SENTENZA N. 57
ANNO 2016
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Marta CARTABIA Presidente
- Giuseppe FRIGO Giudice
- Paolo GROSSI ”
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
- Franco MODUGNO ”
- Augusto Antonio BARBERA ”
- Giulio PROSPERETTI ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 4-ter, commi 2 e 3, del decreto-legge 7 aprile 2000, n. 82 (Modificazioni alla disciplina dei termini di custodia cautelare nella fase del giudizio abbreviato), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 5 giugno 2000, n. 144, e dell’art. 7, commi 1 e 2, del decreto-legge 24 novembre 2000, n. 341 (Disposizioni urgenti per l’efficacia e l’efficienza dell’Amministrazione della giustizia), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 19 gennaio 2001, n. 4, promosso dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Napoli nel procedimento penale a carico di M.U., con ordinanza del 3 marzo 2014, iscritta al n. 139 del registro ordinanze 2015 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 28, prima serie speciale, dell’anno 2015.
Visto l’atto di costituzione, fuori termine, di M.U.;
udito nella camera di consiglio del 27 gennaio 2016 il Giudice relatore Giorgio Lattanzi.
Ritenuto in fatto
1.– Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Napoli, in funzione di giudice dell’esecuzione, con ordinanza del 3 marzo 2014 (r.o. n. 139 del 2015), ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 7, paragrafo 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (d’ora in avanti «CEDU»), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4-ter, commi 2 e 3, del decreto-legge 7 aprile 2000, n. 82 (Modificazioni alla disciplina dei termini di custodia cautelare nella fase del giudizio abbreviato), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 5 giugno 2000, n. 144, e dell’art. 7, comma 1 «(come risultante dalla declaratoria di incostituzionalità del 3-7-2013 della Corte costituzionale)» e comma 2, del decreto-legge 24 novembre 2000, n. 341 (Disposizioni urgenti per l’efficacia e l’efficienza dell’Amministrazione della giustizia), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 19 gennaio 2001, n. 4, nella parte in cui, alla luce dell’orientamento «consolidatosi nella giurisprudenza di legittimità (da ultimo Cass. Sez. I, sentenza n. 23931 del 17/05/2013)», non escludono «dall’applicazione della disciplina relativa gli imputati cui, nei giudizi di appello, già pendenti alla data di entrata in vigore dell’indicato art. 4-ter d.l. 82/2000 (7 aprile 2000)», era stato attribuito «il diritto di definire con il rito abbreviato la relativa posizione e di beneficiare del trattamento “sostanziale” di cui all’art. 30 co. 1 lett. b) della l. 479/1999 e che hanno potuto esercitare tale diritto solo dopo il 24-11-2000».
Il giudice a quo premette di essere investito della richiesta di sostituzione della pena dell’ergastolo, inflitta dalla corte d’assise d’appello con sentenza emessa, all’esito di un giudizio svoltosi nelle forme del rito abbreviato, in data 11 marzo 2002 e passata in giudicato il 29 novembre 2002, con quella della reclusione di trenta anni.
L’interessato, imputato di «associazione camorristica pluriaggravata», di concorso in omicidio volontario aggravato, in tentato omicidio aggravato e in lesioni aggravate, oltre che di detenzione e porto illegale di armi, in relazione a fatti risalenti al 6 aprile 1991, aveva formulato una richiesta di ammissione al giudizio abbreviato nell’udienza preliminare del 14 maggio 1993, ma la richiesta era stata dichiarata inammissibile per la mancanza del consenso del pubblico ministero. Il 17 ottobre 1999 l’imputato era stato condannato dalla corte d’assise alla pena dell’ergastolo «con isolamento diurno per anni uno, oltre pene accessorie» e nell’udienza dell’11 ottobre 2001 aveva chiesto alla corte d’assise d’appello la definizione del processo con il rito abbreviato, all’esito del quale, con sentenza dell’11 marzo 2002, era stato condannato alla pena dell’ergastolo.
Il giudice rimettente ricorda che le sezioni unite penali della Corte di cassazione, con ordinanza del 10 settembre 2012, avevano sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 7 della CEDU, una questione di legittimità costituzionale degli artt. 7 e 8 del d.l. n. 341 del 2000, «nella parte in cui tali disposizioni operano retroattivamente» e, in particolare, in relazione alla posizione di coloro che, pur avendo formulato la richiesta di giudizio abbreviato in base alla sola legge 16 dicembre 1999, n. 479 (Modifiche alle disposizioni sul procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica e altre modifiche al codice di procedura penale. Modifiche al codice penale e all’ordinamento giudiziario. Disposizioni in materia di contenzioso civile pendente, di indennità spettanti al giudice di pace e di esercizio della professione forense), erano stati giudicati successivamente, quando era già entrato in vigore il citato d.l. n. 341 del 2000, subendone il più rigoroso trattamento sanzionatorio.
Dopo avere ricostruito la successione delle norme rilevanti ed esposto sinteticamente il contenuto della sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (d’ora in avanti «Corte EDU»), Grande Camera, 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia, il giudice a quo, rievoca i passaggi fondamentali della pronuncia di questa Corte n. 210 del 2013, sottolineando, tra l’altro, l’affermazione che in seguito alla pronuncia della Grande Camera della Corte EDU nel caso Scoppola il giudicato «non costituisce un ostacolo insuperabile che, come invece accade di regola, limiti gli effetti dell’obbligo conformativo ai soli casi ancora sub judice», potendosi estendere gli effetti della Convenzione a fattispecie uguali a quella relativa alla sentenza Scoppola, nonostante l’irrevocabilità della condanna.
Ciò posto, il giudice rimettente osserva che l’esame delle questioni dovrebbe essere operato alla luce dell’orientamento consolidato della Corte di cassazione, secondo cui, in seguito alla sentenza Scoppola, il condannato alla pena dell’ergastolo con sentenza passata in giudicato può ottenere in sede esecutiva la riduzione della pena ex art. 442 del codice di procedura penale, a condizione che abbia chiesto e sia stato ammesso al rito abbreviato tra il 2 gennaio e il 24 novembre 2000, con applicazione del d.l. n. 341 del 2000 che ripristinava l’ergastolo senza isolamento diurno (Corte di cassazione, prima sezione penale, 17 maggio 2013, n. 23931).
Il caso oggetto dell’incidente di esecuzione non sarebbe identico né presenterebbe profili di analogia strutturale con quelli per cui è possibile procedere all’applicazione in via diretta ed immediata dei principi enucleati, prima dalla Corte EDU, nella sentenza Scoppola, poi dalle sezioni unite penali della Corte di cassazione e, infine, dalla Corte costituzionale, con la sentenza n. 210 del 2013.
La vicenda all’esame del giudice a quo, pur essendo, sul piano sostanziale, esattamente sovrapponibile a quella oggetto della rimessione alla Corte costituzionale, se ne differenzierebbe per la data in cui «l’imputato ha richiesto l’accesso al rito abbreviato». L’imputato aveva infatti formalizzato la sua richiesta l’11 ottobre 2001, in pendenza del giudizio d’appello e dopo l’entrata in vigore dell’art. 7 del d.l. n. 341 del 2000, quando era già vigente la norma di «lettura c.d. autentica» e nel «regime di un quadro normativo» che aveva già differenziato il trattamento sanzionatorio tra i delitti puniti con l’ergastolo semplice e quelli puniti con l’ergastolo con isolamento diurno. Pertanto nei suoi confronti non si porrebbe un problema di applicazione retroattiva di un trattamento penale sfavorevole, come nel caso Scoppola, e, alla luce del diritto vivente richiamato, «si sarebbe fuori dall’applicazione esecutiva del trattamento di favore invocato dall’istante».
Potrebbe, però, in tal modo determinarsi una lesione della sfera giuridica del richiedente e una possibile frizione dell’assetto normativo da applicare con i principi costituzionali e convenzionali.
L’art. 4-ter del d.l. n. 82 del 2000 sarebbe, infatti, inscindibilmente connesso con l’art. 30, comma 1, lettera b), della legge n. 479 del 1999, norma solo formalmente processuale, avente, tuttavia, natura anche di «diritto sostantivo», perché incide, in definitiva, sul trattamento penale del fatto. Ricorrerebbe una fattispecie complessa, caratterizzata dalla coesistenza di posizioni giuridiche di distinta natura: il diritto potestativo di concludere il processo con un rito alternativo (l’abbreviato) e la posizione giuridica soggettiva parallela «di vedere definito il giudizio» applicando la disciplina sostanziale di riferimento «favorevole» in vigore nel momento in cui era sorta la specifica posizione processuale.
Alla stregua del dato normativo, invece, nell’ambito della categoria unitaria composta dai soggetti già condannati in primo grado per «delitti puniti con ergastolo, anche aggravato», verrebbero differenziate in modo irrazionale due categorie di imputati: da un lato vi sarebbero quelli che erano riusciti a chiedere il giudizio abbreviato prima dell’entrata in vigore del decreto-legge cosiddetto di interpretazione autentica, i quali potrebbero, per effetto della declaratoria di illegittimità costituzionale, beneficiare della sostituzione della pena dell’ergastolo con quella di trenta anni di reclusione; dall’altro quelli che, per una «pura congiuntura del caso», legata alla fissazione della data della prima udienza in grado d’appello, non avevano potuto esercitare «in concreto» quel diritto potestativo, riconosciuto dall’art. 4-ter del d.l. n. 82 del 2000 attraverso il rinvio all’art. 442 cod. proc. pen., come modificato dall’art. 30, comma 1, lettera b), della legge n. 479 del 1999. Costoro, infatti, non avendo avuto la possibilità di esercitare un diritto che era già entrato nel loro patrimonio processuale, avevano dovuto avvalersi di un rito alternativo con una pena più severa e non potevano richiedere «la «rettifica della sanzione alla luce della lettura giurisprudenziale, prodottasi anche all’esito delle osservazioni della Corte Europea dei diritti dell’uomo e della Corte costituzionale».
Secondo il giudice rimettente il diritto al trattamento penale più favorevole, previsto dall’art. 30, comma 1, lettera b), della legge n. 479 del 1999, non deriverebbe dall’esercizio del potere processuale di avvalersi del giudizio abbreviato ma dall’entrata in vigore dell’art. 4-ter citato.
Né avrebbe rilievo osservare che coloro che avevano richiesto il rito abbreviato dopo il 24 novembre 2000 erano consapevoli di accedere ad un rito che garantiva una riduzione di pena diversa da quella inizialmente prevista, dato che, per effetto dell’art. 7 del d.l. n. 341 del 2000, si sarebbe modificato un diritto potestativo processuale dell’imputato «di cui egli era già titolare, in un certo arco temporale (tra il 2 gennaio 2000 e il 24 novembre 20[00])», precludendogli la possibilità di esercitarlo e di beneficiare degli «effetti sostanziali di favore» ad esso ricollegabili.
La normativa impugnata sarebbe dunque in contrasto, oltre che con l’art. 117, primo comma, Cost., anche con l’art. 3 Cost., sotto il profilo della ragionevolezza, nella parte in cui non prevede che gli imputati, che per effetto dell’art. 4-ter del d.l. n. 82 del 2000 avevano diritto alla definizione del processo con il rito abbreviato, possano fruire del trattamento sanzionatorio previsto dall’art. 442, comma 2, cod. proc. pen, come modificato dall’art. 30, comma 1, lettera b), della legge n. 479 del 1999.
Avuto riguardo al principio della retroattività della legge penale più favorevole, sancito dall’art. 7, paragrafo 1, della CEDU, come interpretato dalla Corte EDU nella sentenza Scoppola, l’art. 30 della legge n. 479 del 1999 si sarebbe tradotto in una «disposizione penale posteriore», che prevedeva una pena meno severa, della quale avrebbero dovuto beneficiare tutti coloro che, nella pendenza del processo in grado d’appello, avevano maturato il diritto di richiedere il giudizio abbreviato a norma dell’art. 4-ter del d.l. n. 82 del 2000, con la possibilità di esercitarlo alla prima udienza utile.
Ciò posto, però, secondo il giudice a quo, non sarebbe possibile accogliere la domanda dell’interessato, ostandovi l’art. 4-ter del d.l. n. 82 del 2000, l’art. 7, comma 1, del d.l. n. 341 del 2000 (pur all’esito della dichiarazione d’illegittimità costituzionale di cui alla sentenza n. 210 del 2013), e comma 2, del medesimo decreto-legge, e inoltre l’interpretazione giurisprudenziale, costituente sul punto diritto vivente. Questo perché, in base al quadro normativo indicato, il trattamento penale di cui all’art. 7, comma 2, si applicherebbe anche ai processi già pendenti in appello (o in sede di giudizio di rinvio) all’epoca della sua entrata in vigore e agli imputati dei «delitti qualificati (puniti con ergastolo e isolamento)», cui l’ordinamento aveva già riconosciuto il diritto potestativo processuale al trattamento introdotto dall’art. 30, comma 1, lettera b), della legge n. 479 del 1999, attraverso la complessa fattispecie della richiesta da formulare nella prima udienza utile nel giudizio di secondo grado o in quello di rinvio, secondo il disposto dell’art. 4-ter del d.l. n. 82 del 2000.
In punto di rilevanza, osserva il Tribunale rimettente che osterebbero all’accoglimento della domanda proposta le norme sopraindicate, nella parte in cui non prevedono che il trattamento di maggior favore introdotto dall’art. 30, comma 1, lettera b), della legge n. 479 del 1999 possa trovare applicazione nei confronti degli imputati che non hanno potuto richiedere il giudizio abbreviato perché la prima udienza utile era stata fissata in epoca successiva all’entrata in vigore del d.l. n. 341 del 2000.
2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.
L’Avvocatura generale sostiene che la valutazione sull’«illegittima portata retroattiva della norma di interpretazione autentica contenuta nell’art. 7, comma 1, del decreto-legge n. 341 del 2000 (operata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 210/2013, sulla scorta della giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo) deve ritenersi limitata ai soli imputati che, al momento dell’introduzione del trattamento più favorevole previsto dal testo dell’art. 442 c.p.p. in forza della legge n. 479 del 1999, avessero già formulato istanza di ammissione al rito abbreviato».
Tale valutazione, secondo l’Avvocatura generale dello Stato, «non può valere, invece, nei confronti di quei soggetti che, come colui che ha promosso l’incidente di esecuzione da cui è scaturita la presente questione di costituzionalità, non erano stati ancora ammessi al rito abbreviato, ed in relazione ai quali, al momento della formulazione della richiesta di ammissione a tale rito era già applicabile il regime dettato dall’art. 442 c.p.p.».
3.– Si è costituito in giudizio, in data 19 gennaio 2016, e quindi oltre il termine previsto, il condannato, chiedendo l’accoglimento della questione di legittimità costituzionale sollevata dal «Tribunale di Napoli», in funzione di giudice dell’esecuzione.
1.– Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Napoli, in funzione di giudice dell’esecuzione, dubita, in riferimento agli artt. 3 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 7, paragrafo 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (d’ora in avanti «CEDU»), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, della legittimità costituzionale dell’art. 4-ter, commi 2 e 3, del decreto-legge 7 aprile 2000, n. 82 (Modificazioni alla disciplina dei termini di custodia cautelare nella fase del giudizio abbreviato), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 5 giugno 2000, n. 144, e dell’art. 7, comma 1 «(come risultante dalla declaratoria di incostituzionalità del 3-7-2013 della Corte costituzionale)» e comma 2, del decreto-legge 24 novembre 2000, n. 341 (Disposizioni urgenti per l’efficacia e l’efficienza dell’Amministrazione della giustizia), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 19 gennaio 2001, n. 4, nella parte in cui, alla luce dell’orientamento «consolidatosi nella giurisprudenza di legittimità (da ultimo Cass. Sez. I, sentenza n. 23931 del 17/05/2013)», non escludono «dall’applicazione della disciplina relativa gli imputati cui, nei giudizi di appello, già pendenti alla data di entrata in vigore dell’indicato art. 4-ter d.l. 82/2000 (7 aprile 2000)», era stato attribuito «il diritto di definire con il rito abbreviato la relativa posizione e di beneficiare del trattamento “sostanziale” di cui all’art. 30 co. 1 lett. b) della l. 479/1999 e che hanno potuto esercitare tale diritto solo dopo il 24-11-2000».
2.– Il giudice a quo è investito della richiesta di sostituzione della pena dell’ergastolo, inflitta dalla corte d’assise d’appello con sentenza emessa, all’esito di un giudizio col rito abbreviato, in data 11 marzo 2002 e passata in giudicato il 29 novembre 2002, con quella della reclusione di trenta anni.
Il caso oggetto dell’incidente di esecuzione, secondo il giudice rimettente, non è uguale a quello sul quale è intervenuta la sentenza di questa Corte n. 210 del 2013 per consentire l’esecuzione in Italia della sentenza della Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo (d’ora in avanti «Corte EDU»), 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia. L’imputato infatti, in quel caso, aveva chiesto il giudizio abbreviato prima dell’entrata in vigore del d.l. n. 341 del 2000, che aveva determinato un trattamento sanzionatorio meno favorevole di quello applicabile al momento della richiesta, mentre nel giudizio a quo l’imputato ha formulato la richiesta dopo il 24 novembre 2000, quando era già entrato in vigore l’art. 7 del decreto-legge in questione con la previsione di un trattamento sanzionatorio “sfavorevole” rispetto a quello stabilito dall’art. 30, comma 1, lettera b), della legge 16 dicembre 1999, n. 479 (Modifiche alle disposizioni sul procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica e altre modifiche al codice di procedura penale. Modifiche al codice penale e all’ordinamento giudiziario. Disposizioni in materia di contenzioso civile pendente, di indennità spettanti al giudice di pace e di esercizio della professione forense).
Il giudice rimettente reputa che, in seguito all’entrata in vigore dell’art. 30, comma 1. lettera b), della legge n. 479 del 1999, che aveva reso possibile il giudizio abbreviato per i reati puniti con l’ergastolo, e dell’art. 4-ter, commi 2 e 3, del d.l. n. 82 del 2000, che aveva consentito la relativa richiesta anche in appello, l’imputato in un processo pendente in secondo grado avesse acquisito il diritto al trattamento più mite, pur non avendo richiesto il giudizio abbreviato prima dell’entrata in vigore del d.l. n. 341 del 2000, perché non era stata ancora fissata la prima udienza.
Secondo il giudice a quo, le norme censurate sarebbero in contrasto con l’art. 3 Cost., in quanto, senza una ragionevole giustificazione, riservano agli imputati che si trovano nella situazione dell’istante un trattamento sanzionatorio più sfavorevole di quello riconosciuto a coloro che (condannati in primo grado e il cui giudizio era pendente in appello) avevano avuto l’opportunità di chiedere il rito abbreviato prima del 24 novembre 2000.
Sarebbe violato anche l’art. 117, primo comma, Cost., dato che, per il principio della retroattività della legge penale più favorevole, sancito dall’art. 7, paragrafo 1, della CEDU (come interpretato dalla Corte EDU nella sentenza Scoppola), l’art. 30, comma 1, lettera b), della legge n. 479 del 1999 costituisce una disposizione penale posteriore, con una pena meno severa, della quale avrebbero dovuto beneficiare tutti coloro che, nella pendenza del processo in grado d’appello, alla prima udienza utile, avessero chiesto la definizione con il rito alternativo.
3.– Preliminarmente deve essere dichiarata l’inammissibilità della costituzione in giudizio della parte privata, che è avvenuta oltre il termine stabilito dall’art. 25 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), computato come è previsto dall’art. 3 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, essendo tale termine, per costante giurisprudenza di questa Corte, perentorio (ex plurimis, sentenza n. 355 del 2010).
4.– Il quadro normativo al quale le questioni si riferiscono è caratterizzato dalla successione di tre diverse discipline.
La disposizione originaria dell’art. 442, comma 2, del codice di procedura penale prevedeva la sostituzione della pena dell’ergastolo con quella di trenta anni di reclusione; questa norma però, con la sentenza n. 176 del 1991, è stata dichiarata costituzionalmente illegittima per eccesso di delega e di conseguenza, tra il 1991 e il 1999, l’accesso al rito abbreviato è rimasto precluso agli imputati di delitti puniti con l’ergastolo.
L’art. 30, comma 1, lettera b), della legge n. 479 del 1999, entrata in vigore il 2 gennaio 2000, ha modificato l’art. 442, comma 2, cod. proc. pen., reintroducendo, per i reati puniti con l’ergastolo, il giudizio abbreviato e la sostituzione dell’ergastolo con la pena di trenta anni di reclusione.
Il d.l. n. 341 del 24 novembre 2000, entrato in vigore nella medesima data, e convertito dalla legge n. 4 del 2001, con l’art. 7 ha modificato nuovamente l’art. 442 cod. proc. pen., stabilendo, in via di interpretazione autentica, che «Nell’articolo 442, comma 2, ultimo periodo, del codice di procedura penale, l’espressione “pena dell’ergastolo” deve intendersi riferita all’ergastolo senza isolamento diurno» (art. 7, comma 1), e aggiungendo, alla fine dello stesso comma 2, la frase: «Alla pena dell’ergastolo con isolamento diurno, nei casi di concorso di reati e di reato continuato, è sostituita quella dell’ergastolo» (art. 7, comma 2).
In seguito a quest’ultima modificazione, il giudizio abbreviato comporta per l’imputato la sostituzione dell’ergastolo senza isolamento diurno con la pena di trenta anni di reclusione e la sostituzione dell’ergastolo con isolamento diurno con l’ergastolo semplice.
Dopo l’entrata in vigore della legge n. 479 del 1999, l’art. 4-ter del d.l. n. 82 del 2000 ha stabilito che nei processi in corso nei gradi di merito per reati puniti con l’ergastolo, quando il termine per presentare la richiesta era già scaduto, l’imputato poteva chiedere il giudizio abbreviato nella «prima udienza utile successiva» all’entrata in vigore della legge n. 144 del 2000, di conversione del d.l. n. 82 del 2000.
5.– Con la sentenza 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia, la Grande Camera della Corte EDU ha preso in considerazione il quadro normativo sopraindicato, e in particolare la vicenda relativa alla successione tra la legge n. 479 del 1999 e il d.l. n. 341 del 2000, ravvisando una violazione degli artt. 6 e 7 della CEDU.
Nel caso giudicato dalla Corte EDU, il ricorrente aveva chiesto il giudizio abbreviato prima dell’entrata in vigore dell’art. 7 del d.l. n. 341 del 2000 (quando era previsto che la condanna all’ergastolo con isolamento diurno, che avrebbe dovuto essergli inflitta, andasse sostituita con la pena di trenta anni di reclusione), ma, nonostante ciò, per effetto della sopravvenuta norma interpretativa dell’art. 7, comma 1, era stato condannato all’ergastolo.
La Corte EDU aveva ravvisato una violazione degli artt. 6 e 7 della CEDU, ritenendo che l’art. 442, comma 2, cod. proc. pen., ancorché contenuto in una legge processuale, fosse norma di diritto penale sostanziale, rientrante nel campo di applicazione dell’art. 7, paragrafo 1, della CEDU, e che lo Stato italiano avesse violato, sia il diritto del ricorrente a un processo equo, sia il diritto all’applicazione della legge più favorevole.
Secondo la Corte EDU, il ricorrente, condannato all’ergastolo in seguito a un giudizio abbreviato per omicidio aggravato in concorso con altri delitti, avrebbe dovuto beneficiare del trattamento più favorevole previsto dalla norma in vigore al momento della richiesta del rito alternativo (la quale comportava la sostituzione dell’ergastolo con la pena di trenta anni di reclusione), e non avrebbe dovuto essere invece condannato in forza della norma successiva, in vigore al momento della decisione, dalla quale era discesa l’applicazione dell’ergastolo.
6.– Dopo la sentenza della Corte EDU sulla vicenda Scoppola, si è posto il problema di quale decisione adottare nei confronti di tutti gli altri condannati all’ergastolo che si trovavano in una situazione analoga, in quanto avevano chiesto il giudizio abbreviato tra il 2 gennaio e il 24 novembre 2000 ed erano stati condannati alla pena perpetua per effetto della sopravvenuta modificazione normativa.
In particolare, trovandosi di fronte a un incidente di esecuzione per un caso analogo a quello di Scoppola, le sezioni unite penali della Corte di cassazione avevano sollevato una questione di legittimità costituzionale dell’art. 7 del d.l. n. 341 del 2000.
Con la decisione di tale questione (sentenza n. 210 del 2013), questa Corte, dopo aver riconosciuto il dovere dello Stato di conformare l’ordinamento ai principi affermati dalla Corte EDU, ha concluso che con ragione le sezioni unite avevano ritenuto che la sentenza Scoppola non consentisse all’Italia di limitarsi a sostituire in quel caso la pena dell’ergastolo, ma la obbligasse a porre riparo alla violazione riscontrata a livello normativo e a rimuoverne gli effetti nei confronti di tutti i condannati che si trovano nelle medesime condizioni.
Quest’obbligo, secondo la sentenza n. 210 del 2013, non trovava ostacolo nell’avvenuta formazione del giudicato, il cui valore può diventare recessivo in presenza di alcune sopravvenienze relative alla punibilità e al trattamento punitivo. In tale prospettiva, e con riferimento all’art. 30, quarto comma, della legge n. 87 del 1953, era apparsa non implausibile la prospettazione delle sezioni unite, le quali avevano ritenuto che il giudicato penale non impedisce al giudice di intervenire sul titolo esecutivo per modificare la pena, quando la misura di questa è prevista da una norma di cui è stata riconosciuta l’illegittimità convenzionale e quando tale riconoscimento sorregge un giudizio altamente probabile di illegittimità costituzionale della stessa norma, per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost.
Un ulteriore aspetto problematico affrontato dalla sentenza n. 210 del 2013 riguarda l’utilizzabilità del procedimento esecutivo per conformarsi alla sentenza della Corte EDU, e la cosa è stata giudicata possibile solo nell’ipotesi in cui «si debba applicare una decisione della Corte europea in materia sostanziale, relativa ad un caso che sia identico a quello deciso e non richieda la riapertura del processo, ma possa trovare un rimedio direttamente in sede esecutiva».
7.– Il caso che forma oggetto delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Napoli, tuttavia, è diverso e perciò le questioni sono inammissibili.
7.1.– La pronuncia di questa Corte n. 210 del 2013 ha introdotto un’eccezione ben delimitata al principio, costantemente affermato e a tutt’oggi vigente, secondo cui non è consentito al giudice dell’esecuzione impugnare disposizioni primarie che siano già state applicate, in via definitiva, in fase di cognizione (sentenza n. 64 del 1965; in seguito, sentenze n. 100 del 2015 e n. 210 del 2013). Con ogni evidenza, questo principio, che declina nel caso di specie il requisito della rilevanza proprio di ogni questione incidentale di legittimità costituzionale, preclude, in sede di esecuzione penale, di dubitare della conformità a Costituzione del precetto in base al quale il reo è stato condannato e della pena che è stata conseguentemente irrogata. Simili profili sono infatti estranei all’oggetto del procedimento esecutivo, che è finalizzato all’esecuzione di un provvedimento e non certo alla verifica della legittimità costituzionale delle norme in base alle quali il titolo si è formato e rispetto alle quali l’imputato ha già avuto la facoltà di eccepire l’illegittimità nel processo di cognizione.
Del resto questa fondamentale prerogativa non giunge fino al riconoscimento del diritto di contestare, senza confini di tempo e di fase processuale, la perdurante conformità al dettato costituzionale degli effetti prodotti dalla definitiva applicazione giudiziale della legge, al punto che la Costituzione stessa permette che si consolidi, se irreversibile in base alla legislazione di settore, l’esito conseguente all’applicazione di una norma, pur giudicata in un secondo tempo costituzionalmente illegittima (art. 136 Cost.).
A maggior ragione deve escludersi che la natura permanente degli effetti prodotti dalla legge, come accade a fronte di una pena in corso di espiazione, permetta di per sé la proposizione di questioni di legittimità costituzionale prive di rilevanza perché le disposizioni impugnate non sono oggetto del procedimento a quo.
È il legislatore ordinario (sentenza n. 210 del 2013) a stabilire la retroattività delle declaratorie di illegittimità costituzionale che abbiano colpito le norme penali in applicazione delle quali è stata pronunciata una sentenza irrevocabile di condanna (art. 30, quarto comma, della legge n. 87 del 1953; art. 673 cod. proc. pen.).
Questa previsione se, da un lato, non amplia l’oggetto del giudizio di esecuzione, quanto ai poteri del giudice di sottoporre nuovamente a verifica di legittimità costituzionale il precetto penale su cui si basa il titolo esecutivo, dall’altro, però, ne fonda la competenza, attribuitagli dal legislatore, a valutare gli effetti della pronuncia costituzionale su tale titolo.
Con la sentenza n. 210 del 2013, questa Corte ha preso atto che, con motivazione non implausibile, le sezioni unite penali della Corte di cassazione rimettente avevano ritenuto applicabile l’art. 30, quarto comma, della legge n. 87 del 1953 anche al caso in cui si tratta di determinare, nella fase esecutiva, l’effetto di una pronuncia espressiva della giurisprudenza della Corte EDU, che «sorregge un giudizio altamente probabile di illegittimità costituzionale» di una norma di diritto penale sostanziale, derivante dalla già accertata illegittimità convenzionale della stessa.
In tale ipotesi, a mutare non è il requisito della rilevanza della questione di legittimità costituzionale ma l’oggetto del giudizio esecutivo, che, sulla base di quanto stabilito dalle sezioni unite, attrae a sé il compito di conferire esecuzione alla pronuncia giudiziale europea, per i casi identici a quello con essa deciso, e di rimuovere la disposizione primaria di diritto interno che lo impedisce, benché il suo contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost. richieda una dichiarazione di illegittimità costituzionale.
Proprio i limiti entro cui si muove, per tale peculiare caso, il giudizio di esecuzione circoscrivono la questione di legittimità costituzionale, consentendola solo con riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., posto che, al di fuori della verifica di compatibilità della legge con la CEDU, innescata dalla sentenza europea, la norma concernente la pena non deve essere più applicata nel processo esecutivo, con conseguente difetto di rilevanza di ulteriori questioni (sentenza n. 210 del 2013).
Perciò l’ammissibilità nel procedimento esecutivo di una questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto la norma in base alla quale è stata determinata la pena richiede l’assoluta identità tra il caso deciso dalla Corte EDU, alla cui sentenza il giudice ritiene di doversi adeguare, e il caso oggetto del procedimento a quo, giacché ogni diversa ipotesi verrebbe ad esorbitare dai limiti propri del giudizio esecutivo.
Viceversa, la premessa da cui è partito il rimettente, e che consegna la questione all’inammissibilità per difetto di rilevanza, è esattamente l’opposta, poiché egli postula che la fattispecie decisa con la sentenza Scoppola sia diversa da quella con cui è tenuto a confrontarsi nel giudizio a quo.
7.2.– L’assunto dal quale muove il rimettente comporta alla radice l’inammissibilità delle questioni per difetto di rilevanza.
La fattispecie oggetto del procedimento principale, infatti, non concerne l’esecuzione della sentenza Scoppola, perché l’imputato ha richiesto il giudizio abbreviato non quando era vigente l’art. 442, comma 2, cod. proc. pen., nel testo introdotto dall’art. 30, comma 1, lettera b), della legge n. 479 del 1999, ma quando era già entrata in vigore la norma meno favorevole introdotta dall’art. 7, comma 2, del d.l. n. 341 del 2000.
La Corte EDU, invece, laddove ha ritenuto applicabile la lex mitior costituita dall’art. 30 della legge n. 479 del 1999, ha ricollegato il trattamento sanzionatorio ivi previsto alla richiesta di giudizio abbreviato effettuata nella vigenza di questa e al successivo provvedimento del giudice che in tale richiesta aveva il presupposto (paragrafi 11, 12, 115, 137, 138, 139 e 140 della sentenza Scoppola).
Se, dunque, nella sentenza Scoppola il diritto di vedersi applicare la lex mitior è inscindibilmente connesso alla richiesta di giudizio abbreviato effettuata dall’imputato quando era vigente tale legge, la diversità, sul punto, della fattispecie oggetto del giudizio a quo rende palese che la disciplina normativa contestata dal rimettente non pone alcun dubbio di compatibilità con la CEDU, perché non concerne un caso come quello che aveva formato oggetto della sentenza Scoppola.
Per la stessa ragione, in senso analogo, le sezioni unite penali della Corte di cassazione, sia prima della pronuncia di questa Corte n. 210 del 2013, con la sentenza 19 aprile 2012, n. 34233, sia dopo di essa, con la sentenza 24 ottobre 2013, n. 18821, hanno nettamente distinto, al fine di estendere gli effetti della sentenza Scoppola, il caso in cui la richiesta di rito abbreviato fosse avvenuta prima, da quello in cui fosse invece avvenuta dopo l’entrata in vigore del d.l. n. 341 del 2000.
Considerato che questa Corte ha chiaramente escluso che siano proponibili in sede di esecuzione questioni ormai precluse, perché avrebbero dovuto essere proposte nel giudizio di cognizione, deve concludersi che la questione sollevata dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Napoli è inammissibile per difetto di rilevanza, senza considerare che la diversità del caso in oggetto, rispetto a quello deciso dalla sentenza Scoppola, farebbe anche escludere il denunciato contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost.
7.3.– La questione di legittimità costituzionale proposta con riferimento all’art. 3 Cost. è ugualmente inammissibile, perché «non attiene alla necessità di conformarsi a una sentenza della Corte EDU, cioè al solo caso che, come si è visto, può giustificare un incidente di legittimità costituzionale sollevato nel procedimento di esecuzione nei confronti di una norma applicata nel giudizio di cognizione» (sentenza n. 210 del 2013; in senso analogo, sentenza n. 100 del 2015).
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara inammissibile la costituzione in giudizio della parte privata;
2) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4-ter, commi 2 e 3, del decreto-legge 7 aprile 2000, n. 82 (Modificazioni alla disciplina dei termini di custodia cautelare nella fase del giudizio abbreviato), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 5 giugno 2000, n. 144, e dell’art. 7, comma 1 «(come risultante dalla declaratoria di incostituzionalità del 3-7-2013 della Corte costituzionale)» e comma 2, del decreto-legge 24 novembre 2000, n. 341 (Disposizioni urgenti per l’efficacia e l’efficienza dell’Amministrazione della giustizia), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 19 gennaio 2001, n. 4, sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 7, paragrafo 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Napoli, in funzione di giudice dell’esecuzione, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 27 gennaio 2016.
F.to:
Marta CARTABIA, Presidente
Giorgio LATTANZI, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 23 marzo 2016.