SENTENZA N. 248
ANNO 2014
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Giuseppe TESAURO Presidente
- Sabino CASSESE Giudice
- Paolo Maria NAPOLITANO ˮ
- Giuseppe FRIGO ˮ
- Alessandro CRISCUOLO ˮ
- Paolo GROSSI ˮ
- Giorgio LATTANZI ˮ
- Aldo CAROSI ˮ
- Marta CARTABIA ˮ
- Sergio MATTARELLA ˮ
- Mario Rosario MORELLI ˮ
- Giancarlo CORAGGIO ˮ
- Giuliano AMATO ˮ
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 200, comma 1, in combinato disposto con gli artt. 42 e 44, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), promosso dal Tribunale ordinario di Pisa nel procedimento vertente tra la Società Cooperativa costruzioni impianti montaggi e manutenzione Pisa a r.l. in liquidazione coatta amministrativa e la Cassa di risparmio di San Miniato spa con ordinanza del 2 ottobre 2012, iscritta al n. 75 del registro ordinanze 2013 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 17, prima serie speciale, dell’anno 2013.
Visti l’atto di costituzione della Cassa di Risparmio di San Miniato spa, nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 23 settembre 2014 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano;
uditi l’avvocato Fabio Pontesilli per la Cassa di risparmio di San Miniato spa e l’avvocato dello Stato Alessandro Maddalo per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.– Il Tribunale ordinario di Pisa, con ordinanza in data 2 ottobre 2012, iscritta al n. 75 del registro ordinanze 2013, ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 200, comma 1, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), d’ora in avanti anche «legge fallimentare», in combinato disposto con gli artt. 42 e 44 dello stesso decreto, nella parte in cui prevede che, per i terzi di buona fede, gli effetti della liquidazione coatta amministrativa si producono dalla data del provvedimento che ordina la liquidazione, anziché dalla data di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale o di iscrizione nel registro delle imprese del medesimo decreto.
Premette il giudice a quo che, con ricorso promosso ai sensi dell’art. 702-bis del codice di procedura civile, il commissario liquidatore della Cooperativa costruzioni impianti montaggi e manutenzione Pisa srl (COIMM Pisa), in liquidazione coatta amministrativa ex art. 2545-terdecies cod. civ., chiedeva che fosse dichiarata l’inefficacia dei pagamenti e operazioni, per complessivi euro 538.229,96, posti in essere nel periodo dal 4 marzo al 30 giugno 2010 in favore della Cassa di risparmio di S. Miniato spa, in quanto effettuati in violazione del combinato disposto degli artt. 44 e 200 della legge fallimentare. Il commissario liquidatore precisava che il dies a quo per l’accertamento della inefficacia dei pagamenti coincideva, ai sensi dell’art. 200 della legge fallimentare, con la data di emanazione del decreto del Ministro dello sviluppo economico, avvenuta il 4 marzo 2010, e non con quella della pubblicazione di tale decreto nella Gazzetta Ufficiale, ai sensi dell’art. 197 della medesima legge.
La Cassa di risparmio, costituitasi in giudizio, chiedeva disporsi il mutamento del rito da sommario a ordinario. Sosteneva, inoltre, che un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 200 del regio decreto n. 267 del 1942, da leggersi in combinato disposto con gli artt. 16, 17, 42 e 44 del medesimo regio decreto, induceva a ritenere che la data dalla quale si producevano gli effetti della apertura della procedura di liquidazione coatta amministrativa nei confronti dei terzi di buona fede era quella dell’iscrizione del decreto ministeriale nel registro delle imprese, nella specie avvenuta in data 29 giugno 2010.
In via subordinata, eccepiva l’illegittimità costituzionale dell’art. 200 della citata legge per violazione dell’art. 3 Cost. in ragione della disparità di trattamento del terzo di buona fede nell’ambito della procedura fallimentare rispetto a quello riservato al terzo nella procedura di liquidazione. Ad avviso dell’istituto di credito, infatti, l’art. 200 censurato sarebbe costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede che per i terzi gli effetti della liquidazione coatta si producano dalla data di iscrizione del decreto ministeriale che ordina la liquidazione nel registro delle imprese, come previsto per la sentenza dichiarativa di fallimento, ai sensi degli artt. 16 e 17 della legge fallimentare.
Riferiva ancora il Tribunale che, nel merito, la Cassa di risparmio contestava la pretesa del ricorrente affermando che alcuni degli accrediti indicati nel ricorso e affluiti sul conto corrente della COIMM costituivano provento della gestione di attività d’impresa e, dunque, erano beni sopravvenuti ex art. 42, comma 2, della legge fallimentare e che dall’importo richiesto dovevano essere detratti i pagamenti eseguiti a terzi quali passività sostenute dall’impresa per la produzione del reddito affluito sul conto stesso. Ancora, la Cassa di risparmio sosteneva che, avendo dato ospitalità alle rimesse, ai versamenti, agli ordini di pagamento effettuati dall’impresa, non poteva essere condannata a restituire i relativi importi. Alcuni di tali pagamenti, inoltre, costituivano atti dovuti essendo stati effettuati dal datore di lavoro all’esattore delle imposte in relazione a somme trattenute a titolo di acconto IRPEF sulla retribuzione corrisposta ai dipendenti, mentre altri erano pagamenti delle retribuzioni ai dipendenti per prestazioni lavorative eseguiti prima della apertura della liquidazione. Quanto, infine, all’importo di euro 58.152,26 e a quello di euro 14.100,00 essi rappresentavano un giroconto da un conto corrente ad altro conto. La Cassa di risparmio sosteneva trattarsi di bonifici effettuati da terzi debitori ceduti a fronte di anticipazioni concesse dalla banca prima della apertura della liquidazione e quindi non assoggettabili a declaratoria di inefficacia.
Il Tribunale ha ritenuto non manifestamente infondata la questione di costituzionalità eccepita dalla società convenuta. Ha osservato al riguardo che la Corte costituzionale si era già pronunciata su questione analoga con la sentenza n. 337 del 1998 con la quale aveva dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 44, comma 2, e 200 della legge fallimentare, per violazione dell’art. 3 Cost., censurati nella parte in cui non prevedono che nel procedimento di liquidazione coatta amministrativa il momento di produzione degli effetti sostanziali rispetto ai terzi sia collegato a quello della conoscibilità del provvedimento di liquidazione coincidente con la sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale. In quell’occasione, ha ricordato il rimettente, la Corte aveva affermato che, poiché «il decreto di liquidazione, in quanto atto giuridico, viene ad esistenza, come la sentenza dichiarativa di fallimento, solo con la sua “esteriorizzazione”, che si realizza secondo la disciplina propria dell’atto amministrativo», il debitore di un’impresa soggetta a liquidazione coatta amministrativa può assumere, «prima di pagare, le opportune informazioni, presso la competente amministrazione, circa l’esistenza ed il contenuto di un eventuale decreto di liquidazione dell’impresa ed ottenerne copia, ai sensi degli artt. 22 e 25 della legge 7 agosto 1990, n. 241, anche eventualmente in via d’accesso informale (art. 3 d.P.R. 27 giugno 1992, n. 352)». Inoltre, «nell’ipotesi in cui il decreto di liquidazione sia successivo alla sentenza dichiarativa dello stato di insolvenza (art. 195 l. fall.), i terzi coinvolti nella liquidazione coatta amministrativa possono avere conoscenza, prima del decreto, della predetta sentenza; sicché, eguale essendo, in ogni caso, la conoscibilità in capo ai terzi della sentenza e del decreto, resta esclusa l’esistenza di qualsiasi discriminazione, sotto l’aspetto denunziato, tra terzi coinvolti nel fallimento e terzi coinvolti nella liquidazione coatta amministrativa».
Il Tribunale ha osservato che tale decisione è intervenuta prima della emanazione del decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5 (Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali a norma dell’articolo 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005, n. 80), che ha modificato l’art. 16 della legge fallimentare il quale attualmente dispone che «La sentenza produce i suoi effetti dalla data della pubblicazione ai sensi dell’art. 133, primo comma, del codice di procedura civile. Gli effetti nei riguardi dei terzi si producono dalla data di iscrizione della sentenza nel registro delle imprese ai sensi dell’art. 17, secondo comma».
A seguito di tale modifica, la differenza di disciplina tra il fallimento e la liquidazione coatta, quanto agli effetti nei confronti dei terzi, sarebbe divenuta evidente. Mentre nel primo caso i terzi sarebbero adeguatamente tutelati dal regime di pubblicità della sentenza dichiarativa del fallimento, nel caso della liquidazione coatta la conoscenza legale del decreto coinciderebbe con la mera emissione dello stesso, secondo quanto stabilisce l’art. 200 della legge fallimentare. Tale diversità di disciplina sarebbe irragionevole.
Quanto, poi, alla possibilità per il terzo, nel caso di liquidazione, di assumere informazioni presso la competente amministrazione circa l’esistenza e il contenuto del decreto – cui ha fatto riferimento la Corte nella sentenza n. 337 del 1998 – il rimettente ha osservato che il diritto di accesso è esercitabile solo fin quando la pubblica amministrazione ha l’obbligo di detenere i documenti cui si chiede di accedere (art. 22, comma 6, della legge 7 agosto 1990, n. 241, recante «Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi»). Inoltre, essa potrebbe opporre il diniego di accesso espresso o tacito, avverso il quale il terzo dovrebbe fare ricorso al T.A.R., con tempi incompatibili con lo svolgimento ordinario dei rapporti commerciali.
Al contrario l’accesso al registro delle imprese, così come la consultazione della Gazzetta Ufficiale, non subirebbe restrizioni e potrebbe avvenire anche via internet.
Ancora, mentre la sentenza che dichiara il fallimento deve essere trasmessa all’ufficio del registro delle imprese entro il giorno successivo al suo deposito in cancelleria, tra l’emanazione del decreto di liquidazione coatta e la sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale e la trasmissione all’ufficio del registro delle imprese possono decorrere anche dieci giorni. Nel caso di specie, tra la emissione del decreto (avvenuta il 4 marzo 2010) e la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale (29 giugno 2010) sono decorsi quasi quattro mesi.
Il rimettente ha sostenuto che alla luce del chiaro tenore letterale dell’art. 200 della legge fallimentare, il quale fa riferimento alla data del provvedimento che ordina la liquidazione non sarebbe possibile dare della disposizione un’interpretazione costituzionalmente orientata.
In ordine alla rilevanza della questione, il Tribunale ha osservato come il commissario liquidatore non abbia neppure allegato che la Cassa di risparmio al momento dei pagamenti contestati fosse a conoscenza dell’avvio della procedura. Da ciò discenderebbe che, ove l’art. 200 fosse dichiarato costituzionalmente illegittimo, la domanda proposta dal ricorrente dovrebbe essere rigettata dal momento che quasi tutti i pagamenti sono stati effettuati nel periodo tra la data di emissione del decreto e quella della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale e della successiva iscrizione nel registro delle imprese.
Ove invece si dovesse fare applicazione dell’art. 200 della legge fallimentare, almeno parte dei pagamenti sarebbero inefficaci, essendo successivi alla emissione del decreto che ordina la liquidazione. In particolare, viene richiamata l’operazione posta in essere in data 12-13 aprile 2010, nella quale la CRSM ha dirottato la somma di 57.580,27 euro da un conto corrente all’altro per rimborsarsi un finanziamento.
2.– È intervenuta in giudizio la Cassa di risparmio di S. Miniato spa (CRSM), convenuta nel giudizio a quo, la quale ha chiesto che venga accolta la questione di costituzionalità prospettata dal Tribunale di Pisa.
La parte privata, dopo aver sinteticamente dato conto delle pretese della COIMM, ha osservato come, a seguito della riforma del 2006, la sentenza di fallimento produce i suoi effetti nei confronti dei terzi solo a partire dal momento in cui è annotata nel registro delle imprese, salva la possibilità per il curatore di provarne la conoscenza da parte dei terzi stessi. Tale disposizione sarebbe intesa a dare rilevanza alla buona fede dei terzi evitando che essi possano subire conseguenze prima di aver avuto notizia legale dell’apertura della procedura concorsuale.
Un analogo regime non sarebbe previsto in relazione al decreto di liquidazione, circostanza, questa, che determinerebbe una irragionevole disparità di trattamento dei terzi di buona fede.
Nel caso di specie, infatti, i pagamenti di cui viene chiesta la restituzione, sarebbero stati effettuati dalla CRSM utilizzando le somme depositate su un conto corrente intestato alla COIMM e su disposizione del suo legale rappresentante, successivamente al provvedimento di liquidazione coatta, ma anteriormente alla sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. Pertanto, la CRSM sarebbe terzo di buona fede, non avendo avuto conoscenza del decreto di liquidazione, né essendo stato esso preceduto da alcuna sentenza attestante lo stato di insolvenza della stessa.
Da ciò emergerebbe la ingiustificata disparità di trattamento riservata dall’art. 200 della legge fallimentare ai terzi di buona fede nell’ambito della procedura di liquidazione coatta rispetto a quanto previsto nel fallimento. A sostegno della illegittimità costituzionale del citato art. 200 la parte privata richiama le argomentazioni svolte dal rimettente.
3.– È intervenuto in giudizio anche il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura dello Stato, il quale ha chiesto, innanzitutto che la questione sia dichiarata manifestamente inammissibile.
L’intervento richiesto dal rimettente alla Corte sarebbe, infatti, di tipo manipolativo in quanto ipotizza una pronuncia che innovi il regime temporale degli effetti del provvedimento che dispone la liquidazione e ne determini la produzione o dalla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale ovvero dalla iscrizione nel registro delle imprese. Tuttavia, presupposto delle pronunce additive è che la lacuna censurata non si presti ad una pluralità di soluzioni la cui scelta è riservata al legislatore. Nel caso in esame, l’art. 197 del r.d. n. 267 del 1942 stabilisce che il provvedimento debba essere pubblicato nella Gazzetta Ufficiale e, nel medesimo termine, iscritto nel registro delle imprese. È discusso tanto in dottrina che in giurisprudenza se la pubblicità di tale atto sia costituita unicamente dalla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, di tal che l’iscrizione nel registro delle imprese sarebbe un atto meramente esecutivo, ovvero se entrambi gli adempimenti concorrano a realizzare la conoscenza dell’atto. In tale contesto normativo spetterebbe alla discrezionalità del legislatore operare la scelta tra le possibili opzioni, e pertanto la pronuncia richiesta sarebbe inammissibile.
Nel merito, la questione sarebbe infondata.
Diverso sarebbe infatti il complessivo regime di pubblicità dei provvedimenti di apertura del fallimento da un lato, e di liquidazione coatta amministrativa dall’altro. Riguardo al primo, l’art. 16 della legge fallimentare, come modificato nel 2006, prevede l’annotazione della sentenza nel registro delle imprese entro il giorno successivo al deposito della stessa in cancelleria.
Nella liquidazione coatta, invece, l’art. 197 della legge fallimentare stabilisce che il provvedimento che ordina la liquidazione, entro 10 giorni dalla sua adozione, deve essere integralmente pubblicato nella Gazzetta Ufficiale e comunicato per l’iscrizione all’ufficio del registro delle imprese. Il diverso regime di pubblicità non renderebbe comparabili le situazioni poste a confronto dal rimettente. In particolare, con riguardo alla posizione dei terzi creditori dell’impresa in liquidazione coatta, nel caso in cui si facessero decorrere gli effetti del decreto dall’iscrizione nel registro delle imprese, essi sarebbero esposti al rischio di vedere riconosciuta l’efficacia di atti pregiudizievoli compiuti nel lasso temporale tra l’adozione del provvedimento di liquidazione e la sua pubblicazione. Tale lasso di tempo, a differenza di quanto avviene nel fallimento, non necessariamente è limitato ad un giorno.
In ogni caso, sostiene l’Avvocatura, le modifiche introdotte all’art. 16 della legge fallimentare non consentirebbero di per sé di superare le argomentazioni poste a fondamento della sentenza di questa Corte n. 337 del 1998, in particolare con riguardo all’ipotesi in cui il decreto di liquidazione sia emesso dopo la sentenza dichiarativa dello stato di insolvenza. In questo caso, infatti, i terzi potrebbero aver conoscenza, già prima del decreto, di tale sentenza.
La disposizione censurata non sarebbe, dunque, incongrua dal momento che – come già chiarito dalla Corte nella sentenza n. 337 del 1998 – è consentito al terzo di accedere agli atti dell’amministrazione come previsto dalla legge n. 241 del 1990.
4.– In prossimità dell’udienza, la CRSM ha depositato una memoria nella quale ha contestato le eccezioni sollevate dall’Avvocatura dello Stato.
In particolare, la Cassa di risparmio nega che il Tribunale abbia richiesto a questa Corte un intervento di tipo manipolativo. Il rimettente, infatti, avrebbe fatto riferimento alle forme di pubblicità previste dall’art. 197 della legge fallimentare per individuare il momento di decorrenza degli effetti del decreto di liquidazione nei confronti dei terzi di buona fede. Nel merito, il diverso trattamento riservato a costoro dalla censurata disciplina non troverebbe «alcun concreto fondamento normativo».
Considerato in diritto
1.– Il Tribunale ordinario di Pisa ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 200, comma 1, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), in combinato disposto con gli artt. 42 e 44 dello stesso decreto, nella parte in cui prevede che, per i terzi in buona fede, gli effetti della liquidazione coatta amministrativa si producano dalla data del provvedimento che ordina la liquidazione, anziché dalla data di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale o di iscrizione nel registro delle imprese del medesimo provvedimento. Sostiene il rimettente che, mentre nel caso di fallimento i terzi sono tutelati adeguatamente dal regime di pubblicità della sentenza di fallimento, nella liquidazione coatta la tutela sarebbe meno intensa, coincidendo «la conoscenza legale della procedura con la mera emissione del decreto».
La parte privata, Cassa di risparmio di S. Miniato è intervenuta in giudizio chiedendo l’accoglimento della questione di costituzionalità.
Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura dello Stato, intervenuto in giudizio, ha chiesto che la questione prospettata sia dichiarata inammissibile ovvero infondata.
2.– L’art. 200 della legge fallimentare disciplina gli effetti del provvedimento che dispone la procedura concorsuale di liquidazione coatta amministrativa richiamando talune delle disposizioni dettate per il fallimento, ed in particolare l’art. 42, in forza del quale la sentenza di fallimento determina il cosiddetto spossessamento del fallito che resta privo della amministrazione e della disponibilità dei suoi beni esistenti alla data di dichiarazione di fallimento. È richiamato inoltre l’art. 44 il quale prevede che «Tutti gli atti compiuti dal fallito e i pagamenti da lui eseguiti dopo la dichiarazione di fallimento sono inefficaci rispetto ai creditori» e che «Sono egualmente inefficaci i pagamenti ricevuti dal fallito dopo la sentenza dichiarativa di fallimento».
Tali effetti, nell’ambito della procedura di liquidazione coatta, si producono, in forza della previsione contenuta nell’art. 200 della legge fallimentare, «Dalla data del provvedimento che ordina la liquidazione». Dallo stesso momento, inoltre, «se l’impresa è una società o una persona giuridica cessano le funzioni delle assemblee e degli organi di amministrazione e di controllo, salvo per il caso previsto dall’art. 214».
Il Tribunale di Pisa lamenta che l’art. 200 della legge fallimentare, facendo decorrere gli effetti di cui agli artt. 42 e 44 della medesima legge dalla data del provvedimento di liquidazione, non assicurerebbe una adeguata tutela dei terzi di buona fede, in quanto farebbe coincidere la conoscenza legale della procedura con la «mera emissione del decreto» di liquidazione, e dunque con un momento addirittura anteriore a quello della sua stessa conoscibilità. Ciò determinerebbe una ingiustificata disparità di trattamento dei terzi di buona fede nell’ambito della liquidazione coatta rispetto ai terzi di buona fede nell’ambito della procedura fallimentare. Per costoro, infatti, l’art. 16 della legge fallimentare, a seguito delle modifiche introdotte dall’art. 14 del decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5 (Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali a norma dell’articolo 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005, n. 80), stabilisce che gli effetti della sentenza dichiarativa di fallimento si producono dalla data di iscrizione della sentenza stessa nel registro delle imprese.
3.– La questione è inammissibile sotto molteplici profili.
Il Tribunale ordinario di Pisa ha chiesto a questa Corte di dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 200 della legge fallimentare nella parte in cui prevede che nei confronti dei terzi di buona fede gli effetti della liquidazione coatta si producano dalla data del provvedimento che la ordina «anziché dalla data di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale o di iscrizione nel registro delle imprese».
Il rimettente, pur evocando quale parametro di riferimento della lamentata disparità di trattamento la disciplina dettata dall’art. 16 della legge fallimentare, nell’individuare l’intervento che egli ritiene idoneo a rimuovere il censurato vulnus della Costituzione, prospetta, oltre alla soluzione accolta dal citato art. 16 – il quale fa decorrere gli effetti della sentenza di fallimento dalla sua iscrizione nel registro delle imprese – anche un’ulteriore soluzione, indicando quale dies a quo degli effetti del provvedimento di liquidazione amministrativa la pubblicazione del provvedimento nella Gazzetta Ufficiale.
È ben vero che l’art. 197 della legge fallimentare prevede entrambe le forme di pubblicità disponendo che il provvedimento che ordina la liquidazione entro dieci giorni dalla sua data è pubblicato integralmente nella Gazzetta Ufficiale ed è comunicato per l’iscrizione all’ufficio del registro delle imprese.
Tuttavia il Tribunale ha chiesto a questa Corte di rimuovere l’illegittimità costituzionale della disposizione attraverso due distinte modalità di intervento sul testo della norma censurata senza optare per l’una ovvero per l’altra, ponendole entrambe sullo stesso piano e indicandole come alternative tra loro.
Così formulata, la questione risulta ancipite, in quanto proposta in termini di alternatività irrisolta e come tale essa è inammissibile dal momento che non compete a questa Corte di scegliere tra le due distinte soluzioni prospettate dal rimettente (ex plurimis, sentenze n. 198 del 2014 e n. 87 del 2013; ordinanza n. 176 del 2013).
4.– La questione risulta inammissibile anche sotto un ulteriore profilo. Come appare evidente già dalle modalità con cui è formulata la censura, il regime di pubblicità cui è sottoposto il provvedimento che ordina la liquidazione coatta consente di ipotizzare diverse soluzioni in ordine alla decorrenza dei suoi effetti rispetto ai terzi: oltre che dalla iscrizione nel registro delle imprese, come previsto dall’art. 16 della legge fallimentare, sarebbe possibile individuare il dies a quo degli effetti del decreto di liquidazione coatta dalla data della sua pubblicazione integrale nella Gazzetta Ufficiale, costituendo anch’essa una forma di pubblicità prevista dall’art. 197 della legge fallimentare.
Sarebbe altresì possibile prevedere che gli effetti si producano «Dalla data di insediamento degli organi liquidatori […] e comunque dal terzo giorno successivo alla data di adozione del provvedimento che dispone la liquidazione», in analogia a quanto previsto per il provvedimento di liquidazione coatta delle banche dall’art. 83 del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385 (Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia).
A fronte della pluralità di soluzioni ipotizzabili ed in concreto previste in ordine al regime temporale degli effetti del decreto di liquidazione, è agevole rilevare come alla prospettazione del giudice a quo potrebbero conseguire più soluzioni, tutte praticabili perché non costituzionalmente obbligate. L’intervento chiesto dal rimettente appare senz’altro creativo ed eccede pertanto i poteri di questa Corte implicando scelte affidate alle valutazioni del legislatore. Alla luce della costante giurisprudenza costituzionale, alla questione che invochi una pronuncia manipolativa non costituzionalmente obbligata in materia riservata alle scelte del legislatore, consegue necessariamente l’inammissibilità (sentenza n. 87 del 2013; ordinanze n. 176 e 156 del 2013).
5.– Vi è, infine, un ulteriore e assorbente profilo di inammissibilità della questione.
La censura prospettata dal rimettente attiene, come si è visto, al regime temporale degli effetti del provvedimento di liquidazione coatta rispetto ai terzi. Il Tribunale, nell’evocare l’art. 16 della legge fallimentare quale termine di raffronto del giudizio di uguaglianza, si è limitato ad affermare che la disciplina ivi contenuta sarebbe idonea a tutelare i terzi di buona fede. Tuttavia, egli non si è interrogato su una questione necessariamente connessa, cioè se un creditore dell’impresa – quale è nel caso oggetto del giudizio a quo la Cassa di risparmio di S. Miniato – il quale concorre con gli altri creditori della procedura e per il quale opera la previsione di inefficacia di cui all’art. 44 della legge fallimentare, possa considerarsi compreso tra i terzi cui si riferisce l’art. 16.
Al contempo, il rimettente non ha verificato se tra i terzi cui fa riferimento l’art. 16 debbano ritenersi compresi anche i creditori fallimentari, alla luce del dettato degli artt. 42 e 44 della legge fallimentare. Il d.lgs. n. 5 del 2006, infatti, nel modificare l’art. 16 differendo gli effetti della sentenza di fallimento nei confronti dei terzi al momento della sua iscrizione nel registro delle imprese, il legislatore ha tuttavia lasciato inalterato l’art. 42 il quale sancisce la indisponibilità del patrimonio del fallito che si produce automaticamente con la sentenza dichiarativa di fallimento e coinvolge tutti i rapporti giuridici che allo stesso fanno capo (ad eccezione di quelli «non compresi nel fallimento»: art. 46 della legge fallimentare). Neppure ha modificato l’art. 44 il quale stabilisce il corollario della inefficacia nei confronti dei creditori dei pagamenti effettuati e ricevuti dal fallito dopo la sentenza di fallimento, e la cui ratio è stata individuata da questa Corte nella esigenza di garantire una efficace e diretta tutela della massa dei creditori (sentenza n. 234 del 1998). In tale decisione si evidenzia infatti che «l’inopponibilità alla massa dei creditori dei pagamenti ricevuti dal fallito dopo la pubblicazione della sentenza dichiarativa di fallimento, diversamente dall’inefficacia conseguente all’utile esercizio dell’azione revocatoria fallimentare, si ricollega al principio generale secondo cui la dichiarazione di fallimento priva il fallito, dalla data di deposito della relativa sentenza, dei poteri di amministrazione e disposizione del suo patrimonio trasferendoli agli organi della procedura fallimentare. Principio finalizzato nella sua assolutezza ad una efficace e diretta tutela della massa dei creditori». E che «L’irrilevanza, agli effetti dell’inopponibilità alla massa dei creditori dei pagamenti ricevuti dal fallito, dello stato soggettivo di conoscenza del solvens, proprio in quanto necessario riflesso dell’assolutezza del suddetto principio, trova, dunque, giustificazione nell’esigenza di tutela della massa dei creditori».
In conclusione, il silenzio serbato dall’ordinanza di rimessione su questi rilevanti aspetti problematici dell’art. 16 si riverbera in un difetto di motivazione sulla rilevanza della questione, che costituisce ulteriore motivo di inammissibilità, dal momento che, nel caso di specie, l’oggetto del giudizio a quo è costituito proprio dal pagamento effettuato a un creditore dell’impresa sottoposta a liquidazione coatta.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 200, comma 1, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), in combinato disposto con gli artt. 42 e 44 dello stesso regio decreto, sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Pisa con l’ordinanza indica in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 ottobre 2014.
F.to:
Giuseppe TESAURO, Presidente
Paolo Maria NAPOLITANO, Redattore
Massimiliano BONI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 31 ottobre 2014.