Sentenza n. 197 del 2002

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SENTENZA N. 197

ANNO 2002

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Cesare RUPERTO, Presidente

- Massimo VARI

- Riccardo CHIEPPA

- Gustavo ZAGREBELSKY

- Valerio ONIDA

- Carlo MEZZANOTTE

- Fernanda CONTRI

- Guido NEPPI MODONA

- Piero Alberto CAPOTOSTI

- Franco BILE

- Giovanni Maria FLICK

- Francesco AMIRANTE

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 3 della legge 29 dicembre 1987, n. 546 (Indennità di maternità per le lavoratrici autonome), promosso con ordinanza emessa il 9 ottobre 2000 dal Tribunale di Treviso nel procedimento civile vertente tra Milani Smaniotto Ida e l’Istituto Nazionale per la Previdenza Sociale, iscritta al n. 756 del registro ordinanze 2000 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 50, prima serie speciale, dell’anno 2000.

Visto l’atto di costituzione dell’INPS;

udito nell’udienza pubblica del 15 gennaio 2002 il Giudice relatore Fernanda Contri;

udito l’avvocato Pilerio Spadafora per l’INPS.

Ritenuto in fatto

1. – Il Tribunale di Treviso, con ordinanza emessa il 9 ottobre 2000, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 31 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 3 della legge 29 dicembre 1987, n. 546 (Indennità di maternità per le lavoratrici autonome), nella parte in cui non prevede che, qualora il parto avvenga in data anticipata rispetto a quella presunta, l’indennità giornaliera sia corrisposta, oltre che per i tre mesi successivi alla data effettiva del parto, anche per il periodo non goduto prima del parto, fino al raggiungimento della durata complessiva di mesi cinque.

Il giudice rimettente precisa che la ricorrente, coltivatrice diretta, lamenta la mancata corresponsione da parte dell’INPS dell’indennità economica di maternità nei due mesi precedenti il parto, avvenuto al settimo mese di gravidanza, avendo l’Istituto previdenziale liquidato solo l’indennità relativa ai tre mesi successivi al parto; ed inoltre che la ricorrente invoca l’applicazione della sentenza della Corte costituzionale n. 270 del 1999, la cui portata si ritiene estensibile anche alle lavoratrici autonome, a favore delle quali é stata prevista l’indennità di maternità.

Il giudice a quo, dopo aver affermato che la citata sentenza, con la quale é stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 della legge 30 dicembre 1971, n. 1204 (Tutela delle lavoratrici madri), non é applicabile alla fattispecie, poichè la ricorrente non é una lavoratrice subordinata ma una coltivatrice diretta, soggetta quindi alle disposizioni della legge n. 546 del 1987, precisa che non può nemmeno applicarsi la successiva legge 8 marzo 2000, n. 53 (Disposizioni per il sostegno della maternità e della paternità, per il diritto alla cura e alla formazione e per il coordinamento dei tempi delle città), avendo questa disciplinato le ipotesi di parti prematuri con esclusivo riferimento all’art. 4 della legge n. 1204 del 1971 e, quindi, alle lavoratrici subordinate.

Il rimettente sottolinea che la formulazione letterale dell’art. 3 della legge n. 546 del 1987, così come quella dell’art. 4, lettera c) , della legge n. 1204 del 1971, risulta rigidamente determinata sia in ordine alla durata che alla decorrenza dell’indennità, senza prevedere una decorrenza diversa per il caso di parto prematuro.

Tale norma, ad avviso del giudice a quo, determina tuttavia una disparità di trattamento non già per il raffronto tra la disciplina delle lavoratrici subordinate e quella delle coltivatrici dirette, la cui diversità é stata più volte ritenuta legittima dalla Corte costituzionale (sentenze nn. 181 del 1993, 364 del 1995 e 3 del 1998), bensì per la comparazione, nell’ambito della medesima categoria delle coltivatrici dirette, tra quelle che partoriscono prematuramente e quelle che partoriscono a termine. Sussisterebbe, inoltre, un contrasto con l’art. 31 della Costituzione, che impone la protezione della maternità e del minore, anche con misure economiche.

Il Tribunale rimettente osserva poi che la violazione dei precetti costituzionali non é esclusa dal rilievo secondo cui per la categoria di lavoratrici, cui appartiene la ricorrente, non sussiste l’obbligo di astensione dal lavoro nel periodo in esame. Con la sentenza n. 3 del 1998 la Corte costituzionale, nell’escludere la illegittimità della mancata previsione dell’obbligo di astensione per le libere professioniste, ha affermato che la protezione deve essere adeguata alle caratteristiche della categoria e che "il sostegno economico che la legge fornisce alla lavoratrice gestante e poi madre ha il duplice obiettivo di tutelare la salute della donna e del nascituro e di evitare nel contempo che alla maternità si colleghi uno stato di bisogno o più semplicemente una diminuzione del tenore di vita".

L’indennità economica di maternità costituisce un presupposto legislativamente previsto nella misura predeterminata di cinque mesi per consentire anche alla lavoratrice non subordinata l’assolvimento della funzione materna, indipendentemente dall’insussistenza dell’obbligo di astensione dal lavoro in tale periodo, in quanto la lavoratrice é libera di scegliere se svolgere la funzione familiare conciliandola con la contemporanea cura dell’attività lavorativa.

Poichè l’indennità di maternità assolve all’indicata funzione anche per le coltivatrici dirette, non vi può essere una diversità di tutela economica tra le ipotesi di parto prematuro e di parto a termine.

2. – Nel giudizio innanzi alla Corte si é costituito l’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o comunque infondata.

Osserva anzitutto l’INPS che l’indennità economica per le lavoratrici autonome, prevista dalla legge n. 549 del 1987, é collegata direttamente ai periodi di gravidanza e puerperio ed é volta a garantire una continuità di reddito in tali periodi, disincentivando un’eventuale propensione a continuare l’attività lavorativa, pur rimessa alla scelta della donna, ed indennizzando la lavoratrice per la possibile diminuzione della capacità di guadagno.

Con la sentenza n. 181 del 1993, la Corte costituzionale ha ritenuto legittima la limitazione del trattamento economico di maternità delle lavoratrici autonome ai soli periodi dei due mesi prima del parto e dei tre mesi ad esso successivi, essendo riservata alla discrezionalità del legislatore la previsione di una disciplina analoga a quella stabilita per le lavoratrici subordinate dall’art. 5 della legge n. 1204 del 1971. Significativa, del resto, appare la circostanza che il legislatore, con l’art. 11 della legge n. 53 del 2000, abbia disciplinato l’ipotesi del parto prematuro solo con riferimento alle lavoratrici subordinate, senza regolare lo stesso fenomeno riguardo alle lavoratrici autonome, ancorchè ad esse sia stato esteso il diritto all’astensione facoltativa post partum, con l’art. 3 della medesima legge del 2000.

Ad avviso dell’INPS, la riduzione o l’annullamento del periodo indennizzabile, che si verifica in modo imprevisto nell’ipotesi di parto prematuro, non comporterebbe lesione di interessi costituzionalmente protetti, poichè quando la gestazione si interrompe anticipatamente, prima che essa giunga in uno stato avanzato, non si determina la presumibile riduzione del reddito, non essendo rimasto impedito lo svolgimento della normale attività lavorativa.

Del resto, l’esistenza di un siffatto danno non é stata nemmeno dedotta dalla ricorrente, nè prospettata dal rimettente, che ha posto la questione sotto il profilo della disparità di trattamento che si determinerebbe, nell’ipotesi di parto prematuro, a causa della minor durata dell’indennizzo economico.

In definitiva, i casi di parto prematuro e di parto a termine darebbero luogo a situazioni obiettivamente diverse, che ricevono trattamenti economici differenziati in conseguenza della corrispondente minore durata del periodo che il legislatore ha ritenuto di dover tutelare.

Non deve trascurarsi che l’assistenza alla prole nata prematuramente é comunque tutelata dalla possibilità per le lavoratrici autonome di modulare l’impegno lavorativo, ricevendo il sostegno economico post partum.

Se si accogliesse una diversa interpretazione, l’indennità economica si trasformerebbe in un assegno una tantum, collegato esclusivamente all’evento del parto, che diverrebbe l’unico evento tutelato.

Considerato in diritto

1. – Il Tribunale di Treviso dubita della legittimità costituzionale dell’art. 3 della legge 29 dicembre 1987, n. 546 (Indennità di maternità per le lavoratrici autonome), nella parte in cui non prevede che, qualora il parto avvenga in data anticipata rispetto a quella presunta, l’indennità giornaliera sia corrisposta, oltre che per i tre mesi successivi alla data effettiva del parto, anche per il periodo non goduto prima del parto, fino al raggiungimento della durata complessiva di mesi cinque.

Tale norma, ad avviso del giudice a quo, darebbe luogo ad una disparità di trattamento tra le coltivatrici dirette che partoriscono prematuramente e quelle che partoriscono a termine; sussisterebbe, inoltre, un contrasto con l’art. 31 della Costituzione, che impone la protezione della maternità e del minore, anche con misure economiche.

2. – La questione é infondata, nei sensi di seguito precisati.

3. – Il legislatore, con la legge n. 546 del 1987, ha riconosciuto alle lavoratrici autonome il diritto al trattamento di maternità per i medesimi periodi di gravidanza e puerperio nei quali l’indennità é corrisposta alle lavoratrici subordinate, e precisamente per i due mesi antecedenti la data presunta del parto e per i tre mesi successivi alla data effettiva del parto.

Nell’ipotesi di parto prematuro, mentre per le lavoratrici subordinate é stata prevista dall’art. 11 della legge 8 marzo 2000, n. 53 (Disposizioni per il sostegno della maternità e paternità, per il diritto alla cura e alla formazione e per il coordinamento dei tempi delle città) la possibilità che "i giorni non goduti di astensione obbligatoria prima del parto vengono aggiunti al periodo di astensione obbligatoria dopo il parto", analoga disposizione, come osservano sia il giudice rimettente che l’INPS, non é stata emanata in relazione alle lavoratrici autonome.

Una siffatta disposizione é ora contenuta nell’art. 68 del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), il quale, eliminando il riferimento sia alla data presunta del parto che a quella effettiva, attribuisce l’indennità "per i due mesi antecedenti la data del parto e per i tre mesi successivi alla stessa". Onde attualmente, nell’ipotesi di parto prematuro, l’indennità é comunque corrisposta per complessivi cinque mesi, indipendentemente dalla durata della gestazione.

Benchè la citata norma, entrata in vigore dopo la pronuncia della ordinanza di rimessione, non possa trovare diretta applicazione nel giudizio a quo, tuttavia essa obbliga l’interprete ad una opzione ermeneutica conforme all’evoluzione del sistema normativo.

Tale evoluzione si pone del resto in continuità con i principi ripetutamente affermati da questa Corte in ordine alla tutela della maternità. Si é infatti più volte osservato che gli interventi legislativi succedutisi in materia attestano come il fondamento della protezione sia ormai ricondotto alla maternità in quanto tale e non più, come in passato, solo in quanto collegata allo svolgimento di un’attività di lavoro subordinato (da ultimo, sentenza n. 405 del 2001); ed inoltre che le differenti modalità del trattamento di maternità possono trovare giustificazione solo nella specificità delle situazioni lavorative, identico essendo il bene da tutelare (sentenza n. 361 del 2000). Infatti, l’indennità di maternità, pur se diversamente disciplinata in relazione alle differenti attività lavorative ed in ragione delle peculiarità proprie di ciascuna categoria di lavoratrici, assolve sempre alla medesima duplice funzione, che consiste nel tutelare la salute della donna e del bambino ed evitare che alla maternità si colleghi uno stato di bisogno o più semplicemente una diminuzione del tenore di vita (tra le tante, si vedano le sentenze n. 310 del 1999 e n. 3 del 1998).

Con particolare riferimento alle lavoratrici autonome e alle libere professioniste, si é poi affermato che la corresponsione dell’indennità di maternità non é collegata all’effettiva astensione dal lavoro, non potendo sussistere un obbligo in tal senso, in considerazione delle modalità di svolgimento di tale attività lavorativa, rimesse alla determinazione della donna.

L’applicazione di tali principi obbliga quindi ad interpretare la denunciata norma nel senso, conforme a Costituzione, che l’indennità spetta in ogni caso per la durata complessiva di mesi cinque.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3 della legge 29 dicembre 1987, n. 546 (Indennità di maternità per le lavoratrici autonome), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 31 della Costituzione, dal Tribunale di Treviso con l’ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 maggio 2002.

Cesare RUPERTO, Presidente

Fernanda CONTRI, Redattore

Depositata in Cancelleria il 16 maggio 2002.