ORDINANZA N. 64
ANNO 2011
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Ugo DE SIERVO Presidente
- Paolo MADDALENA Giudice
- Alfio FINOCCHIARO ”
- Alfonso QUARANTA ”
- Franco GALLO ”
- Luigi MAZZELLA ”
- Gaetano SILVESTRI ”
- Sabino CASSESE ”
- Giuseppe TESAURO ”
- Paolo Maria NAPOLITANO ”
- Giuseppe FRIGO ”
- Alessandro CRISCUOLO ”
- Paolo GROSSI ”
- Giorgio LATTANZI ”
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 10-bis e 16, comma 1, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero) e dell’art. 62-bis del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468), promossi dal Giudice di pace di Lecco, sezione distaccata di Missaglia, con ordinanza del 26 novembre 2009, dal Giudice di pace di Pordenone con tredici ordinanze dell’8 ottobre 2009 e dal Giudice di pace di Taranto con ordinanze del 24 dicembre 2009 e del 5 febbraio 2010, rispettivamente iscritte ai nn. 79, da 82 a 94, 97 e 166 del registro ordinanze 2010 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 12, 13, 14 e 23, prima serie speciale, dell’anno 2010.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 26 gennaio 2011 il Giudice relatore Giuseppe Frigo.
Ritenuto che, con ordinanza del 26 novembre 2009 (r.o. n. 79 del 2010), il Giudice di pace di Lecco, sezione distaccata di Missaglia, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 10-bis del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), aggiunto dall’art. 1, comma 16, lettera a), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), il quale punisce con l’ammenda da 5.000 a 10.000 euro, «salvo che il fatto costituisca più grave reato, lo straniero che fa ingresso ovvero si trattiene nel territorio dello Stato, in violazione delle disposizioni del [citato] testo unico nonché di quelle di cui all’articolo 1 della legge 28 maggio 2007, n. 68» (Disciplina dei soggiorni di breve durata degli stranieri per visite, affari, turismo e studio);
che il giudice a quo premette di essere investito del processo penale nei confronti di un cittadino georgiano, imputato dalla contravvenzione prevista dalla norma denunciata, il quale, a seguito di controllo effettuato il 16 agosto 2009, era risultato sprovvisto del permesso di soggiorno, donde l’addebito di essersi trattenuto illegalmente nel territorio dello Stato;
che, ad avviso del rimettente, l’art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998 si porrebbe in contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost. sotto due distinti profili;
che la nuova norma incriminatrice sarebbe censurabile, anzitutto, nella parte in cui non reca la formula «senza giustificato motivo», rendendo così punibili anche condotte di illecito trattenimento non «rimproverabili» all’agente per valide ragioni oggettive o soggettive;
che, in tal modo, la previsione sanzionatoria si porrebbe in contrasto tanto con i principi di colpevolezza e di proporzionalità, quanto con il principio di eguaglianza, per irrazionale disparità di trattamento rispetto all’analoga fattispecie criminosa dell’inottemperanza all’ordine di allontanamento dal territorio dello Stato impartito dal questore, di cui all’art. 14, comma 5-ter, del d.lgs. n. 286 del 1998: disposizione nella quale l’inciso «senza giustificato motivo» viceversa compare;
che, nel caso di specie, l’omissione censurata avrebbe impedito alla difesa dell’imputato di fornire la prova – in quanto allo stato non rilevante – della circostanza che, dopo l’8 agosto 2009 (data di entrata in vigore della legge n. 94 del 2009), sarebbe stato impossibile o quantomeno difficoltoso, per l’imputato, lasciare il territorio dello Stato prima di divenire destinatario del provvedimento di espulsione;
che la norma denunciata violerebbe gli artt. 3 e 27 Cost. anche nella parte in cui prevede che il giudice debba pronunciare sentenza di non luogo a procedere nel caso di avvenuta espulsione dell’autore del fatto, o di suo respingimento alla frontiera ai sensi dell’art. 10, comma 2, del d.lgs. n. 286 del 1998;
che, a fronte di tale previsione, l’applicazione della sanzione penale finirebbe, infatti, per dipendere dalla circostanza, del tutto indipendente dalla volontà dello straniero, che l’autorità amministrativa non riesca – anche per ragioni inerenti a proprie scelte organizzative – a eseguire l’espulsione o il respingimento prima della condanna;
che nel giudizio di costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che la prima censura sia dichiarata infondata e la seconda inammissibile per difetto di rilevanza;
che l’art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998 è sottoposto a scrutinio di costituzionalità, in riferimento agli artt. 3, 24, 25, 27 e 97 Cost., anche dal Giudice di pace di Pordenone, con tredici ordinanze, di analogo tenore, emesse l’8 ottobre 2009 (r.o. n. 82, n. 83, n. 84, n. 85, n. 86, n. 87, n. 88, n. 89, n. 90, n. 91, n. 92, n. 93 e n. 94 del 2010), nell’ambito di altrettanti processi penali nei confronti di cittadini extracomunitari imputati della contravvenzione prevista dalla norma censurata, perché si trattenevano nel territorio dello Stato in violazione delle disposizioni di cui al citato d.lgs. n. 286 del 1998;
che, secondo il rimettente, la norma censurata si porrebbe in contrasto con il principio di necessaria offensività del reato, violando conseguentemente gli artt. 3, 24, 25 e 27 Cost.: ciò, in quanto il mancato possesso di un titolo abilitativo alla permanenza nello Stato, che essa reprime, non potrebbe considerarsi, di per sé, sintomatico di una particolare pericolosità sociale dello straniero, né la mera condizione di «irregolarità» sarebbe «idonea a porre seriamente in pericolo la sicurezza pubblica»;
che verrebbe leso, inoltre, il principio di irretroattività della norma incriminatrice (art. 25, secondo comma, Cost.), giacché il denunciato art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998 – nel reprimere, accanto alla condotta di ingresso irregolare, anche quella di illecito trattenimento nel territorio dello Stato – sottoporrebbe a pena anche condotte poste in essere prima dell’entrata in vigore della legge n. 94 del 2009;
che risulterebbero violati, ancora, i principi di eguaglianza e di ragionevolezza (art. 3 Cost.), stante la mancata previsione della non configurabilità del reato in presenza di un «giustificato motivo»: previsione che si rinviene, invece, nell’art. 14, comma 5-ter, del d.lgs. n. 286 del 1998, in rapporto alla più grave ipotesi delittuosa ivi delineata;
che irrazionale, e dunque lesiva l’art. 3 Cost., sarebbe anche la negazione agli imputati della contravvenzione in esame – benché punita con la sola ammenda – della possibilità di fruire dell’oblazione (art. 10-bis, comma 1, secondo periodo, del d.lgs. n. 286 del 1998);
che, sotto diverso profilo, la circostanza che il campo applicativo della nuova figura di reato si sovrapponga integralmente a quello del preesistente istituto dell’espulsione amministrativa renderebbe palese l’«assoluta irragionevolezza» dell’incriminazione e la sua incompatibilità con il principio di «proporzionalità», a fronte del quale la sanzione penale dovrebbe essere utilizzata solo in mancanza di altri strumenti idonei al raggiungimento dello scopo;
che la nuova incriminazione si porrebbe, da ultimo, in contrasto col principio di buon andamento dei pubblici uffici (art. 97 Cost.), venendo a gravare gli uffici giudiziari di un pesante carico di lavoro senza alcuna utilità concreta;
che la prevista pronuncia di una sentenza di non luogo a procedere nel caso di avvenuta espulsione dello straniero, salva l’applicazione dell’art. 345 cod. proc. pen. nel caso di rientro illegale in Italia prima della scadenza del divieto di reingresso, rischierebbe, infatti, di innescare una sequenza, potenzialmente infinita, di processi per il medesimo fatto conclusi con sentenze di proscioglimento poi revocate;
che, d’altro canto, nel caso di condanna, l’applicabilità allo straniero dell’espulsione come sanzione sostitutiva (art. 16, comma 1, del d.lgs. n. 286 del 1998) farebbe sì che dalla celebrazione del processo penale non derivi alcun risultato utile, ulteriore e diverso rispetto a quello già conseguibile in base alla previgente disciplina dell’espulsione amministrativa;
che nel giudizio relativo all’ordinanza r.o. n. 82 del 2010 è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che le questioni siano dichiarate infondate;
che, con ordinanza emessa il 24 dicembre 2009 (r.o. n. 97 del 2010), nell’ambito di un processo penale nei confronti di sei cittadini extracomunitari imputati della contravvenzione prevista dalla norma censurata, il Giudice di pace di Taranto ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, 10, 25, 27 e 117 Cost., questioni di legittimità costituzionale, oltre che dell’art. 10-bis, anche dell’art. 16, comma 1, del d.lgs. n. 286 del 1998, come modificato dall’art. 1, commi 16, lettera b), e 22, lettera o), della legge n. 94 del 2009, e dell’art. 62-bis del d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468), aggiunto dall’art. 1, comma 17, lettera d), della medesima legge n. 94 del 2009;
che, a parere del giudice a quo, la norma incriminatrice di cui all’art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998 – formulata in chiave di mera disobbedienza alle norme che regolano i flussi migratori – violerebbe i principi di materialità e di necessaria offensività del reato, desumibili dall’art. 25, secondo comma, Cost., sottoponendo a pena una mera condizione personale dello straniero non lesiva di alcun bene meritevole di tutela, quale quella connessa al mancato possesso di un titolo abilitativo all’ingresso e alla permanenza nel territorio italiano;
che la nuova figura criminosa violerebbe, altresì, l’art. 2 Cost., poiché la repressione indiscriminata dell’immigrazione irregolare provocherebbe un mutamento dell’atteggiamento dei cittadini in senso contrario al principio di solidarietà, che esige la «promozione di coloro che versano in condizioni svantaggiate»;
che fonte di una irragionevole disparità di trattamento (art. 3 Cost.) e di un vulnus al principio di colpevolezza (art. 27 Cost.) risulterebbe, poi, la mancata previsione dell’«esimente» del «giustificato motivo», contemplata invece in rapporto all’analoga ipotesi delittuosa di cui all’art. 14, comma 5-ter, del d.lgs. n. 286 del 1998;
che l’art. 3 Cost. risulterebbe leso anche a fronte dell’assoggettamento della nuova fattispecie contravvenzionale – come conseguenza della sua devoluzione alla competenza del giudice di pace – a un regime sanzionatorio più gravoso di quello previsto per il delitto dianzi indicato, avuto riguardo, in specie, all’impossibilità di fruire del trattamento premiale connesso ai riti speciali e della sospensione condizionale della pena (artt. 2 e 60 del d.lgs. n. 274 del 2000);
che anche il trattamento sanzionatorio della fattispecie criminosa risulterebbe, nel suo complesso, irrazionale;
che la pena pecuniaria per essa comminata resterebbe, infatti, priva di qualsiasi efficacia deterrente nei confronti di persone, quali gli immigrati irregolari, costrette a lasciare la loro terra da condizioni di vita insostenibili;
che affatto ingiustificata risulterebbe, inoltre, la negazione all’imputato del reato in esame della possibilità di beneficiare dell’oblazione, diversamente da quanto avviene per tutte le fattispecie analoghe di natura contravvenzionale;
che, ancora, l’art. 16, comma 1, del d.lgs. n. 286 del 1998 prevede che il giudice possa sostituire la pena pecuniaria con l’espulsione e, dunque, con una misura più grave della pena sostituita, in quanto incidente sulla libertà personale: il che comprometterebbe anche la finalità rieducativa della pena, sancita dall’art. 27 Cost.;
che la nuova incriminazione apparirebbe, peraltro, di per sé priva di giustificazione, in quanto l’espulsione dell’immigrato irregolare è già prevista in via amministrativa: donde l’inutilità del ricorso allo strumento penale, tanto più evidente a fronte del disposto del comma 5 dell’art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998, in forza della quale il giudice è tenuto a pronunciare sentenza di non luogo a procedere quando abbia avuto notizia dell’avvenuta esecuzione dell’espulsione;
che la norma censurata violerebbe, inoltre, l’art. 10 Cost., ponendosi in contrasto con i principi in materia di immigrazione sanciti dalle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute: principi alla luce dei quali la condizione del migrante, anche «non regolare», andrebbe guardata «con comprensione e benevolenza», non trattandosi di un criminale, certo o possibile, ma di un essere umano che abbandona la propria terra alla ricerca di migliori condizioni di vita;
che l’incriminazione violerebbe, infine, l’art. 117 Cost., risultando incompatibile con le previsioni degli artt. 5 e 16 del Protocollo addizionale alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale per combattere il traffico illecito di migranti, adottato il 15 dicembre 2000;
che il citato strumento internazionale, nell’impegnare ogni Stato aderente a conferire carattere di reato a una serie di condotte attinenti al traffico dei migranti (art. 6), statuisce, infatti, all’art. 5, che «i migranti non diventano assoggettati all’azione penale fondata sul presente protocollo per il fatto di essere stati oggetto delle condotte di cui all’art. 6»; mentre il successivo art. 16 obbliga gli Stati contraenti a prendere «misure adeguate, comprese quelle di carattere legislativo se necessario, per preservare e tutelare i diritti delle persone che sono state oggetto delle condotte di cui all’art. 6», nonché a fornire «un’assistenza adeguata ai migranti la cui vita, o incolumità, è in pericolo dal fatto di essere stati oggetto» di dette condotte;
che, ad avviso del rimettente, le questioni sollevate sarebbero rilevanti, «perché il loro accoglimento […], con la conseguente declaratoria di incostituzionalità delle norme denunciate, comporterebbe l’assoluzione degli imputati»;
che con altra ordinanza di rimessione del 5 febbraio 2010 (r.o. n. 166 del 2010), il Giudice di pace di Taranto dubita della legittimità costituzionale dell’art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998 in riferimento agli artt. 2, 3, 10, 27 e 117 Cost.;
che il giudice a quo riferisce di essere investito del processo penale nei confronti di quattro cittadini extracomunitari, sottoposti a controllo dalla Polizia di Stato il 7 gennaio 2010, mentre percorrevano a piedi, a gruppi di due e in direzioni opposte, la corsia di emergenza dell’autostrada Bari-Taranto: controllo in esito al quale – dopo l’identificazione degli stranieri (avendo tre di essi fornito false indicazioni o mostrato falsi documenti di identità) – gli stessi erano stati tratti a giudizio per rispondere della contravvenzione prevista dall’art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998, per avere fatto ingresso e, comunque, per essersi trattenuti illegalmente nel territorio dello Stato;
che, ad avviso del giudice a quo, la norma incriminatrice censurata si porrebbe in contrasto con l’art. 3 Cost., risultando priva di fondamento razionale: alla luce della sua disciplina complessiva, essa sarebbe infatti finalizzata essenzialmente ad espellere lo straniero illegittimamente presente nel territorio dello Stato; obiettivo peraltro già conseguibile con la procedura di espulsione amministrativa, avente il medesimo ambito applicativo;
che, sotto diverso profilo, l’attribuzione al giudice del potere di sostituire la pena pecuniaria con una sanzione notevolmente più afflittiva, quale l’espulsione per un periodo non inferiore a cinque anni, determinerebbe una irragionevole disparità di trattamento degli autori della contravvenzione in esame rispetto agli altri soggetti ai quali, in base all’art. 16, comma 1, del d.lgs. n. 286 del 1998, può essere applicata la predetta sanzione sostitutiva (condannati per reato non colposo a una pena detentiva non superiore a due anni, ove non ricorrano le condizioni per ordinarne la sospensione condizionale);
che la comminatoria della pena dell’ammenda risulterebbe, inoltre, priva di ogni efficacia deterrente nei confronti dei migranti irregolari, normalmente insolvibili, né potrebbe essere utilmente convertita nelle misure del lavoro sostitutivo o della permanenza domiciliare, trattandosi di soggetti privi di domicilio stabile;
che lesiva dell’art. 3 Cost. sarebbe anche la mancata previsione della non punibilità del fatto commesso in presenza di un «giustificato motivo», diversamente da quanto stabilito in rapporto alla più grave fattispecie delittuosa di cui all’art. 14, comma 5-ter, del d.lgs. n. 286 del 1998;
che la norma denunciata si porrebbe, per altro verso, in contrasto con l’art. 27 Cost.: essa violerebbe, infatti, i principi di materialità e necessaria offensività del reato, sottoponendo a pena, non già una condotta, ma un mero «status» personale – quello di straniero «irregolare» – del quale verrebbe arbitrariamente presunta ex lege la pericolosità sociale;
che la norma incriminatrice si presterebbe, inoltre, a colpire anche gli stranieri che già si trovavano irregolarmente in Italia alla data di entrata in vigore della novella legislativa e che, pertanto, al momento della commissione del fatto, non potevano avere la consapevolezza di violare la legge penale;
che contrastante con l’art. 27 Cost. sarebbe anche la previsione in forza della quale il giudice deve pronunciare sentenza di non luogo a procedere nel caso in cui, per effetto del provvedimento di espulsione del prefetto, lo straniero sia stato materialmente allontanato dal territorio dello Stato: trattandosi – secondo il rimettente – dell’«unico caso in cui il provvedimento amministrativo prevale sull’azione penale»;
che la norma censurata lederebbe, ancora, l’art. 2 Cost., giacché – rendendo configurabile una responsabilità a titolo di concorso nel reato a carico di chiunque presti aiuto all’immigrato irregolare – impedirebbe l’esplicazione di ogni forma di solidarietà nei suoi confronti e renderebbe, di fatto, la «vita impossibile» allo straniero, in contrasto con la garanzia di rispetto dei diritti inviolabili dell’uomo;
che, da ultimo, la disposizione in esame violerebbe gli artt. 10 e 117 Cost., per incompatibilità con le già ricordate norme internazionali pattizie di cui agli artt. 5 e 16 del Protocollo addizionale alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale per combattere il traffico illecito di migranti, adottato il 15 novembre 2000.
Considerato che le ordinanze di rimessione sollevano questioni identiche o analoghe, onde i relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti con unica decisione;
che tutti i giudici rimettenti dubitano, in rapporto a plurimi parametri costituzionali, della legittimità costituzionale dell’art. 10-bis del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero); mentre il solo Giudice di pace di Taranto, con l’ordinanza r.o. n. 97 del 2010, estende le sue censure all’art. 16, comma 1, del d.lgs. n. 286 del 1998 e all’art. 62-bis del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468);
che le tredici ordinanze di rimessione del Giudice di pace di Pordenone e l’ordinanza r.o. n. 97 del 2010 del Giudice di pace di Taranto presentano carenze in punto di descrizione della fattispecie concreta e di motivazione sulla rilevanza tali da precludere lo scrutinio nel merito delle questioni con esse sollevate;
che, quanto alla descrizione della vicenda concreta, i giudici a quibus si limitano, infatti, a riportare, nell’epigrafe delle ordinanze di rimessione, il capo di imputazione: il quale si risolve, peraltro, nella sostanza, in una mera e generica parafrasi della norma incriminatrice;
che i medesimi giudici rimettenti affermano, al tempo stesso, la rilevanza delle questioni in termini puramente assiomatici;
che manca, per converso, ogni concreta indicazione sulle vicende oggetto dei giudizi a quibus e sulla loro effettiva riconducibilità al paradigma punitivo considerato, atta a permettere la verifica dell’asserita rilevanza delle questioni, sia nel loro complesso che in rapporto alle singole censure prospettate;
che le questioni vanno dichiarate, pertanto, manifestamente inammissibili, conformemente a quanto già reiteratamente deciso da questa Corte in situazioni analoghe (ordinanze n. 32, n. 13, n. 6 e n. 3 del 2011; n. 343, n. 329, n. 320 e n. 253 del 2010);
che, a loro volta, le censure formulate dal Giudice di pace di Lecco, sezione distaccata di Missaglia – il quale pure fornisce, nell’ordinanza di rimessione, una sufficiente descrizione della vicenda che ha dato origine all’imputazione – sono manifestamente inammissibili per difetto di rilevanza;
che quanto, infatti, alla censura inerente alla mancata previsione della non punibilità del fatto di illegittimo trattenimento commesso per «giustificato motivo», nell’ordinanza di rimessione non è stata prospettata, neppure con riguardo a mere allegazioni difensive, alcuna circostanza che, nel caso di specie, possa assumere rilievo quale «giustificato motivo» di inosservanza delle regole sul soggiorno dello straniero nel territorio dello Stato (ordinanza n. 318 del 2010);
che non è significativa, in senso contrario, la pretesa inibizione, per effetto dell’omissione normativa censurata, di iniziative probatorie della difesa volte a dimostrare l’impossibilità o la difficoltà per l’imputato di lasciare il territorio nazionale, trattandosi di iniziative che lo stesso rimettente prospetta come meramente ipotetiche (ordinanza n. 318 del 2010);
che analoga considerazione vale in rapporto alla seconda censura, afferente al previsto obbligo del giudice di pronunciare sentenza di non luogo a procedere nel caso di avvenuta esecuzione dell’espulsione amministrativa o di respingimento dello straniero alla frontiera;
che dall’ordinanza di rimessione non consta, infatti, che l’imputato nel giudizio a quo sia stato effettivamente espulso o respinto, con conseguente carenza del presupposto di applicabilità della previsione normativa censurata (sentenza n. 250 del 2010);
che anche l’ordinanza r.o. n. 166 del 2010 del Giudice di pace di Taranto è sufficientemente motivata quanto alla descrizione della fattispecie;
che, tuttavia, le censure con essa formulate sono, a seconda dei casi, manifestamente infondate o manifestamente inammissibili;
che, in particolare, per quanto attiene alle censure volte a contestare globalmente la scelta di penalizzazione sottesa alla norma denunciata, questa Corte ha già ritenuto insussistente la violazione del principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.), denunciata sulla scorta della considerazione che la norma incriminatrice perseguirebbe, nel suo complesso, un obiettivo (allontanare lo straniero illegalmente presente nel territorio dello Stato) già realizzabile con la procedura di espulsione amministrativa, avente il medesimo ambito applicativo;
che la sovrapposizione della disciplina penale a quella amministrativa e la circostanza che il legislatore abbia mostrato di «considerare l’applicazione della sanzione penale come un esito “subordinato” rispetto alla materiale estromissione dal territorio nazionale dello straniero» non comportano ancora, infatti, che il procedimento penale per il reato in esame rappresenti, a priori, un mero “duplicato” della procedura amministrativa di espulsione: «e ciò, a tacer d’altro, per la ragione che – come l’esperienza attesta – in un largo numero di casi non è possibile, per la pubblica amministrazione, dare corso all’esecuzione dei provvedimenti espulsivi» (sentenza n. 250 del 2010, ordinanze n. 32 del 2011 e n. 321 del 2010);
che quanto, poi, all’asserita lesione dei principi di materialità e necessaria offensività del reato, denunciata dal rimettente in riferimento all’art. 27 Cost., anche a prescindere dall’inconferenza del parametro evocato – particolarmente in rapporto al principio di materialità (desumibile piuttosto dall’art. 25, secondo comma, Cost.) – questa Corte ha già avuto modo di rilevare che oggetto dell’incriminazione non è affatto «un modo di essere» della persona, quanto piuttosto uno specifico comportamento, trasgressivo di norme vigenti, quale quello descritto dalle locuzioni alternative «fare ingresso» e «trattenersi» contra legem nel territorio dello Stato (sentenza n. 250 del 2010, ordinanza n. 321 del 2010);
che, al tempo stesso, il bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice è agevolmente identificabile «nell’interesse dello Stato al controllo e alla gestione dei flussi migratori, secondo un determinato assetto normativo: interesse la cui assunzione ad oggetto di tutela penale non può considerarsi irrazionale e arbitraria […] e che risulta, altresì, offendibile dalle condotte di ingresso e trattenimento illegale dello straniero» (sentenza n. 250 del 2010);
che per quanto attiene, ancora, all’asserita lesione dell’art. 2 Cost., vale il rilievo che – per costante giurisprudenza di questa Corte – in materia di immigrazione, «le ragioni della solidarietà umana non possono essere affermate al di fuori di un corretto bilanciamento dei valori in gioco», rimesso alla discrezionalità del legislatore; in particolare, dette ragioni «non sono di per sé in contrasto con le regole in materia di immigrazione previste in funzione di un ordinato flusso migratorio e di un’adeguata accoglienza degli stranieri»: e ciò nella cornice di un «quadro normativo […] che vede regolati in modo diverso – anche a livello costituzionale (art. 10, terzo comma, Cost.) – l’ingresso e la permanenza degli stranieri nel Paese, a seconda che si tratti di richiedenti il diritto di asilo o rifugiati, ovvero di c.d. “migranti economici”» (sentenza n. 250 del 2010, ordinanza n. 32 del 2011);
che le ragioni della solidarietà trovano d’altro canto espressione – oltre che nella disciplina dei divieti di espulsione e di respingimento e del ricongiungimento familiare – nell’applicabilità, allo straniero irregolare, della normativa sul soccorso al rifugiato e la protezione internazionale, di cui al d.lgs. 19 novembre 2007, n. 251 (Attuazione della direttiva 2004/83/CE recante norme minime sull’attribuzione, a cittadini di Paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisogna di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta), fatta espressamente salva dal comma 6 dello stesso art. 10-bis del d.lgs. 286 del 1998, che prevede la sospensione del procedimento penale per il reato in esame nel caso di presentazione della relativa domanda e, nell’ipotesi di suo accoglimento, la pronuncia di una sentenza di non luogo a procedere (sentenza n. 250 del 2010, ordinanza n. 32 del 2011);
che con riguardo, poi, allo specifico assunto del rimettente, secondo il quale la norma censurata renderebbe configurabile una responsabilità a titolo di concorso nel reato a carico di chiunque, anche per mera solidarietà, presti aiuto al migrante irregolare in quanto persona bisognosa, va ulteriormente rilevato che il giudice a quo non tiene affatto conto della cosiddetta scriminante umanitaria contemplata dall’art. 12, comma 2, del d.lgs. n. 286 del 1998: disposizione in forza della quale, fermo restando quanto previsto dall’art. 54 del codice penale (e, dunque, anche al di fuori delle ipotesi riconducibili alla scriminante comune dello stato di necessità), «non costituiscono reato le attività di soccorso e assistenza umanitaria prestate in Italia nei confronti degli stranieri in condizioni di bisogno comunque presenti nel territorio dello Stato»;
che, pertanto, tutte tali censure sono manifestamente infondate;
che, nel resto, relativamente alle questioni volte a contestare specifiche articolazioni della disciplina sostanziale o processuale del reato in esame, questa Corte ha parimenti escluso che sia censurabile sul piano della legittimità costituzionale, in rapporto al principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.), la scelta di prevedere per detto reato la pena dell’ammenda;
che è ben vero, in effetti, che tale pena presenta un ridotta capacità dissuasiva, a fronte della condizione di insolvibilità in cui assai spesso (ma, comunque, non indefettibilmente) versa il migrante irregolare e della difficoltà di convertire la pena pecuniaria ineseguita in lavoro sostitutivo o in obbligo di permanenza domiciliare (art. 55 del d.lgs. n. 274 del 2000), risultando il condannato spesso privo di fissa dimora e, comunque, non abilitato a risiedere legalmente in Italia;
che «simili valutazioni – al pari di quella attinente, più in generale,al rapporto fra “costi e benefici” connessi all’introduzione della nuova figura criminosa, rapporto secondo molti largamente deficitario […] – attengono, tuttavia, all’opportunità della scelta legislativa su un piano di politica criminale e giudiziaria: piano di per sé estraneo al sindacato di costituzionalità» (sentenza n. 250 del 2010, ordinanze n. 32 del 2011 e n. 321 del 2010);
che manifestamente inammissibili per difetto di rilevanza risultano, d’altro canto, le censure di violazione dell’art. 3 Cost., per assenza nella descrizione del fatto incriminato della clausola «senza giustificato motivo», e di violazione dell’art. 27 Cost., in rapporto alla prevista declaratoria del non luogo a procedere per avvenuta espulsione dello straniero;
che anche nel frangente, infatti, dall’ordinanza di rimessione non consta né che nel caso di specie ricorrano situazioni qualificabili come «giustificato motivo» di inosservanza del precetto (ordinanza n. 318 del 2010); né che gli imputati nel giudizio principale siano stati materialmente espulsi (sentenza n. 250 del 2010);
che analoga considerazione vale in riferimento alla censura di violazione degli artt. 10 e 117 Cost., legata all’asserito contrasto dell’incriminazione censurata con gli artt. 5 e 16 del Protocollo addizionale alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale per combattere il traffico illecito di migranti, adottato il 15 dicembre 2000, ratificato e reso esecutivo con legge 16 marzo 2006, n. 146;
che – a prescindere da ogni rilievo in ordine alla fondatezza della doglianza – è dirimente, infatti, la constatazione che il rimettente non ha dedotto che, nella fattispecie concreta sottoposta al suo vaglio, ricorra il presupposto di applicabilità delle norme internazionali pattizie evocate: vale a dire, che gli imputati nel giudizio a quo siano stati oggetto delle condotte di traffico di migranti descritte dall’art. 6 del citato Protocollo (ordinanza n 32 del 2011);
che manifestamente inammissibile è anche la censura di violazione dell’art. 27 Cost., per l’asserita attitudine della norma incriminatrice a punire anche gli stranieri già presenti irregolarmente in Italia prima dell’entrata in vigore della legge n. 94 del 2009: ciò in quanto – indipendentemente da ogni altra considerazione – il rimettente non specifica se gli imputati versino concretamente in detta situazione, con conseguente difetto di motivazione sulla rilevanza;
che manifestamente inammissibile per inconferenza della norma denunciata è, da ultimo, la censura, formulata in rapporto all’art. 3 Cost., che investe la prevista facoltà del giudice di sostituire la pena pecuniaria comminata per la contravvenzione in esame con la misura dell’espulsione per un periodo non inferiore a cinque anni;
che prescindendo, di nuovo, da ogni considerazione di merito, la lesione costituzionale denunciata non deriva, infatti, dall’art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998 – unica norma sottoposta a scrutinio dall’ordinanza di rimessione in esame – ma semmai sarebbe recata da norme distinte, non coinvolte nella denuncia di incostituzionalità, che recano la disciplina fatta oggetto di censura (art. 16, comma 1, del d.lgs. n. 286 del 1998 e art. 62-bis del d.lgs. n. 274 del 2000) (sentenza n. 250 del 2010, ordinanza n. 32 del 2011);
che, pertanto, tali ulteriori censure sono manifestamente inammissibili.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
1) dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 10-bis del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24, 25, 27 e 97 della Costituzione, dal Giudice di pace di Lecco, sezione distaccata di Missaglia, e dal Giudice di pace di Pordenone con le ordinanze indicate in epigrafe;
2) dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 10-bis e 16, comma 1, del d.lgs. n. 286 del 1998 e dell’art. 62-bis del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’art. 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468), sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 10, 25, 27 e 117 della Costituzione, dal Giudice di pace di Taranto con l’ordinanza r.o. n. 97 del 2010, indicata in epigrafe;
3) dichiara la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998, sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3 (quanto alla carenza di fondamento razionale dell’incriminazione) e 27 (quanto alla violazione dei principi di materialità e necessaria offensività del reato) della Costituzione, dal Giudice di Pace di Taranto con l’ordinanza r.o. n. 166 del 2010, indicata in epigrafe;
4) dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998, sollevate, in riferimento agli artt. 3 (quanto ai residui profili), 10, 27 (quanto ai residui profili) e 117 della Costituzione, dal Giudice di Pace di Taranto con l’ordinanza r.o. n. 166 del 2010 indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 febbraio 2011.
F.to:
Ugo DE SIERVO, Presidente
Giuseppe FRIGO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 25 febbraio 2011.