SENTENZA N. 207
ANNO 2017
Commenti alla decisione di
I. Serena Santini, Mancata estensione della non punibilità per particolare tenuità del fatto alla ricettazione di particolare tenuità: infondata (ma non troppo) la relativa questione di legittimità, per g. c. di Diritto Penale Contemporaneo
II. Attilio Nisco, Legittimità costituzionale del limite massimo di pena quale presupposto della non punibilità per particolare tenuità del fatto, per g. c. di Diritto Penale Contemporaneo
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Paolo GROSSI Presidente
- Giorgio LATTANZI Giudice
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
- Franco MODUGNO ”
- Augusto Antonio BARBERA ”
- Giulio PROSPERETTI ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 131-bis del codice penale, inserito dall’art. 1, comma 2, del decreto legislativo 16 marzo 2015, n. 28 (Disposizioni in materia di non punibilità per particolare tenuità del fatto, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera m, della legge 28 aprile 2014, n. 67), promosso dal Tribunale ordinario di Nola, nel procedimento penale a carico di G. S., con ordinanza del 14 gennaio 2016, iscritta al n. 88 del registro ordinanze 2016 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 18, prima serie speciale, dell’anno 2016.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 24 maggio 2017 il Giudice relatore Giorgio Lattanzi.
Ritenuto in fatto
1.– Il Tribunale ordinario di Nola, con ordinanza del 14 gennaio 2016, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 13, 25 e 27 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 131-bis del codice penale, «laddove, stabilendo che la disposizione del primo comma si applica anche quando la legge prevede la particolare tenuità del danno o del pericolo come circostanza attenuante, non estende l’applicabilità della norma all’ipotesi attenuata di cui all’art. 648 c. 2. c.p., fattispecie irragionevolmente esclusa dall’ambito applicativo dell’art. 131-bis c.p. in ragione del limite massimo della pena astrattamente superiore ad anni cinque».
Il giudice rimettente riferisce di essere investito del processo penale nei confronti di una persona imputata del reato di cui all’art. 474 cod. pen., perché deteneva per la vendita astucci recanti marchi contraffatti, e del reato di cui all’art. 648 cod. pen., «perché al fine di trarne profitto acquistava o comunque riceveva gli astucci» sopraindicati, «di sicura illecita provenienza in quanto contraffatti».
Per quest’ultimo fatto secondo il giudice rimettente sarebbe applicabile la circostanza attenuante prevista dal secondo comma dell’art. 648 cod. pen. Costituirebbero elementi convergenti in tal senso «il perseguimento od il conseguimento da parte dell’imputato di un lucro di speciale tenuità, la produzione, a detrimento della parti offese, di un evento dannoso o di una situazione di pericolo ancora di speciale tenuità, i dati relativi alla personalità del prevenuto (soggetto incensurato), il non rilevante numero di pezzi contraffatti acquistati, lo scarso valore venale della merce medesima e le modalità della vendita presso un mercatino rionale».
Per le stesse ragioni il fatto sarebbe «riconducibile» alla speciale causa di non punibilità prevista dall’art. 131-bis cod. pen. ed introdotta dal decreto legislativo 16 marzo 2015, n. 28 (Disposizioni in materia di non punibilità per particolare tenuità del fatto, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera m, della legge 28 aprile 2014, n. 67), applicabile, a norma dell’art. 2, quarto comma, cod. pen., anche ai reati commessi prima della sua entrata in vigore.
L’entità del danno arrecato alle persone offese (art. 133, primo comma, numero 2, cod. pen.) sarebbe oggettivamente di particolare tenuità, e si tratterebbe con tutta evidenza, considerato anche lo stato di incensuratezza dell’imputato, di una condotta illecita occasionale. La causa di non punibilità non sarebbe però applicabile perché la pena massima stabilita per il reato di ricettazione, attenuato ai sensi dell’art. 648, secondo comma, cod. pen., pari a sei anni di reclusione, è superiore al limite di cinque anni fissato dall’art. 131-bis cod. pen.
A parere del Tribunale rimettente il limite massimo di pena che condiziona l’applicabilità della causa di non punibilità determinerebbe «un inevitabile, ingiustificato, diverso trattamento di ipotesi astrattamente configurabili come di particolare tenuità, che non appare sorretto da valori rispondenti ad un principio di ragionevolezza legislativa». Come rivelerebbe la pratica giudiziaria, fatti astrattamente gravi, in quanto severamente sanzionati dal legislatore, a volte si manifesterebbero in concreto scarsamente offensivi, e fatti astrattamente non gravi, perché puniti lievemente dal legislatore, in concreto lederebbero seriamente il bene giuridico protetto.
La nuova causa di non punibilità sarebbe astrattamente applicabile a diversi reati di maggiore allarme sociale rispetto all’ipotesi della ricettazione attenuata ex art. 648, secondo comma, cod. pen., in quanto sanzionati con una pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni.
Dopo aver riportato in via esemplificativa le numerose fattispecie del codice penale cui sarebbe applicabile la causa di non punibilità in questione, il giudice a quo rileva che la discrezionalità del legislatore potrebbe essere oggetto di sindacato, sul piano della legittimità costituzionale, proprio quando, come nel caso in esame, si traduce in scelte manifestamente irragionevoli od arbitrarie. Prevedendo il limite edittale massimo di cinque anni, non si sarebbe tenuto conto delle «condotte riconducibili all’ipotesi attenuata di cui all’art. 648, c. 2, c.p. (già caratterizzate da particolare tenuità)», rimaste escluse irragionevolmente dall’applicabilità dell’art. 131-bis cod. pen. Né sarebbe ragionevole un così diverso trattamento rispetto a fattispecie (quali quelle relative ai reati di truffa, di furto e di appropriazione indebita) che tutelano lo stesso bene giuridico e che rientrerebbero nell’ambito applicativo della causa di non punibilità.
Il giudice rimettente ritiene che non sia possibile un’interpretazione volta ad applicare l’art. 131-bis cod. pen. al caso di specie, essendovi l’ostacolo insormontabile, costituito dal limite edittale massimo della pena, anche se ciò determinerebbe un’ingiustificata disparità di trattamento rispetto a condotte sanzionate con pene edittali massime inferiori, ma di pari o maggiore offensività, con conseguente violazione dell’art. 3 Cost.
L’avere ancorato l’applicazione dell’art. 131-bis cod. pen. al limite della pena edittale massima, senza tener conto, in modo sistematico, dell’intero assetto sanzionatorio relativo alle singole fattispecie di reato, costituirebbe una scelta legislativa arbitraria che determinerebbe «difficoltà e storture nell’applicazione pratica».
Secondo il giudice rimettente «alla evidente violazione dell’art. 3 Cost., si affianca, nel caso in esame, la violazione del principio di rango costituzionale di offensività del reato, cui si ispira la novella legislativa in argomento e che trova la propria fonte in diversi articoli della Costituzione: nell’art. 13 Cost., in quanto, essendo la libertà personale costituzionalmente tutelata, la sanzione penale può essere ammessa solo come reazione a una condotta che offenda un bene di pari rango; nell’art. 25, 2° co. Cost., in quanto, l’applicazione di una sanzione penale consegue alla commissione di un fatto-reato che non si traduca in una mera disobbedienza ad un precetto, ma che integri una condotta materiale offensiva; nell’art. 27, 3° co. Cost, atteso che presupposto della rieducazione del condannato è la percezione da parte dello stesso dell’antigiuridicità del proprio comportamento e la condanna conseguente a mera violazione di un precetto concretamente inoffensiva di alcun bene, frusterebbe la funzione rieducativa della pena».
2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o comunque infondate.
Le questioni sarebbero inammissibili perchè il giudice rimettente darebbe per scontato che il fatto oggetto del giudizio sia qualificabile in termini di particolare tenuità, senza considerare che l’azione penale era stata esercitata per una ricettazione non attenuata e che egli non avrebbe il potere di effettuare ante iudicium una diversa qualificazione circostanziale del fatto.
Nel merito le questioni sarebbero infondate. Il legislatore del 1975 avrebbe ritenuto di dover mantenere, con riferimento all’attenuante ad effetto speciale di cui al capoverso dell’art. 648 cod. pen., una cornice edittale ampia, sì che spetterebbe al giudice graduare l’entità della pena in base alla qualità e quantità della merce oggetto di ricettazione, secondo criteri di ragionevolezza elaborati dalla giurisprudenza di legittimità. Il rigore sanzionatorio, ritenuto eccessivo dal rimettente per la pena edittale massima stabilita, rientrerebbe nella discrezionalità del legislatore. E questo non avrebbe fatto un «uso irragionevole» di tale discrezionalità, considerato l’elevatissimo allarme sociale che desta la ricettazione, anche se patrimonialmente non rilevante.
Considerato in diritto
1.– Il Tribunale ordinario di Nola, con ordinanza del 14 gennaio 2016, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 13, 25 e 27 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 131-bis del codice penale, «laddove, stabilendo che la disposizione del primo comma si applica anche quando la legge prevede la particolare tenuità del danno o del pericolo come circostanza attenuante, non estende l’applicabilità della norma all’ipotesi attenuata di cui all’art. 648 c. 2. c.p., fattispecie irragionevolmente esclusa dall’ambito applicativo dell’art. 131-bis c.p. in ragione del limite massimo della pena astrattamente superiore ad anni cinque».
Ad avviso del giudice rimettente, la disciplina censurata violerebbe l’art. 3 Cost., in quanto consentirebbe di ritenere non punibili condotte «astrattamente sanzionate con pene edittali massime inferiori ad anni cinque e concretamente di pari o maggiore offensività rispetto ad altre condotte, invece necessariamente punibili, in quanto sanzionate con limiti edittali massimi maggiori (anche se dotate di scarsa o minima offensività)». Sarebbe violato anche l’art. 13 Cost., perché, «essendo la libertà personale costituzionalmente tutelata, la sanzione penale può essere ammessa solo come reazione ad una condotta che offenda un bene di pari rango». Inoltre la norma censurata si porrebbe in contrasto con l’art. 25, secondo comma, Cost., in quanto «l’applicazione di una sanzione penale [deve] consegu[ire] alla commissione di un fatto-reato che non si traduca in una mera disobbedienza ad un precetto, ma che integri una condotta materiale offensiva». Infine, sarebbe configurabile la violazione dell’art. 27, terzo comma, Cost., «atteso che presupposto della rieducazione del condannato è la percezione da parte dello stesso dell’antigiuridicità del proprio comportamento e la condanna conseguente a mera violazione di un precetto concretamente inoffensiva di alcun bene, frustrerebbe la funzione rieducativa della pena».
2.– L’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale, perchè il giudice a quo darebbe per scontato che il fatto oggetto del giudizio sia qualificabile in termini di particolare tenuità, senza considerare che l’azione penale era stata esercitata per un fatto di «ricettazione non attenuato». Il giudice rimettente non potrebbe «avventurarsi, ante iudicium, in una diversa qualificazione circostanziale del fatto».
Secondo la difesa dello Stato, in una situazione del genere, la questioni sarebbero «fondat[e] su una erronea qualificazione giuridica della fattispecie» e questa erroneità, o quanto meno il dubbio sulla qualificazione, rederebbero «soltanto ipotetica la rilevanza dell[e] question[i]».
L’eccezione di inammissibilità è priva di fondamento.
Non è chiaro cosa intenda la difesa dello Stato parlando di una valutazione effettuata dal giudice ante iudicium: se si riferisca a uno stadio in cui non è ancora stata svolta o non si è conclusa l’istruzione dibattimentale, ovvero se, più in generale, ritenga che il giudice non possa anticipare una valutazione sull’esistenza di una circostanza non risultante dal capo di imputazione.
La dettagliata descrizione dei fatti fornita dal giudice rimettente per motivare l’esistenza delle condizioni richieste per l’applicazione della causa di non punibilità dell’art. 131-bis cod. pen. e la locuzione usata «Tali essendo i fatti oggetto del giudizio» inducono a ritenere che la sua valutazione sia avvenuta all’esito dell’istruzione dibattimentale. Comunque ciò che rileva, ai fini dell’ammissibilità delle questioni, è che il giudice abbia correttamente motivato sull’esistenza delle condizioni richieste per l’applicabilità della disposizione censurata. Nella specie questa motivazione esiste e non dà luogo ad alcun dubbio sulla rilevanza delle questioni. Ovviamente nessun significato può avere il fatto che l’attenuante prevista dall’art. 648, secondo comma, cod. pen. non figura nel capo di imputazione, dato che questo non deve riportare (art. 552, comma 1, lettera c, cod. proc. pen.) le eventuali attenuanti e che in ogni caso il dato determinante è costituito dalla valutazione del giudice sulla loro esistenza.
3.– Nel merito le questioni non sono fondate.
4.– La particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131-bis cod. pen. costituisce una causa di non punibilità introdotta dal decreto legislativo 16 marzo 2015, n. 28 (Disposizioni in materia di non punibilità per particolare tenuità del fatto, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera m, della legge 28 aprile 2014, n. 67), in attuazione della legge 28 aprile 2014, n. 67, recante «Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili» (ordinanza n. 46 del 2017; sentenza n. 25 del 2015).
Secondo il primo comma dell’art. 131-bis cod. pen. «la punibilità è esclusa quando, per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell’articolo 133, primo comma, l’offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale».
Il giudice a quo pone le questioni con specifico riferimento al quinto comma dell’art. 131-bis cod. pen., secondo cui «[l]a disposizione del primo comma si applica anche quando la legge prevede la particolare tenuità del danno o del pericolo come circostanza attenuante», ritenendo che si possa estendere la previsione anche «all’ipotesi attenuata di cui all’art. 648 c. 2 c.p.», nel presupposto di un collegamento tra l’esistenza di una circostanza fondata sulla particolare tenuità del fatto e la causa di non punibilità.
La formulazione dell’ultimo comma dell’art. 131-bis cod. pen. indica però solo che l’esistenza di un’attenuante, di cui la particolare tenuità del danno o del pericolo sia elemento costitutivo, di per sé non impedisce, ma neppure automaticamente comporta, l’applicazione della causa di non punibilità.
Inoltre la particolare tenuità del danno o del pericolo è cosa diversa dalla “particolare tenuità del fatto”, che integra l’attenuante dell’art. 648, secondo comma, cod. pen.
Le circostanze attenuanti del fatto di speciale o di particolare tenuità, rientranti nel novero di quelle cosiddette indefinite o discrezionali (non avendo il legislatore meglio precisato il concetto di “lievità” o “tenuità” del fatto), hanno la funzione di mitigare una risposta punitiva improntata a particolare rigore, che proprio per questo rischia di rivelarsi incapace di adattamento alla varietà delle situazioni concrete riconducibili al modello legale (sentenza n. 68 del 2012).
Queste attenuanti, previste nel codice penale o in leggi speciali, si fondano per lo più su una valutazione globale del fatto o sulla considerazione dei suoi soli profili oggettivi, quali le caratteristiche dell’azione criminosa o l’entità del danno o del pericolo, e presentano perciò vari aspetti che le differenziano dalla causa di non punibilità dell’art. 131-bis cod. pen. Questa infatti, secondo la giurisprudenza della Corte di cassazione, richiede una valutazione complessa e congiunta di tutte le peculiarità della fattispecie concreta, che tenga conto delle modalità della condotta, del grado di colpevolezza da esse desumibile e dell’entità del danno o del pericolo (Corte di cassazione, sezioni unite, 25 febbraio 2016, n. 13681).
Perciò tra l’attenuante del fatto di particolare tenuità, prevista per il reato di ricettazione, e la causa di non punibilità dell’art. 131-bis cod. pen. non può stabilirsi alcun collegamento che possa comportarne l’applicabilità.
Anche a prescindere da tale collegamento però, l’inapplicabilità della causa di non punibilità alla fattispecie in questione secondo il giudice rimettente darebbe luogo per vari aspetti alla violazione degli artt. 3, 13, 25 e 27 Cost.
5.– Il giudice rimettente ritiene che il limite edittale di cinque anni determinerebbe un’ingiustificata disparità di trattamento, con conseguente violazione dell’art. 3 Cost., perché «comporta, nell’applicazione pratica della nuova causa di non punibilità, un inevitabile, ingiustificato, diverso trattamento di ipotesi astrattamente configurabili come di particolare tenuità, che non appare sorretto da valori rispondenti a un principio di ragionevolezza legislativa».
Rientrerebbero nell’ambito della causa di non punibilità reati che, pur essendo sanzionati con pene detentive non superiori nel massimo a cinque anni, sarebbero «di sicuro maggiore allarme sociale rispetto alla ipotesi attenuata della ricettazione ex art. 648 c. 2 c.p.».
A riprova di tale affermazione, il giudice a quo ha indicato un ampio elenco di reati ai quali sarebbe applicabile l’art. 131-bis cod. pen. (tra i quali, reati contro la pubblica amministrazione, contro l’amministrazione della giustizia, contro la fede pubblica, contro l’incolumità individuale, contro la libertà personale ed altri), rilevando che potrebbero essere giudicate non punibili condotte sanzionate con pene edittali massime non superiori a cinque anni, ma di offensività maggiore di quelle rientranti nella previsione dell’art. 648, secondo comma, cod. pen.
In proposito è agevole rilevare che la sostanziale eterogeneità delle situazioni poste a confronto determina l’inidoneità dei tertia comparationis a fungere da termine di riferimento onde verificare la pretesa lesione del principio di uguaglianza (ordinanza n. 109 del 2004). Le ipotesi di reato che il giudice evoca sono incomparabili con la fattispecie attenuata prevista dall’art. 648 cod. pen., sia per quanto attiene alla loro struttura, sia anche, per la maggior parte di esse, per quanto attiene ai beni tutelati.
Pure il fatto che siano stati indicati a paragone una quantità di reati, tra loro diversi, e non soltanto uno od alcuni di essi, mostra chiaramente che nessuno di questi è in grado di costituire un modello comparativo, al quale fare riferimento per individuare una soluzione costituzionalmente obbligata. Ed è noto che, anche in presenza di norme manifestamente arbitrarie o irragionevoli, solo l’indicazione di un tertium comparationis idoneo, o comunque di specifici cogenti punti di riferimento, può legittimare l’intervento della Corte in materia penale, poiché non spetta ad essa assumere autonome determinazioni in sostituzione delle valutazioni riservate al legislatore. Se così non fosse, l’intervento, essendo creativo, interferirebbe indebitamente nella sfera delle scelte di politica sanzionatoria rimesse al legislatore (sentenze n. 236 e n. 148 del 2016).
6.– Nel prospettare l’esistenza di un’irragionevole disparità di trattamento, il giudice rimettente ha messo inoltre in discussione il limite massimo di cinque anni previsto dall’art. 131-bis cod. pen.
Anche sotto questo aspetto la questione è priva di fondamento.
Come questa Corte ha chiarito, «l’estensione di cause di non punibilità, le quali costituiscono altrettante deroghe a norme penali generali, comporta strutturalmente un giudizio di ponderazione a soluzione aperta tra ragioni diverse e confliggenti, in primo luogo quelle che sorreggono la norma generale e quelle che viceversa sorreggono la norma derogatoria: un giudizio che […] appartiene primariamente al legislatore» (sentenza n. 140 del 2009). Tale giudizio è, pertanto, suscettibile di censure di legittimità costituzionale solo nei casi di manifesta irragionevolezza.
Nel caso in questione il giudice rimettente ha censurato il limite di cinque anni previsto dall’art. 131-bis cod. pen., che non può considerarsi, né irragionevole, né arbitrario. Infatti rientra nella logica del sistema penale che, nell’adottare soluzioni diversificate, vengano presi in considerazione determinati limiti edittali, indicativi dell’astratta gravità dei reati; e l’individuazione di tali limiti (così come, nel caso in esame, l’indicazione del limite relativo alla causa di non punibilità) è frutto di un apprezzamento che spetta al legislatore.
Una volta ritenuta non fondata la censura relativa all’art. 3 Cost., anche le censure relative agli altri parametri risultano prive di fondamento, essendo comunque collegate alla (pretesa) irragionevolezza della norma censurata. Va, inoltre, aggiunto che le censure relative agli artt. 25, secondo comma, e 27, terzo comma, Cost. si fondano sull’erroneo presupposto che la causa di non punibilità si applichi in caso di assenza di offensività della condotta, quando costituisce invece un dato pacifico (ribadito dalla Corte di cassazione a sezioni unite con la sentenza del 25 febbraio 2016, n. 13681) che l’istituto in questione richiede l’esistenza di un’offensività, sia pur minima, nel fatto da giudicare.
7.– Va infine osservato che, se è vero che in materia penale l’esercizio della discrezionalità legislativa è in gran parte sottratto al sindacato di questa Corte, è anche vero che di una comminatoria per la ricettazione di particolare tenuità, che va (con riguardo alla pena detentiva) da un minimo di quindici giorni fino ad un massimo di sei anni di reclusione, non può non rilevarsi l’anomalia, tenuto conto dell’estensione dell’intervallo (sentenza n. 299 del 1992) e dell’ampia sovrapposizione con la cornice edittale della fattispecie non attenuata (punita con una pena che va da un minimo di due anni a un massimo di otto anni di reclusione). È da aggiungere che mentre il massimo di sei anni, rispetto agli otto anni della fattispecie non attenuata, costituisce una diminuzione particolarmente contenuta (meno di un terzo), al contrario il minimo di quindici giorni, rispetto ai due anni della fattispecie non attenuata, costituisce una diminuzione enorme.
Inoltre, se si fa riferimento alla pena minima di quindici giorni di reclusione, prevista per la ricettazione di particolare tenuità, non è difficile immaginare casi concreti in cui rispetto a tale fattispecie potrebbe operare utilmente la causa di non punibilità (impedita dalla comminatoria di sei anni), specie se si considera che, invece, per reati (come, ad esempio, il furto o la truffa) che di tale causa consentono l’applicazione, è prevista la pena minima, non particolarmente lieve, di sei mesi di reclusione. Pena che, secondo la valutazione del legislatore, dovrebbe essere indicativa di fatti di ben maggiore offensività.
Per ovviare a una situazione di questo tipo, oltre alla pena massima edittale, al di sopra della quale la causa di non punibilità non possa operare, potrebbe prevedersi anche una pena minima, al di sotto della quale i fatti possano comunque essere considerati di particolare tenuità.
Interventi del genere (come anche altri, sollecitati attraverso questioni di legittimità costituzionale che non hanno potuto trovare accoglimento) esulano, per costante giurisprudenza, dai poteri di questa Corte. Di tali interventi però, una volta che ne sia stata rilevata l’esigenza, non può non farsi carico il legislatore, per evitare il protrarsi di trattamenti penali generalmente avvertiti come iniqui.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 131-bis del codice penale, inserito dall’art. 1, comma 2, del decreto legislativo 16 marzo 2015, n. 28 (Disposizioni in materia di non punibilità per particolare tenuità del fatto, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera m, della legge 28 aprile 2014, n. 67), sollevate, in riferimento agli artt. 3, 13, 25 e 27 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Nola, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 maggio 2017.
F.to:
Paolo GROSSI, Presidente
Giorgio LATTANZI, Redattore
Filomena PERRONE, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 17 luglio 2017.