SENTENZA N. 121
ANNO 2017
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Paolo GROSSI Presidente
- Giorgio LATTANZI Giudice
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
- Franco MODUGNO ”
- Augusto Antonio BARBERA ”
- Giulio PROSPERETTI ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 21, comma 7, della legge della Regione Puglia 25 febbraio 2010, n. 4 (Norme urgenti in materia di sanità e servizi sociali), promossi con quattro ordinanze dell’8 ottobre 2015 dal Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, iscritte ai nn. 3, 4, 5 e 6 del registro ordinanze 2016 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 4, prima serie speciale, dell’anno 2016.
Visti gli atti di costituzione di P.G. R. ed altri e della Regione Puglia;
udito nell’udienza pubblica del 21 marzo 2017 il Giudice relatore Giulio Prosperetti;
uditi gli avvocati Giacomo Valla per P.G. R. ed altri e Sabina Ornella di Lecce per la Regione Puglia.
Ritenuto in fatto
1.– Con quattro ordinanze di identico contenuto, iscritte ai nn. 3, 4, 5 e 6 del registro ordinanze 2016 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 4, prima serie speciale, dell’anno 2016, il Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, sezione seconda, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 21, comma 7, della legge della Regione Puglia 25 febbraio 2010, n. 4 (Norme urgenti in materia di sanità e servizi sociali) – in base al quale «Ai contratti di lavoro di cui ai commi 5 e 6, nonché nei confronti dei medici incaricati definitivi, si applicano le deroghe previste dall’articolo 2 della L. 740/1970, come modificato dall’articolo 6 del decreto legge 14 giugno 1993, n. 187, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 agosto 1993, n. 296, nel rispetto della normativa nazionale ed europea in tema di orario di lavoro, individuando il tetto massimo orario in quarantotto ore settimanali (articolo 6 della direttiva 2003/88/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 4 novembre 2003)» –, in riferimento all’art. 117, primo e secondo comma, lettera l), della Costituzione.
Le predette ordinanze traggono origine da quattro distinti giudizi promossi, per mezzo di altrettanti ricorsi, da medici di guardia e infermieri presso alcuni istituti di pena pugliesi, svolgenti anche attività libero-professionale o ospedaliera (r.g. nn. 925 e 1044 del 2014), da dirigenti medici, da medici di base e da medici specialisti presso le aziende sanitarie locali (ASL), svolgenti servizio presso alcune case circondariali pugliesi (r.g. n. 926 del 2014) e da dirigenti medici in servizio presso la casa circondariale di Bari (r.g. n. 333 del 2014), al fine di ottenere l’annullamento della delibera della Giunta regionale n. 1076 del 2014 che impone a tutte le ASL pugliesi l’obbligo di rispettare, in conformità della disposizione regionale censurata, il tetto massimo di quarantotto ore settimanali di lavoro.
1.1.− Ad avviso del giudice a quo, la norma regionale, fissando autoritativamente il tetto massimo orario in quarantotto ore settimanali, senza fare salve tutte le ipotesi in deroga previste dal legislatore nazionale e comunitario, avrebbe illegittimamente invaso la materia riservata alla competenza esclusiva dello Stato in materia di ordinamento civile, violando così l’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., e contravvenuto ai vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario, con conseguente lesione anche dell’art. 117, primo comma, Cost.
Il rimettente evidenzia che la questione di legittimità costituzionale è rilevante in quanto l’eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 21, comma 7, della legge reg. Puglia n. 4 del 2010 comporterebbe l’illegittimità derivata della impugnata delibera di Giunta regionale e degli eventuali successivi atti applicativi.
Il TAR per la Puglia ritiene, peraltro, non praticabile un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma regionale, non essendo nella stessa previsto alcun discrimen tra lavoro svolto all’interno delle strutture sanitarie, relativamente al quale vigerebbe l’osservanza del limite orario, e lo svolgimento di ulteriori attività professionali da parte dei ricorrenti.
Quanto alla non manifesta infondatezza, le ordinanze di rimessione recepiscono gli argomenti posti a fondamento dell’eccezione di incostituzionalità sollevata dalle parti in relazione all’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., in quanto la norma regionale, disciplinando il rapporto di lavoro del personale sanitario degli istituti penitenziari, avrebbe invaso la materia dell’ordinamento civile riservata al legislatore statale.
Nelle ordinanze è evidenziato, in particolare, che «la figura dei cd. “medici incaricati” è stata introdotta e disciplinata per la prima volta dall’art. 1 legge 9 ottobre 1970, n. 740 (Ordinamento delle categorie di personale sanitario addetto agli istituti di prevenzione e pena non appartenenti ai ruoli organici dell’Amministrazione penitenziaria), che così qualifica i medici “non appartenenti al personale civile di ruolo dell’Amministrazione degli istituti di prevenzione e di pena, i quali prestano la loro opera presso gli istituti o servizi dell’amministrazione stessa”. In base alla predetta disciplina statale, dunque, le prestazioni rese da questi ultimi non ineriscono ad un rapporto di lavoro subordinato, ma sono inquadrabili nella prestazione d’opera professionale in regime di parasubordinazione, come la Corte Costituzionale ha più volte riconosciuto (da ultimo Sent. n. 149/2010) affermando che, diversamente dagli impieghi [recte: impiegati] civili dello Stato, i medici incaricati possono esercitare liberamente la professione e assumere altri impieghi o incarichi».
Nelle ordinanze di rimessione viene, altresì, dato atto che le parti, pur svolgendo servizio presso gli istituti di pena, rivestono la qualità di medici ospedalieri, medici di base o medici del Servizio sanitario nazionale (SSN) e che la Regione Puglia, pur riconoscendo loro, con la norma censurata, il regime di deroga stabilito nella normativa nazionale per i medici incaricati, ha fissato per essi il tetto massimo dell’orario di lavoro in quarantotto ore settimanali, facendo riferimento alla normativa nazionale ed europea in tema di lavoro subordinato.
Il giudice a quo esamina, quindi, le deroghe al tetto massimo di quarantotto ore di lavoro settimanali previste dall’art. 17, comma 5, del decreto legislativo 8 aprile 2003, n. 66 (Attuazione delle direttive 93/104/CE e 2000/34/CE concernenti taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro), secondo cui le disposizioni relative alla durata massima dell’orario di lavoro non si applicano ai lavoratori la cui durata dell’orario di lavoro, a causa delle caratteristiche dell’attività esercitata, «non è misurata o predeterminata o può essere determinata dai lavoratori stessi […]».
Il TAR ritiene, in conclusione, che la disposizione regionale censurata, non avendo richiamato e fatto salve tutte le ipotesi previste dalla disciplina nazionale ed europea in deroga al detto limite orario settimanale, avrebbe illegittimamente invaso la competenza esclusiva del legislatore statale in materia di ordinamento civile e contravvenuto ai vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario, violando così l’art. 117, primo e secondo comma, lettera l), Cost.
2.– Con atti depositati in data 15 febbraio 2016, si è costituita in tutti i giudizi la Regione Puglia, sostenendo l’inammissibilità, per assoluta carenza di motivazione, della questione sollevata con riferimento all’art. 117, primo comma, Cost. e, comunque, l’infondatezza nel merito di entrambe le questioni sollevate.
2.1.– In relazione alla dedotta eccezione di inammissibilità, la difesa della Regione sostiene che il giudice a quo non avrebbe richiamato nel dispositivo delle quattro ordinanze il parametro interposto, ovvero la norma europea la cui violazione determinerebbe il contrasto tra la norma regionale impugnata e il parametro costituzionale evocato, e che tale parametro interposto non sarebbe, comunque, desumibile dalla motivazione dei provvedimenti di rimessione.
2.2.– Nel merito, ad avviso della Regione Puglia, le censure sarebbero entrambe infondate.
Infatti, l’art. 21, comma 7, della legge reg. Puglia n. 4 del 2010, non solo non si porrebbe in contrasto con la direttiva 2003/88/CE del 4 novembre 2003 (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio concernente taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro), ma ne costituirebbe invece diretta attuazione, considerato quanto stabilito da essa nell’art. 6, lettera b), in forza del quale è fatto obbligo agli Stati membri di prendere le misure necessarie affinché, in funzione degli imperativi di protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori, la durata media dell’orario di lavoro per ogni periodo di sette giorni non superi le quarantotto ore, comprese le ore di lavoro straordinario.
La difesa della Regione ripercorre la complessiva normativa comunitaria e nazionale in materia di orario di lavoro, sostenendo la conformità della norma censurata a tale disciplina, anche laddove la stessa ne esclude, implicitamente, l’applicazione al personale incaricato di svolgere incarichi dirigenziali o, comunque, di direzione.
In particolare, in ordine alla applicabilità del tetto massimo settimanale di quarantotto ore di lavoro ai lavoratori autonomi, la difesa regionale sostiene che «ovviamente il tetto orario in questione non è, altresì, applicabile alle ipotesi di lavoro autonomo, poiché si riferisce solo a quelle attività che sono svolte nell’osservanza di un orario di lavoro, inteso come “qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro”, a disposizione del datore di lavoro e “nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni” (cfr. art. 1, comma 2, lett. a), d.lgs. n. 66 del 2003)».
La Regione sottolinea, poi, che la norma regionale censurata, pur individuando il tetto massimo dell’orario di lavoro settimanale in quarantotto ore, stabilisce expressis verbis il «rispetto della normativa nazionale ed europea in tema di orario di lavoro».
Il che escluderebbe ogni possibile contrasto tra la disposizione regionale censurata e la disciplina dettata in materia dal legislatore nazionale ed europeo.
Peraltro, limitatamente alla dedotta violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., la difesa regionale afferma che le ipotesi di deroga previste dalla direttiva al tetto massimo delle quarantotto ore di lavoro settimanali andrebbero intese non già come deroghe obbligatorie, imposte ai legislatori nazionali, ma come deroghe meramente facoltative, rimesse alla discrezionalità degli Stati, come confermato anche dalla circostanza che l’art. 17 della direttiva, scaduto il primo periodo transitorio di cinque anni, prevede limiti stringenti alle eventuali deroghe.
3.– In data 12 febbraio 2016 si sono costituite nel giudizio r.o. n. 5 del 2016, le parti ricorrenti P.G. R. ed altri che, in data 28 febbraio 2017, hanno depositato anche ulteriore memoria illustrativa, precisando gli argomenti già esposti.
I ricorrenti insistono, sulla base degli stessi argomenti evidenziati dal giudice a quo, per la declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 21, comma 7, della legge reg. Puglia n. 4 del 2010, prospettando, preliminarmente, anche una interpretazione costituzionalmente orientata della norma denunciata, da intendersi, a loro avviso, nel senso che il limite delle quarantotto ore da essa previsto possa essere riferito soltanto alle prestazioni lavorative rese in regime di convenzione presso gli istituti di pena e non al complessivo lavoro svolto dai sanitari, a diverso titolo, nell’arco della settimana.
Considerato in diritto
1.– Il Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, con quattro ordinanze di identico contenuto, iscritte ai nn. 3, 4, 5 e 6 del registro ordinanze 2016, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 21, comma 7, della legge della Regione Puglia 25 febbraio 2010, n. 4 (Norme urgenti in materia di sanità e servizi sociali), in riferimento all’art. 117, primo e secondo comma, lettera l), della Costituzione.
La questione trae origine dall’impugnazione della delibera della Giunta regionale della Puglia n. 1076 del 2014, che impone a tutte le aziende sanitarie locali (ASL) pugliesi l’obbligo del rispetto nei confronti di tutto il personale sanitario, medici ed infermieri, del tetto massimo di quarantotto ore settimanali di lavoro, ricomprendendovi sia il lavoro svolto all’esterno degli istituti di pena, che quello svolto in regime di parasubordinazione all’interno degli stessi.
La delibera della Giunta regionale risulta essere applicativa del censurato art. 21, comma 7, della legge reg. Puglia n. 4 del 2010 e, pertanto, i ricorrenti che, in dipendenza di tale normativa, si sono visti costretti a rinunciare agli altri incarichi da loro ricoperti rispetto a quello di medico penitenziario ovvero alla riduzione del monte ore settimanale presso l’istituto penitenziario, hanno adìto il TAR per la Puglia che ha rimesso a questa Corte la questione di legittimità costituzionale della disposizione regionale.
Il rimettente, ritenuta rilevante la questione e non percorribile un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma censurata, evidenzia che questa, disciplinando le prestazioni di lavoro parasubordinato del personale sanitario degli istituti penitenziari, avrebbe invaso la competenza in materia dell’ordinamento civile riservata al legislatore statale dall’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. e, inoltre, contravvenuto ai vincoli europei, con conseguente violazione anche dell’art. 117, primo comma, Cost.
2.– La questione è fondata.
Questa Corte ha ripetutamente sottolineato che la disciplina dei vari profili del tempo della prestazione lavorativa deve essere ricondotta alla materia dell’ordinamento civile, in quanto parte integrante della disciplina del trattamento normativo del lavoratore dipendente, sia pubblico che privato (ex plurimis, sentenze n. 257 del 2016, n. 18 del 2013, n. 290, n. 215 e n. 213 del 2012, n. 339 e n. 77 del 2011, n. 324 del 2010).
Va rilevato che questa Corte si è già pronunciata in ordine alle prestazioni rese dai c.d. “medici incaricati” nell’ambito degli istituti di pena, chiarendo che esse «non ineriscono ad un rapporto di lavoro subordinato, ma sono inquadrabili nella prestazione d’opera professionale, in regime di parasubordinazione» (sentenza n. 149 del 2010).
Tale considerazione è assorbente anche rispetto alle richiamate deroghe previste in materia dalla normativa nazionale e europea e, in particolare, a quelle stabilite dall’art. 17, comma 5, del decreto legislativo 8 aprile 2003, n. 66 (Attuazione delle direttive 93/104/CE e 2000/34/CE concernenti taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro), a tenore del quale le disposizioni relative alla durata massima dell’orario di lavoro non si applicano ai lavoratori la cui durata dell’orario di lavoro, a causa delle caratteristiche dell’attività esercitata, non è misurata o predeterminata o può essere determinata dai lavoratori stessi.
Invero, esula dalla competenza legislativa regionale la qualificazione delle fattispecie in termini di lavoro autonomo o lavoro subordinato, come presupposto della loro regolamentazione, trattandosi di materia rientrante nell’ambito dell’ordinamento civile e, quindi, di esclusiva competenza del legislatore statale (ex art. 117, secondo comma, lettera l), Cost.).
Né a tale conclusione potrebbe opporsi la rilevanza che la regolazione dell’orario di lavoro del personale pubblico regionale assume sugli assetti organizzativi dei servizi che la regione deve assicurare, trattandosi di competenza residuale che deve esercitarsi nel rispetto dei limiti derivanti da altre competenze statali, quali, appunto, quelle in materia di ordinamento civile.
Peraltro, questa Corte ha avuto modo di ribadire, in più occasioni, che, in presenza di una materia attribuita alla competenza esclusiva dello Stato, alle Regioni è inibita anche la mera riproduzione della norma statale (sentenze n. 18 del 2013 e n. 29 del 2006).
Da ciò consegue l’illegittimità costituzionale dell’art. 21, comma 7, della legge della Regione Puglia 25 febbraio 2010, n. 4, per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione.
3.– La questione di legittimità costituzionale sollevata in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., resta assorbita.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 21, comma 7, della legge della Regione Puglia 25 febbraio 2010, n. 4 (Norme urgenti in materia di sanità e servizi sociali).
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 marzo 2017.
F.to:
Paolo GROSSI, Presidente
Giulio PROSPERETTI, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 26 maggio 2017.