SENTENZA N. 225
ANNO 2023
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta da:
Presidente: Augusto Antonio BARBERA;
Giudici: Franco MODUGNO, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 33-quinquies del codice di procedura penale promosso dal Tribunale ordinario di Nocera Inferiore, nel procedimento penale a carico di G. R. e altri, con ordinanza del 18 maggio 2022, iscritta al n. 157 del registro ordinanze 2022 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 2, prima serie speciale, dell’anno 2023.
Visti l’atto di costituzione di G. R., nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 5 dicembre 2023 il Giudice relatore Francesco Viganò;
uditi l’avvocato Generoso Bloise per G. R. e l’avvocato dello Stato Salvatore Faraci per il Presidente del Consiglio dei ministri;
deliberato nella camera di consiglio del 5 dicembre 2023.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 18 maggio 2022, il Tribunale ordinario di Nocera Inferiore ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 33-quinquies del codice di procedura penale, in riferimento agli artt. 3, 24, 101, secondo comma, 111, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6, paragrafo 3, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU). La disposizione è censurata «nella parte in cui prevede che l’inosservanza delle disposizioni sulla composizione collegiale o monocratica del tribunale deve essere rilevata o eccepita, a pena di decadenza, prima della conclusione dell’udienza preliminare, consentendo solo in tal caso la riproposizione della questione entro il termine di cui all’art. 491 c.p.p.».
1.1.– Avanti al Tribunale rimettente, in composizione collegiale, pende un giudizio penale nei confronti di cinquantaquattro imputati per vari delitti (tra i quali la truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, nonché l’emissione e utilizzazione di fatture false) ritenuti connessi dal pubblico ministero e dal giudice dell’udienza preliminare che ha emesso il decreto che dispone il giudizio. L’attribuzione alla competenza collegiale dell’intero procedimento è stata determinata, ai sensi dell’art. 33-quater cod. proc. pen., dalla contestazione ad alcuni degli imputati del delitto di associazione per delinquere di cui all’art. 416 del codice penale, attribuito al tribunale in composizione collegiale dall’art. 33-bis, comma 1, lettera c), cod. proc. pen.
In sede di esame delle questioni preliminari – riferisce il giudice a quo – quattordici imputati per delitti di emissione o utilizzazione di fatture false, ordinariamente attribuiti al tribunale in composizione monocratica, avevano sostenuto l’inesistenza di ragioni di connessione dei delitti ad essi contestati rispetto a quello di associazione per delinquere, contestato ad altri imputati, e conseguentemente avevano chiesto disporsi la trasmissione degli atti che li riguardavano al tribunale in composizione monocratica, ai sensi dell’art. 33-septies, comma 1, cod. proc. pen.
Rilevato che l’eccezione non era stata sollevata dagli imputati in parola nel corso dell’udienza preliminare, il Collegio rimettente osserva che gli stessi sono ormai decaduti dalla possibilità di sollevarla in dibattimento ai sensi dell’art. 33-quinquies cod. proc. pen.
Tuttavia, il Collegio dubita della legittimità costituzionale di quest’ultima disposizione.
1.2.– In punto di rilevanza, osserva il giudice a quo che – stante l’espressa decadenza stabilita dall’art. 33-quinquies cod. proc. pen. – sarebbe ormai preclusa la valutazione nel merito delle eccezioni, che dovrebbero essere dichiarate senz’altro inammissibili per tardività.
Il rimettente rileva, peraltro, come «non appaiano manifestamente infondate, almeno in questa fase e salva una più approfondita valutazione che potrà essere abilitata solo dalla rimozione dell’ostacolo di inammissibilità da parte della Corte adita», le denunciate violazioni del riparto di attribuzioni, per insussistenza di effettive ragioni di connessione ex art. 12 cod. proc. pen. idonee a giustificare l’instaurazione di un simultaneus processus innanzi al tribunale collegiale.
«Ne consegue» – conclude il giudice a quo – «che un eventuale esito di accoglimento dell’incidente di costituzionalità, rimuovendo la decadenza di cui all’art. 33-quinquies c.p.p., ormai maturata sia per le parti che per i giudici del dibattimento (cui è parimenti preclusa la rilevazione ex officio, visto il tenore letterale della norma), restituirebbe a questi ultimi un sindacato di merito sulle dedotte questioni dell’inosservanza delle disposizioni di cui agli artt. 33-bis, 33-ter e 33-quater c.p.p.; questioni che […], laddove accolte, in tutto o in parte, porterebbero il Collegio rimettente a disporre la separazione del processo nei confronti degli imputati chiamati a rispondere dei reati non connessi a quello associativo, con conseguente trasmissione degli atti al giudice monocratico ai sensi dell’art. 33-septies c.p.p.».
Osserva, infine, il rimettente come la rilevanza della questione non possa «essere esclusa dalla semplicistica considerazione delle maggiori garanzie offerte dalla cognizione collegiale in luogo di quella monocratica». In particolare, le parti avrebbero un interesse concreto e giuridicamente apprezzabile a che la propria posizione sia definita con un rito più celere, senza dover essere coinvolte in un dibattimento lungo, complesso e costoso.
1.3.– In punto di non manifesta infondatezza, il giudice a quo ricostruisce anzitutto la genesi della disposizione censurata, osservando che la preclusione ivi stabilita si giustificava nel sistema originario istituito dal decreto legislativo 19 febbraio 1998, n. 51 (Norme in materia di istituzione del giudice unico di primo grado), allorché l’udienza preliminare era prevista per i soli reati attribuiti alla cognizione del tribunale in composizione collegiale; ciò che rendeva plausibile esigere dalle parti di formulare già in quella sede l’eccezione relativa al mancato rispetto delle norme sull’attribuzione della cognizione della causa. Tuttavia, in seguito alle modifiche intervenute ad opera della legge 16 dicembre 1999, n. 479 (Modifiche alle disposizioni sul procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica e altre modifiche al codice di procedura penale. Modifiche al codice penale e all'ordinamento giudiziario. Disposizioni in materia di contenzioso civile pendente, di indennità spettanti al giudice di pace e di esercizio della professione forense) – la cosiddetta “legge Carotti” –, l’udienza preliminare è stata prevista anche per taluni reati attribuiti alla cognizione del tribunale in composizione monocratica, divenendo così «uno snodo filtrante sostanzialmente neutro sotto il profilo del riparto di attribuzioni». Con la conseguenza che, durante l’udienza preliminare, le parti verserebbero in una condizione di ignoranza circa la composizione del tribunale cui la causa sarà assegnata in caso di rinvio a giudizio. Tale composizione sarebbe, in realtà, determinata soltanto per effetto del decreto che dispone il giudizio di cui all’art. 429 cod. proc. pen., e dunque in un momento nel quale le parti non avrebbero più la possibilità di formulare l’eccezione nei termini previsti dall’art. 33-quinquies cod. proc. pen.
Da ciò deriverebbe l’attuale «illogicità della regola prevista dall’art. 33 quinquies c.p.p., che colloca le parti nella paradossale situazione di dover eccepire l’inosservanza di una disposizione prima ancora di averla conosciuta».
Tale illogicità, ad avviso del rimettente, sarebbe già stata rilevata da questa Corte nell’ordinanza n. 395 del 2001, che aveva tuttavia giudicato inammissibile una questione simile a quella odierna in ragione tra l’altro dell’omessa sperimentazione, da parte del giudice a quo, di una interpretazione conforme a Costituzione della disciplina censurata.
Ad avviso del rimettente, peraltro, l’illegittimità costituzionale della norma potrebbe «essere emendata solo rimuovendo in toto la decadenza correlata all’udienza preliminare, consentendo per tutti i procedimenti, a prescindere dal modulo introduttivo, l’eccezione e la rilevazione dell’inosservanza del riparto di attribuzioni tra tribunale monocratico e collegiale entro il termine fissato dall’art. 491 c.p.p.; termine che appare fisiologico, in quanto primo sbarramento processuale successivo al manifestarsi del vizio e parimenti idoneo ad assicurare una cristallizzazione del giudizio prima dell’apertura del dibattimento».
1.3.1.– Quanto ai singoli profili di censura, il rimettente ritiene che la disposizione all’esame contrasti con l’art. 3 Cost., sotto tre concorrenti profili.
In primo luogo, essa darebbe luogo a un’ingiustificata disparità di trattamento tra le ipotesi in cui il procedimento passi, o meno, attraverso l’udienza preliminare. Laddove l’udienza preliminare manchi, il termine di cui all’art. 491, comma 1, cod. proc. pen. costituirebbe la prima occasione processuale utile che consente alle parti di eccepire, e al giudice di rilevare ex officio, la questione relativa alla eventuale inosservanza delle regole sull’attribuzione del giudizio al tribunale in composizione monocratica o collegiale. La stessa regola dovrebbe però valere quando si celebra l’udienza preliminare, dal momento che – in entrambe le evenienze processuali – le parti «conoscono del vizio di attribuzione con l’atto di vocatio in iudicium», sicché apparirebbe ingiustificato, nel secondo caso, precludere l’eccezione (o il rilievo) della violazione innanzi al giudice del dibattimento.
In secondo luogo, la disciplina censurata opererebbe un’indebita parificazione di trattamento rispetto a quella concernente il rilievo dell’incompetenza per territorio e per connessione, di cui all’art. 21, commi 2 e 3, cod. proc. pen., sulla quale l’art. 33-quinquies cod. proc. pen. è modellato. La generalità delle violazioni delle norme relative al riparto di competenza per territorio e per connessione potrebbe, infatti, essere riconosciuta dalle parti già sulla base della richiesta di rinvio a giudizio, ciò che consentirebbe loro di formulare le relative eccezioni già in sede di udienza preliminare, a differenza di quanto accadrebbe in relazione alle violazioni delle norme relative al riparto di attribuzioni. Un’eccezione sarebbe, invero, rappresentata dai casi in cui l’udienza preliminare sia celebrata avanti al giudice dell’udienza preliminare distrettuale, nei procedimenti per delitti di cui all’art. 51, commi 3-bis e seguenti, cod. proc. pen., rispetto ai quali la competenza per la fase dibattimentale risulterebbe determinabile soltanto a valle del decreto che dispone il giudizio; ma proprio in una tale situazione occorrerebbe interrogarsi sulla legittimità costituzionale dello stesso art. 21 cod. proc. pen., laddove parrebbe non consentire alle parti di eccepire l’incompetenza territoriale del giudice del dibattimento per la prima volta di fronte a quest’ultimo.
In terzo luogo, la disciplina censurata risulterebbe intrinsecamente irrazionale, essendo «illogico porre [a] carico delle parti la decadenza dall’esercizio di una facoltà processuale in una fase in cui non si sia ancora avverato il presupposto di fatto cui è collegata, ovvero l’inosservanza delle norme di cui, attraverso l’eccezione, si chiede il rispetto». In base all’art. 33-quinquies cod. proc. pen., «le parti dovrebbero eccepire preventivamente nel corso dell’udienza preliminare una futura e ipotetica violazione degli artt. 33 bis, 33 ter e 33 quater c.p.p., ma il G.U.P. non potrebbe far altro che dichiarare l’eccezione inammissibile per carenza del presupposto, non essendosi ancora verificata alcuna inosservanza del riparto di attribuzioni»; sicché l’unico senso di detta eccezione per le parti sarebbe quello di «garantirsi la possibilità di riproposizione innanzi al giudice del dibattimento», a prezzo però di «appesantire inutilmente lo svolgimento dell’udienza preliminare». Dal canto suo, il giudice del dibattimento risulterebbe – altrettanto irragionevolmente – deprivato della possibilità di «rilevare ex officio la violazione del riparto di attribuzioni tra tribunale monocratico e collegiale nelle ipotesi in cui il procedimento provenga da un’udienza preliminare in cui il vizio non sia stato già dedotto o rilevato: maturerebbe infatti anche per l’organo successivamente adito una preclusione del tutto incolpevole, posto che la necessaria diversità di persona fisica tra il giudice dell’udienza preliminare e il giudice del dibattimento (art. 34 c.p.p.) fa sì che quest’ultimo conosca del procedimento, e dell’eventuale errore nell’individuazione della composizione del tribunale, in una fase in cui non gli sarebbe più consentita la rilevazione dello stesso».
1.3.2.– La disposizione censurata violerebbe poi il diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost., nella sua dimensione di effettività. Essa, infatti, renderebbe «concretamente impossibile l’esercizio della facoltà di eccepire il mancato rispetto delle attribuzioni del tribunale monocratico o collegiale nei procedimenti che passano attraverso l’udienza preliminare». La decadenza dall’eccezione una volta conclusa l’udienza preliminare – nel corso della quale la parte potrebbe non essere ancora consapevole della futura inosservanza del riparto di attribuzioni – renderebbe «di fatto non esercitabile la facoltà che la norma comunque riconosce».
1.3.3.– Sarebbe, altresì, violato il principio della soggezione del giudice soltanto alla legge, sancito dall’art. 101, secondo comma, Cost.
Il tenore letterale della disposizione censurata, infatti, sarebbe tale da non consentire neppure al giudice del dibattimento di rilevare ex officio l’inosservanza del riparto di attribuzioni tra tribunale monocratico e collegiale. Conseguentemente, il giudice del dibattimento dovrebbe «sottostare ad una eventuale erronea individuazione della sua composizione da parte del G.U.P.», non più rimediabile una volta conclusa l’udienza preliminare, e sarebbe pertanto «tenuto a dar seguito ad un precedente ed erroneo provvedimento giurisdizionale anziché dare attuazione alla legge inosservata, ovvero costretto a rimanere inerte pure a fronte di un vizio procedurale percepibile ed ancora emendabile».
1.3.4.– La disposizione censurata contrasterebbe, poi, con il principio del contraddittorio di cui agli artt. 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6, paragrafo 3, CEDU.
Il giudice a quo lamenta, in particolar modo, che il regime di decadenza da essa previsto sottrarrebbe, di fatto, al contraddittorio tra le parti l’osservanza del riparto di attribuzioni fra tribunale monocratico e collegiale. Le parti verrebbero infatti a conoscere dell’eventuale errore in un momento in cui non avrebbero più alcuna possibilità di contraddire sul punto, «lasciando al G.U.P. una decisione solitaria e non contestabile», in violazione del principio secondo cui alle parti dovrebbe essere sempre assicurata la possibilità «di esprimere le proprie ragioni innanzi ad un organo terzo ed imparziale e di influenzarne così la deliberazione, nonché di azionare i relativi rimedi impugnatori quando le proprie doglianze non vengano ascoltate».
Un tale meccanismo contrasterebbe anche con «l’accezione soggettiva [del] contraddittorio, nell’articolazione prevista dall’art. 6 paragrafo 3 lett. b) CEDU», che riconosce ad ogni accusato il «diritto di disporre del tempo e delle facilitazioni necessarie a preparare la sua difesa». La disposizione censurata disattenderebbe tale garanzia, precludendo alla difesa una possibile eccezione di inosservanza delle norme sull’attribuzione e «ponendo a suo carico un onere di preconizzazione del vizio procedurale e una decadenza incolpevole». Un tale sacrificio di garanzie difensive non potrebbe, d’altra parte, ritenersi giustificato dall’esigenza di concentrazione dei tempi processuali, alla luce della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (è citata la sentenza 31 luglio 2014, OAO Neftyanaya Kompaniya Yukos contro Russia), secondo la quale lo svolgimento del processo entro un termine adeguato non può andare a discapito dei diritti processuali delle parti.
1.3.5.– Il giudice a quo esclude, infine, che sia possibile fornire della disposizione censurata una interpretazione conforme alla Costituzione, stante il suo inequivoco tenore letterale (sono citate le sentenze n. 36 del 2016, n. 1 del 2013, n. 110 del 2012 e n. 219 del 2008 di questa Corte, oltreché le sentenze delle sezioni unite della Corte di cassazione 19 luglio-24 settembre 2018, n. 40986, e 31 marzo-17 maggio 2004, n. 23016), che non consentirebbe in alcun caso la proposizione, per la prima volta in sede dibattimentale, di un’eccezione relativa alla violazione delle regole sull’attribuzione della cognizione al tribunale in formazione monocratica o collegiale che non sia già stata previamente proposta in sede di udienza preliminare, nell’ipotesi in cui quest’ultima sia stata celebrata.
2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o manifestamente infondate.
2.1.– L’interveniente richiama innanzi tutto la sentenza 18 aprile-29 novembre 2019, n. 48590 delle sezioni unite della Corte di cassazione, costituente diritto vivente e con la quale il rimettente non si sarebbe confrontato. Le Sezioni unite avrebbero, in particolar modo, chiarito che: a) «[l]a disciplina del riparto di attribuzione è un mero criterio interno di assegnazione dei procedimenti tra tribunale in composizione monocratica e collegiale, basato sul dichiarato principio per cui dove sussiste la connessione tra più procedimenti, alcuni dei quali rimessi alla cognizione del tribunale collegiale, a quest’ultimo organo spetta la cognizione dell’intero procedimento, sul presupposto della necessaria attrazione delle imputazioni meno gravi a quelle più gravi»; b) «il ruolo del giudice dell’udienza preliminare è finalizzato, anche, alla verifica della corretta individuazione della competenza o del riparto da parte del pubblico ministero», ai sensi tanto dell’art. 21 cod. proc. pen., quanto del qui censurato art. 33-quinquies cod. proc. pen.; c) la competenza per connessione «si determina stabilmente soltanto attraverso il vaglio giurisdizionale sull’esercizio dell’azione penale compiuto dal giudice (cioè dal g.u.p.) nei termini stabiliti dal codice di rito a pena di decadenza»; d) «il principio della perpetuatio iurisdictionis, inteso come immutabilità della competenza a fini di certezza ed economia processuale e di tutela della ragionevole durata del processo, non può che riferirsi alla determinazione della regiudicanda risultante dal complessivo vaglio del giudice dell’udienza preliminare sull’accusa formulata dal pubblico ministero e alla conseguente individuazione del giudice naturale operata sulla base dell’esito di quel controllo e degli addebiti contestati nel decreto di rinvio a giudizio».
2.2.– Tanto premesso, le questioni di legittimità costituzionale all’esame sarebbero inammissibili, poiché, come nel caso deciso con l’ordinanza n. 395 del 2001 di questa Corte, il rimettente avrebbe omesso di dare atto delle ragioni «per cui non ha ritenuto possibile riservare alla disciplina censurata un’interpretazione nello stesso tempo coerente con i presupposti logico-giuridici che informano il sistema dei termini posti a pena di decadenza e rispettosa del diritto di difesa e, quindi, conforme a Costituzione».
2.3.– Nel merito, le questioni dovrebbero comunque ritenersi manifestamente infondate in riferimento a ciascuno dei parametri evocati.
Ad avviso dell’interveniente, nel caso oggetto del giudizio a quo sarebbe «assodato che il p.m. ha reputato, con l’esercizio cumulativo dell’azione penale, ancorché non abbia contestato a tutti gli imputati l’associazione a delinquere, la sussistenza della connessione tra il reato di associazione a delinquere e i differenti reati» attribuiti alla cognizione del tribunale in composizione monocratica. Sarebbe altresì assodato che già dalla lettura dei capi di imputazione «emerge tale prospettata connessione sin dall’udienza preliminare». Sarebbe, infine, parimenti assodato che nessuna delle parti ha sollevato eccezioni sul punto nell’udienza preliminare.
La tesi sostenuta nell’ordinanza di rimessione, secondo cui – in una simile situazione – le parti non sarebbero in condizioni di sollevare una tale eccezione, risulterebbe manifestamente errata per una duplice ragione.
In primo luogo perché, sulla base degli insegnamenti della poc’anzi citata sentenza delle Sezioni unite, l’udienza preliminare sarebbe precisamente il luogo deputato «alla verifica della corretta individuazione della competenza o del riparto da parte del pubblico ministero».
In secondo luogo perché gli imputati in sede di udienza preliminare ben potrebbero, in via subordinata rispetto alla richiesta di proscioglimento, eccepire l’insussistenza della connessione tra i differenti reati, «pena la decadenza di tale facoltà e l’irrevocabilità della cognizione al tribunale in composizione collegiale per ragioni di connessione».
Non sussisterebbe dunque la lamentata lesione dell’art. 3 Cost., poiché gli imputati «possono e debbono interloquire primariamente anche su tali questioni preliminari laddove la richiesta di rinvio a giudizio sia cumulativa e riporti reati di competenza del tribunale collegiale che per connessione (a torto o [a] ragione) sono collegati» nell’ambito di un’unica azione penale. La decadenza dalla relativa eccezione sarebbe, d’altra parte, finalizzata a far sì che l’attribuzione al tribunale collegiale, una volta determinata sulla base del decreto di rinvio a giudizio, «non possa più essere rimessa in discussione con indebite retrocessioni del processo che andrebbero a violare il principio costituzionale di durata ragionevole del processo penale».
Dal momento, poi, che i criteri di attribuzione dei procedimenti non inciderebbero sul principio del giudice naturale (è citata, in particolare, la sentenza n. 419 del 1998 di questa Corte), risulterebbe totalmente destituita di fondamento la censura di violazione dell’art. 101 Cost.
Insussistente sarebbe, altresì, la violazione dell’art. 24 Cost.: la disposizione censurata non ostacolerebbe affatto l’esercizio del diritto di difesa, essendo errata la premessa fattuale e giuridica di tale censura, e cioè l’affermazione secondo cui la parte non potrebbe ancora conoscere, nel corso dell’udienza preliminare, la futura inosservanza del riparto di attribuzioni.
Infine, non sussisterebbero le paventate violazioni degli artt. 111, secondo comma, Cost., nonché dell’art. 6, paragrafo 3, CEDU, giacché – ancora – «l’art. 33 quinquies non ostacola affatto l’esercizio del diritto di difesa ad eccepire il difetto d’attribuzione o di competenza nell’ipotesi di (mancata) connessione dei reati, contemperando, però, tale diritto dell’imputato, con la doverosa previsione di scansioni temporali entro i quali esercitarlo, in osservanza dell’altro principio costituzionale di durata ragionevole del processo».
3.– G. R., imputata nel giudizio a quo, si è costituita in giudizio a mezzo del proprio difensore, il quale nella memoria ha chiesto che la questione di legittimità costituzionale venga accolta, per le medesime ragioni illustrate nell’ordinanza di rimessione.
Con successiva memoria, depositata in prossimità dell’udienza, la difesa di G. R. ha replicato alle argomentazioni dell’Avvocatura generale dello Stato, in particolare insistendo sull’impossibilità di dare della disposizione censurata un’interpretazione costituzionalmente conforme e sulla irrilevanza del principio di diritto espresso dalle sezioni unite della Corte di cassazione nella citata sentenza n. 48590 del 2019, che sarebbe stata impropriamente richiamata dalla difesa erariale. Erronea sarebbe, altresì, l’evocazione da parte della difesa erariale del principio di ragionevole durata del processo, giacché l’eventuale accoglimento dell’eccezione sollevata in dibattimento comporterebbe semplicemente la trasmissione degli atti al tribunale in composizione monocratica, senza alcuna regressione del procedimento.
Considerato in diritto
1.– Con l’ordinanza di cui in epigrafe, il Tribunale di Nocera Inferiore ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 33-quinquies cod. proc. pen., in riferimento agli artt. 3, 24, 101, secondo comma, 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6, paragrafo 3, CEDU, «nella parte in cui prevede che l’inosservanza delle disposizioni sulla composizione collegiale o monocratica del tribunale deve essere rilevata o eccepita, a pena di decadenza, prima della conclusione dell’udienza preliminare, consentendo solo in tal caso la riproposizione della questione entro il termine di cui all’art. 491 c.p.p.».
L’art. 33-quinquies cod. proc. pen., rubricato «Inosservanza delle disposizioni sulla composizione collegiale o monocratica del tribunale», recita: «1. L’inosservanza delle disposizioni relative all’attribuzione dei reati alla cognizione del tribunale in composizione collegiale o monocratica e delle disposizioni processuali collegate è rilevata o eccepita, a pena di decadenza, prima della conclusione dell’udienza preliminare o, se questa manca, entro il termine previsto dall’articolo 491 comma 1. Entro quest’ultimo termine deve essere riproposta l’eccezione respinta nell’udienza preliminare».
Da una complessiva lettura della corposa ordinanza di rimessione si inferisce che il giudice a quo aspira a una pronuncia di questa Corte che consenta alle parti di eccepire, e al giudice del dibattimento di rilevare, la violazione delle norme sul riparto di attribuzioni alla cognizione del tribunale in composizione collegiale o monocratica (artt. 33-bis, 33-ter e 33-quater cod. proc. pen.) entro l’unico termine di cui all’art. 491, comma 1, cod. proc. pen.: e cioè nell’ambito della trattazione delle questioni preliminari al dibattimento, da risolversi subito dopo l’accertamento della costituzione delle parti. Ciò a prescindere dalla circostanza che sia stata o meno celebrata l’udienza preliminare, nonché dall’ulteriore circostanza che in quella sede sia stata già sollevata o meno la relativa eccezione.
2.– L’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito l’inammissibilità delle questioni, per non avere il rimettente sperimentato la possibilità di una interpretazione conforme della disposizione censurata, alla luce in particolare della sentenza delle Sezioni unite n. 48590 del 2019.
L’eccezione non è fondata.
Il giudice a quo ha, infatti, motivato in maniera particolarmente estesa e puntuale sulla rilevanza e non manifesta infondatezza delle questioni prospettate, sottolineando altresì come, a suo avviso, il dato letterale della disposizione censurata ne precluda una interpretazione che consenta alle parti di sollevare per la prima volta l’eccezione relativa alla inosservanza delle disposizioni sulla composizione collegiale o monocratica del tribunale dopo la conclusione dell’udienza preliminare.
Secondo l’ormai costante giurisprudenza di questa Corte, ai fini dell’ammissibilità di una questione di legittimità costituzionale è sufficiente che il giudice dia conto delle ragioni per le quali non ritiene praticabile una interpretazione conforme della disposizione censurata, attenendo poi al merito della questione la verifica se la disposizione si presti o meno, a giudizio di questa Corte, a una tale interpretazione (ex multis, sentenze n. 202 e n. 104 del 2023).
3.– Deve, invece, essere dichiarata d’ufficio inammissibile la questione formulata in riferimento all’art. 101, secondo comma, Cost.
Secondo il rimettente, il principio della soggezione del giudice soltanto alla legge sarebbe vulnerato da una disposizione che, come quella censurata, vincoli il giudice del dibattimento alle determinazioni, in ipotesi erronee, di un altro giudice – nel caso in esame, il GUP – relative all’attribuzione della causa alla cognizione del tribunale in composizione collegiale o monocratica.
Questa Corte ha, tuttavia, già avuto modo di chiarire che il principio della cosiddetta indipendenza “interna” del giudice, pure desumibile dalla previsione costituzionale in parola, non osta affatto a che la sua potestas iudicandi sia delimitata, in conformità alla legge processuale vigente, da provvedimenti di altri giudici, dovendosi più in generale escludersi «che possa prodursi un vulnus all’art. 101, secondo comma, Cost. in presenza di vincoli alla potestas iudicandi del singolo giudice stabiliti dalla legge processuale, che è anch’essa parte integrante di quella “legge” a cui il giudice è soggetto» in forza di tale previsione costituzionale (ordinanza n. 28 del 2023; in senso analogo, sentenza n. 116 del 2023, punto 4 del Considerato in diritto).
Ne consegue, conformemente a quanto ritenuto nei precedenti appena citati, la palese inconferenza del parametro evocato, e la conseguente inammissibilità della censura.
4.– Nel merito, le restanti censure non sono fondate, nei termini di seguito illustrati.
4.1.– Tutte le doglianze del rimettente ruotano attorno all’argomento secondo cui sarebbe illogico pretendere che l’imputato sollevi, già in sede di udienza preliminare, un’eccezione relativa alla inosservanza delle regole, fissate dagli artt. 33-bis, 33-ter e 33-quater cod. proc. pen., sull’attribuzione della causa al tribunale in composizione collegiale o monocratica, a pena di decadenza.
Osserva in proposito il rimettente – ripercorrendo l’iter argomentativo seguito da questa Corte nell’ordinanza n. 395 del 2001, seppure sfociata in un dispositivo di inammissibilità – che la disciplina del censurato art. 33-quinquies cod. proc. pen. avrebbe avuto un chiaro significato nel contesto normativo originario determinato dal d.lgs. n. 51 del 1998, cui si deve la sua introduzione nel codice di rito. In quel contesto, infatti, l’udienza preliminare era prevista per i soli reati attribuiti alla cognizione del tribunale in composizione collegiale; sicché l’imputato che si trovasse in udienza preliminare necessariamente sapeva che, in caso di rinvio a giudizio, la causa sarebbe stata assegnata alla cognizione del tribunale in composizione collegiale, e pertanto ben poteva esigersi che egli sollevasse immediatamente eventuali eccezioni in proposito.
La coerenza del sistema sarebbe invece venuta meno, secondo il rimettente, in seguito alle modifiche apportate dalla legge n. 479 del 1999 (“legge Carotti”), per effetto della quale l’udienza preliminare fu prevista anche per un’ampia serie di reati attribuiti alla cognizione del tribunale in composizione monocratica. In questo nuovo contesto normativo, l’udienza preliminare può preludere a un rinvio a giudizio avanti al tribunale nell’una o nell’altra composizione; sicché – prosegue il rimettente – l’eventuale violazione delle regole sull’attribuzione potrebbe essere eccepita dall’imputato soltanto in seguito al provvedimento di rinvio a giudizio pronunciato dal giudice dell’udienza preliminare, la cui vocatio in ius determinerebbe per la prima volta la concreta attribuzione della causa al tribunale nell’una o nell’altra composizione.
La disciplina del censurato art. 33-quinquies cod. proc. pen. continuerebbe invece a esigere dall’imputato un irragionevole onere di eccepire – in chiave, per così dire, “prospettica” o “a futura memoria” – la violazione delle norme sull’attribuzione prima ancora che tale violazione si sia in concreto verificata.
4.2.– Secondo l’Avvocatura generale dello Stato, per contro, l’apparente irrazionalità denunciata dal rimettente verrebbe meno laddove la disposizione censurata venga interpretata in conformità alla lettura fornitane dalle sezioni unite della Corte di cassazione, nella sentenza n. 48590 del 2019, che il giudice a quo non avrebbe adeguatamente valorizzato nella pur articolata ordinanza di rimessione.
Secondo le Sezioni unite, l’onere per l’imputato di eccepire in udienza preliminare la violazione dei criteri di attribuzione alla cognizione del tribunale in formazione collegiale o monocratica «richiede […] necessariamente la preesistenza, e quindi la conoscibilità per le parti, del presupposto per l’esercizio della facoltà, sicché il regime dell’eccezione di parte di cui all’art. 33-quinquies cod. proc. pen. e la relativa decadenza devono necessariamente riferirsi all’imputazione originaria così come formulata dal pubblico ministero e non si applicano alla diversa ipotesi del mutamento dell’imputazione per effetto di una sopravvenuta diversa valutazione da parte del giudice dell’udienza preliminare. Diversamente opinando, si determinerebbe un vulnus all’esercizio dei poteri della difesa».
In sostanza, dunque, le Sezioni unite avrebbero posto le basi per una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 33-quinquies cod. proc. pen., secondo cui l’onere di eccepire la violazione delle regole sull’attribuzione può ragionevolmente operare soltanto con riferimento a quelle violazioni già desumibili dall’imputazione originaria, come formulata nella richiesta di rinvio a giudizio del pubblico ministero, e non già rispetto a quelle riconducibili a eventuali mutamenti di tale imputazione ad opera del giudice dell’udienza preliminare, effettuati in esito all’udienza preliminare stessa.
Rispetto però alle violazioni già desumibili dall’imputazione originaria – questa la conclusione dell’Avvocatura generale dello Stato – del tutto ragionevolmente la disposizione censurata porrebbe in capo alle parti un onere di immediata eccezione.
4.3.– Questa Corte condivide la prospettazione dell’Avvocatura generale dello Stato, per le ragioni seguenti.
4.3.1.– Anzitutto, è indubitabile che il sistema processuale penale, nel suo complesso, mira ad affrontare e risolvere prima possibile sia le questioni di competenza per territorio e derivante da connessione (art. 21, commi 2 e 3, cod. proc. pen.), sia quelle relative all’attribuzione della cognizione della causa al tribunale in formazione collegiale o monocratica, in modo da evitare regressioni o, comunque, stasi in fasi avanzate del processo, con conseguente dispersione delle attività già svolte. E ciò in ossequio, anzitutto, a esigenze (di rango assieme costituzionale e convenzionale) di tutela della ragionevole durata dei processi penali.
Il luogo privilegiato per affrontare tali questioni, ai sensi tanto dell’art. 21, commi 2 e 3, quanto del censurato art. 33-quinquies cod. proc. pen., è per l’appunto l’udienza preliminare, quando prevista. È nel corso di tale udienza che l’eventuale violazione delle regole fissate dal codice in proposito deve essere eccepita dalle parti, a pena di decadenza, ovvero deve essere rilevata dal giudice; potendo poi l’eccezione essere riproposta in dibattimento, nel termine di cui all’art. 491, comma 1, cod. proc. pen., nella sola ipotesi in cui sia stata tempestivamente sollevata in udienza preliminare, e sia stata in quella sede respinta.
Nella medesima direzione si muove, del resto, il nuovo rimedio – introdotto dall’art. 4 del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150 (Attuazione della legge 27 settembre 2021, n. 134, recante delega al Governo per l’efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari) – del rinvio pregiudiziale alla Corte di cassazione per la decisione sulla competenza per territorio di cui all’art. 24-bis cod. proc. pen., azionabile anch’esso «[p]rima della conclusione dell’udienza preliminare o, se questa manchi, entro il termine previsto dall’art. 491, comma 1», cod. proc. pen.
4.3.2.– Come afferma la stessa ordinanza di rimessione, nel corso dell’udienza preliminare l’imputato è, in linea generale, già in grado di rilevare eventuali violazioni delle disposizioni sulla competenza territoriale e su quella determinata da connessione. Infatti, la sede giudiziaria presso la quale opera il giudice dell’udienza preliminare chiamato a pronunciarsi sulla richiesta di rinvio a giudizio sarà normalmente – salvo il peculiare caso dei procedimenti attribuiti alla procura distrettuale ai sensi dell’art. 51, commi 3-bis e seguenti, cod. proc. pen. – la medesima avanti al quale la causa sarà incardinata nel caso di rinvio a giudizio. Ove dunque l’imputato ritenga che il reato a lui contestato rientri nella competenza territoriale di altra sede giudiziaria, egli sarà tenuto a formulare subito la relativa eccezione, anche in via subordinata rispetto alla richiesta principale di non luogo a procedere. E ciò, si noti, anche nella specifica ipotesi in cui egli sostenga l’insussistenza di ragioni di connessione tra il reato a lui ascritto e i diversi reati, contestati dal pubblico ministero nella medesima richiesta di rinvio a giudizio, che radicano la competenza in quella specifica sede giudiziaria.
Contrariamente a quanto affermato dal rimettente, non dissimile è la situazione dell’imputato in udienza preliminare rispetto alle violazioni delle disposizioni che regolano l’attribuzione della cognizione della causa al tribunale in formazione collegiale o monocratica. La (futura) assegnazione della causa all’una o all’altra formazione dipende, infatti, dalla tipologia dei reati a lui contestati nella richiesta di rinvio a giudizio, ovvero dalla tipologia dei reati che il pubblico ministero contesta agli altri imputati nella medesima richiesta di rinvio a giudizio, sul presupposto della loro reciproca connessione.
Pertanto, laddove l’imputato intenda negare – in particolare – ogni connessione tra i reati a sé addebitati e quelli che, in ipotesi, radichino l’attribuzione della cognizione della causa al tribunale in formazione collegiale, egli sarà tenuto – ai sensi dell’art. 33-quinquies cod. proc. pen. – a sollevare sin dall’udienza preliminare la relativa eccezione, eventualmente in via subordinata rispetto alla richiesta di non luogo a procedere per i reati che lo riguardano, sì da sollecitare lo stesso giudice dell’udienza preliminare a un’immediata decisione sul punto. Così facendo, egli conserverà tra l’altro la possibilità di reiterare la richiesta in sede di questioni preliminari al dibattimento, in caso di rigetto dell’eccezione da parte del giudice dell’udienza preliminare: ipotesi nella quale il giudice del dibattimento ben potrà, invece, ritenere fondata l’eccezione, e trasmettere in via “orizzontale” gli atti – ai sensi dell’art. 33-septies, comma 1, cod. proc. pen. – al giudice competente a decidere sul reato contestato.
4.3.3.– Come precisato dalle sezioni unite della Corte di cassazione nella più volte citata sentenza n. 48590 del 2019, tuttavia, questo meccanismo può operare senza alcun vulnus al diritto di difesa dell’imputato soltanto laddove a quest’ultimo sia chiaro, già nel corso dell’udienza preliminare, quale sarà la composizione del tribunale al quale la causa sarà assegnata, nel caso in cui egli sia effettivamente rinviato a giudizio. Il che si verifica paradigmaticamente allorché tale composizione sia desumibile dalla stessa richiesta di rinvio a giudizio del pubblico ministero, ovvero nell’ipotesi – non considerata espressamente dalle Sezioni unite, ma del tutto affine – in cui essa risulti dalle eventuali modificazioni dell’imputazione operate dal pubblico ministero nel corso dell’udienza preliminare ai sensi dell’art. 423 cod. proc. pen., nel contraddittorio tra le parti.
Laddove, invece, l’imputazione dovesse essere modificata dal giudice dell’udienza preliminare nello stesso decreto che dispone il giudizio – eventualità peraltro ormai confinata, dopo l’entrata in vigore delle modifiche all’art. 423 cod. proc. pen. introdotte dal d.lgs. n. 150 del 2022, alla sola ipotesi in cui il giudice dell’udienza preliminare pronunci sentenza di non luogo a procedere per alcuni dei reati contestati nella richiesta di rinvio a giudizio –, all’imputato diverrebbe impossibile formulare alcuna eccezione, a udienza preliminare ormai conclusa; e il meccanismo preclusivo dell’art. 33-quinquies cod. proc. pen. non potrebbe pertanto operare. Ipotesi, questa, alla quale può senz’altro affiancarsi quella in cui sia lo stesso decreto che dispone il giudizio a individuare nella vocatio in ius, per mero errore, una composizione diversa da quella corrispondente per legge ai reati per i quali sia stato effettivamente disposto il rinvio a giudizio dell’imputato.
In simili casi, le violazioni delle regole di cui agli artt. 33-bis, 33-ter e 33-quater cod. proc. pen. non potrebbero che essere eccepite, o rilevate d’ufficio, alla prima occasione utile, e cioè in sede di questioni preliminari al dibattimento.
4.4.– Questa lettura costituzionalmente orientata dell’art. 33-quinquies cod. proc. pen. consente di ritenere non fondati tutti i profili di censura articolati dal rimettente.
4.5.– Anzitutto, l’art. 3 Cost. non può ritenersi violato sotto alcuno dei tre profili enucleati dal giudice a quo.
4.5.1.– Non sussiste, in primo luogo, alcuna irragionevole disparità di trattamento tra le ipotesi in cui il procedimento passi, o meno, attraverso l’udienza preliminare: in entrambe le ipotesi, infatti, le parti sono tenute a sollevare le eventuali eccezioni relative al riparto di attribuzioni già in effetti rilevabili alla prima occasione utile, che è rappresentata dall’udienza preliminare stessa, ovvero dalle questioni preliminari al dibattimento, ove l’udienza preliminare non sia stata celebrata.
4.5.2.– Né sussiste alcuna indebita parificazione tra la disciplina in esame e quella relativa al rilievo dell’incompetenza per territorio o derivante dalla connessione di cui all’art. 21, commi 2 e 3, cod. proc. pen.: ché, anzi, le due discipline sono in grado di operare in perfetta simmetria, imponendo in particolare alle parti di eccepire immediatamente già nel corso dell’udienza preliminare – ove celebrata – le eventuali violazioni delle regole rispettivamente presidiate che le parti siano in grado di allegare. Restando ferma, comunque, l’esigenza di una interpretazione costituzionalmente orientata di entrambe le discipline, nel senso indicato dalle Sezioni unite, rispetto a tutti i profili che le parti non siano in grado di eccepire nel corso dell’udienza preliminare, conseguenti in particolare ad eventuali modifiche delle imputazioni operate dal giudice dell’udienza preliminare nel decreto che dispone il giudizio, ovvero a errori compiuti nella stessa vocatio in ius contenuta nel decreto medesimo.
4.5.3.– Né, infine, può ritenersi che la disciplina in esame ponga irragionevolmente a carico delle parti l’onere di eccepire, in via preventiva, una violazione soltanto futura delle regole sul riparto di attribuzione, violazione che si renderebbe attuale soltanto nel momento del decreto che dispone il giudizio.
Non può affermarsi in via generale, infatti, che le regole in materia di competenza o di attribuzione siano per la prima volta applicate con la vocatio in ius contenuta nel decreto di rinvio a giudizio.
Le regole in questione già operano, invece, nel momento della richiesta di rinvio a giudizio da parte del pubblico ministero; e ciò non solo ai fini della determinazione del giudice dell’udienza preliminare competente per territorio, ma anche in relazione alla sussistenza di ragioni di connessione ritenute dal pubblico ministero, ex art. 12 cod. proc. pen., che possono giustificare il contestuale rinvio a giudizio di più imputati per un unico reato (lettera a), di un unico imputato per più reati (lettera b), o di più imputati per più reati (lettera c). Queste stesse ragioni di connessione, infatti, possono a loro volta determinare modifiche all’ordinaria competenza per materia o per territorio (artt. 15 e 16 cod. proc. pen.), nonché all’attribuzione della cognizione al tribunale in composizione collegiale o monocratica (art. 33-quater cod. proc. pen.).
Analogamente, la presenza – tra i reati contestati – di uno o più che comportano l’attribuzione della cognizione al tribunale in composizione collegiale ai sensi degli artt. 33-bis o 33-ter cod. proc. pen., anche solo per effetto della contestazione di una circostanza aggravante, già implica la necessaria conseguenza che, in caso di rinvio a giudizio, la causa sarà attribuita al tribunale in composizione collegiale.
In situazioni siffatte, non può ritenersi irragionevole la scelta legislativa di porre a carico dell’imputato l’onere di eccepire immediatamente l’erroneità di quelle scelte compiute dal pubblico ministero nella richiesta di rinvio a giudizio, da cui deriverebbero necessariamente le conseguenze previste dalla legge in relazione alla competenza o all’attribuzione della cognizione della causa: ad esempio, negando che sussista connessione tra i reati contestati nell’unica richiesta di rinvio a giudizio, ovvero sostenendo l’insussistenza della circostanza aggravante ipotizzata dal pubblico ministero che determina l’attribuzione della causa al tribunale in composizione collegiale.
Pertanto, l’onere imposto dalla disposizione censurata non è quello di formulare una eccezione “preventiva” relativa a una «futura e ipotetica violazione degli artt. 33 bis, 33 ter e 33 quater c.p.p.», come sostenuto dal rimettente; bensì quello di opporsi sin da subito a scelte già in effetti operate dal pubblico ministero, con conseguente obbligo, per il giudice dell’udienza preliminare, di fornire subito una puntuale risposta a tale eccezione.
4.6.– Per le medesime ragioni non sussiste la lamentata lesione del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost.
La lettura fornita dalle Sezioni unite della disposizione censurata assicura che l’imputato abbia l’onere di formulare, in udienza preliminare, soltanto le eccezioni relative a profili che siano già desumibili dalla richiesta di rinvio a giudizio del pubblico ministero – ovvero dalle eventuali modificazioni dell’imputazione avvenute in contraddittorio durante l’udienza preliminare –; e non già, dunque, quelle che concernano profili desumibili per la prima volta dal decreto di rinvio a giudizio, rispetto ai quali l’onere di eccezione non potrà che essere posposto all’inizio del dibattimento.
4.7.– Infine, la predetta interpretazione costituzionalmente conforme dell’art. 33-quinquies cod. proc. pen. ne esclude ogni profilo di contrarietà con il principio del contraddittorio, fondato sugli artt. 111, secondo comma e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6, paragrafo 3, CEDU, consentendo all’imputato di interloquire – a seguito della proposizione tempestiva dell’eccezione – su tutti i profili dai quali dipende l’attribuzione della causa alla cognizione del tribunale in formazione collegiale o monocratica.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 33-quinquies del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento all’art. 101, secondo comma, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Nocera Inferiore con l’ordinanza indicata in epigrafe;
2) dichiara non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 33-quinquies cod. proc. pen., sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24, 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6, paragrafo 3, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), dal Tribunale ordinario di Nocera Inferiore con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 dicembre 2023.
F.to:
Augusto Antonio BARBERA, Presidente
Francesco VIGANÒ, Redattore
Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria
Depositata in Cancelleria il 22 dicembre 2023