SENTENZA N. 131
ANNO 2013
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Franco GALLO Presidente
- Luigi MAZZELLA Giudice
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo Maria NAPOLITANO "
- Giuseppe FRIGO "
- Alessandro CRISCUOLO "
- Paolo GROSSI "
- Giorgio LATTANZI "
- Aldo CAROSI "
- Marta CARTABIA "
- Sergio MATTARELLA "
- Mario Rosario MORELLI "
- Giancarlo CORAGGIO "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 46 della legge della Regione Calabria 4 febbraio 2002, n. 8 (Ordinamento del bilancio e della contabilità della Regione Calabria), promosso dal Tribunale ordinario di Catanzaro nel giudizio vertente tra la Regione Calabria ed altro e la Publiday s.a.s. di I.A. & C., con ordinanza del 22 novembre 2010, iscritta al n. 275 del registro ordinanze 2012 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 49, prima serie speciale, dell’anno 2012.
Udito nella camera di consiglio del 24 aprile 2013 il Giudice relatore Alessandro Criscuolo.
1.— Il Tribunale ordinario di Catanzaro, in composizione monocratica, con l’ordinanza indicata in epigrafe, ha sollevato, in riferimento all’articolo 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 46 della legge della Regione Calabria 4 febbraio 2002, n. 8 (Ordinamento del bilancio e della contabilità della Regione Calabria).
In punto di fatto, il rimettente premette che: a) con atto pubblico del 24 luglio 2007, M.F.G., quale titolare della omonima impresa individuale, cedeva alla Publiday s.a.s. di I.A. & C. il credito di euro 69.211,92 vantato nei confronti della Regione Calabria, in corrispettivo di lavori di somma urgenza eseguiti per conto di tale ente ed in relazione ai quali era stato emesso certificato di regolare esecuzione; b) l’atto di cessione era notificato all’amministrazione regionale, dipartimento lavori pubblici, in data 8 agosto 2007; c) in difetto di pagamento, la società cessionaria richiedeva la pronuncia di decreto ingiuntivo, emesso il 10 luglio 2008; d) la Regione Calabria proponeva opposizione, eccependo, in via preliminare, l’inefficacia della cessione di credito non accettata dalla amministrazione regionale; e) la società creditrice si costituiva nel giudizio di opposizione, insistendo nella domanda proposta in via monitoria e chiedendo di essere autorizzata a chiamare in causa il sig. V.A., responsabile dei procedimenti amministrativi dai quali era sorto il credito poi cedutole, affinché, in via subordinata, fosse accertata la validità del rapporto contrattuale intercorso tra la ditta M.F.G. ed il sig. V.A., e quest’ultimo fosse condannato al pagamento integrale del debito nascente dalle fatture di cui agli ordinativi oggetto della controversia; f) autorizzata la chiamata in causa del terzo, quest’ultimo si costituiva eccependo, tra l’altro, l’inefficacia della cessione di credito; g) autorizzato lo scambio di memorie ai sensi dell’art. 183 del codice di procedura civile, all’udienza dell’8 luglio 2010 era sollecitato il contraddittorio tra le parti sulla possibile esistenza di dubbi di legittimità costituzionale dell’art. 46 della legge della Regione Calabria n. 8 del 2002, autorizzando lo scambio, sul punto, di ulteriori memorie difensive.
Il giudice a quo trascrive il testo dell’art. 46 della legge ora citata, ai sensi del quale: «Le cessioni di credito hanno effetto nei confronti della Regione qualora siano alla stessa notificate presso la sede legale ed accettate con provvedimento del dirigente della struttura regionale competente, prima della liquidazione della correlata spesa».
Il rimettente rileva che dalla citata norma risulta come non abbiano effetto nei confronti della Regione Calabria le cessioni di credito che non siano state accettate, prima della liquidazione della spesa, dal dirigente della struttura regionale competente.
In punto di rilevanza, il giudicante osserva che occorre fare applicazione del detto art. 46, al fine di risolvere la questione preliminare di merito relativa all’efficacia, nei confronti dell’amministrazione pubblica regionale, della cessione del credito verso la Regione Calabria, intervenuta tra M.F.G. e la Publiday s.a.s. di I.A. & C.
Preliminarmente, il giudice a quo rileva che il giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, di cui è investito, non è improcedibile, benché la causa sia stata iscritta a ruolo il settimo giorno dalla notificazione del relativo atto. Sul punto, afferma di non condividere il mutato orientamento di cui alla sentenza della Corte di cassazione, resa a sezioni unite, il 9 settembre 2010, n. 19246, in tema di improcedibilità dell’opposizione a decreto ingiuntivo per costituzione dell’opponente oltre il quinto giorno dalla notificazione ed afferma di condividere il consolidato orientamento giurisprudenziale precedente, secondo il quale il termine di iscrizione della causa a ruolo, nell’ipotesi di concessione all’opposto di termini a comparire non inferiori a quelli ordinari, era di dieci giorni.
Il rimettente, al fine di verificare come la norma censurata incida sulla risoluzione della questione di merito, ricostruisce la disciplina in materia di opponibilità della cessione dei crediti, con particolare riferimento ai crediti vantati nei confronti dell’amministrazione pubblica.
Egli richiama la regula iuris di carattere generale di cui all’art. 1260 del codice civile, ai sensi del quale «Il creditore può trasferire a titolo oneroso o gratuito il suo credito, anche senza il consenso del debitore, purché il credito non abbia carattere strettamente personale o il trasferimento non sia vietato dalla legge».
Aggiunge che, in base all’art. 1264 cod. civ., la cessione ha effetto nei confronti del debitore ceduto quando questi l’abbia accettata o, in alternativa, quando gli sia stata notificata, fermo restando che il debitore il quale paga al cedente prima della notificazione o dell’accettazione non è liberato dal debito, se si dia dimostrazione che era a conoscenza dell’avvenuta cessione.
Il giudicante sottolinea come, al momento dell’emanazione del codice civile, era presente nell’ordinamento una specifica disciplina in ordine alla cessione dei crediti vantati nei confronti delle amministrazioni pubbliche.
L’art. 9, allegato E, della legge 20 marzo 1865, n. 2248 (Legge sul contenzioso amministrativo-Allegato E) e successive modificazioni, stabiliva, in materia di contratti pubblici, che «Sul prezzo dei contratti in corso non potrà avere effetto alcun sequestro, né convenirsi cessione, se non vi aderisca l’amministrazione interessata».
L’art. 339, allegato F, della legge 20 marzo 1865, n. 2248 (Legge sui lavori pubblici-Allegato F) – abrogato dal decreto del Presidente della Repubblica 21 dicembre 1999, n. 554 (Regolamento di attuazione della legge 11 febbraio 1994, n. 109-legge quadro in materia di lavori pubblici e successive modificazioni) – sanciva: «È vietata qualunque cessione di credito e qualunque procura, le quali non siano riconosciute».
Il giudice a quo evidenzia come una più generale disciplina della cessione dei crediti vantati nei confronti delle amministrazioni pubbliche fosse contenuta nel regio decreto 18 novembre 1923, n. 2440 (Nuove disposizioni sull’amministrazione del patrimonio e sulla contabilità generale dello Stato), di cui richiama gli artt. 69 e 70.
Il Tribunale sottolinea come, in questo contesto normativo, sorgesse, in primo luogo, la questione se la disposizione originaria dell’art. 9, allegato E, della legge n. 2248 del 1865, concernente tutti i contratti, fosse stata confermata da quella successiva dell’art. 70 r.d. n. 2440 del 1923, oppure se il legislatore avesse così inteso restringere la portata della prima, limitando la necessità dell’adesione dell’amministrazione pubblica soltanto per determinati crediti, cioè per quelli derivanti dall’esecuzione di contratti di somministrazione, di appalto o di fornitura.
Il rimettente prosegue esponendo che quest’ultima tesi è stata ritenuta preferibile dalla Corte di cassazione, sezione terza civile, con la sentenza 28 gennaio 2002, n. 981, in forza del principio di cui all’art. 14 delle disposizioni sulla legge in generale, essenzialmente in base al rilievo che la disciplina speciale in questione deroga a quella ordinaria, secondo la quale la cessione ha effetto nei confronti del debitore ceduto in conseguenza della semplice accettazione o notificazione.
La Corte suddetta, inoltre, ha ritenuto tale soluzione conforme al principio per cui, nei rapporti nei quali lo Stato agisce iure privatorum, le disposizioni che definiscono l’area di incidenza dei privilegi della pubblica amministrazione, comportanti una restrizione dell’autonomia negoziale dei privati, devono essere interpretate in senso restrittivo, in linea con il precetto di cui all’art. 41, primo comma, Cost.
Ciò ha comportato, ad avviso della Corte di cassazione, l’abrogazione del citato art. 9, ai sensi dell’art. 15 delle disposizioni sulla legge in generale, per tutti i casi in cui non è espressamente richiamato dall’art. 70 del r.d. n. 2440 del 1923.
Il rimettente sottolinea come, alla stregua di quanto esposto, il divieto di cessione senza l’adesione della pubblica amministrazione si applicasse, in definitiva, solo ai rapporti di durata come l’appalto e la somministrazione (o la fornitura), rispetto ai quali il legislatore aveva ravvisato, in deroga al principio generale della cedibilità dei crediti anche senza il consenso del debitore (art. 1260 cod. civ.), l’esigenza di garantire con questo mezzo la regolare esecuzione, evitando che, durante la medesima, potessero venire meno le risorse finanziarie al soggetto obbligato e, così, potesse essere compromessa l’ulteriore regolare prosecuzione del rapporto (Cassazione, sezione prima civile, sentenza 18 novembre 1994, n. 9789).
Il giudice a quo evidenzia come, secondo la giurisprudenza di legittimità (Cassazione, sezione terza civile, sentenza 21 settembre 2005, n. 18610), la disciplina sopra richiamata trovasse applicazione non solo nei confronti delle amministrazioni dello Stato, ma anche degli altri enti pubblici, in tal senso deponendo sia la portata generale di tali disposizioni – confermata dal riferimento delle predette leggi anche ai beni ed alle attività di enti diversi dallo Stato, nonché dalle norme secondarie che le estendevano ai Comuni ed alle Province – sia il comune scopo delle norme in questione, consistente nel garantire la regolare esecuzione dei contratti di durata in esse considerati, impedendo che, nel corso degli stessi, l’appaltatore potesse privarsi dei mezzi finanziari erogatigli dalla pubblica amministrazione secondo lo stato di avanzamento dei lavori e lo sviluppo delle forniture.
Il rimettente richiama, altresì, l’orientamento giurisprudenziale (Cassazione, sezione prima civile, sentenza 8 maggio 2008, n. 11475; sezione terza civile, sentenza 6 febbraio 2007, n. 2541) secondo cui la deroga al principio della libera cedibilità dei crediti, essendo intesa ad evitare che, durante l’esecuzione del contratto, potessero venire a mancare i mezzi finanziari al soggetto obbligato alla prestazione in favore della pubblica amministrazione, cessava alla conclusione del rapporto contrattuale – come si desumeva dall’inciso «contratti in corso» – con la conseguenza che risultavano opponibili all’amministrazione le cessioni di credito fatte valere e realizzate senza la preventiva adesione, purché intervenute dopo la conclusione del rapporto.
Peraltro, ad avviso della giurisprudenza di legittimità, in tema di appalto di opere pubbliche il contratto cessa di essere considerato in corso soltanto a seguito dell’espletamento e dell’approvazione del collaudo da parte della pubblica amministrazione, costituendo tale approvazione lo strumento legale con il quale le conclusioni dell’appaltatore sono accettate dalla amministrazione con conseguente obbligo della medesima di liquidare il corrispettivo sulla base dell’importo determinato in quella sede. Solo in tale momento può ritenersi esaurito il rapporto contrattuale e superata la ragione della deroga.
Il Tribunale rileva come, in questo contesto normativo, sia stato introdotto l’art. 26, comma 5, della legge 11 febbraio 1994, n. 109 (Legge quadro in materia di lavori pubblici), ai sensi del quale «Le disposizioni di cui alla legge 21 febbraio 1991, n. 52 , sono estese ai crediti verso le pubbliche amministrazioni derivanti da contratti di appalto di lavori pubblici, di concessione di lavori pubblici e da contratti di progettazione nell’ambito della realizzazione di lavori pubblici».
Il decreto del Presidente della Repubblica 21 dicembre 1999, n. 554 (Regolamento di attuazione della legge quadro in materia di lavori pubblici 11 febbraio 1994, n. 109 e successive modificazioni) disponeva: «Ai sensi dell’articolo 26, comma 5, della legge, le cessioni di crediti vantati nei confronti delle amministrazioni pubbliche a titolo di corrispettivo di appalto possono essere effettuate dagli appaltatori a banche o intermediari finanziari disciplinati dalle leggi in materia bancaria e creditizia, il cui oggetto sociale preveda l’esercizio dell’attività di acquisto di crediti di impresa.
La cessione deve essere stipulata mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata e deve essere notificata all’amministrazione debitrice.
La cessione del credito da corrispettivo di appalto è efficace ed opponibile alla pubblica amministrazione qualora questa non la rifiuti con comunicazione da notificarsi al cedente ed al cessionario entro quindici giorni dalla notifica di cui al comma 2.
L’amministrazione pubblica, al momento della stipula del contratto o contestualmente, può preventivamente riconoscere la cessione da parte dell'appaltatore di tutti o di parte dei crediti che devono venire a maturazione.
In ogni caso, l’amministrazione ceduta può opporre al cessionario tutte le eccezioni opponibili al cedente in base al contratto di appalto».
Il giudice a quo rileva come la disciplina risultante dalla legge e dal regolamento sia stata sostanzialmente integrata nel decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE), peraltro ritenuto non applicabile al caso di specie in quanto successivo all’avvenuta cessione di credito.
Il Tribunale sottolinea che la giurisprudenza di legittimità, coordinando l’innovativa disciplina dettata a partire dal 1994 in materia di appalti pubblici con quella già in vigore, ha concluso nel senso che l’estensione ai crediti vantati nei confronti delle pubbliche amministrazioni (derivanti da contratti di appalto di lavori pubblici) delle previsioni della legge 21 febbraio 1991, n. 52 (Disciplina della cessione dei crediti di impresa), derogatorie rispetto alla disciplina comune prevista dal codice civile ed applicabili a condizione che il cessionario sia una banca o un intermediario finanziario, non avrebbe significato l’abrogazione delle norme speciali che regolavano in precedenza la cessione dei crediti nei confronti della pubblica amministrazione. Pertanto, continuerebbe ad essere applicabile la normativa speciale di cui all’art. 9, allegato E, della legge n. 2248 del 1865, nonché, trattandosi di contratto della pubblica amministrazione, quella di cui agli artt. 69 e 70 del r.d. n. 2440 del 1923 (Cassazione, sezione prima civile, sentenza 24 settembre 2007, n. 19571).
Il giudice a quo, schematizzando quanto sopra enunciato, precisa che, in ragione delle norme di diritto privato speciale applicabili all’amministrazione pubblica, si possono avere le seguenti ipotesi: 1) cessione a soggetto non qualificato, ai sensi della legge n. 52 del 1991, di crediti vantati nei confronti della pubblica amministrazione, derivanti da contratti non relativi a “somministrazioni, forniture ed appalti” ovvero, pur rientranti in tale categoria, non più in corso di esecuzione: la cessione, ai sensi dell’art. 69 del r.d. n. 2440 del 1923, ha efficacia quando, redatta in forma solenne, è notificata all’amministrazione centrale ovvero all’ente, ufficio o funzionario cui spetta ordinare il pagamento; 2) cessione a soggetto non qualificato, ai sensi della legge n. 52 del 1991, di crediti vantati nei confronti della pubblica amministrazione derivanti da contratti relativi a “somministrazioni, forniture ed appalti” ancora in corso di esecuzione: la cessione, ai sensi dell’art. 70 del r.d. n. 2240 del 1923 e dell’art. 9, allegato E della legge n. 2248 del 1865, ha efficacia solo a seguito dell’accettazione da parte dell’amministrazione pubblica; 3) cessione a soggetto qualificato, ai sensi della legge n. 52 del 1991, di crediti vantati nei confronti della pubblica amministrazione derivanti da contratti di servizi, forniture e lavori: la cessione, ai sensi dell’art. 117 del d.lgs. n. 163 del 2006, ha efficacia se è stata preventivamente accettata dall’amministrazione nel contratto di appalto o in altro atto separato e contestuale ovvero, se stipulata in forma solenne e notificata all’amministrazione, non sia da questa rifiutata nel termine normativamente previsto; 4) cessione a soggetto qualificato, ai sensi della legge n. 52 del 1991, di crediti vantati nei confronti della pubblica amministrazione non derivanti da contratti di servizi, forniture e lavori: è applicabile la disciplina di cui all’art. 69 del r.d. n. 2240 del 1923, per cui la cessione redatta in forma solenne deve essere semplicemente notificata all’amministrazione.
Il rimettente osserva che la norma regionale censurata deroga al complesso normativo delineato, “appiattendo” l’articolata regolamentazione di diritto privato speciale. Infatti, ai sensi della detta norma, le cessioni dei crediti, qualunque sia la loro origine, in ogni tempo ed indipendentemente dalla natura del cessionario, non risultano opponibili all’amministrazione regionale se non accettate da questa per il tramite del dirigente del competente settore e sempre che la spesa non sia stata già liquidata.
Il Tribunale ritiene rilevante la questione, dato che, nella fattispecie concreta devoluta alla sua cognizione, la cessione del credito a soggetto non qualificato, ai sensi della legge n. 52 del 1991, in mancanza della censurata norma regionale derogatoria, sarebbe stata certamente opponibile alla Regione Calabria, in quanto – pur essendo il credito relativo ad opere pubbliche – i sottostanti rapporti negoziali erano esauriti al momento della cessione, peraltro regolarmente notificata all’amministrazione regionale.
In punto di non manifesta infondatezza, il giudice a quo dubita della legittimità costituzionale dell’art. 46 della legge della Regione Calabria n. 8 del 2002, in riferimento all’evocato parametro costituzionale.
Il rimettente richiama una serie di pronunce della Corte costituzionale, nelle quali si è precisato che è sottratta alla potestà legislativa regionale l’emanazione di norme di diritto privato (così intendendosi le norme oggetto di codificazione, ma anche le norme extravagantes regolanti i rapporti tra le parti che si pongano su un piano paritario) e, in particolare, di regole inerenti alla disciplina dei contratti, delle obbligazioni, della proprietà intellettuale e delle garanzie patrimoniali.
Alla luce di tale giurisprudenza, il giudicante sottolinea come il censurato art. 46 della legge della Regione Calabria n. 8 del 2002 – al contrario di quanto sostenuto, nel giudizio a quo, dalla difesa regionale – pone una regola che non si riferisce alla materia dell’ordinamento contabile della Regione, ovvero alla «gestione finanziaria ed economica della Regione» (art. 1, comma 2, della medesima legge regionale n. 8 del 2002), ma incide direttamente sull’efficacia della cessione dei crediti verso l’amministrazione ed è, pertanto, volta a disciplinare i rapporti privatistici.
Il rimettente esclude che, attraverso un’interpretazione adeguatrice e costituzionalmente orientata, la norma censurata possa essere diversamente intesa, attribuendole un significato tale che essa non vada ad esplicare effetti sull’ordinamento civile, ma su ambiti diversi.
Infine, il giudice a quo sottolinea la legittimazione del giudice comune a sollevare la questione di legittimità costituzionale anche in relazione al parametro costituzionale che disciplina il riparto delle competenze legislative tra Stato e Regioni, benché il Governo non abbia proposto detta questione in via principale, ai sensi dell’art. 127, primo comma, Cost. (sul punto, è richiamata la sentenza n. 370 del 2008).
1.— Il Tribunale ordinario di Catanzaro, in composizione monocratica, con l’ordinanza indicata in epigrafe, dubita, in riferimento all’articolo 117, secondo comma, lettera l) della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’articolo 46 della legge della Regione Calabria 4 febbraio 2002, n. 8 (Ordinamento del bilancio e della contabilità della Regione Calabria), il quale disciplina le cessioni di credito.
Ad avviso del rimettente, detta disposizione violerebbe l’evocato parametro, nella materia dell’ordinamento civile, riservata alla competenza legislativa esclusiva dello Stato.
Infatti – premesso che è sottratta alla potestà legislativa regionale la emanazione di norme di diritto privato e, in particolare, di regole inerenti alla disciplina dei contratti, delle obbligazioni e delle garanzie patrimoniali – la disposizione censurata, nel disporre che non hanno effetto nei confronti della Regione Calabria le cessioni di credito che non siano accettate, prima della liquidazione della correlata spesa, dal dirigente della struttura regionale competente, verrebbe ad incidere in via diretta, “appiattendo” l’articolata regolamentazione del cosiddetto diritto privato speciale, sull’efficacia della cessione dei crediti vantati nei confronti della pubblica amministrazione e, pertanto, sulla disciplina dei rapporti privatistici, sottratti alla potestà legislativa regionale.
2.— In via preliminare, si deve osservare che, come il rimettente rileva, la causa di opposizione a decreto ingiuntivo è stata iscritta a ruolo sette giorni dopo la notificazione del relativo atto. Il Tribunale, però, «ritiene che essa non sia improcedibile (secondo quanto invece ritenuto in un obiter dictum da Cassazione civile, sezioni unite, 9 settembre 2010, n. 19246), nel qual caso si porrebbe nell’oblio dell’irrilevanza la questione che quivi si solleva. Infatti, la posizione della Suprema Corte – non vincolante – non appare condivisibile [in tal senso, nella giurisprudenza di questa Autorità giudiziaria: Tribunale di Catanzaro, sezione seconda civile, ordinanza del 4 novembre 2010 (…)] e, comunque, tale da non comportare un giudizio di tardività della costituzione della parte opponente che confidava sul precedente, costante orientamento giurisprudenziale per il quale il termine di iscrizione a ruolo, nell’ipotesi di concessione all’opposto di termini a comparire non inferiori a quelli ordinari, era di dieci giorni (sull’overruling della giurisprudenza di legittimità e sulla non imputabilità degli errori di diritto commessi sulla base dell’orientamento smentito cfr. Cass. civ., Sez. II, 17 giugno 2010 n. 14627)».
Al riguardo, va rilevato che, in epoca successiva all’ordinanza di rimessione, è entrata in vigore, in data 20 gennaio 2012, la legge 29 dicembre 2011, n. 218 (Modifica dell’articolo 645 e interpretazione autentica dell’articolo 165 del codice di procedura civile in materia di opposizione a decreto ingiuntivo). In particolare, l’art. 1 della citata legge, intitolato «Modifica all’articolo 645 del codice di procedura civile», ha disposto la soppressione nel secondo comma di detta norma delle parole «ma i termini di comparizione sono ridotti a metà». Inoltre, l’art. 2 della legge medesima, recante «Disposizione transitoria», ha previsto che «Nei procedimenti pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge, l’art. 165, primo comma, del codice di procedura civile si interpreta nel senso che la riduzione del termine di costituzione dell’attore ivi prevista si applica, nel caso di opposizione a decreto ingiuntivo, solo se l’opponente abbia assegnato all’opposto un termine di comparizione inferiore a quello di cui all’articolo 163-bis, primo comma, del medesimo codice».
Nel caso in esame, il giudizio a quo era certamente pendente alla data di entrata in vigore della citata legge, mentre, come si desume dall’ordinanza di rimessione, all’opposto erano stati concessi termini a comparire non inferiori a quelli ordinari. Ne deriva che al detto giudizio è applicabile la normativa sopravvenuta, sicché il profilo messo in luce dal rimettente non ha più ragion d’essere.
3.— Nel merito, la questione è fondata.
La disposizione censurata, sotto la rubrica «Cessioni di credito», stabilisce che: «Le cessioni di credito hanno effetto nei confronti della Regione qualora siano alla stessa notificate presso la sede legale ed accettate con provvedimento del dirigente della struttura regionale competente, prima della liquidazione della correlata spesa».
Al riguardo, si deve osservare che la cessione dei crediti è un istituto proprio del diritto civile e trova la sua prima fonte di disciplina nel relativo codice (artt. da 1260 a 1267). Essa rientra nel novero delle modificazioni soggettive del rapporto obbligatorio dal lato attivo e risponde all’esigenza di regolare le fattispecie nelle quali si debba trasferire non una cosa ma un diritto di credito. Dalla stessa esigenza è nata la possibilità di incorporare il credito in un documento, attuando la cessione con la semplice dazione del documento stesso: è il caso dei titoli di credito e, segnatamente, della cambiale.
In particolare, l’art. 1260, primo comma, cod. civ., dispone che «Il creditore può trasferire a titolo oneroso o gratuito il suo credito, anche senza il consenso del debitore, purché il credito non abbia carattere strettamente personale o il trasferimento non sia vietato dalla legge». L’art. 1264, primo comma, cod. civ. stabilisce che «La cessione ha effetto nei confronti del debitore ceduto quando questi l’ha accettata o quando gli è stata notificata».
A fianco della citata disciplina generale del codice, l’ordinamento civile prevede varie normative speciali, dirette a regolare determinate categorie di crediti. Si possono ricordare, oltre al settore dei titoli di credito cui dianzi si è fatto cenno, i crediti d’impresa per i quali la cessione è disciplinata dalla legge 21 febbraio 1991, n. 52 (Disciplina della cessione dei crediti di impresa), le cui disposizioni sono richiamate dall’art. 117 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE) e l’articolata regolamentazione statale della cessione dei crediti vantati nei confronti della pubblica amministrazione (richiamata nell’ordinanza di rimessione e in narrativa).
Con riferimento a tale ultima categoria di crediti, si deve sottolineare che le loro caratteristiche peculiari non giovano a sottrarli alla materia dell’ordinamento civile. Tali caratteristiche, infatti, attengono alla necessità di particolari requisiti di forma, oppure a talune deroghe alla disciplina stabilita dalle norme del codice civile, ma non incidono sullo schema legale della cessione e, soprattutto, non fanno venir meno la natura negoziale di essa.
Orbene, questa Corte ha più volte affermato che l’ordinamento del diritto privato si pone quale limite alla legislazione regionale, in quanto fondato sull’esigenza, sottesa al principio costituzionale di eguaglianza, di garantire sul territorio nazionale l’uniformità della disciplina dettata per i rapporti tra privati. Il limite dell’ordinamento civile, quindi, identifica un’area riservata alla competenza esclusiva della legislazione statale e comprende i rapporti tradizionalmente oggetto di codificazione (ex plurimis: sentenze n. 123 del 2010, n. 295 e n. 160 del 2009, n. 326 e n. 51 del 2008).
La disposizione censurata, introducendo – per le cessioni di credito vantate nei confronti della Regione Calabria – una apposita disciplina, supera il suddetto limite dell’ordinamento civile e, quindi, viola l’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost.
Di essa, pertanto, va dichiarata l’illegittimità costituzionale.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 46 della legge della Regione Calabria 4 febbraio 2002, n. 8 (Ordinamento del bilancio e della contabilità della Regione Calabria).
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 giugno 2013.
F.to:
Franco GALLO, Presidente
Alessandro CRISCUOLO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 7 giugno 2013.