SENTENZA N. 138
ANNO 2024
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta da:
Presidente: Franco MODUGNO
Giudici: Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 74, commi 1 e 2, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), promosso dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Brescia, nel procedimento penale a carico di A. L. e altri, con ordinanza del 6 novembre 2023, iscritta al n. 1 del registro ordinanze 2024 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 4, prima serie speciale, dell’anno 2024, la cui trattazione è stata fissata per l’adunanza in camera di consiglio del 7 maggio 2024.
Visto l’atto d’intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 9 maggio 2024 il Giudice relatore Franco Modugno;
deliberato nella camera di consiglio del 9 maggio 2024.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 6 novembre 2023, iscritta al n. 1 del registro ordinanze 2024, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Brescia ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 74 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), nella parte in cui, al comma 1, punisce chi promuove, costituisce, dirige, organizza o finanzia una associazione finalizzata a commettere più delitti tra quelli previsti dal precedente art. 73 con la reclusione non inferiore agli anni venti, anziché con la reclusione non inferiore agli anni sette; nonché nella parte in cui, al comma 2, punisce chi partecipa all’associazione con la reclusione non inferiore agli anni dieci, anziché con la reclusione non inferiore agli anni cinque.
1.1.– Il giudice a quo riferisce che, con decreto di giudizio immediato emesso dal GIP del Tribunale di Brescia, A. L., J. L., E. L. e E. M. erano stati tratti a giudizio, fra l’altro, per aver preso parte ad una associazione finalizzata a commettere una serie indeterminata di delitti connessi al traffico di stupefacenti (in particolare, cocaina).
Ai fratelli A. L. e J. L. e a E. L. era contestata la partecipazione cosiddetta apicale o qualificata (art. 74, comma 1, t.u. stupefacenti), per aver svolto, con le modalità indicate nei capi di imputazione, i primi due, il ruolo di capo, promotore e organizzatore, e il terzo il ruolo di organizzatore. A E. M. era invece contestata la partecipazione cosiddetta semplice (art. 74, comma 2, t.u. stupefacenti), per aver assolto al ruolo di custode della sostanza stupefacente, di «“vedetta” e consigliera» del marito J. L., nonché per avere svolto altre attività funzionali all’operatività dell’organizzazione criminosa.
Per tali fatti – oltre che per numerosi episodi di detenzione illecita e spaccio di stupefacenti e di intestazione fittizia di beni – lo stesso GIP aveva applicato ai quattro la misura della custodia cautelare in carcere, riconoscendo il requisito della gravità indiziaria in ordine al reato loro rispettivamente ascritto: misura confermata dal Tribunale del riesame – adito dai difensori di tre degli imputati – il quale aveva condiviso la qualificazione dell’associazione operata dal giudice della cautela, incasellandola nel paradigma di cui ai commi 1 e 2 dell’art. 74, anziché in quello di cui al successivo comma 6.
Notificato il decreto, i difensori avevano chiesto, in forza di procura speciale, che nei confronti dei loro assistiti si procedesse nelle forme del giudizio abbreviato.
1.2.– Emergerebbe da ciò – secondo il rimettente – la rilevanza delle questioni, posto che, qualora l’ipotesi accusatoria venisse confermata sulla base delle contestazioni cristallizzate nei capi di imputazione, gli imputati si troverebbero esposti, secondo il loro ruolo, all’applicazione delle pene minime previste dalle norme censurate. Su tali minimi edittali dovrebbero innestarsi i successivi calcoli, e in particolare quello relativo all’eventuale continuazione, essendo la fattispecie associativa il reato in astratto più grave tra quelli contestati agli imputati.
1.3.– Quanto, poi, alla non manifesta infondatezza delle questioni, il giudice a quo rileva che l’art. 74 t.u. stupefacenti punisce con la reclusione non inferiore a venti anni chi promuove, costituisce, dirige, organizza o finanzia una associazione che abbia quale scopo la commissione di una pluralità di reati previsti dal precedente art. 73 (comma 1), mentre la pena della reclusione non inferiore a dieci anni è riservata a coloro che facciano parte del sodalizio, senza rivestire uno dei ruoli dianzi indicati (comma 2). Sono poi previste due circostanze aggravanti ad effetto comune, qualora la compagine sia formata da almeno dieci persone o se tra i sodali vi siano persone dedite all’uso di sostanze stupefacenti o psicotrope (comma 3), o quando le sostanze oggetto dei traffici del sodalizio siano adulterate o commiste ad altre in modo che ne risulti accentuata la potenzialità lesiva (comma 5, in riferimento all’art. 80, comma 1, lettera e), e una aggravante ad effetto speciale, applicabile allorché l’associazione sia armata (comma 4).
Tali scelte sanzionatorie, particolarmente severe, sono state compensate con la previsione di una particolare figura associativa, disciplinata dal comma 6 dello stesso art. 74, il quale prevede che «[s]e l’associazione è costituita per commettere i fatti descritti dal comma 5 dell’articolo 73, si applicano il primo e il secondo comma dell’articolo 416 del codice penale».
Come precisato dalle sezioni unite penali della Corte di cassazione, tale disposizione delinea una fattispecie autonoma di reato, e non una mera ipotesi attenuata del delitto di cui ai precedenti commi 1 e 2: ciò, alla luce del chiaro dettato normativo, indicativo della volontà del legislatore di riservare all’ipotesi criminosa in questione un regime diverso, in ragione del minore allarme sociale generato dai fatti e della minore pericolosità sociale degli autori (è citata Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 23 giugno-22 settembre 2011, n. 34475).
La giurisprudenza è, altresì, univoca nel ritenere che la fattispecie associativa prevista dall’art. 74, comma 6, t.u. stupefacenti è configurabile a condizione che i sodali abbiano programmato esclusivamente la commissione di fatti di lieve entità e che, in concreto, l’attività associativa si sia manifestata con condotte rientranti tutte nella previsione dell’art. 73, comma 5. Non è, tuttavia, sufficiente considerare la natura dei singoli episodi accertati, occorrendo valutare anche il momento genetico dell’associazione, ossia il suo programma di partenza, nonché le potenzialità dell’organizzazione, avuto riguardo ai quantitativi di sostanze che il gruppo può procurarsi. Può darsi, dunque, che l’associazione sia finalizzata alla commissione di fatti di cessione di stupefacenti che, singolarmente considerati, rientrerebbero nel perimetro dell’art. 73, comma 5, e che tuttavia la stessa non sia riconducibile all’ipotesi di cui all’art. 74, comma 6, in quanto l’attività di spaccio complessivamente svolta non presenta, per la molteplicità degli episodi e la loro reiterazione nel tempo, nonché per la consistenza dell’organizzazione predisposta, i tratti della «lieve entità».
1.4.– Ma se la qualificazione della fattispecie associativa “a monte” – a norma dei commi 1 e 2 dell’art. 74, ovvero del comma 6 – si modella sulle caratteristiche del programma criminoso “a valle” – sia pure con le specificazioni ora indicate – verrebbero a riproporsi, ad avviso del rimettente, le medesime criticità, in punto di ragionevolezza del trattamento sanzionatorio, già denunciate nell’ordinanza del 17 marzo 2017 della Corte d’appello di Trieste e riscontrate da questa Corte con la sentenza n. 40 del 2019.
Nella citata ordinanza si osservava, infatti, che, mentre la linea di demarcazione “naturalistica” fra le fattispecie “ordinaria” e “lieve” del delitto di cui all’art. 73 t.u. stupefacenti è talvolta non netta (come nei casi di condotte concernenti quantitativi di sostanza non particolarmente cospicui, ma neppure minimi, o connotate da modalità esecutive espressive di una certa, ma non rilevante pericolosità), il “confine sanzionatorio” tra l’una e l’altra incriminazione risultava, invece, estremamente – e irragionevolmente – distante (essendovi, all’epoca, un divario di ben quattro anni di pena detentiva fra il minimo edittale dell’una e il massimo dell’altra). Il che induceva spesso i giudici a forzature interpretative, tese a rimediare a tale ingiustificato dislivello mediante l’ampliamento dell’ambito applicativo dell’ipotesi “lieve”.
Il tema si riproporrebbe in relazione alla fattispecie associativa oggi in esame. Potrebbero darsi, allo stesso modo, casi nei quali l’associazione per il narcotraffico, pur non essendo inquadrabile nella fattispecie di minore gravità di cui all’art. 74, comma 6, alla luce dei criteri in precedenza indicati, presenta però, in concreto, una pericolosità sociale contenuta, o, comunque sia, prossima a quella delle associazioni sussumibili in tale fattispecie. Rispetto a simili casi, che si collocano in una “zona grigia” al confine tra le due ipotesi di reato, non sarebbe giustificabile un intervallo sanzionatorio di cinque anni fra la pena massima prevista dall’art. 416, secondo comma, cod. pen. per la partecipazione “semplice” ad una associazione “lieve” (cinque anni di reclusione) e la pena minima stabilita dall’art. 74, comma 2, t.u. stupefacenti per la partecipazione “semplice” a una associazione “ordinaria” (dieci anni); e addirittura di tredici anni, quale quello che intercorre fra il massimo edittale della partecipazione “qualificata” all’associazione “lieve” (sette anni) e il minimo previsto per il soggetto “apicale” di una associazione “ordinaria” (venti anni). Si tratterebbe di uno iato palesemente sproporzionato, ove si consideri che il minimo edittale del fatto di non lieve entità è pari esattamente al doppio del massimo edittale del fatto lieve, quanto all’ipotesi di cui al comma 2 dell’art. 74, e addirittura a poco meno del triplo, quanto a quella del comma 1.
Varrebbe, dunque, anche in questo caso, l’affermazione della sentenza di questa Corte n. 40 del 2019, secondo cui «[l]’ampiezza del divario sanzionatorio condiziona inevitabilmente la valutazione complessiva che il giudice di merito deve compiere al fine di accertare la lieve entità del fatto […], con il rischio di dar luogo a sperequazioni punitive, in eccesso o in difetto, oltre che a irragionevoli difformità applicative in un numero rilevante di condotte».
1.5.– D’altra parte – prosegue il giudice a quo – se è vero che i requisiti della fattispecie di cui all’art. 74 t.u. stupefacenti sono quelli previsti, in generale, per il reato associativo – ossia la presenza di uno stabile accordo fra almeno tre persone, un programma criminoso indeterminato quanto al numero dei reati da realizzare e una organizzazione, di uomini e di mezzi, dotata di un minimo di stabilità – proprio quest’ultimo elemento farebbe sì che nell’unico “contenitore” della disposizione richiamata rientrino sodalizi dalle caratteristiche assai disparate, con ben diverso grado di pericolosità per i beni giuridici tutelati.
Al riguardo, il rimettente ricorda come questa Corte, con la sentenza n. 231 del 2011, abbia dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, secondo periodo, del codice di procedura penale, nella formulazione all’epoca vigente, nella parte in cui prevedeva una presunzione assoluta di adeguatezza della custodia cautelare in carcere in rapporto alla fattispecie di cui all’art. 74 t.u. stupefacenti, parificandola a quella prevista dall’art. 416-bis cod. pen. In tale pronuncia, si è posta in evidenza proprio la natura “aperta” della figura criminosa in questione, che la rendeva nettamente eterogenea rispetto al sodalizio di stampo mafioso, al contrario ben connotato sul piano criminologico e sociologico. L’art. 74 t.u. stupefacenti delinea, infatti, una forma speciale del delitto di associazione per delinquere, qualificata unicamente dalla natura dei reati-fine, e non da specifiche caratteristiche del sodalizio, prestandosi, con ciò, a qualificare penalmente «fatti e situazioni in concreto i più diversi ed eterogenei: da un sodalizio transnazionale, forte di una articolata organizzazione, di ingenti risorse finanziarie e rigidamente strutturato, al piccolo gruppo, talora persino ristretto ad un ambito familiare […] operante in un’area limitata e con i più modesti e semplici mezzi».
Verrebbe a profilarsi, per questo verso, una ulteriore ragione di illegittimità costituzionale per violazione degli artt. 3 e 27 Cost., con riguardo ai principi di proporzionalità, colpevolezza e necessaria finalizzazione rieducativa della pena.
Se, infatti, possono aversi casi nei quali, per le connotazioni dell’organizzazione criminosa e della condotta di partecipazione “semplice” ad essa, il disvalore del fatto fa apparire adeguata e necessaria per permettere la risocializzazione del condannato una pena uguale o prossima al massimo edittale, nelle – probabilmente ben più numerose – ipotesi in cui la pericolosità della condotta, rispetto al bene giuridico della salute pubblica, appaia contigua, o comunque sia non troppo “distante”, rispetto a quella della partecipazione di una associazione di “lieve entità”, il minimo edittale di ben dieci anni di reclusione, previsto dall’art. 74, comma 2, t.u. stupefacenti, si tradurrebbe nell’imposizione di una pena assolutamente sproporzionata rispetto alla gravità del fatto contestato.
Il contrasto con il principio costituzionale del finalismo rieducativo si farebbe «ancora “più drammatico”» in relazione alla partecipazione “qualificata”, per la quale l’art. 74, comma 1, prevede una pena minima di venti anni. In tal modo, il giudice – pur a fronte dell’ampia varietà delle condotte sussumibili nella fattispecie – è costretto a muoversi all’interno di una forbice edittale assai angusta (quattro anni), tutta proiettata verso il massimo previsto dall’ordinamento per la pena della reclusione (art. 23, primo comma, cod. pen.).
Rileva, in proposito, il rimettente come, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, allorché le pene comminate appaiano manifestamente sproporzionate alla gravità del fatto, si profila un contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost., giacché una pena di tal fatta, venendo percepita dal condannato come ingiusta e inutilmente vessatoria, è destinata a non realizzare lo scopo rieducativo verso cui deve tendere.
1.6.– Quanto, poi, al minimo edittale che possa sostituirsi a quello previsto dalle norme censurate, il giudice a quo osserva che – sempre alla luce delle indicazioni di questa Corte – pur rientrando le valutazioni in tema di dosimetria della pena nella discrezionalità del legislatore, non sussistono ostacoli all’intervento del Giudice delle leggi ove le scelte adottate dal primo si siano rivelate manifestamente arbitrarie e irragionevoli e il sistema legislativo consenta l’individuazione di soluzioni, anche alternative tra loro, atte a ricondurre a coerenza le scelte già delineate a tutela di un determinato bene giuridico. Non è, quindi, necessario che esista un’unica soluzione costituzionalmente obbligata, ma è sufficiente che il sistema nel suo complesso offra precisi punti di riferimento e soluzioni già esistenti, che possano sostituirsi alla previsione sanzionatoria dichiarata costituzionalmente illegittima, garantendo, al contempo, coerenza alla logica perseguita dal legislatore.
Secondo il giudice a quo, nella specie una simile soluzione non potrebbe coincidere – come ipotizzato in eccezioni difensive dichiarate manifestamente infondate dalla Corte di cassazione – nella assimilazione, quantomeno nel minimo, del trattamento sanzionatorio dell’associazione finalizzata al traffico di stupefacenti a quello di altre fattispecie associative già presenti nel nostro ordinamento (aventi, tra l’altro, cornici sanzionatorie tutte diverse tra loro).
Estendere in toto alla figura criminosa in esame la disciplina generale prevista per l’associazione per delinquere dall’art. 416 cod. pen. si rivelerebbe illogico e contrastante con il principio di eguaglianza (nel senso di trattare in maniera identica situazioni diverse per gravità), oltre che certamente contrario alla logica perseguita dal legislatore, di reprimere con fermezza il fenomeno criminoso in questione, che comporta la diffusione di sostanze nocive per la salute pubblica e privata.
Neppure potrebbe farsi riferimento al delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen., posto che l’associazione di stampo mafioso presenta peculiari caratteristiche criminologiche – che si traducono nella definizione del “metodo mafioso” – estranee, di per sé, al reato associativo di cui all’art. 74 t.u. stupefacenti (tant’è che, nei congrui casi, i due delitti possono concorrere).
I reati previsti dagli artt. 270 e 270-bis cod. pen. avrebbero, poi, una oggettività giuridica del tutto eterogenea rispetto all’associazione di cui si discute, e lo stesso varrebbe per il delitto di associazione per delinquere finalizzata al contrabbando di tabacchi lavorati esteri, di cui all’art. 291-quater del d.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43 (Approvazione del testo unico delle disposizioni legislative in materia doganale), che, più che salvaguardare la salute pubblica, tutelerebbe il monopolio dello Stato sul commercio nel settore merceologico di riferimento.
Il rimedio conforme ai parametri costituzionali evocati, capace di ricondurre a razionalità il sistema, senza sconfessare le scelte di fondo di natura politico-criminale operate dal legislatore, sarebbe piuttosto quello di far coincidere il minimo edittale della fattispecie associativa di cui all’art. 74, commi 1 e 2, t.u. stupefacenti con il massimo della pena previsto, rispettivamente, dal primo e dal secondo comma dell’art. 416 cod. pen., ossia dalla disposizione cui l’art. 74, comma 6, t.u. stupefacenti fa rinvio.
I due reati associativi previsti dalla disciplina in materia di stupefacenti risultano, infatti, identici sul piano della condotta, differenziandosi unicamente per il grado di offesa all’interesse protetto, il quale, per sua natura, integra «un concetto quantitativo, che esprime la progressiva intensificazione della lesione o della messa in pericolo del bene giuridico protetto, senza soluzioni di continuità». Apparirebbe quindi conforme ai principi costituzionali evocati che il giudice sia chiamato a determinare la pena proporzionata alla gravità del fatto commesso, scegliendola nell’ambito di una cornice edittale che esprima quel continuum che, sul piano dell’offensività, sussiste fra i due reati associativi previsti dall’art. 74 t.u. stupefacenti.
È ben vero – osserva da ultimo il rimettente – che in tal modo la forbice edittale dei delitti di cui al comma 1 e, soprattutto, di cui al comma 2, risulterebbe fortemente divaricata. Ma questo è un tratto che caratterizza anche la disciplina sanzionatoria dei reati scopo di cui all’art. 73 t.u. stupefacenti, e che rispecchia, pure in quel caso, la natura di «norma “collettore”» del citato art. 73, destinata a ricomprendere condotte con gradi di offensività assai eterogenei.
2.– È intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o manifestamente infondate.
2.1.– Ad avviso dell’Avvocatura dello Stato, le questioni sarebbero inammissibili a causa dell’incompleta descrizione della fattispecie concreta e della totale assenza della motivazione in ordine all’effettiva sussistenza, nel caso di specie, dei presupposti per l’applicazione delle disposizioni censurate.
Il rimettente si sarebbe, infatti, limitato a richiamare, sul punto, i capi di imputazione, e a porre in evidenza il positivo apprezzamento in sede cautelare della gravità indiziaria rispetto ad essi, senza tuttavia dar conto delle circostanze di fatto atte a delineare l’effettiva esistenza di una organizzazione connotata da una ripartizione di ruoli, né delle caratteristiche concrete dell’associazione.
Il giudice a quo non avrebbe neppure indicato le ragioni per le quali le condotte contestate, ove ritenute sussistenti, non sarebbero inquadrabili nella fattispecie di cui all’art. 74, comma 6, t.u. stupefacenti, o, quantomeno, le ragioni per le quali, alla luce delle caratteristiche dell’associazione, le condotte stesse andrebbero collocate in una “zona contigua”, o non troppo “distante”, rispetto alla partecipazione a una associazione di “lieve entità”, tale da rendere sproporzionato il trattamento sanzionatorio, anche nel minimo edittale.
Difetterebbe, infine, qualsiasi motivazione in ordine all’insussistenza dei presupposti per il riconoscimento, in favore degli imputati, delle circostanze attenuanti generiche di cui all’art. 62-bis cod. pen., o dell’eventuale collaborazione, rilevante ai fini dell’art. 74, comma 7, t.u. stupefacenti, nonché in ordine alla persistenza della ritenuta sproporzione del limite edittale minimo anche a valle delle valutazioni sulla personalità e sulla concreta condotta degli imputati.
2.2.– Nel merito, secondo l’Avvocatura dello Stato, le questioni sarebbero manifestamente infondate.
Il fulcro delle censure del giudice a quo sarebbe, infatti, rappresentato dalla configurabilità di una terza tipologia di associazione criminosa dedita al narcotraffico, collocata in una “zona grigia” tra quella regolata dall’art. 74, commi 1 e 2, t.u. stupefacenti, e quella disciplinata dall’art. 74, comma 6. La prospettazione del rimettente risulterebbe, peraltro, priva di addentellati non solo normativi, ma neppure empirici o criminologici, esprimendo una nozione «sfumata, soggettiva e, in ultima analisi, indeterminata».
La soluzione proposta dal rimettente si risolverebbe, d’altro canto, nella sollecitazione di un intervento “creativo” da parte di questa Corte: intervento che, lungi dal «ricondurre a coerenza le scelte già delineate a tutela di un determinato bene giuridico», implicherebbe la rielaborazione ex novo del trattamento sanzionatorio del delitto di cui all’art. 74, commi 1 e 2, t.u. stupefacenti, tramite la combinazione tra i relativi minimi e i massimi edittali di una fattispecie, quale l’associazione per delinquere di cui all’art. 416 cod. pen., certamente non assimilabile a quella di cui si discute per offensività e bene giuridico tutelato.
In ogni caso, i vulnera costituzionali ipotizzati dal giudice a quo sarebbero insussistenti.
Il rimettente moverebbe da un assunto indimostrato: e, cioè, che le pene previste, sia per i partecipanti, sia per i sodali apicali, nell’ipotesi in cui l’associazione delittuosa di appartenenza si situi nell’asserita “zona grigia”, siano sproporzionate e irragionevoli, e dunque, anche disfunzionali rispetto alla finalità rieducativa della pena. Le censure del rimettente sarebbero frutto, però, di un esame parziale della norma incriminatrice, in quanto il giudice a quo non avrebbe tenuto conto, né della indubitabile gravità del reato in questione – legata al fatto che il narcotraffico attenta, in modo esteso e durevole, a beni primari di rilievo costituzionale, quali la vita, la salute, l’ordine e la sicurezza pubblica –, né, comunque sia, delle possibili diminuzioni di pena. Il trattamento sanzionatorio potrebbe divenire, infatti, ben più mite ove il giudice conceda le attenuanti generiche; inoltre, sia i partecipanti apicali, sia i meri sodali possono accedere alla collaborazione, con ulteriore diminuzione della pena ai sensi dell’art. 74, comma 7, t.u. stupefacenti.
3.– L’Associazione italiana dei professori di diritto penale (AIPDP) ha depositato, in veste di amicus curiae, un’opinione scritta di segno adesivo alle censure del giudice rimettente, ammessa con decreto del Presidente della Corte 8 marzo 2024.
In aggiunta agli argomenti svolti nell’ordinanza di rimessione, l’opinione prospetta ulteriori profili di illegittimità costituzionale delle pene edittali minime previste per i reati in questione, basati sulla cosiddetta sproporzione estrinseca, e in particolare sulla considerazione che tali pene risultano, da un lato, superiori a quelle previste per altri reati di tipo associativo connotati, in assunto, da un maggior disvalore (quali l’associazione di tipo mafioso, l’associazione con finalità di terrorismo e l’associazione finalizzata alla tratta di persone); dall’altro lato, sostanzialmente equivalenti (almeno quanto alla pena prevista dal comma 1 dell’art. 74 t.u. stupefacenti) a quelle stabilite per fattispecie eterogenee che si collocano ai vertici della scala di gravità (quale l’omicidio).
4.– L’Avvocatura generale dello Stato ha depositato memoria, nella quale, in replica all’opinione dell’amicus curiae, ha rilevato come gli ulteriori profili di illegittimità costituzionale in essa indicati debbano ritenersi irrilevanti, in quanto ampliativi del thema decidendum delineato dall’ordinanza in questione.
Gli assunti dell’AIPDP sarebbero in ogni caso non fondati, in quanto l’associazione finalizzata al traffico illecito di stupefacenti non esprimerebbe affatto un disvalore minore rispetto alle ipotesi criminose richiamate, tenuto conto degli effetti che il narcotraffico produce sui consumatori, sulle loro famiglie, sulla sanità, sulla giustizia penale, sull’ordine pubblico e sulla sicurezza della circolazione stradale: effetti che apparirebbero nel complesso più gravi di quelli correlati ad altre fattispecie associative.
Secondo l’Avvocatura dello Stato, l’opinione dell’amicus curiae metterebbe, peraltro, involontariamente in luce una ulteriore ragione di inammissibilità delle questioni, legata alla «irredimibile contraddittorietà del petitum».
Il giudice a quo, infatti, non dubita che possano darsi casi nei quali, per le caratteristiche dell’associazione e della condotta di partecipazione ad essa, una pena uguale o prossima al massimo edittale risulta adeguata, mentre ritiene che nelle ipotesi in cui la pericolosità della condotta appaia «contigua, o comunque, non troppo “distante”» rispetto a quella della partecipazione di “lieve entità”, il minimo edittale previsto si traduca nell’imposizione di una pena assolutamente sproporzionata rispetto alla gravità del fatto contestato. Seguendo il ragionamento del rimettente, dunque, l’illegittimità costituzionale della pena dovrebbe riguardare solo tali casi di confine. Il petitum del giudice a quo è però ben più esteso, consistendo in una richiesta di ridefinizione generale dei minimi edittali, sia per i promotori, sia per gli associati: intervento che andrebbe ad incidere anche sulle ipotesi di più elevata intensità criminale dell’associazione, rispetto alle quali nemmeno il rimettente pone in discussione la conformità a Costituzione delle pene previste.
Considerato in diritto
1.– Il GIP del Tribunale di Brescia dubita della legittimità costituzionale dell’art. 74 t.u. stupefacenti, nella parte in cui, al comma 1, punisce chi promuove, costituisce, dirige, organizza o finanzia un’associazione finalizzata a commettere più delitti tra quelli previsti dal precedente art. 73 con la reclusione non inferiore agli anni venti, anziché con la reclusione non inferiore agli anni sette; nonché, nella parte in cui, al comma 2, punisce chi partecipa all’associazione con la reclusione non inferiore agli anni dieci, anziché con la reclusione non inferiore agli anni cinque.
Ad avviso del giudice a quo, le norme censurate violerebbero gli artt. 3 e 27 Cost., per contrasto con i principi di proporzionalità e ragionevolezza e con la finalità rieducativa della pena, stante il profondo divario esistente tra le pene minime da esse previste e le pene massime previste dal comma 6 dello stesso art. 74 t.u. stupefacenti per la partecipazione “qualificata” e “semplice” ad una associazione finalizzata a commettere fatti «di lieve entità» ai sensi del comma 5 dell’art. 73 (rispettivamente, sette e cinque anni di reclusione): profilo per il quale verrebbero a riproporsi le medesime criticità già riscontrate dalla sentenza n. 40 del 2019 di questa Corte, con riguardo al rapporto tra le fattispecie “ordinaria” e “lieve” del delitto di cui allo stesso art. 73. L’ampio iato sanzionatorio che separa le due ipotesi di reato farebbe, infatti, apparire le pene in questione palesemente sproporzionate rispetto ai casi nei quali l’associazione per il narcotraffico, pur non potendo essere inquadrata nell’ipotesi di minore gravità, si collochi in una “zona grigia” al confine tra le due fattispecie, o comunque sia non troppo “distante” da quella della fattispecie “lieve”. Ciò, tanto più alla luce del fatto che l’associazione per il narcotraffico, in quanto forma speciale del delitto di associazione per delinquere qualificata unicamente dalla natura dei reati-fine, e non da specifiche connotazioni del sodalizio, si presta a ricomprendere fenomeni associativi dalle caratteristiche estremamente eterogenee e con ben diverso grado di pericolosità per i beni giuridici tutelati.
Secondo il rimettente, al vulnus denunciato dovrebbe porsi rimedio allineando i minimi edittali della fattispecie “ordinaria” ai massimi edittali della fattispecie “di lieve entità”, così da replicare, sul piano sanzionatorio, quel “continuum” che si riscontra, in punto di incremento dell’offesa all’interesse protetto, nella progressione dalla fattispecie “minor” alla “maior”.
2.– Restano estranei alla valutazione di questa Corte gli ulteriori profili di illegittimità costituzionale, diversi da quelli dell’ordinanza di rimessione, prospettati nell’opinione dall’amicus curiae (sentenza n. 180 del 2021) e legati al raffronto tra le pene in discussione e quelle previste per altre figure criminose di natura associativa o prive di tale natura.
Non può, infatti, non valere a fortiori, rispetto agli amici curiae, quanto affermato dalla costante giurisprudenza di questa Corte in ordine all’impossibilità, per le parti del giudizio incidentale, di ampliare con la prospettazione di ulteriori questioni o profili il thema decidendum delineato dall’ordinanza di rimessione (ex plurimis, sentenze n. 161 del 2023, n. 228 del 2022 e n. 202 del 2021).
3.– È opportuno che l’esame delle questioni sia preceduto da una sintetica ricostruzione del quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento.
3.1.– I dubbi di legittimità costituzionale prospettati dal GIP di Brescia trovano il loro principale referente nella sentenza n. 40 del 2019, con la quale questa Corte ha dichiarato costituzionalmente illegittima la pena edittale minima del delitto di produzione, traffico e detenzione illeciti (inde, per brevità, «traffico illecito») di droghe “pesanti”, prevista dall’art. 73, comma 1, t.u. stupefacenti.
La decisione è intervenuta in una situazione nella quale, a seguito di una complessa successione di interventi del legislatore e di questa stessa Corte, il traffico illecito di droghe “pesanti” risultava punito, nell’ipotesi “ordinaria”, con la reclusione da otto a venti anni, oltre la multa (art. 73, comma 1, t.u. stupefacenti), mentre il traffico illecito di stupefacenti di «lieve entità» – divenuto anch’esso fattispecie autonoma di reato – era punito, indipendentemente dalla tipologia di droga (e quindi anche nel caso di droghe “pesanti”), con la reclusione da uno a quattro anni, oltre la multa. Si era venuta, con ciò, a creare una vistosa frattura tra la pena detentiva minima della fattispecie “ordinaria” (otto anni di reclusione) e la pena detentiva massima della fattispecie “lieve” (quattro anni di reclusione): frattura apparsa irragionevole e sproporzionata, posto che le condotte “ai confini” tra le due fattispecie – “i più lievi tra i fatti gravi” e “i più gravi tra i fatti lievi” –, che dunque presentano un disvalore non identico, ma comunque sia simile o “contiguo”, venivano ad essere trattate in modo profondamente diverso.
Al riguardo, questa Corte ha in effetti rilevato che, se per costante orientamento della giurisprudenza di legittimità la fattispecie di lieve entità di cui all’art. 73, comma 5, t.u. stupefacenti può essere riconosciuta solo nell’ipotesi di minima offensività della condotta, deducibile, sia dal dato qualitativo e quantitativo, sia dagli altri parametri richiamati dalla disposizione (mezzi, modalità o circostanze dell’azione), «indubitabilmente molti casi si collocano in una “zona grigia”, al confine fra le due fattispecie di reato»: il che rendeva «non giustificabile l’ulteriore permanenza di un così vasto iato sanzionatorio, evidentemente sproporzionato sol che si consideri che il minimo edittale del fatto di non lieve entità è pari al doppio del massimo edittale del fatto lieve».
L’ampiezza del divario sanzionatorio condizionava, d’altro canto, inevitabilmente la valutazione complessiva che il giudice di merito doveva compiere al fine di accertare la lieve entità del fatto, «con il rischio di dar luogo a sperequazioni punitive, in eccesso o in difetto, oltre che a irragionevoli difformità applicative in un numero rilevante di condotte».
Di qui la ritenuta violazione dei principi di eguaglianza, proporzionalità e ragionevolezza, di cui all’art. 3 Cost., nonché del principio della finalità rieducativa della pena, di cui all’art. 27 Cost., posto che, per ripetuta affermazione della giurisprudenza costituzionale, una pena non proporzionata alla gravità del fatto, e perciò avvertita dal condannato come ingiusta e inutilmente vessatoria, ne compromette lo scopo rieducativo.
Quanto al trattamento sanzionatorio da sostituire a quello illegittimo, questa Corte ha accolto le questioni nei termini allora prospettati dal giudice rimettente, ossia nel senso della dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 73, comma 1, t.u. stupefacenti nella parte in cui prevedeva il minimo edittale di otto anni di reclusione, anziché di sei anni. Si è ritenuto che tale grandezza fosse ricavabile da plurimi “punti di riferimento” rinvenibili nel sistema legislativo, atti a fornire una soluzione, pur non costituzionalmente vincolata, per porre rimedio al vulnus e ricondurre a coerenza le scelte già delineate. Il che, secondo la più recente giurisprudenza costituzionale, era sufficiente a consentire l’intervento della Corte: intervento, peraltro, nella specie non ulteriormente differibile, essendo rimasto inascoltato il pressante invito, precedentemente rivolto al legislatore con la sentenza n. 179 del 2017, a porre rimedio alla situazione.
Il rimettente aveva ricavato, in specie, l’indicazione della pena minima di sei anni per i fatti non lievi anzitutto dalla previsione introdotta con l’art. 4-bis del decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 272 (Misure urgenti per garantire la sicurezza ed i finanziamenti per le prossime Olimpiadi invernali, nonché la funzionalità dell’Amministrazione dell’interno. Disposizioni per favorire il recupero dei tossicodipendenti recidivi e modifiche al testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309), convertito, con modificazioni, nella legge 21 febbraio 2006, n. 49: disposizione che, se pure dichiarata costituzionalmente illegittima per vizi procedurali con la sentenza n. 32 del 2014, «ancora conserva[va] viva traccia applicativa nell’ordinamento in considerazione degli effetti non retroattivi» di tale pronuncia. Sei anni era, inoltre, la pena massima prevista dal vigente comma 4 dell’art. 73 t.u. stupefacenti per i fatti di non lieve entità aventi ad oggetto droghe “leggere”. E sempre in sei anni il legislatore aveva individuato la pena massima per i fatti di lieve entità concernenti le droghe “pesanti” nel testo originario dell’art. 73 t.u. stupefacenti, misura mantenuta come limite massimo della pena per i fatti lievi anche dal d.l. n. 272 del 2005, come convertito, che pure aveva eliminato dal comma 5 dell’art. 73 la distinzione tra droghe “pesanti” e “leggere”.
In sostanza, quindi – ha concluso questa Corte –, «la pena di sei anni è stata ripetutamente indicata dal legislatore come misura adeguata ai fatti “di confine”, che nell’articolato e complesso sistema punitivo dei reati connessi al traffico di stupefacenti si pongono al margine inferiore delle categorie di reati più gravi o a quello superiore della categoria dei reati meno gravi». Ciò, fermo restando che, non trattandosi di soluzione costituzionalmente obbligata, la misura sanzionatoria indicata rimaneva soggetta a diverso apprezzamento da parte del legislatore, nel rispetto del principio di proporzionalità.
3.2.– A parere del giudice a quo, i profili di illegittimità costituzionale riscontrati dalla sentenza n. 40 del 2019 ricorrerebbero, e in termini di ancor maggiore evidenza, anche in relazione alla figura criminosa dell’associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope, di cui all’art. 74 t.u. stupefacenti.
Vale, al riguardo, ricordare che l’introduzione nel nostro ordinamento di una figura specifica di associazione per delinquere con finalità di narcotraffico si deve all’art. 75 della legge 22 dicembre 1975, n. 685 (Disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope. Prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), collocandosi nell’alveo dell’indirizzo di marcato irrigidimento delle risposte repressive che percorre l’evoluzione della normativa di settore.
L’obiettivo primario dell’intervento è, infatti, agevolmente individuabile nell’inasprimento radicale delle sanzioni rispetto ai livelli dell’associazione per delinquere “comune”, delineata dall’art. 416 cod. pen. Il legislatore è stato a ciò mosso dalla considerazione che lo svolgimento di attività in forma associata è “consustanziale” al mercato della droga. I traffici illeciti di sostanze stupefacenti, per la dimensione economica assunta dal fenomeno, per l’esigenza di importare in Italia ingenti partite di droga grezza o lavorata e per la successiva attività di eventuale raffinazione e grande distribuzione, richiedono quasi “per definizione” l’intervento di organizzazioni criminali dotate di mezzi e risorse umane sovente cospicui. Anche la capillare attività di commercio degli stupefacenti verso i consumatori finali richiede di solito, per “ottimizzare” il servizio, la predisposizione di strutture organizzate, sia pure in forma meno complessa rispetto a quelle dei narcotrafficanti internazionali in precedenza richiamate.
Il delitto di associazione finalizzata al narcotraffico assume, dunque, per opinione diffusa, natura plurioffensiva, mirando a salvaguardare, da un lato, coerentemente con i delitti-scopo, la salute pubblica, posta in pericolo dal consumo di droga, tanto più quando i relativi traffici siano svolti da gruppi organizzati; dall’altro, l’ordine pubblico, al quale, in via generale, attenta l’esistenza stessa di organizzazioni dedite alla commissione di reati.
Dopo quindici anni di applicazione della normativa introdotta dalla legge n. 685 del 1975, maturava, peraltro, nel Parlamento la volontà di operare un ulteriore inasprimento delle risposte punitive. L’intento trovava espressione nella legge 26 giugno 1990, n. 162 (Aggiornamento, modifiche ed integrazioni della legge 22 dicembre 1975, n. 685, recante disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), il cui art. 14 inseriva nella legge n. 685 del 1975 un nuovo art. 71-bis, dedicato alla figura dell’associazione per il narcotraffico (con contestuale abrogazione del previgente art. 75): disposizione dopo pochi mesi trasfusa nell’art. 74 t.u. stupefacenti, oggi censurato.
Nel solco della tradizione propria dei reati associativi e del precedente specifico, la disposizione distingue due forme di partecipazione al sodalizio criminoso, definibili, con una certa approssimazione, come quelle delle figure soggettive “di vertice” o “apicali”, titolari di poteri decisionali a vario livello (destinatarie delle sanzioni più rigorose), e dei partecipanti “semplici”, il cui ruolo è prevalentemente esecutivo.
Il comma 1 dell’art. 74 t.u. stupefacenti stabilisce, in specie, che, quando tre o più persone si associano allo scopo di commettere più delitti tra quelli previsti dal precedente art. 73 – nonché, a seguito della modifica successivamente operata dal decreto legislativo 24 marzo 2011, n. 50, recante «Attuazione dei Regolamenti (CE) numeri 273/2004, 111/2005 e 1277/2005, come modificato dal Regolamento (CE) n. 297/2009, in tema di precursori di droghe, a norma dell’articolo 45 della legge 4 giugno 2010, n. 96», più delitti tra quelli previsti dall’art. 70, commi 4, 6 e 10, dello stesso testo unico (concernenti i precursori di droghe, con talune esclusioni), – chi promuove, costituisce, dirige, organizza o finanzia l’associazione è punito, «per ciò solo» (a prescindere, cioè, dalla realizzazione dei reati-scopo), con la reclusione non inferiore a venti anni.
Il comma 2 dell’art. 74 t.u. stupefacenti riserva, poi, a chi partecipa all’associazione (senza ricoprire i ruoli “apicali” sopra indicati) la pena della reclusione non inferiore a dieci anni.
Non essendo indicato in entrambi i casi il massimo edittale, esso coincide – sia per i soggetti “apicali”, sia per i partecipanti “semplici” – con il limite massimo generale della pena della reclusione, pari a ventiquattro anni (art. 23 cod. pen.).
Per temperare il rigore di tale quadro repressivo – che sarebbe risultato palesemente inadeguato a fronte della estrema variabilità delle organizzazioni operanti nei traffici illeciti di stupefacenti – il legislatore del 1990 ha introdotto una figura associativa “minore”, avente come tratto distintivo la “levità” del suo programma criminoso, la quale si pone come pendant della fattispecie tipizzata dall’art. 73, comma 5, t.u. stupefacenti in riferimento ai reati-fine.
Il comma 6 dell’art. 74 stabilisce, in specie, che «[s]e l’associazione è costituita per commettere i fatti descritti dal comma 5 dell’articolo 73» – ossia fatti «di lieve entità» – «si applicano il primo e il secondo comma dell’articolo 416 del codice penale», e dunque le pene, di gran lunga più miti, stabilite per l’associazione a delinquere “comune”. I soggetti “apicali” sono quindi puniti con la reclusione da tre a sette anni; i partecipanti “semplici”, con la reclusione da uno a cinque anni.
Come il rimettente ricorda, la giurisprudenza di legittimità è consolidata nel senso che quella così delineata sia anch’essa una fattispecie autonoma di reato, e non già una circostanza attenuante dei delitti di cui ai commi 1 e 2: ciò desumendosi dalla dizione della disposizione, chiaramente indicativa della volontà del legislatore di riservare all’ipotesi criminosa in questione un regime diverso, in ragione del minore allarme sociale suscitato dai fatti e della minore pericolosità sociale dei loro autori (Cassazione, sentenza n. 34475 del 2011).
Quanto al perimetro applicativo di tale fattispecie, secondo un orientamento giurisprudenziale parimente consolidato, per la sua configurabilità non è sufficiente considerare la natura dei singoli episodi di cessione accertati in concreto, ma occorre valutare il momento genetico dell’associazione, nel senso che essa deve essere stata costituita al solo scopo di commettere cessioni di stupefacente di lieve entità, nonché le potenzialità dell’organizzazione con riferimento ai quantitativi di sostanze che il gruppo è in grado di procurarsi (tra le altre, Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenze 16 febbraio-29 marzo 2022, n. 11526 e 19 gennaio-24 marzo 2016, n. 12537). L’associazione potrebbe essere finalizzata alla commissione di fatti di cessione di droga che, considerati singolarmente, presentano le caratteristiche di cui all’art. 73, comma 5, t.u. stupefacenti, e tuttavia la complessiva attività di spaccio, in concreto esercitata, potrebbe esorbitare dalla previsione del fatto di lieve entità, avuto riguardo alla molteplicità degli episodi, alla loro reiterazione in un ampio arco di tempo e alla predisposizione di un’idonea e strutturata organizzazione (tra le altre, Corte di cassazione, sezione quarta penale, sentenza 25 novembre 2021-12 gennaio 2022, n. 476 e sezione terza penale, sentenza 6 febbraio-8 ottobre 2018, n. 44837).
4.– Sulla scorta di tale excursus, è quindi possibile passare all’esame delle due eccezioni di inammissibilità delle questioni formulate dall’Avvocatura dello Stato, le quali si rivelano entrambe non fondate.
4.1.– Quanto alla prima, attinente all’insufficiente descrizione della fattispecie concreta e al difetto di motivazione sulla rilevanza, vale osservare che il giudice a quo ha riferito in modo adeguato sui fatti contestati ai quattro imputati (partecipazione a un’associazione «finalizzata a commettere una serie indeterminata di delitti connessi al commercio di stupefacenti, quali l’acquisto, il trasporto, la detenzione, il confezionamento, la vendita al dettaglio o all’ingrosso di cocaina, predisponendo i mezzi necessari per l’esecuzione del programma delittuoso ed operando secondo articolata e specifica divisione dei ruoli») e sulle circostanze che, sempre in base alle imputazioni, valgono a definire i ruoli svolti da ciascuno (apicali per i primi tre, di semplice partecipe per il quarto).
Contrariamente a quanto sostiene l’Avvocatura, non si può dire, dunque, che il rimettente abbia omesso di indicare le circostanze fattuali che, «quantomeno in astratto», consentono di ritenere configurabile un’associazione per il narcotraffico.
Il giudice a quo ha posto, inoltre, in evidenza la circostanza che agli imputati è stata applicata la misura della custodia cautelare in carcere, sul presupposto della sussistenza della gravità indiziaria in ordine alla fattispecie associativa loro ascritta e che la misura è stata confermata dal Tribunale del riesame, il quale ha condiviso, in particolare, la qualificazione della fattispecie stessa come associazione “ordinaria”, e non già “di lieve entità”. E, se pure è chiaro che – come nota l’Avvocatura – le decisioni assunte in sede cautelare non vincolano il giudice del merito, il richiamo appare però rappresentativo della seria consistenza dell’ipotesi di accusa.
Deve escludersi, poi, che, in presenza di una fattispecie concreta qualificabile come associazione per il narcotraffico “ordinaria”, il rimettente fosse tenuto ad indicare, onde dimostrare la rilevanza delle questioni – come invece suppone l’Avvocatura –, le ragioni che varrebbero a collocare la fattispecie stessa in una zona “contigua” rispetto a quella dell’associazione “di lieve entità”. L’accoglimento delle questioni sarebbe in ogni caso rilevante, perché, un conto è determinare la pena adeguata nell’ambito di una forbice edittale, quanto ai vertici del sodalizio, da venti a ventiquattro anni di reclusione, un altro conto è individuarla nell’ambito di una forbice da sette a ventiquattro anni (altrettanto dicasi, mutatis mutandis, per i partecipanti “semplici”). L’esistenza di una “zona di confine” tra le due ipotesi criminose è un argomento che viene in rilievo ai fini della motivazione sulla non manifesta infondatezza delle questioni: la valutazione del grado di disvalore del caso di specie resta, per converso, un posterius rispetto all’invocata rimodulazione della cornice edittale.
Neppure, infine, può costituire ragione di inammissibilità il fatto che il rimettente non abbia fornito alcuna motivazione in ordine all’insussistenza dei presupposti per il riconoscimento, in favore degli imputati, delle circostanze attenuanti generiche di cui all’art. 62-bis cod. pen., o di quella della collaborazione, suscettibile di determinare una consistente riduzione della pena (dalla metà a due terzi) ai sensi dell’art. 74, comma 7, t.u. stupefacenti. Questa Corte ha, infatti, già in più occasioni chiarito che l’applicazione delle attenuanti, generiche o di altra natura, non è in grado di sanare il vulnus costituzionale insito nella comminatoria di pene manifestamente eccessive nel minimo (sentenze n. 46 del 2024, n. 120 del 2023 e n. 63 del 2022), quali sarebbero, secondo il rimettente, quelle oggetto dell’odierno scrutinio.
4.2.– Parimente non fondata è l’altra eccezione di inammissibilità dell’Avvocatura dello Stato, formulata nella memoria, con la quale si denuncia la «contraddittorietà del petitum»: contraddittorietà insita, in assunto, nel fatto che, mentre i dubbi di legittimità costituzionale del giudice a quo risultano riferiti alle ipotesi in cui la pericolosità della condotta appaia “contigua”, o non troppo “distante”, rispetto a quella della partecipazione “di lieve entità”, il petitum del rimettente non è limitato a tali casi “di confine”, ma consiste in una richiesta di ridefinizione tout court dei minimi edittali, che coinvolgerebbe anche i casi di più elevata intensità criminale dell’associazione, rispetto ai quali nemmeno il giudice a quo dubita della conformità a Costituzione delle pene previste.
In senso contrario, va osservato anzitutto che, alla luce della giurisprudenza di questa Corte – escluso che il petitum del rimettente vincoli la Corte stessa (tra le molte, sentenze n. 46 e n. 12 del 2024, n. 221 del 2023) –, può parlarsi di contraddittorietà del petitum, che determina l’inammissibilità della questione, solo quando le modalità argomentative dell’ordinanza di rimessione non consentano di individuare con chiarezza il contenuto e il “verso” delle censure, ipotizzando interventi di segno diverso e contrapposto (ex plurimis, sentenze n. 221 del 2023, n. 205 del 2021, n. 153 del 2020 e n. 175 del 2018). Nella specie, per contro, il “verso” delle censure è chiarissimo, consistendo nella rimodulazione verso il basso di minimi edittali ritenuti sproporzionati per eccesso.
Di là da ciò, è però dirimente il rilievo che il riferimento del rimettente ai “casi di confine” riprende le cadenze argomentative della sentenza n. 40 del 2019, intese a dimostrare l’irragionevolezza e la sproporzione dello iato sanzionatorio tra fattispecie “ordinaria” e fattispecie “di lieve entità”: cadenze che non hanno portato, peraltro, questa Corte a circoscrivere la declaratoria di illegittimità costituzionale del minimo edittale del reato di cui all’art. 73, comma 1, t.u. stupefacenti ai soli “casi di confine” (che non si saprebbe nemmeno come definire concretamente). È ovvio, infatti, che la ridefinizione verso il basso dei soli minimi edittali lascia inalterata la possibilità per il giudice di applicare ai fatti di maggiore gravità le pene più severe, corrispondenti alla vecchia cornice sanzionatoria.
5.– Le questioni sono, tuttavia, inammissibili per una diversa ragione.
Non può disconoscersi che, in rapporto alla fattispecie criminosa dell’associazione finalizzata al narcotraffico, si registri una fenomenologia, in termini di “frattura sanzionatoria” tra ipotesi “ordinaria” e ipotesi “lieve” del reato, analoga a quella che questa Corte ha censurato con la sentenza n. 40 del 2019 relativamente ai delitti di cui all’art. 73 t.u. stupefacenti. Lo iato tra le pene minime previste dai commi 1 e 2 dell’art. 74 t.u. stupefacenti e quelle massime stabilite dal successivo comma 6 è persino più ampio di quello che ha dato luogo alla citata pronuncia, sia in termini assoluti (il differenziale è, infatti, di tredici anni per i soggetti “apicali” e di cinque per i partecipanti “semplici”), sia in termini proporzionali, almeno quanto ai soggetti “apicali” (per i quali il minimo edittale della fattispecie “ordinaria” è pari quasi al triplo del massimo della fattispecie “lieve”), mentre con riguardo ai partecipanti “semplici” il rapporto tra le due grandezze è identico a quello ritenuto allora non costituzionalmente tollerabile (l’una è il doppio dell’altra).
Al vulnus denunciato non è, tuttavia, possibile porre rimedio nel modo indicato dal rimettente.
Alla luce di una giurisprudenza di questa Corte, ormai copiosa e costante, una volta accertato un vulnus a un principio o a un diritto riconosciuti dalla Costituzione, non può essere di ostacolo all’esame nel merito della questione l’assenza di un’unica soluzione a “rime obbligate” per ricondurre l’ordinamento al rispetto della Costituzione, ancorché si versi in materie riservate alla discrezionalità del legislatore – qual è, tipicamente, quella della determinazione della risposta sanzionatoria a ciascun illecito penale –, risultando a tal fine sufficiente la presenza nell’ordinamento di una o più soluzioni “costituzionalmente adeguate”, tratte da discipline già esistenti, che si inseriscano nel tessuto normativo coerentemente con la logica perseguita dal legislatore: soluzioni che consentono a questa Corte di porre rimedio nell’immediato al vulnus riscontrato, senza creare insostenibili vuoti di tutela degli interessi tutelati dalla norma incriminatrice incisa, ferma restando la possibilità per il legislatore di individuare, nell’esercizio della propria discrezionalità, una diversa soluzione nel rispetto dei principi costituzionali (ex plurimis, sentenze n. 46 del 2024, n. 95 e n. 28 del 2022, n. 233 e n. 222 del 2018).
Nel caso in esame, tale soluzione non può, tuttavia, consistere nell’auspicato allineamento dei minimi edittali della fattispecie “maior” ai massimi della “minor”.
Una soluzione di tal fatta venne scartata da questa Corte già con riferimento al delitto di cui all’art. 73, comma 1, t.u. stupefacenti. Si rilevò, infatti, come alla continuità nella progressione dell’offesa non debba necessariamente corrispondere una continuità della risposta sanzionatoria, ben potendo la tenuità o levità del fatto «essere […] prese in considerazione dal legislatore a diverso titolo e con effetti che possono determinare “spazi di discrezionalità discontinua” nel trattamento sanzionatorio». Una simile discontinuità può corrispondere «a una ragionevole esigenza di politica criminale volta a esprimere, attraverso un più mite trattamento sanzionatorio, una maggiore tolleranza verso i comportamenti meno lesivi e, viceversa, manifestare una più ferma severità, con sanzioni autonome più rigorose, nei confronti di condotte particolarmente lesive» (sentenza n. 179 del 2017).
In coerenza con tale rilievo, la ridefinizione verso il basso del minimo edittale del delitto di cui all’art. 73, comma 1, t.u. stupefacenti, successivamente operata dalla sentenza n. 40 del 2019, non seguì, dunque, il criterio della saldatura con il massimo di cui al comma 5, ma – come ricordato al punto 3.1. che precede – quello del collegamento a “punti di riferimento” reperibili aliunde, indicativi di una soluzione che lasciava persistere, comunque sia, uno iato sanzionatorio – sia pure di minore entità – tra le due fattispecie.
Sarebbe illogico e contraddittorio che il criterio allora scartato venisse impiegato oggi con riguardo alla fattispecie associativa di cui all’art. 74 t.u. stupefacenti: fattispecie in rapporto alla quale esso produrrebbe effetti concreti ancor più radicali, provocando un rilevantissimo abbattimento della risposta punitiva minima a fatti che, nella valutazione legislativa, presentano un disvalore particolarmente marcato, in ragione del connubio, che con essi si realizza, tra associazionismo criminale e mercato della droga; in maniera tale che una simile soluzione non si inserirebbe nel tessuto normativo coerentemente con la logica perseguita dal legislatore.
Dal sistema legislativo non appaiono, peraltro, neppure ricavabili, allo stato, “grandezze predate” diverse da quelle indicate dal giudice a quo, alle quali possa mettersi eventualmente capo al fine di riequilibrare l’assetto sanzionatorio censurato.
La disciplina penale degli stupefacenti non lascia emergere, infatti, con riguardo alla figura criminosa in questione, norme omologhe a quelle utilizzate dalla sentenza n. 40 del 2019 per l’intervento sulla cornice edittale del delitto di cui all’art. 73, comma 1, t.u. stupefacenti.
Neppure, poi, sarebbe possibile fare riferimento – come lo stesso rimettente riconosce – ai minimi edittali (peraltro, tutti diversi tra loro) previsti per altre figure “specializzate” di reato associativo, quali l’associazione di tipo mafioso (art. 416-bis cod. pen.), l’associazione con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico (art. 270-bis cod. pen.) e l’associazione finalizzata alla tratta o ad altri delitti contro la libertà individuale (art. 416, sesto comma, cod. pen.). A prescindere dalla scarsa coerenza logica di una tale soluzione con le ragioni che stanno alla base del vulnus costituzionale denunciato, non legate al raffronto con le figure criminose in parola, queste ultime non appaiono in grado di costituire utili punti di riferimento, non essendo in relazione ad esse prefigurata una distinzione, sul piano sanzionatorio, tra fattispecie “ordinaria” e fattispecie “di lieve entità”. Dirimente, in ogni caso, è la considerazione che in questo modo non si risolverebbe il problema, stante l’entità delle pene comminate per i reati in questione. Per i partecipanti “non qualificati” all’associazione mafiosa la pena minima è, infatti, di dieci anni: dunque, uguale a quella attualmente prevista per la partecipazione “semplice” all’associazione per il narcotraffico, sicché nulla cambierebbe. Le pene minime per l’associazione terroristica risultano, a loro volta, esattamente identiche ai massimi edittali dell’associazione finalizzata al narcotraffico “di lieve entità”: sicché il riferimento ad esse equivarrebbe a riproporre il metodo d’intervento caldeggiato dal giudice a quo. L’associazione finalizzata alla tratta, infine, ha minimi ancor più bassi di quelli risultanti dalla soluzione proposta da quest’ultimo.
6.– Consegue a ciò l’inammissibilità delle questioni.
Questa Corte non può fare a meno, peraltro, di auspicare un sollecito intervento del legislatore che valga a rimuovere l’anomalia sanzionatoria riscontrabile in subiecta materia.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 74, commi 1 e 2, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Brescia con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 maggio 2024.
F.to:
Franco MODUGNO, Presidente e Redattore
Valeria EMMA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 19 luglio 2024
Il Cancelliere