ORDINANZA N.395
ANNO 2001
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Cesare RUPERTO, Presidente
- Massimo VARI
- Riccardo CHIEPPA
- Gustavo ZAGREBELSKY
- Valerio ONIDA
- Carlo MEZZANOTTE
- Fernanda CONTRI
- Guido NEPPI MODONA
- Piero Alberto CAPOTOSTI
- Franco BILE
- Giovanni Maria FLICK
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 33-quinquies, 416 e 417 del codice di procedura penale, promosso, nell'ambito di un procedimento penale, dal Tribunale di Roma con ordinanza emessa il 29 settembre 2000, iscritta al n. 728 del registro ordinanze 2000 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 48, prima serie speciale, dell'anno 2000.
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 10 ottobre 2001 il Giudice relatore Guido Neppi Modona.
Ritenuto che il Tribunale di Roma, in composizione monocratica, ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, 24 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 33-quinquies, 416 e 417 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che la sanzione processuale della decadenza, conseguente alla mancata proposizione, prima della conclusione dell'udienza preliminare, dell'eccezione concernente l'erronea attribuzione dei reati alla cognizione del tribunale in composizione monocratica o collegiale, sia <<correlata allo specifico obbligo del pubblico ministero di indicazione del giudice davanti al quale chiede il rinvio a giudizio>>;
che il giudice rimettente espone che la difesa dell'imputato ha eccepito per la prima volta in dibattimento l'erronea attribuzione al tribunale in composizione monocratica del reato di lesioni gravissime, sostenendo di non avere potuto proporre tale eccezione entro il termine di decadenza previsto dall'art. 33-quinquies cod. proc. pen., e cioé "prima della conclusione dell'udienza preliminare", in quanto nella richiesta di rinvio a giudizio il pubblico ministero, non avendone l'obbligo, non aveva indicato la composizione del giudice destinato a celebrare il dibattimento;
che la difesa era pertanto venuta a conoscenza della composizione dell'organo giudicante solo a seguito dell'emissione del decreto di rinvio a giudizio disposto dal giudice dell'udienza preliminare, quando si era ormai verificata la decadenza prevista dall'art. 33-quinquies cod. proc. pen.;
che ad avviso del rimettente la disciplina censurata comporta una palese violazione del diritto di difesa, e si pone altresì in contrasto con il principio di ragionevolezza e con il <<principio del giusto processo da svolgersi in contraddittorio tra le parti in condizioni di parità>>;
che nel giudizio é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione venga dichiarata infondata.
Considerato che il rimettente dubita della legittimità costituzionale dell'art. 33-quinquies cod. proc. pen. (in combinato disposto con gli artt. 416 e 417 cod. proc. pen.) in quanto nei casi in cui é prevista l'udienza preliminare il termine di decadenza per eccepire l'inosservanza delle disposizioni relative all'attribuzione dei reati alla cognizione del tribunale in composizione collegiale o monocratica é individuato con riferimento ad una fase - l'udienza preliminare - durante la quale la difesa non é posta in grado di conoscere quale sarà il giudice chiamato a celebrare il dibattimento;
che, nella specie, il giudice dell'udienza preliminare ha disposto il rinvio a giudizio avanti al tribunale monocratico per un delitto di lesioni gravissime, per il quale é invece prevista la cognizione del tribunale collegiale;
che ad avviso del rimettente la disciplina censurata contrasterebbe con gli artt. 3, 24 e 111 Cost., comportando una palese violazione del diritto di difesa, del principio di ragionevolezza e del "principio del giusto processo da svolgersi in contraddittorio tra le parti in condizioni di parità";
che per rimediare ai denunciati vizi di illegittimità costituzionale il giudice a quo vorrebbe che fosse posto a carico del pubblico ministero l'obbligo di indicare il giudice davanti al quale deve essere disposto il rinvio a giudizio;
che l'art. 33-quinquies, introdotto nel codice di procedura penale unitamente alle altre disposizioni del capo VI-bis dall'art. 170 del decreto legislativo 19 febbraio 1998, n. 51, dispone che l'inosservanza delle regole relative all'attribuzione dei reati alla cognizione del tribunale in composizione collegiale o monocratica e delle disposizioni processuali collegate deve essere eccepita, a pena di decadenza, prima della conclusione dell'udienza preliminare o, se questa manca, entro il termine previsto dall'art. 491, comma 1, cod. proc. pen., e che entro quest'ultimo termine deve essere riproposta l'eccezione respinta nell'udienza preliminare;
che il decreto legislativo n. 51 del 1998 prevedeva la celebrazione dell'udienza preliminare solo in relazione ai reati attribuiti al tribunale in composizione collegiale, mentre per tutti i reati attribuiti al giudice monocratico spettava al pubblico ministero emettere direttamente decreto di citazione a giudizio;
che la corrispondenza tra le diverse modalità di esercizio dell'azione penale e l'attribuzione di reati alla cognizione del tribunale in composizione collegiale o monocratica avrebbe normalmente consentito alla difesa, a seguito della richiesta di rinvio a giudizio, di eccepire tempestivamente l'inosservanza delle regole relative all'attribuzione del reato prima della conclusione dell'udienza preliminare, posto che, nel caso di accoglimento della richiesta, lo sbocco naturale avrebbe dovuto essere la celebrazione del dibattimento davanti al tribunale in composizione collegiale;
che la legge 16 dicembre 1999, n. 479, ha invece previsto l'udienza preliminare anche per vari reati attribuiti alla cognizione del tribunale in composizione monocratica, con la conseguenza che é venuto meno il rapporto biunivoco tra modalità di introduzione del giudizio e attribuzione del reato al tribunale in composizione collegiale o monocratica;
che pertanto, nelle ipotesi in cui é prevista l'udienza preliminare, la difesa é posta in grado di conoscere la composizione, collegiale o monocratica, del tribunale che sarà chiamato a celebrare il dibattimento solo dopo che, conclusa l'udienza preliminare, sia stato emesso il decreto che dispone il giudizio, e cioé in un momento successivo al termine previsto dall'art. 33-quinquies cod. proc. pen.;
che la soluzione proposta dal rimettente, che vorrebbe collegare la sanzione processuale della decadenza <<ad uno specifico obbligo imposto al pubblico ministero di indicazione del giudice davanti al quale chiede il rinvio a giudizio>>, si rivela del tutto inadeguata, posto che, quale che sia il contenuto della richiesta del pubblico ministero, spetta comunque al giudice dell'udienza preliminare individuare nel decreto che dispone il giudizio l'organo avanti al quale verrà celebrato il dibattimento;
che é connaturale al sistema dei termini posti a pena di decadenza che l'onere di esercitare una facoltà entro un certo limite temporale o di fase possa essere imposto solo quando il presupposto di fatto a cui la facoltà é collegata (nel caso di specie, la presunta inosservanza delle disposizioni relative all'attribuzione dei reati alla cognizione del tribunale in composizione collegiale o monocratica) si sia effettivamente verificato prima della decorrenza dei termini di decadenza;
che, alla stregua di quanto sostenuto dal giudice a quo, il termine di decadenza di cui all’art. 33-quinquies cod. proc. pen. dovrebbe continuare ad essere riferito all'udienza preliminare, malgrado nel caso in esame l'inosservanza delle disposizioni relative all'attribuzione dei reati sia concretamente eccepibile, analogamente alle ipotesi nelle quali manca l'udienza preliminare, solo dopo la vocatio in ius e, cioé, in un momento in cui il termine indicato dalla disciplina censurata é ormai decorso;
che, così interpretata, la norma censurata risulta priva di significato logico e razionale;
che nel sollevare la questione di legittimità costituzionale il rimettente avrebbe dovuto dare atto delle ragioni per cui non ha ritenuto possibile riservare alla disciplina censurata un'interpretazione nello stesso tempo coerente con i presupposti logico-giuridici che informano il sistema dei termini posti a pena di decadenza e rispettosa del diritto di difesa e, quindi, conforme a Costituzione;
che la questione va pertanto dichiarata manifestamente inammissibile.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 33-quinquies, 416 e 417 del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, dal Tribunale di Roma, con l'ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 dicembre 2001.
Cesare RUPERTO, Presidente
Guido NEPPI MODONA, Redattore
Depositata in Cancelleria l'11 dicembre 2001.