) con l’art. 101 Cost., proprio in ragione di tale ingiustificata disparità di trattamento a fronte della unitarietà della giurisdizione, cui é sottesa la generale esigenza di salvaguardare finanche l’apparenza dell’indipendenza del giudice in ogni occasione in cui la giurisdizione stessa viene esercitata; c) con l’art. 24 Cost., per la conseguente violazione del diritto di difesa della parte convenuta.
Secondo il Tribunale di Roma, poi, le norme censurate contrasterebbero anche con l’art. 25 Cost., attesa l’ulteriore conseguente lesione del principio del giudice naturale precostituito per legge.
2. - I giudizi possono essere riuniti e congiuntamente decisi, in quanto riguardanti problematiche sostanzialmente identiche.
3. - Va anzitutto esaminata l’eccezione d’inammissibilità per irrilevanza della questione, che l’Avvocatura dello Stato (seguìta anche dall’attore nel giudizio a quo) ha preliminarmente proposto, con riguardo all’ordinanza di rimessione della Corte d’appello, sotto il triplice profilo: a) che il magistrato di cui trattasi aveva agito in giudizio quando ancora si trovava fuori ruolo perchè in servizio presso il Ministero di grazia e giustizia; b) che sulla competenza per territorio si era già pronunciata la Corte di cassazione in sede di regolamento; c) che, a’ sensi dell’art. 5, come novellato dall’art. 2 della legge 26 novembre 1990, n. 353, applicabile al giudizio de quo, s’era verificata la perpetuatio competentiae.
3.1. - L’eccezione non é fondata.
3.1.1. - La Corte d’appello ha ampiamente motivato la rilevanza della sollevata questione, osservando fra l’altro: a) che il criterio della competenza previsto dall’art. 11 cod. proc. pen. scatta in qualunque momento il magistrato venga a rivestire le funzioni in un ufficio giudiziario dello stesso distretto che comprende quello davanti a cui pende il procedimento nel quale egli "assume la qualità di imputato ovvero di persona offesa o danneggiata dal reato"; b) che imprescindibile presupposto del principio, secondo cui la sentenza di regolamento pronunciata dalla Corte di cassazione preclude la riproposizione di ogni questione sulla competenza territoriale, é la perdurante operatività delle norme che hanno determinato la competenza stessa.
Trattasi di motivazione non priva di plausibilità, considerato che la prima osservazione trova pieno conforto nella giurisprudenza della Corte di cassazione, mentre la seconda é basata sulla diffusa tesi, secondo cui l’efficacia preclusiva panprocessuale che assiste la pronuncia di regolamento della competenza non rimane insensibile alla declaratoria d’incostituzionalità di quelle norme, applicando le quali la Corte di cassazione ha statuito.
3.1.2. - D’altronde, una consimile cedevolezza di fronte alla declaratoria di incostituzionalità é sicuramente da ravvisarsi con riguardo alla legge vigente nel momento della proposizione della domanda ed i cui "successivi mutamenti" sono indifferenti - secondo il nuovo testo dell’art. 5 cod. proc. civ. - alla competenza del giudice adito. Sicchè anche sotto tale terzo profilo, trascurato nell’ordinanza di rimessione, va ritenuta inconsistente l’eccezione preliminare dell’Avvocatura generale.
4. - La questione, come sollevata da entrambi i giudici rimettenti, é tuttavia da ritenere inammissibile sotto un ulteriore profilo,in quanto la richiesta sentenza additiva comporta, secondo la stessa prospettazione dei giudici rimettenti, una scelta fra più soluzioni possibili, che é rimessa al legislatore.
4.1. - Questa Corte ha già avuto occasione di notare che il "principio di imparzialità-terzietà della giurisdizione [...] ha pieno valore costituzionale con riferimento a qualunque tipo di processo, in relazione specifica al quale, peraltro, può e deve trovare attuazione" (sentenza n. 326 del 1997).
Ciò é ancora una volta da ribadire, pur dovendosi precisare che nella specie codesto principio non assume la stessa valenza attribuitagli con riguardo agli istituti dell’astensione e della ricusazione, regolati da norme aventi una diversa ratio e della cui (presenza e) generale operatività non si può, peraltro, non tener conto in sede di bilanciamento degli opposti valori e interessi nella materia de qua. Ma é da ribadire anche quanto in quella stessa sentenza si é osservato, nel rilevare la netta distinzione fra processo civile e processo penale: che cioé quest’ultimo é finalizzato essenzialmente all’accertamento del fatto ascritto all’imputato, e in esso la presunzione di un’apprezzabile influenza sul meccanismo psicologico che presiede alla formazione del convincimento del giudice di regola non subisce la mediazione dell’impulso paritario delle parti, operante invece nel processo civile. Sicchè - ferma l’esigenza generale di assicurare che sempre il giudice rimanga, ed anche appaia, del tutto estraneo agli interessi oggetto del processo - il bilanciamento di cui sopra dev’essere condotto secondo linee direttive non necessariamente identiche per i due tipi di processo, improntati - segnatamente in tema di competenza territoriale - a regole e criteri diversi, che si adeguano a distinte tradizioni ed esigenze attuali. Basti in proposito notare che nel processo penale - esclusi ovviamente i casi di connessione - unico é il foro territoriale, cioé quello previsto dall’art. 8 cod. proc. pen., cui appunto deroga il successivo art. 11; mentre nel processo civile sussiste un’ampia pluralità di fori, correlati ai molteplici interessi, riguardanti persone e cose, che vengono in considerazione relativamente alle varie liti.
In altri termini, pur alla luce delle ragioni che hanno portato il legislatore, attraverso un lungo iter scandito da sempre nuove normative, ad enunciare codesta regola derogatoria (peraltro non suscettibile di essere assunta a criterio generale: v. ordinanza n. 462 del 1997), si deve necessariamente valutare quale fra le tante soluzioni possibili sia la più confacente al processo civile, nei cui riguardi le modalità attuative del principio di imparzialità-terzietà non sono necessariamente identiche a quelle previste per il processo penale.
4.2. - Che l’estensione pura e semplice dell’art. 11 cod. proc. pen. non costituisca conseguenza obbligata di un’eventuale declaratoria d’illegittimità costituzionale della denunciata normativa é, del resto, reso evidente dalle stesse prospettazioni dei rimettenti, le quali si articolano in molteplici profili, correlati appunto alla pluralità delle soluzioni idonee a preservare la denunciata normativa dai sollevati dubbi d’incostituzionalità. Soluzioni legate ai contenuti variamente configurabili delle controversie civili, e perfino ai ruoli differenti che il giudice può assumere nel dirimerle, stante l’accentuata disomogeneità degli interessi contrapposti delle parti del processo civile, il quale si conforma in modo diverso, proprio a seconda dei suoi vari possibili oggetti, che il legislatore non ha mancato di tener presenti nel fissare i tanti fori speciali cui si é accennato. Questi verrebbero tutti insieme e allo stesso modo derogati ove questa Corte estendesse l’art. 11 cod. proc. pen. ad ogni procedimento civile, com’é richiesto in via principale dalla Corte d’appello di Roma. Donde il rischio di una conseguente grave compressione del diritto di difesa di qualcuna delle parti; tanto più che in tale procedimento sono legittimati a intervenire soggetti diversi dall’attore e dal convenuto (art. 105 e segg. cod. proc. civ.), per i quali pure non potrebbe non assumere rilevanza l’eventuale qualità di magistrato.
Che se poi l’estensione venisse contenuta nei limiti più ristretti indicati dal Tribunale di Roma e, in via doppiamente subordinata, anche dalla Corte d’appello, sarebbe difficile evitare la violazione, sotto altri profili, dello stesso principio di eguaglianza evocato da entrambi i rimettenti, in difetto appunto del bilanciamento di valori e interessi contrapposti necessario nell’introdurre innovazioni con riguardo a una competenza territoriale così articolata come quella prevista dal codice di procedura civile.
4.3. - In conclusione, solo il legislatore può stabilire, nell’esercizio del suo potere discrezionale, quando ricorra quell’identità di ratio che imponga l’estensione pura e semplice del criterio di cui all’art. 11 cod. proc. pen. - come del resto esso ha già ritenuto relativamente alle controversie in materia di danno arrecato dai magistrati nell’esercizio delle loro funzioni (v. artt. 4 e 8 della legge 13 aprile 1988, n. 117) - e quando, invece, quella ratio non ricorra affatto o sia realizzabile attraverso la previsione di un foro derogatorio appropriato alla specifica materia. Così da evitare che vengano sacrificati altri interessi e valori costituzionalmente rilevanti, come potrebbe accadere ove, ad esempio, per un’esecuzione forzata - specie se concorsuale -, o per una causa divisoria, o per un regolamento di confini, finisse col diventare competente il giudice di un distretto assai lontano dal foro attualmente singulatim previsto nel codice di rito civile, quale sarebbe quello risultante dal nuovo testo dell’art. 11 cod. proc. pen. già approvato da uno dei rami del Parlamento.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli articoli da 18 a 35 del codice di procedura civile, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24 e 101 della Costituzione, dalla Corte d’appello di Roma, con l’ordinanza in epigrafe;
dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli articoli da 18 a 36 del codice di procedura civile, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24, 25 e 101 della Costituzione, dal Tribunale di Roma, con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 marzo 1998.
Presidente: Renato GRANATA
Redattore: Cesare RUPERTO
Depositata in cancelleria il 12 marzo 1998.