Sentenza n. 178 del 2009

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SENTENZA N. 178

ANNO 2009

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Francesco          AMIRANTE                      Presidente

- Ugo                  DE SIERVO                        Giudice

- Paolo                MADDALENA                         “

- Alfio                 FINOCCHIARO                       “

- Alfonso             QUARANTA                            “

- Franco              GALLO                                   “

- Gaetano            SILVESTRI                              “

- Sabino              CASSESE                                “

- Maria Rita         SAULLE                                  “

- Giuseppe           TESAURO                               “

- Paolo Maria       NAPOLITANO                        “

- Giuseppe           FRIGO                                    “

- Alessandro        CRISCUOLO                           “

- Paolo                GROSSI                                  “

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 656, comma 6, del codice di procedura penale promossi dal Tribunale di sorveglianza di Bari con ordinanze del 4 ottobre, del 10 luglio, del 16 ottobre e del 22 novembre 2007, rispettivamente iscritte ai nn. 839, 850, 851 del registro ordinanze 2007 e al n. 86 del registro ordinanze 2008 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 4, 5, 15, prima serie speciale, dell’anno 2008.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 1° aprile 2009 il Giudice relatore Alessandro Criscuolo.

Ritenuto in fatto

1. — Il Tribunale di sorveglianza di Bari, con quattro ordinanze di analogo tenore emesse il 2 ottobre 2007 (r.o. n. 839 del 2007), il 14 giugno 2007 (r. o. n. 850 del 2007), l’11 ottobre 2007 (r.o. n. 851 del 2007) e il 22 novembre 2007 (r. o. n. 86 del 2008), ha sollevato, in riferimento agli articoli 25, primo comma, 111, secondo comma, e 97, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 656, comma 6, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che, nelle more della decisione sull’istanza di concessione di misura alternativa alla detenzione, qualora sopravvengano altre sentenze definitive di condanna pronunciate da giudici di diverso distretto di corte d’appello nei confronti della stessa persona ed il pubblico ministero competente determini la pena ai sensi dell’art. 663 cod. proc. pen., la competenza a decidere rimanga ferma in favore del tribunale di sorveglianza del luogo in cui ha sede l’ufficio del pubblico ministero che – al momento della presentazione di detta istanza da parte del condannato “libero sospeso” ex art. 656, comma 5, cod. proc. pen. – era competente per l’esecuzione.

2. — Il giudice a quo, con la prima ordinanza, premette di essere chiamato a decidere in un procedimento concernente T. R., nei cui confronti il pubblico ministero del Tribunale di Trani, in seguito a sentenza di condanna pronunciata dal medesimo Tribunale il 7 novembre 2002 e riformata in parte dalla Corte di appello di Bari con sentenza del 22 settembre 2003, ha emesso ordine di esecuzione, poi sospeso, ai sensi dell’art. 656, comma 5, cod. proc. pen., per l’espiazione di una pena residua inferiore ai tre anni. In relazione a tale provvedimento il condannato ha presentato istanza diretta ad ottenere la concessione di una delle misure alternative alla detenzione di cui agli artt. 47, 47-ter e 50, primo comma, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), e successive modificazioni. Detta istanza è stata trasmessa al rimettente ma, nelle more della decisione, è avvenuto che:

a) la sentenza del Tribunale di Trani in data 7 novembre 2002, riformata dalla Corte di appello di Bari, è stata assorbita nel cumulo emesso il 16 settembre 2004 dalla Procura generale della Repubblica della Corte d’appello di Trento;

b) detto cumulo è stato, a sua volta, assorbito in quello emesso il 26 marzo 2007 dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Terni e sospeso dallo stesso pubblico ministero ai sensi dell’art. 656, comma 5, cod. proc. pen.;

c) la Corte di appello di Trento, in funzione di giudice dell’esecuzione del cumulo disposto dal Procuratore generale di Trento, con atto dell’11 ottobre 2006 ha concesso l’indulto, ai sensi della legge 31 luglio 2006, n. 241 (Concessione di indulto), per anni due, mesi sette e giorni dodici di reclusione;

d) il Tribunale di Terni, in funzione di giudice dell’esecuzione della sentenza emessa dal medesimo Tribunale il 13 marzo 2006, con provvedimento del 14 novembre 2006, ha applicato l’indulto, di cui alla menzionata legge, per mesi uno e giorni quindici di arresto;

e) infine, il Tribunale di Terni, in funzione di giudice dell’esecuzione del cumulo emesso dal pubblico ministero di Terni in data 26 marzo 2007, cumulo in cui era stata nel frattempo assorbita la sentenza emessa dal Tribunale di Terni il 13 marzo 2006, ha concesso l’indulto, di cui alla legge citata, per ulteriori mesi tre e giorni tre di reclusione.

Tanto premesso, il rimettente dà atto che, ai sensi dell’art. 656, comma 6, cod. proc. pen., il tribunale di sorveglianza competente per territorio, qualora il condannato, “libero sospeso” a norma del comma 5 di detta disposizione, abbia presentato istanza di concessione di misura alternativa alla detenzione, è quello del luogo in cui ha sede l’ufficio del pubblico ministero che cura l’esecuzione del titolo in relazione al quale è stata inoltrata detta istanza.

Ritiene, tuttavia, che l’art. 656, comma 6, cod. proc. pen., trovi applicazione soltanto nell’ipotesi in cui la pena da espiare sia stata inflitta con una o più sentenze definitive, in riferimento alle quali il pubblico ministero competente emetta apposito decreto di sospensione dell’esecuzione, ex art. 656, comma 5, cod. proc. pen., e il condannato “libero sospeso” presenti, entro trenta giorni, apposita istanza di accesso a misura alternativa alla detenzione. Infatti, evidenzia il rimettente, il tenore della disposizione testé richiamata è chiaramente nel senso di legare strettamente sul piano logico-temporale i seguenti atti procedurali: emissione dell’ordine di esecuzione e relativo provvedimento di sospensione da parte del pubblico ministero competente; concessione del termine di trenta giorni entro il quale è possibile presentare istanza per l’applicazione di misura alternativa alla detenzione e deposito di detta istanza da parte del condannato, esclusivamente in relazione a quelle sentenze definitive la cui esecuzione è stata già provvisoriamente sospesa dal pubblico ministero competente.

Invece l’art. 656, commi 5 e 6, cod. proc. pen., nulla prevede per l’ipotesi in cui, dopo la presentazione da parte del condannato dell’istanza di accesso a misura alternativa alla detenzione, in riferimento alla pena inflitta con una o più sentenze definitive, sopraggiungano altre sentenze definitive di condanna emesse da giudici di diverso distretto di corte d’appello, e queste sentenze siano assorbite, come nella fattispecie de qua, in un apposito provvedimento di cumulo adottato dal pubblico ministero territorialmente competente ai sensi dell’art. 663 cod. proc. pen.

In tale particolare ipotesi, ad avviso del rimettente, trova applicazione il principio desumibile dal combinato disposto degli artt. 655, comma 1, e 665, comma 4, cod. proc. pen., secondo cui la competenza – qualora sopravvengano altre sentenze di condanna pronunciate da giudici di diverso distretto di corte d’appello – è del tribunale di sorveglianza del luogo in cui è stata pronunciata la sentenza divenuta irrevocabile per ultima e, cioè, dell’ufficio del pubblico ministero che, avendo emesso apposito provvedimento ex art. 663 cod. proc. pen., ne cura l’esecuzione.

A questa interpretazione si perviene sulla base del rilievo che, se il condannato abbia beneficiato della sospensione dell’esecuzione della pena ai sensi dell’art. 656, comma 5, cod. proc. pen., «la normativa processuale penale (cfr. il tenore dell’art. 656, VI comma, c. p. p. e dell’art. 677, II comma, ultimo periodo, c. p. p.) è chiaramente nel senso di agganciare e legare strettamente, sul piano territoriale, la competenza del tribunale di sorveglianza a quella del pubblico ministero che cura l’esecuzione della condanna definitiva, prevedendo espressamente che l’individuazione del tribunale di sorveglianza territorialmente competente è determinata dal luogo in cui ha sede l’ufficio del pubblico ministero preposto ad eseguire il titolo definitivo».

Applicando al caso di specie il suddetto criterio legale, si perviene alla conclusione che il tribunale di sorveglianza competente è quello del luogo in cui ha sede la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Terni e, segnatamente, il Tribunale di sorveglianza di Perugia.

Il rimettente prosegue osservando che la questione in esame non può essere risolta applicando in via analogica il principio sancito dall’art. 5 del codice di procedura civile, secondo cui la competenza si determina con riguardo allo stato di fatto (adde: e alla legge vigente) esistente al momento della proposizione della domanda, restando quindi irrilevanti i successivi mutamenti dello stato medesimo (perpetuatio jurisdictionis).

Infatti, è noto che il ricorso alla cosiddetta analogia legis è possibile a condizione che la fattispecie non sia affatto disciplinata dalla legge, laddove, nel caso in esame, la questione della competenza territoriale, oggetto della procedura di sorveglianza, è disciplinata dal combinato disposto degli artt. 655, comma 1, e 665, comma 4, cod. proc. pen.; né si può applicare al caso di specie – per analogia juris – il principio generale della perpetuatio jurisdictionis, in quanto, al riguardo, valgono le stesse ragioni che precludono il ricorso al criterio dell’analogia legis e, segnatamente, il fatto che negli artt. 655, comma 1, e 665, comma 4, cod. proc. pen. è contemplato il criterio legale da utilizzare ai fini dell’individuazione del tribunale di sorveglianza territorialmente competente; infine, non si può invocare il criterio della perpetuatio jurisdictionis sancito dall’art. 677, comma 1, cod. proc. pen., perché tale disposizione disciplina la diversa ed autonoma ipotesi del condannato detenuto in istituto penitenziario, e non già quella del condannato “libero sospeso” a mente dell’art. 656, comma 5, cod. proc. pen.

In definitiva, ad avviso del rimettente, «la questione della competenza territoriale nella presente procedura di sorveglianza va risolta secondo il principio enucleabile dal combinato disposto degli artt. 655, comma 1, e 665, comma 4, cod. proc. pen., secondo cui la competenza – nel caso di sopravvenienza di altre sentenze definitive di condanna pronunciate da giudici di diversi distretti di corte d’appello – appartiene al tribunale di sorveglianza del luogo in cui è stata pronunciata la sentenza divenuta irrevocabile per ultima; cioè, nel caso di specie, al Tribunale di sorveglianza di Perugia».

Tuttavia il giudice a quo ritiene che tale criterio sia estremamente “mobile”, in quanto consente al Tribunale di sorveglianza, inizialmente competente ai sensi dell’art. 656, comma 6, cod. proc. pen., di dichiararsi incompetente e, perciò, di trasmettere gli atti della procedura a quel diverso tribunale di sorveglianza che, nel frattempo, a seguito della sopravvenienza di altra sentenza irrevocabile pronunciata da giudice di diverso distretto di corte d’appello, sia diventato competente; a sua volta, quest’ultimo tribunale di sorveglianza, qualora nelle more della decisione sopraggiungano altre sentenze definitive di altro distretto, sarà costretto a declinare la competenza in favore del tribunale di sorveglianza nel frattempo divenuto competente per territorio.

Questi continui spostamenti di competenza, destinata a cristallizzarsi soltanto allorché il tribunale di sorveglianza decida prima che giungano altre sentenze definitive di condanna pronunciate da giudici di altri distretti di corte d’appello, si pongono in oggettivo contrasto con i principi stabiliti dagli artt. 25, primo comma, 111, secondo comma, e 97, primo comma, Cost.

Invero, lo spostamento della competenza territoriale da un tribunale di sorveglianza all’altro viola, in primo luogo, il principio del giudice naturale e precostituito per legge, perché rende impossibile individuare a priori il tribunale di sorveglianza territorialmente competente; dilata in modo irragionevole i tempi di definizione del procedimento; rischia di far girare “a vuoto”, per un tempo più o meno lungo, la stessa attività giurisdizionale, in contrasto col principio costituzionale di buon andamento che informa l’attività di ogni amministrazione pubblica.

La questione, ad avviso del rimettente, è non manifestamente infondata, alla luce delle considerazioni esposte, ed è rilevante perché, qualora fosse ritenuta fondata, condurrebbe ad attribuire al tribunale di sorveglianza adito la competenza a decidere sull’istanza di concessione di misura alternativa alla detenzione, presentata dal condannato; mentre, ove fosse ritenuta inammissibile o respinta, gli atti andrebbero trasmessi al Tribunale di sorveglianza di Perugia.

3. — Il giudice a quo, con la seconda ordinanza (r.o. n. 850 del 2007), espone di essere chiamato a decidere nel procedimento relativo a M. L., anche quest’ultimo “libero sospeso” ai sensi dell’art. 656, comma 5, cod. proc. pen., nei cui confronti il pubblico ministero presso il Tribunale di Foggia, dopo avere emesso, a seguito di provvedimento di cumulo, ordine di esecuzione e contestuale decreto di sospensione, ha trasmesso al tribunale di sorveglianza tali atti unitamente all’istanza del condannato, diretta ad ottenere misure alternative alla detenzione.

Nelle more della decisione è avvenuto che:

a) il cumulo, emesso il 18 agosto 2004 dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Foggia, è stato assorbito in quello emesso il 31 marzo 2005 dalla Procura generale presso la Corte di appello di Napoli, con provvedimento sospeso da detta procura generale ai sensi dell’art. 656, comma 5, cod. proc. pen.;

b) tale provvedimento è stato a sua volta assorbito nel cumulo emesso il 25 novembre 2006 dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Torre Annunziata, con pena residua non eseguita per sospensione accordata ai sensi del citato art. 656, comma 5, cod. proc. pen.;

c) quest’ultimo ufficio, con istanza del 25 novembre 2006, ha chiesto al Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Torre Annunziata, in funzione di giudice dell’esecuzione, di concedere, sulla suddetta pena residua, l’indulto di cui alla legge n. 241 del 2006.

Tanto premesso, il rimettente svolge considerazioni identiche a quelle contenute nella prima ordinanza (r.o. n. 839 del 2007), con la sola precisazione che, nel caso de quo, la competenza per territorio spetterebbe al tribunale del luogo in cui ha sede la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Torre Annunziata e, segnatamente, al Tribunale di sorveglianza di Napoli.

4. — Il rimettente, con la terza ordinanza (r.o. n. 851 del 2007), premette di essere chiamato a pronunciare nel procedimento relativo a D. B. C., versante nella stessa posizione dei due condannati di cui alle ordinanze precedenti. Espone che il pubblico ministero presso il Tribunale di Foggia, in data 31 gennaio 2006, ha sospeso, ai sensi dell’art. 656, comma 5, cod. proc. pen., l’ordine di esecuzione emesso in pari data nei confronti del D. B. C. in riferimento alla pena inflitta dal Tribunale di Foggia con sentenza dell’8 novembre 2000. Gli atti sono stati trasmessi l’11 aprile 2006 al rimettente, unitamente all’istanza, presentata dal condannato, diretta ad ottenere misure alternative alla detenzione.

Nelle more della decisione è avvenuto che:

        a) la sentenza, emessa dal Tribunale di Foggia l’8 novembre 2000, è stata assorbita nel cumulo disposto il 18 aprile 2007 dal pubblico ministero presso il Tribunale di Brindisi;

b) quest’ultimo, in data 18 aprile 2007, ha emesso ordine di sospensione dell’esecuzione della pena recata dal predetto cumulo e contestualmente ha chiesto al Tribunale di Brindisi, sezione distaccata di Fasano, in funzione di giudice dell’esecuzione, di applicare l’indulto di cui alla legge n. 241 del 2006 sulla pena residua;

c) il Tribunale di Brindisi, sezione distaccata di Fasano, in funzione di giudice dell’esecuzione del cumulo disposto dal pubblico ministero di Brindisi, con provvedimento del 30 aprile 2007, ha concesso l’indulto per anni tre, sicché la pena residua da espiare è di mesi dieci e giorni ventiquattro di reclusione.

Tanto premesso, il rimettente svolge considerazioni identiche a quelle contenute nella prima ordinanza (r.o. n. 839 del 2007), con la sola precisazione che, nel caso de quo, la competenza per territorio spetterebbe al tribunale del luogo in cui ha sede la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Brindisi e, segnatamente, al Tribunale di sorveglianza di Lecce.

5. — Il Tribunale di sorveglianza di Bari, con la quarta ordinanza (r.o. n. 86 del 2008), espone di essere investito del procedimento relativo a S. A., versante nella stessa posizione dei condannati di cui alle tre ordinanze precedenti, avendo presentato istanza di concessione di affidamento in prova al servizio sociale, ex art. 47 della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni.

Riferisce che la Procura generale presso la Corte d’appello di Napoli, in data 13 febbraio 2002, ha sospeso, ai sensi dell’art. 656, comma 5, cod. proc. pen. l’ordine di esecuzione emesso nei confronti di S. A. in riferimento alla pena inflitta dalla Corte d’appello di Napoli con sentenza del 7 marzo 2001, cui ha fatto seguito l’istanza del condannato diretta ad ottenere l’affidamento in prova al servizio sociale.

Detta sentenza è stata poi assorbita nel cumulo emesso il 9 dicembre 2003 dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Bari.

Il Tribunale di sorveglianza di Napoli, con ordinanza emessa all’udienza del 3 maggio 2004, si è dichiarato incompetente per territorio ed ha rimesso gli atti al Tribunale di sorveglianza di Bari, individuato come nuovo giudice territorialmente competente.

Nelle more della decisione di quest’ultimo è avvenuto quanto segue:

       a) la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Torre Annunziata, in data 28 novembre 2006, ha emesso un nuovo provvedimento di cumulo, nel quale è stato assorbito quello emesso il 9 dicembre 2003 dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Bari;

b) il Tribunale di Torre Annunziata, in funzione di giudice dell’esecuzione, con provvedimento del 13 febbraio 2007 ha concesso al condannato l’indulto per anni tre di reclusione, ai sensi della legge del 31 luglio 2006, n. 241, sicché la pena residua da espiare è di mesi due e giorni due di reclusione.

Il rimettente svolge, quindi, considerazioni identiche a quelle contenute nella prima ordinanza (r.o. n. 839 del 2007), con la sola precisazione che, nel caso de quo, la competenza per territorio spetterebbe al tribunale di sorveglianza del luogo in cui ha sede la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Torre Annunziata e, segnatamente, al Tribunale di sorveglianza di Napoli.

6. — Nei giudizi di cui sopra, con atti separati ha spiegato intervento il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione di legittimità costituzionale sia dichiarata manifestamente infondata, perché il rimettente ha preso le mosse da un presupposto interpretativo non condivisibile.

Il Tribunale di sorveglianza, infatti, ritiene che qualora, dopo la presentazione da parte del condannato dell’istanza di accesso a misura alternativa alla detenzione, sopraggiungano una o più sentenze definitive di condanna, in assenza di un’espressa disposizione in merito, trovi applicazione, per l’individuazione del tribunale di sorveglianza competente a decidere, il principio ricavabile dal combinato disposto degli artt. 655, comma 1, e 665, comma 4, cod. proc. pen., secondo cui la competenza appartiene al tribunale di sorveglianza del luogo in cui è stata pronunciata la sentenza divenuta irrevocabile per ultima e, cioè, del luogo in cui ha sede l’ufficio del pubblico ministero che, avendo emesso apposito provvedimento ai sensi dell’art. 663 cod. proc. pen., ne cura l’esecuzione.

Ma il combinato disposto delle norme citate non prevede alcuna regola utilizzabile per l’individuazione della competenza nel caso in esame. Esse non disciplinano l’ipotesi dell’intervenuta irrevocabilità di un’ulteriore sentenza dopo la presentazione di un’istanza dinanzi al giudice dell’esecuzione nonché, in via d’interpretazione estensiva ed analogica, dinanzi al tribunale di sorveglianza.

Come la Corte di cassazione ha chiarito, l’art. 665, comma 4, cod. proc. pen. «non precisa il momento in cui la situazione che determina la competenza si cristallizza, e la questione è di primaria importanza essendo possibile e frequente il susseguirsi in fase esecutiva di nuove sentenze da eseguire che si aggiungono alle precedenti (in presenza o meno di provvedimenti di cumulo)» (Cass. sentenza n. 49256 del 2004). La stessa Corte, però, per quanto concerne il giudice dell’esecuzione, ha indicato la soluzione interpretativa da seguire, precisando nella medesima sentenza che «il sistema non sembra, peraltro, lasciare dubbi: la competenza si determina nel momento della presentazione della domanda e, in omaggio al principio della perpetuatio jurisdictionis, si radica definitivamente e non muta anche in caso di sopravvenienza di ulteriori titoli esecutivi». La Corte di cassazione si è pronunciata in senso analogo anche per quanto concerne il giudizio di sorveglianza (Cass., sentenza n. 4957 del 2004).

Considerato in diritto

1. — Il Tribunale di sorveglianza di Bari, con le quattro ordinanze di analogo tenore indicate in epigrafe, dubita, in riferimento agli articoli 25, primo comma, 111, secondo comma e 97, primo comma, della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 656, comma 5, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che, nelle more della decisione sull’istanza di concessione di misura alternativa alla detenzione, qualora sopravvengano altre sentenze definitive di condanna pronunciate da giudici di diverso distretto di corte d’appello nei confronti della stessa persona e il pubblico ministero competente determini la pena ai sensi dell’art. 663 cod. proc. pen., la competenza a decidere rimanga ferma in favore del tribunale di sorveglianza del luogo in cui ha sede l’ufficio del pubblico ministero che – al momento della presentazione di detta istanza da parte del condannato “libero sospeso” ai sensi dell’art. 656, comma 5, cod. proc. pen. – era competente per l’esecuzione.

Ad avviso del giudice a quo, l’art. 656, comma 6, cod. proc. pen. si applica soltanto nell’ipotesi in cui la pena da espiare sia stata inflitta con una o più sentenze definitive, in riferimento alle quali il pubblico ministero competente prima emetta apposito ordine di sospensione dell’esecuzione a norma dell’art. 656, comma 5, cod. proc. pen., e poi il condannato “libero sospeso” presenti, entro trenta giorni, apposita istanza di accesso a misura alternativa alla detenzione.

Invece, la norma denunziata nulla prevede per il caso in cui, dopo la presentazione da parte del condannato dell’istanza di accesso a misura alternativa alla detenzione, in relazione alla pena inflitta con una o più sentenze definitive, sopraggiungano altre sentenze definitive di condanna emesse da giudici di diverso distretto di corte d’appello, e queste siano assorbite – come nelle fattispecie sub iudice – in un apposito provvedimento di cumulo adottato dal pubblico ministero competente per territorio ai sensi dell’art. 663 cod. proc. pen.

In questa particolare ipotesi trova applicazione – secondo il rimettente – il principio, desumibile dal combinato disposto degli artt. 655, comma 1, e 665, comma 4, cod. proc. pen., secondo cui la competenza – qualora sopravvengano altre sentenze di condanna pronunciate da giudici di diverso distretto di corte d’appello – è del tribunale di sorveglianza del luogo in cui è stata pronunciata la sentenza divenuta irrevocabile per ultima e, cioè, del luogo in cui ha sede l’ufficio del pubblico ministero che, avendo emesso apposito provvedimento ai sensi dell’art. 663 cod. proc. pen., ne cura l’esecuzione.

Illustrate le ragioni di questo approdo ermeneutico, il rimettente afferma che le questioni in esame non potrebbero essere risolte applicando il principio della perpetuatio jurisdictionis, né sotto il profilo dell’analogia legis, né sotto quello dell’analogia juris, perché tale operazione interpretativa è possibile qualora la fattispecie sub iudice non sia disciplinata dalla legge, mentre nei casi in esame la competenza per territorio, oggetto delle procedure di sorveglianza, è disciplinata dal combinato disposto degli artt. 655, comma 1, e 665, comma 4, cod. proc. pen., norme nelle quali è contemplato il criterio legale da utilizzare per individuare il tribunale di sorveglianza territorialmente competente.

Tuttavia, secondo il giudice a quo, il criterio relativo alla competenza territoriale, desumibile dagli artt. 655, comma 1, e 665, comma 4, cod. proc. pen. sarebbe molto “mobile”, in quanto consente al tribunale di sorveglianza, inizialmente competente ex art. 656, comma 6, cod. proc. pen. di dichiararsi incompetente e di trasmettere gli atti della procedura al diverso tribunale di sorveglianza, nel frattempo divenuto competente per il sopravvenire di altra sentenza irrevocabile pronunciata da giudice di diverso distretto di corte d’appello. Ma tali ripetuti spostamenti della competenza per territorio, destinata a “cristallizzarsi” solo quando il tribunale di sorveglianza decida prima della sopravvenienza di altre condanne definitive pronunciate da giudici di altri distretti di corte d’appello, si pongono in contrasto con gli invocati parametri costituzionali e, segnatamente: con l’art. 25, primo comma, Cost., perché rendono impossibile individuare a priori il tribunale di sorveglianza competente per territorio a decidere sull’istanza diretta ad ottenere l’applicazione di misure alternative alla detenzione, presentata da chi è stato condannato con più sentenze emesse da giudici di diversi distretti di corte d’appello; con l’art. 111, secondo comma, Cost., perché dilatano in modo irragionevole i tempi di definizione dei procedimenti, non assicurandone quindi la ragionevole durata; con l’art. 97, primo comma, Cost., perché rischiano di far girare “a vuoto”, per un tempo più o meno lungo, la stessa attività giurisdizionale, concretizzando così la violazione del principio costituzionale di “buon andamento”, che informa l’attività di ogni amministrazione pubblica.

2. — Le ordinanze di rimessione sollevano questioni di costituzionalità inerenti alla medesima norma, svolgendo, altresì, censure nella sostanza identiche, onde i relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti con unica decisione.

3. — Le questioni sono inammissibili.

3. 1. — Il rimettente muove dal presupposto che l’art. 656, commi 5 e 6, cod. proc. pen., nulla prevede per il caso in cui, dopo la presentazione, da parte del condannato, dell’istanza di accesso a misura alternativa alla detenzione in riferimento alla pena inflitta con una o più sentenze definitive, sopraggiungano altre sentenze definitive di condanna emesse da giudici di diversi distretti di corte d’appello e tali sentenze siano assorbite in apposito provvedimento di cumulo adottato dal pubblico ministero territorialmente competente ai sensi dell’art. 663 cod. proc. pen. Il giudice a quo ritiene che, in questa particolare ipotesi, debba trovare applicazione il principio desumibile dal combinato disposto degli artt. 655, comma 1, e 665, comma 4, cod. proc. pen. (concernenti, peraltro, la fase dell’esecuzione e non il procedimento di sorveglianza), secondo cui la competenza, nel caso di sopravvenienza di altre sentenze di condanna pronunciate da giudici di diverso distretto di corte d’appello, è del tribunale di sorveglianza del luogo in cui è stata pronunciata la sentenza divenuta irrevocabile per ultima, cioè del luogo in cui ha sede l’ufficio del pubblico ministero che, avendo emesso apposito provvedimento ai sensi dell’art. 663 cod. proc. pen., ne cura l’esecuzione.

In presenza di tale espresso criterio legale attributivo di competenza, il rimettente esclude che alla regola contenuta nell’art. 656, comma 6, cod. proc. pen., possa applicarsi il canone della perpetuatio jurisdictionis.

Se così fosse, però, i reiterati spostamenti di competenza, ritenuti in contrasto con i parametri costituzionali evocati, sarebbero da ascrivere non alla carente formulazione dell’art. 656, comma 6, cod. proc. pen. (in relazione al quale si sollecita la pronunzia di sentenza additiva), bensì al criterio considerato applicabile nella fattispecie, desunto dal combinato disposto degli artt. 655, comma 1, e 665, comma 4, cod. proc. pen.; con la conseguenza che la questione sollevata, nei termini sopra indicati, andrebbe dichiarata manifestamente infondata per erroneità del presupposto interpretativo (ex multis, ordinanze n. 54 del 2005 e n. 100 del 2003).

In realtà, la ricostruzione operata dal rimettente si rivela non plausibile, perché il Tribunale non ha motivato adeguatamente le ragioni del convincimento espresso.

Invero, la competenza per territorio della magistratura di sorveglianza è disciplinata dall’art. 677 cod. proc. pen. (soltanto fugacemente menzionato nelle ordinanze di rimessione), in relazione alla condizione in cui si trova l’interessato all’atto della richiesta, della proposta o dell’inizio d’ufficio del relativo procedimento. Nella specie, avuto riguardo ai casi trattati nei giudizi principali, risulta rilevante il comma 2 di detta norma, che così dispone: «Quando l’interessato non è detenuto o internato, la competenza, se la legge non dispone diversamente, appartiene al tribunale o al magistrato di sorveglianza che ha giurisdizione sul luogo in cui l’interessato ha la residenza o il domicilio. Se la competenza non può essere determinata secondo il criterio sopra indicato, essa appartiene al tribunale o al magistrato di sorveglianza del luogo in cui fu pronunciata la sentenza di condanna, di proscioglimento o di non luogo a procedere e, nel caso di più sentenze di condanna o di proscioglimento, al tribunale o al magistrato di sorveglianza del luogo in cui fu pronunciata la sentenza divenuta irrevocabile per ultima».

Come il testuale dettato della norma pone in luce, essa si applica «se la legge non dispone diversamente», sicché quelli previsti dalla citata disposizione assumono il rango di criteri generali di competenza, ai quali, peraltro, la legge può apportare deroghe.

Come affermato dalla dottrina e dalla giurisprudenza (Cass., sentenze n. 38171 del 2008, n. 38047 del 2005 e n. 47881 del 2004), una di tali deroghe è la previsione contenuta nell’art. 656, comma 6, cod. proc. pen., secondo la quale l’istanza va trasmessa al tribunale di sorveglianza competente in relazione al luogo in cui ha sede l’ufficio del pubblico ministero che ha promosso la sospensione dell’esecuzione, così ponendo un criterio specifico che determina la competenza del detto tribunale, in base ad un parametro diverso dal luogo di residenza o di domicilio.

L’individuazione di questo specifico criterio di determinazione della competenza del tribunale di sorveglianza rende, altresì, non congruo il riferimento che il rimettente compie all’ultima parte del comma 2 dell’art. 677 cod. proc. pen., in cui vi è una identificazione della competenza per territorio della magistratura di sorveglianza con quella funzionale del giudice dell’esecuzione (nell’ipotesi di più sentenze di condanna o di proscioglimento).

La disposizione individua un criterio generale residuale che, alla luce dell’espressa clausola di salvaguardia contenuta nella medesima disposizione («salvo che la legge non disponga altrimenti»), è destinato a non trovare applicazione laddove sussista una specifica regola di competenza, qual è quella contenuta nell’art. 656, comma 6, cod. proc. pen.

Con riferimento a tale regola di competenza territoriale, la Corte di cassazione ha affermato che la competenza per territorio del tribunale di sorveglianza, radicatasi ai sensi della norma ora citata, rimane ferma anche qualora sopravvengano altri titoli esecutivi sulla base di sentenze definitive di condanna pronunciate da giudici di diverso distretto di corte d’appello. Infatti essa ha ritenuto applicabile il principio della perpetuatio jurisdictionis, «secondo il quale, una volta radicatasi la competenza per territorio con riferimento alla situazione esistente al momento della richiesta di una misura alternativa alla detenzione, tale competenza resta insensibile agli eventuali mutamenti che tale situazione può subire in virtù di altri successivi provvedimenti» (Cass., sentenza n. 198 del 2005). La Corte di legittimità ha osservato, tra l’altro, che questo è «un criterio di orientamento certo ed obiettivo, che, in presenza della stessa domanda di concessione di una misura alternativa alla detenzione, consente di evitare il trasferimento del procedimento di sorveglianza davanti a giudici di volta in volta diversi, in relazione al continuo aggiornamento della posizione esecutiva di un condannato». La ratio del criterio, del resto, è quella di realizzare l’esigenza che, una volta intervenuta la sospensione dell’esecuzione, siano garantite la celerità del procedimento ed il collegamento con il pubblico ministero che ha disposto la sospensione.

Detta sentenza, pronunciata proprio con riguardo al procedimento di sorveglianza, esprime, peraltro, un indirizzo che, quanto all’applicabilità del principio della perpetuatio jurisdictionis, risulta costante in tema di esecuzione penale (ex multis, Cass., sentenze n. 24339, n. 24438 del 2008 e n. 49256 del 2004).

Il rimettente, trascurando di considerare adeguatamente i profili ora indicati, da un lato, ha omesso di verificare la praticabilità di interpretazioni idonee a determinare il superamento dei dubbi di costituzionalità (sentenza n. 192 del 2007; ordinanze n. 193 del 2008 e n. 409 del 2007); dall’altro, non ha adempiuto all’obbligo di ricercare una interpretazione costituzionalmente orientata della norma impugnata (ordinanze n. 441 del 2008, n. 268 del 2008 e n. 32 del 2007), pur possibile alla luce delle considerazioni dianzi esposte e del diritto vivente desumibile dalla citata giurisprudenza di legittimità.

Tali carenze integrano autonome cause d’inammissibilità delle questioni, in relazione a tutti i parametri invocati (con riguardo all’art. 97, primo comma, Cost. va, peraltro, detto che, per costante giurisprudenza di questa Corte, questo parametro non riguarda la disciplina dell’attività giurisdizionale: ex multis, sentenze n. 272 del 2008 e n. 117 del 2007).

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

riuniti i giudizi,

dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 656, comma 6, del codice di procedura penale, sollevate, in riferimento agli articoli 25, primo comma, 111, secondo comma, e 97, primo comma, della Costituzione, dal Tribunale di sorveglianza di Bari con le ordinanze indicate in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 giugno 2009.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Alessandro CRISCUOLO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 12 giugno 2009.