sentenza n. 434/2002

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SENTENZA N.434

ANNO 2002

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Cesare RUPERTO, Presidente

- Riccardo CHIEPPA

- Gustavo ZAGREBELSKY

- Valerio ONIDA

- Carlo MEZZANOTTE

- Guido NEPPI MODONA

- Piero Alberto CAPOTOSTI

- Franco BILE

- Giovanni Maria FLICK

- Francesco AMIRANTE

- Ugo DE SIERVO

- Romano VACCARELLA

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 13, comma 8, della legge 27 marzo 1992, n. 257 (Norme relative alla cessazione dell'impiego dell'amianto), come modificato dalla legge 27 marzo 1993, n. 271 – recte: come modificato dall'art. 1, comma 1, del decreto-legge 5 giugno 1993, n. 169 (Disposizioni urgenti per i lavoratori del settore dell'amianto), convertito, con modificazioni, nella legge 4 agosto 1993, n. 271 – e dell'art. 80, comma 25, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2001), promosso con ordinanza del 18 dicembre 2001 dal Tribunale di Ravenna nel procedimento civile vertente tra Gamberini Roberto ed altro e l'INPS, iscritta al n. 59 del registro ordinanze 2002 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 7, prima serie speciale, dell'anno 2002.

Visti l'atto di costituzione dell'INPS nonché l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 18 giugno 2002 il Giudice relatore Francesco Amirante;

uditi l'avvocato Alessandro Riccio per l'INPS e l'avvocato dello Stato Giuseppe Stipo per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.— Nel corso di un giudizio nel quale due ex dipendenti della Compagnia portuale di Ravenna, ai quali la pensione di anzianità era stata liquidata con decorrenza 1° maggio 1987, avendo ricevuto dall'INAIL l'attestazione di esposizione all'amianto per oltre un decennio, hanno chiesto il riconoscimento del beneficio della rivalutazione contributiva di cui all'art. 13, comma 8, della legge 27 marzo 1992, n. 257, il Tribunale di Ravenna, con ordinanza del 18 dicembre 2001, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 38, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale del citato art. 13, comma 8, della legge 27 marzo 1992, n. 257 (Norme relative alla cessazione dell'impiego dell'amianto), come modificato dalla legge 27 marzo 1993, n. 271 – recte: come modificato dall'art. 1, comma 1, del decreto-legge 5 giugno 1993, n. 169 (Disposizioni urgenti per i lavoratori del settore dell'amianto), convertito, con modificazioni, nella legge 4 agosto 1993, n. 271 – e dell'art. 80, comma 25, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2001), nella parte in cui, secondo la giurisprudenza della Corte di cassazione, non stabiliscono che l'erogazione del beneficio della rivalutazione contributiva ivi prevista spetti ai lavoratori esposti all'amianto per oltre un decennio che fossero già pensionati al momento dell'entrata in vigore della citata legge n. 257 del 1992.

Il Tribunale remittente, dopo aver precisato che da un atto di indirizzo del Ministero del lavoro e della previdenza sociale del 20 aprile 2000 risulta che per i lavoratori portuali l'esposizione all'amianto attraverso manipolazioni dirette ha avuto inizio alla data della relativa assunzione (coincidente con l'iscrizione nei registri portuali) e si è conclusa prima della entrata in vigore della legge n. 257 del 1992, essendo cessata il 31 dicembre 1990, fa una serie di considerazioni relative all'uso nocivo dell'amianto, ai progressi della scienza medica al riguardo, alla relativa consapevolezza dimostrata dalla Comunità europea fin dal 1983 (direttiva del Consiglio n. 83/477/CEE) ed al ritardo dell'Italia nel dare attuazione alla suddetta direttiva, avendo il nostro Paese provveduto a tale doverosa incombenza solo con il decreto legislativo 15 agosto 1991, n. 277, emanato dopo una condanna subita da parte della Corte di giustizia CEE (sentenza 13 dicembre 1990, n. 240).

In tale situazione, anche in considerazione dell'inclusione, da parte della giurisprudenza della Corte di cassazione, nella platea dei destinatari del beneficio de quo di tutti i soggetti ancora inseriti nel mondo del lavoro alla data di entrata in vigore della legge n. 257 del 1992, qualunque fosse il loro stato occupazionale del momento (di occupato nel settore dell'amianto, di disoccupato, di sospeso ovvero di occupato in un settore diverso), a prescindere dall'attualità dell'esposizione, così come addirittura dei titolari di pensione o assegno di invalidità (sul presupposto del mantenimento da parte loro di una residua capacità lavorativa), non si comprende come mai la stessa Corte, con giurisprudenza ormai consolidata, abbia sempre escluso l'applicabilità del beneficio di cui si tratta nei confronti di coloro che al momento dell'entrata in vigore della legge n. 257 del 1992 fossero già titolari di pensione di anzianità (come gli attuali ricorrenti) ovvero di vecchiaia.

Osserva il remittente che diverse sono le censure che possono essere mosse non solo al più volte citato art. 13, comma 8, della legge n. 257 del 1992, interpretato nel senso suindicato, ma anche all'art. 80, comma 25, della successiva legge n. 388 del 2000, che dello stesso art. 13, comma 8, fornirebbe indiretta interpretazione autentica.

Le suddette disposizioni si pongono, infatti, in contrasto con i parametri invocati in primo luogo perché, in violazione del principio di eguaglianza, riservano ai soggetti già pensionati di cui si è detto un trattamento ingiustificatamente deteriore rispetto agli altri soggetti che si ritengono compresi fra i destinatari del beneficio di natura previdenziale in argomento, pur essendo stata accertata nei loro confronti la medesima situazione di rischio.

Sarebbe, inoltre, ravvisabile un contrasto con il principio di razionalità e coerenza normativa di cui all'art. 3 della Costituzione in quanto, se il contenuto precettivo delle disposizioni impugnate fosse quello loro attribuito dalla giurisprudenza della Corte di cassazione, esse sarebbero in conflitto con la loro stessa ratio – da individuare, anche secondo quanto affermato da questa Corte nella sentenza n. 5 del 2000, nella volontà del legislatore di offrire un indennizzo a tutti i lavoratori che sono stati esposti ad un rischio ritenuto morbigeno – perché si finirebbe "per negare lo stesso indennizzo ad una circoscritta categoria di soggetti che hanno subito la stessa esposizione parimenti morbigena per motivi di lavoro" di coloro del cui diritto non si dubita.

Con specifico riguardo all'art. 80, comma 25, della legge n. 388 del 2000, il remittente precisa, inoltre, che tale norma si porrebbe in contrasto con l'art. 3 della Costituzione anche ove stabilisce che non si fa luogo al recupero, da parte dell'INPS, degli importi oggetto di ripetizione di indebito nei confronti dei titolari di pensione interessati al beneficio, in conseguenza della rinuncia all'azione da parte del pensionato e dell'estinzione del relativo procedimento. Tale norma sembrerebbe, infatti, configurare solo per tali soggetti "una forma indiretta di coazione a rinunciare alla prosecuzione del giudizio".

Nell'ordinanza si sostiene infine che, come è già stato sottolineato nella citata sentenza di questa Corte n. 5 del 2000, e non è stato considerato invece dalla giurisprudenza ordinaria che si contesta, la legge n. 257 del 1992 ha una copertura finanziaria che non è dei soli 72 miliardi di lire previsti nel d.l. n. 169 del 1993 ma anche dei 110 miliardi di lire originariamente stanziati dall'art. 13, comma 12, della legge n. 257 medesima. Detto questo, se si pone un problema di sufficienza di questa copertura, esso non può valere solo per una categoria di soggetti (i pensionati di anzianità al momento dell'introduzione del beneficio) ma, caso mai, deve porsi per tutti coloro che hanno titolo ad essere destinatari del beneficio, non potendo, secondo quanto affermato da questa Corte nella sentenza n. 136 del 2001, l'esigenza del contenimento della spesa "autorizzare un uso sperequato e discriminatorio della discrezionalità normativa che sconfini nella aperta violazione di altri principi cardine dell'ordinamento costituzionale".

2.— Nel giudizio davanti alla Corte è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso chiedendo, anche in una memoria aggiunta, che la questione sia dichiarata inammissibile o non fondata.

La difesa erariale, dopo aver osservato che il remittente pone in realtà in discussione scelte di politica sociale riservate alla discrezionalità del legislatore, sottolinea che la ricostruzione interpretativa della normativa impugnata operata dalla giurisprudenza della Corte di cassazione, a partire dalla sentenza n. 6605 del 1998, cui il Tribunale di Ravenna si oppone, è invece da considerare quella maggiormente conforme al dato letterale, sistematico e teleologico delle disposizioni impugnate. E', infatti, da ritenere che il legislatore abbia concepito il beneficio contributivo in discussione come meccanismo diretto a facilitare il raggiungimento dei requisiti assicurativi necessari per l'accesso al pensionamento e non come strumento finalizzato ad incrementare i trattamenti pensionistici già erogati al momento dell'entrata in vigore della legge n. 257 del 1992. Questa è l'unica interpretazione della disposizione di cui all'art. 13, comma 8, della citata legge n. 257 del 1992, attualmente impugnato, che risulti armonica rispetto ai precedenti commi 2 e 7 dello stesso art. 13 ed è anche l'interpretazione su cui poggia la copiosa giurisprudenza della Corte di cassazione che ha legittimamente diversificato il trattamento da attribuire ai soggetti già titolari di pensione di anzianità e di vecchiaia rispetto ai titolari di assegno e pensione di invalidità. Soltanto a questi ultimi è stata riconosciuta la possibilità di avvalersi della rivalutazione contributiva de qua in quanto solo ad essi può essere riconosciuta una residua capacità lavorativa, con l'esigenza di incrementare l'anzianità contributiva per conseguire le prestazioni di vecchiaia.

La suddetta interpretazione la quale, quindi, esclude che il beneficio contributivo di cui si tratta possa essere attribuito a tutti i soggetti che comunque, nel corso della loro vita lavorativa, siano stati esposti ad inalazione di fibre di amianto, è stata confermata ed arricchita di ulteriori argomenti dalla Corte di cassazione anche dopo la sentenza costituzionale n. 5 del 2000 (v. per tutte Cass. 3 aprile 2001, n. 4913) ed è l'unica che risulta coerente con la copertura di spesa predisposta dal legislatore in materia. Va, infatti, considerato al riguardo che, allo stato, hanno ottenuto il riconoscimento dell'esposizione ultradecennale all'amianto 42.000 lavoratori, di cui 10.108 attivi al momento della entrata in vigore della citata legge n. 257 del 1992, mentre risultano presentate circa 132.000 domande di riconoscimento di esposizione all'amianto. Da ciò si desume che, in considerazione della platea dei potenziali interessati, una eventuale pronuncia di illegittimità costituzionale della normativa impugnata determinerebbe "rilevanti maggiori oneri a carico della finanza pubblica".

L'Avvocatura dello Stato sostiene, infine, la natura meramente interpretativa della questione in argomento.

3.— Si è costituito l'INPS che ha concluso chiedendo che la questione sia dichiarata manifestamente infondata.

L'Istituto sottolinea che la norma di cui all'art. 13, comma 8, della legge n. 257 del 1992 deve essere riguardata nell'ambito della logica dei prepensionamenti, come ritenuto fin dalle sue prime pronunce in argomento dalla Corte di cassazione. Interpretare la norma in modo diverso vorrebbe dire non solo snaturare la ratio legis – consistente nella introduzione di un meccanismo diretto a favorire il pensionamento dei lavoratori esposti all'amianto – ma significherebbe anche attribuire un identico trattamento a situazioni disomogenee, come ha lucidamente sottolineato la stessa Corte di cassazione nella sentenza n. 12524 del 2001, nella quale si è fra l'altro ritenuta manifestamente infondata una questione di costituzionalità analoga a quella attualmente sollevata richiamandosi il principio, ormai consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, secondo cui "non può contrastare con il principio di uguaglianza un differenziato trattamento applicato alla stessa categoria di soggetti ma in momenti diversi nel tempo perché lo stesso fluire di questo costituisce di per sé un elemento diversificatore".

Considerato in diritto

1.— Il Tribunale di Ravenna, nel corso di un giudizio civile per la riliquidazione della pensione di anzianità promosso contro l'INPS da due lavoratori portuali collocati in quiescenza il 30 aprile 1987 ed in possesso dell'attestazione dell'INAIL di essere stati esposti alle polveri di amianto per oltre un decennio, ha sollevato, con riferimento agli artt. 3, primo comma, e 38, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 13, comma 8, della legge 27 marzo 1992, n. 257 (Norme relative alla cessazione dell'impiego dell'amianto), come modificato dall'art. 1, comma 1, del decreto-legge 5 giugno 1993, n. 169 ( Disposizioni urgenti per i lavoratori del settore dell'amianto), convertito, con modificazioni, nella legge 4 agosto 1993, n. 271, e dell'art. 80, comma 25, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2001), in quanto dette norme, come costantemente interpretate dalla giurisprudenza della Corte di cassazione, non prevedono che spetti ai soggetti già titolari di pensione di anzianità o di vecchiaia al momento di entrata in vigore della legge n. 257 del 1992 (28 aprile 1992) il beneficio contributivo di cui al citato art. 13, comma 8, della stessa, consistente nella moltiplicazione, ai fini delle prestazioni pensionistiche, per il coefficiente di 1,5 dell'intero periodo lavorativo soggetto all'assicurazione obbligatoria contro le malattie professionali derivanti dall'esposizione all'amianto.

Secondo il remittente il beneficio oggetto del giudizio a quo ha natura di indennizzo del pericolo corso dai lavoratori per essere stati esposti all'amianto per il periodo indicato; la moltiplicazione per il coefficiente di 1,5, ai fini delle prestazioni pensionistiche, dell'intero periodo lavorativo soggetto all'assicurazione obbligatoria contro le malattie professionali derivanti dall'esposizione all'amianto atterrebbe quindi al bene salute e non costituirebbe un'agevolazione all'esodo dei lavoratori impiegati in attività comportanti l'uso dell'amianto. Ciò, secondo l'opinione del remittente, è stato già affermato da questa Corte nella sentenza n. 5 del 2000 e successivamente dalla giurisprudenza ordinaria (Cass. 3 aprile 2001, n. 4913).

Una volta identificata nel senso suindicato la ratio del citato comma 8 dell'art. 13 della legge n. 257 del 1992, la inapplicabilità del beneficio ai lavoratori già fruenti della pensione di vecchiaia o di anzianità sarebbe irragionevole perché si risolverebbe nel praticare un trattamento ingiustificatamente deteriore a soggetti che si sono trovati nella medesima situazione di coloro ai quali esso si applica e contrasterebbe quindi con il principio di eguaglianza – art. 3 Cost. – nonché con l'art. 38, secondo comma, Cost., in quanto tali soggetti percepirebbero una prestazione previdenziale insufficiente.

L'illegittimità costituzionale del citato art. 13, comma 8, comporterebbe anche quella dell'art. 80, comma 25, della legge n. 388 del 2000 il quale stabilisce, in caso di rinuncia all'azione, l'estinzione dei giudizi aventi ad oggetto la domanda di riliquidazione della pensione proposta dai soggetti già pensionati al momento dell'entrata in vigore della prima norma, la compensazione delle spese e l'irripetibilità delle somme loro indebitamente erogate a tale titolo; norma quest'ultima che sembra contenere un'indiretta interpretazione autentica della prima e costituisce un'illegittima coazione nei confronti dei soggetti già pensionati a non far valere i propri diritti.

2.— Si rileva, in via preliminare, che le eccezioni di inammissibilità sollevate dall'Avvocatura dello Stato non possono essere accolte.

Non vale, infatti, nel caso in esame, invocare la discrezionalità legislativa perché il giudice remittente censura di irragionevolezza proprio la scelta operata dal legislatore, adducendone il contrasto con l'art. 3 della Costituzione.

Quanto alla rilevanza è sufficiente osservare che dall'ordinanza di remissione risulta che i soggetti attori nel giudizio a quo godevano della pensione di anzianità da circa cinque anni prima dell'entrata in vigore della legge n. 257 del 1992.

3.— La questione non è fondata.

E' necessario ripercorrere l'iter degli interventi normativi, comunitari e nazionali, che si sono succeduti in materia di progressiva riduzione e di finale eliminazione dei rischi derivanti dall'uso dell'amianto, a partire dalla direttiva CEE n. 477 del 19 settembre 1983.

Nelle considerazioni premesse all'articolato, mentre si dava atto della nocività dell'amianto, si rilevava nel contempo che erano numerose le situazioni di lavoro in cui tale agente nocivo era presente; che le conoscenze scientifiche dell'epoca non consentivano di stabilire il livello al di sotto del quale non vi fossero più rischi per la salute, rischi da ritenere comunque proporzionati al tipo di lavorazione, al correlativo grado di concentrazione dell'amianto e ai tempi di esposizione.

Sulla base di tali considerazioni, il provvedimento dettava una serie di disposizioni dirette, anzitutto, ad accertare, mediante le opportune notifiche da parte delle imprese, le lavorazioni comunque comportanti l'uso dell'amianto ed i livelli di concentrazione e ad ottenere la eliminazione di un certo tipo di lavorazione (applicazione dell'amianto a spruzzo: art. 5), l'adozione di misure concernenti le modalità di svolgimento delle lavorazioni, la protezione degli ambienti in cui si svolgevano, ed, infine, l'accertamento delle condizioni di salute dei lavoratori e la dotazione di idonei equipaggiamenti individuali, qualora non fosse stato possibile eliminare altrimenti i rischi.

A tale direttiva gli Stati membri avrebbero dovuto dare attuazione entro il 1° gennaio 1987, ad esclusione delle attività estrattive dell'amianto per le quali era previsto un termine più lungo.

Poiché l'Italia non aveva adottato i provvedimenti dovuti, la Corte di giustizia delle Comunità europee, a seguito di procedura di infrazione promossa dalla Commissione, con sentenza 13 dicembre 1990, n. 240, la dichiarò inadempiente agli obblighi che le incombevano in forza del Trattato CEE.

Successivamente il Consiglio emise la direttiva n. 382 del 1991 con la quale, nel ribadire la nocività dell'amianto e la sua presenza in numerose situazioni di lavoro e quindi la necessità di prevederne la sostituzione con altro materiale non pericoloso o meno pericoloso, vietò, in aggiunta alla applicazione a spruzzo, altre forme d'impiego del materiale e indicò nuovi valori limite, pur dando ancora atto che non erano del tutto noti allo stato delle conoscenze scientifiche le circostanze in cui l'amianto poteva essere morbigeno e i tempi di insorgenza delle diverse patologie.

Per dare attuazione alla suindicata direttiva n. 477 del 1983 e ad altre concernenti la protezione dei lavoratori contro i rischi derivanti da esposizione ad agenti chimici, fisici e biologici durante il lavoro, in esecuzione della delega di cui all'art. 7 della legge 30 luglio 1990, n. 212, fu emesso il decreto legislativo 15 agosto 1991, n. 277, il quale, tra l'altro, all'art. 31 fissò i valori limite di esposizione alla polvere di amianto, espressi come media ponderata in funzione del tempo di riferimento di otto ore.

Fu poi emanata la legge n. 257 del 1992 il cui art. 1, comma 1, individua le finalità con essa perseguite nella dismissione dell'amianto dalla produzione e dal commercio, nella cessazione dell'estrazione, dell'importazione, dell'esportazione, dell'utilizzazione di detto materiale e dei prodotti che lo contengono, nonché nella bonifica delle aree inquinate, nella ricerca di materiali sostitutivi e nella riconversione produttiva.

L'art. 13 della legge in esame, costituente il capo IV intitolato "Misure di sostegno per i lavoratori", prevede una serie di misure di carattere previdenziale: collocamento in cassa integrazione straordinaria, pensionamenti anticipati per un numero limitato di lavoratori calcolato in seicento unità, rivalutazione ai fini contributivi del periodo di lavoro durante il quale i lavoratori fossero stati esposti all'amianto.

Nell'ambito di tali misure fu inserito, al comma 8, il beneficio di cui si discute nel presente giudizio. Il testo originario della disposizione era il seguente: "Ai fini del conseguimento delle prestazioni pensionistiche i periodi di lavoro soggetti all'assicurazione obbligatoria contro le malattie professionali derivanti dall'esposizione all'amianto gestita dall'INAIL quando superano i dieci anni sono moltiplicati per il coefficiente di 1,5".

L'ultima parte della disposizione dette luogo ad incertezze interpretative in quanto si ritenne non chiaro se ad essere soggetto a rivalutazione mediante moltiplicazione per il coefficiente indicato fosse soltanto il periodo di lavoro eccedente il decennio, oppure l'intero periodo di esposizione all'amianto una volta che esso si fosse protratto per più di dieci anni (cfr. Camera dei deputati, XI legislatura, Assemblea, discussioni, resoconto della seduta del 12 luglio 1993, intervento del relatore del disegno di legge n. 2744 di conversione del d.l. n. 169 del 1993).

Il Governo intervenne con decretazione d'urgenza e, dopo un primo decreto-legge (5 aprile 1993, n. 95) non convertito, fu emesso il d.l. n. 169 del 1993, convertito con modifiche nella legge n. 271 del 1993.

Il testo originario dell'art. 1 del d.l. n. 169 del 1993, sostitutivo del comma 8 dell'art. 13 della legge n. 257 del 1992, era così formulato: "Per i lavoratori dipendenti dalle imprese che estraggono amianto o utilizzano amianto come materia prima, anche se in corso di dismissione o sottoposte a procedura fallimentare o fallite o dismesse, che siano stati esposti all'amianto per un periodo superiore ai dieci anni, l'intero periodo lavorativo soggetto all'assicurazione obbligatoria contro le malattie professionali derivanti dall'esposizione all'amianto, gestita dall'INAIL, è moltiplicato, ai fini delle prestazioni pensionistiche, per il coefficiente di 1,5".

In sede di conversione fu eliminato ogni riferimento al tipo di attività svolta dalle imprese ed alla situazione in cui esse versassero.

4.— L'esposizione della vicenda legislativa in cui si colloca la prima delle norme censurate consente di escludere che la ratio della medesima sia quella, risarcitoria o indennitaria, indicata dal remittente, con ciò venendo meno lo stesso presupposto della sua asserita illegittimità costituzionale in riferimento all'art. 3 della Costituzione.

La legge n. 257 del 1992 ha la sua origine storica nella direttiva comunitaria n. 477 del 1983 che, sulla base della accertata nocività dell'amianto, prescriveva l'adozione di una serie di misure finalizzate all'eliminazione dei rischi derivanti dall'utilizzazione del suindicato materiale in ogni fase e con qualsiasi modalità di lavorazione (come è reso palese anche dall'esplicito riferimento alla "cessazione dell'impiego dell'amianto" contenuto nel suo titolo).

A sua volta, il capo IV della legge stessa, che si esaurisce nell'art. 13, è intitolato "Misure di sostegno per i lavoratori" e contiene, come si è detto, altre misure oltre quella in oggetto, quali il collocamento in cassa integrazione ed i prepensionamenti, riguardanti, per loro natura, soltanto i soggetti ancora inseriti nel circuito lavorativo e quindi la sorte del loro rapporto di lavoro in considerazione della difficoltà di instaurarne altri.

Inoltre, il testo originario del comma 8 dell'art. 13 della legge n. 257 del 1992 iniziava con l'espressione "ai fini del conseguimento delle prestazioni pensionistiche…". La necessità di modificare tale testo sorse non con riguardo a siffatta espressione, bensì, come si è detto e come risulta con chiarezza dai lavori preparatori alla legge n. 271 del 1993 (v. Camera dei deputati, XI legislatura, Assemblea, discussioni, resoconto della seduta del 12 luglio 1993, citato intervento del relatore del relativo disegno di legge n. 2744), riguardo alla determinazione del periodo lavorativo oggetto della rivalutazione. Ne consegue che l'espressione "ai fini delle prestazioni pensionistiche", contenuta nel testo attuale della norma censurata, deve essere letta come riferentesi alle prestazioni pensionistiche da conseguire e cioè come sostanzialmente equivalente a quella originaria.

Tale opinione trova ulteriore conforto in affermazioni formulate nel corso dei lavori preparatori ed, in particolare, nel passo della relazione citata in cui la disposizione in questione viene assimilata a quelle concernenti la cassa integrazione ed i prepensionamenti nonché nella precisazione effettuata nella successiva discussione in Assemblea secondo cui il beneficio era diretto ai lavoratori che "per il solo motivo di aver lavorato l'amianto e per il carattere morbigeno di tale lavorazione non trovano spazi sul mercato del lavoro, ormai tutto nominativo".

5.— Il giudice remittente sostiene che, se la misura in questione fosse predisposta ad ovviare alla difficoltà per i lavoratori del settore amianto di mantenere il posto di lavoro o di trovarne altro, e quindi ad assicurarne il collocamento in quiescenza, essa non raggiungerebbe lo scopo in quanto il periodo contributivo di quindici anni – e cioè il minimo garantito dalla norma in esame – non sarebbe sufficiente per la maturazione del diritto a pensione. Il giudice a quo sostiene inoltre che questa Corte nella sentenza. n. 5 del 2000 ha già affermato la funzione risarcitoria della rivalutazione contributiva prevista dal comma 8 dell'art. 13 impugnato. Infine, ad avviso del Tribunale di Ravenna, l'esclusione dei soggetti già pensionati al momento dell'entrata in vigore della legge n. 257 del 1992 non potrebbe essere giustificata neppure con il rispetto delle esigenze di bilancio, perché tali esigenze sono state soddisfatte con l'individuazione dei necessari stanziamenti, come questa Corte ha ritenuto con la sentenza citata.

6.— Nessuna di tali tesi può essere condivisa.

Come si è premesso, gli organi della Comunità ed il legislatore nazionale si sono trovati a dover dettar norme riguardanti una materia della quale molti aspetti non erano del tutto noti. Infatti, se da un lato la nocività dell'amianto era da tempo accertata, non erano – e non lo sono tuttora – appieno conosciuti le modalità ed i tempi con i quali le polveri di amianto producono le gravi patologie ad esse riconducibili; d'altro canto, l'utilizzazione dell'amianto non era ristretta a ben precise categorie di imprese, sicché non era possibile identificare i beneficiari con riguardo al tipo di azienda in cui lavorassero o avessero lavorato. Proprio la consapevolezza che la realtà di fatto delle imprese e delle lavorazioni comportanti in qualsiasi forma l'uso dell'amianto non era determinabile indusse il Parlamento all'eliminazione, in sede di conversione, di quella parte della norma che delimitava la platea dei destinatari del beneficio in relazione all'appartenenza ad imprese che estraessero o utilizzassero amianto come materia prima. Da qui il carattere approssimativo della normativa rispetto ai fini perseguiti, ma non contraddittorio né irragionevole. D'altra parte, come questa Corte ha affermato, non ogni incoerenza o imprecisione di una normativa può venire in questione ai fini dello scrutinio di costituzionalità (v., tra le altre, proprio la sentenza n. 5 del 2000 invocata dal remittente).

Né è vero che questa Corte, nella sentenza n. 5 del 2000, abbia affermato il carattere risarcitorio del beneficio in esame escludendo che esso abbia invece la principale funzione di permettere ai lavoratori coinvolti nel processo di dismissione delle lavorazioni comportanti l'uso dell'amianto di ottenere il diritto alla pensione.

Nello stabilire il significato ed il valore di un precedente occorre tenere conto del contesto e, soprattutto, identificarne la ratio con riguardo alla questione oggetto della decisione. Il quesito al quale questa Corte ha risposto con la sentenza da ultimo richiamata consisteva nello stabilire se la norma dell'art. 13, comma 8, della legge n. 257 del 1992 come modificata, avesse descritto una fattispecie sufficientemente determinata, tale da escludere l'attribuzione all'amministrazione di una discrezionalità così ampia da rendere possibili trattamenti diversi per casi analoghi o eguale trattamento di situazioni diverse. La decisione fu positiva nel senso che la fissazione del tempo di esposizione all'amianto – oltre un decennio – unitamente a quella del limite superato il quale la concentrazione dell'amianto aveva potenzialità morbigene induceva a negare la paventata eventualità, senza alcun riferimento al profilo prospettato dal remittente.

Alla luce di queste considerazioni, l'espressione contenuta nella sentenza stessa che la norma ha "la finalità di offrire, ai lavoratori esposti all'amianto per un apprezzabile periodo di tempo (almeno dieci anni), un beneficio correlato alla possibile incidenza invalidante di lavorazioni che, in qualche modo, presentano potenzialità morbigene" non ha il valore che le attribuisce il remittente. Si può infatti osservare che proprio la possibilità di contrarre una patologia derivante dall'esposizione all'amianto rende difficile la collocazione al lavoro delle persone che si siano trovate nella situazione descritta dalla norma, come fu rilevato anche nel corso dei lavori preparatori.

Non assume alcun rilievo in senso contrario a quanto si è esposto la ricomprensione tra i destinatari della disposizione di coloro che, pur non avendo ancora raggiunto l'anzianità contributiva massima, abbiano maturato prima dell'entrata in vigore della legge n. 257 del 1992, anche senza l'applicazione del beneficio di cui si tratta, i requisiti di contribuzione per il conseguimento della pensione di anzianità o di vecchiaia e siano stati collocati in quiescenza in data successiva, atteso che essa trova giustificazione nel principio generale secondo cui le prestazioni si liquidano sulla base della legge vigente alla data della liquidazione stessa. La circostanza che tale inclusione si traduce, così come avverrebbe per i pensionati attualmente esclusi dalla rivalutazione contributiva, nella possibilità di ottenere un aumento della misura della pensione e non in un'agevolazione per il raggiungimento del trattamento pensionistico non è sufficiente a determinare la necessità di una parificazione di disciplina in quanto, come più volte è stato affermato da questa Corte, "l'estensione di agevolazioni a categorie di soggetti non contemplate dalla disciplina di favore può ritenersi costituzionalmente necessitata solo ove, accertata la piena omogeneità delle situazioni poste a confronto, lo esiga la ratio della disciplina invocata quale tertium comparationis" (v. sentenze n. 431 del 1997 e n. 86 del 1985, nonché ordinanza n. 194 del 2000). Nella specie, tale omogeneità va esclusa in considerazione della diversità di date di conseguimento del diritto cui si deve fare riferimento per ciascuna delle categorie di soggetti di cui si tratta e della corrispondenza di tale criterio discretivo ai principi generali regolatori della materia, corrispondenza che porta a concludere che il legislatore ha esercitato non irragionevolmente la discrezionalità che gli compete nella scelta delle modalità di configurazione dei trattamenti che – come la rivalutazione contributiva in oggetto – abbiano carattere eccezionale.

Ma ciò che più conta è che anche nei confronti dei soggetti già in possesso al 28 aprile 1992 dei requisiti per ottenere la pensione di anzianità o di vecchiaia il beneficio di cui si discute conserva la finalità di incentivare l'esodo dal mondo del lavoro.

Infine, non è condivisibile l'opinione del giudice a quo secondo la quale il legislatore avrebbe previsto l'estensione del beneficio ai soggetti già fruenti della pensione di anzianità o di vecchiaia al momento di entrata in vigore della legge, indicando le somme occorrenti per provvedervi e i relativi stanziamenti.

Basta rilevare sul punto che, mentre non risulta che alcuna indagine preventiva fu svolta riguardo al numero dei lavoratori già pensionati all'entrata in vigore della legge n. 257 del 1992, il rappresentante del Governo manifestò perplessità sull'adeguatezza degli stanziamenti qualora fosse stata eliminata dal decreto la limitazione del beneficio ai lavoratori operanti in imprese estrattive o che impiegavano l'amianto come materia prima (v. Camera dei deputati, XI legislatura, Assemblea, discussioni, resoconto della seduta del 12 luglio 1993, p. 15950 e s.).

7.— La questione non è fondata neppure in riferimento all'art. 38, secondo comma, della Costituzione.

Questa Corte, infatti, ha più volte escluso che la garanzia prevista da tale precetto costituzionale possa riguardare le pensioni di anzianità liquidate, come quelle cui si riferisce il presente giudizio, nel regime precedente alla riforma introdotta dalla legge 8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare), presupponendo esse la sola maturazione di una determinata anzianità contributiva (v. sentenza n. 416 del 1999 e ordinanza n. 70 del 2002).

Comunque, pur prescindendo dalla suddetta considerazione, all'infondatezza della questione si perviene in linea generale anche in base all'affermazione di questa Corte secondo cui la norma costituzionale di cui si tratta "esige che il trattamento previdenziale sia sufficiente ad assicurare le esigenze di vita del lavoratore pensionato; ma nell'attuazione di tale principio al legislatore deve riconoscersi un margine di discrezionalità, anche in relazione alle risorse disponibili, almeno quando non sia in gioco la garanzia delle esigenze minime di protezione della persona" (cfr., ex multis, sentenza n. 180 del 2001 e ordinanza n. 342 del 2002).

8.— L'infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 13, comma 8, della legge n. 257 del 1992 determina l'infondatezza anche della questione di costituzionalità concernente l'art. 80, comma 25, della legge n. 388 del 2000, sollevata come derivante dalla illegittimità della prima norma censurata sotto il profilo che il citato comma 25 ne costituirebbe una singolare forma d'interpretazione autentica. Infatti, una volta ritenuta la legittimità costituzionale del citato art. 13, comma 8, interpretato nel senso che esso esclude dal beneficio i soggetti già pensionati per anzianità o vecchiaia al momento dell'entrata in vigore della legge n. 257 del 1992, viene meno ogni dubbio sulla legittimità del suindicato art. 80 sotto il profilo che costituirebbe una coazione alla rinuncia a far valere un diritto.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 13, comma 8, della legge 27 marzo 1992, n. 257 (Norme relative alla cessazione dell'impiego dell'amianto), come modificato dall'art. 1, comma 1, del decreto-legge 5 giugno 1993, n. 169 (Disposizioni urgenti per i lavoratori del settore dell'amianto), convertito, con modificazioni, nella legge 4 agosto 1993, n. 271, e dell'art. 80, comma 25, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2001), sollevata, in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 38, secondo comma, della Costituzione, dal Tribunale di Ravenna con l'ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 ottobre 2002.

Cesare RUPERTO, Presidente

Francesco AMIRANTE, Redattore

Depositata in Cancelleria il 31 ottobre 2002.