Sentenza n. 310/99

 CONSULTA ONLINE 

SENTENZA N. 310

ANNO 1999

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Prof.    Giuliano VASSALLI, Presidente

- Prof.    Francesco GUIZZI   

- Prof.    Cesare MIRABELLI

- Prof.    Fernando SANTOSUOSSO 

- Avv.    Massimo VARI         

- Dott.   Cesare RUPERTO    

- Dott.   Riccardo CHIEPPA  

- Prof.    Gustavo ZAGREBELSKY  

- Prof.    Valerio ONIDA        

- Prof.    Carlo MEZZANOTTE         

- Avv.    Fernanda CONTRI   

- Prof.    Guido NEPPI MODONA    

- Prof.    Piero Alberto CAPOTOSTI 

- Prof.    Annibale MARINI    

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 23, comma 7, della legge 11 marzo 1988, n. 67 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato) e dell’art. 18 delle legge della Regione Siciliana 1° settembre 1993, n. 25 (Interventi straordinari per l’occupazione produttiva in Sicilia), promosso con ordinanza emessa il 13 maggio 1997 dal Pretore di Catania nel procedimento civile vertente tra Bongiovanni Giuseppina e il Ministero del lavoro ed altri, iscritta al n. 914 del registro ordinanze 1997 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 3, prima serie speciale, dell’anno 1998.

Visto l’atto di costituzione dell’INPS, nonchè l’atto d’intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 24 marzo 1999 il Giudice relatore Fernando Santosuosso.

Ritenuto in fatto

1.— Con ricorso al Pretore di Catania una lavoratrice – utilizzata in qualità di ragioniera in un progetto di utilità sociale finanziato dalla Regione Siciliana, ai sensi dell’art. 23, comma 7, della legge 11 marzo 1988, n. 67 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato) e delle sue successive proroghe disposte con legge regionale (in particolare con l’art. 18 della legge della Regione Siciliana 1° settembre 1993, n. 25, recante "Interventi straordinari per l’occupazione produttiva in Sicilia") – ha convenuto in giudizio il Ministero del lavoro, l’Assessorato del lavoro e della previdenza sociale della Regione Siciliana, l’Ufficio provinciale del lavoro di Catania, l’INPS, nonchè la Cooperativa Europa 2000 s.r.l., sua datrice di lavoro, al fine di ottenere il riconoscimento del diritto a percepire l’indennità di maternità, a suo dire spettantele in base alla legge 30 dicembre 1971, n. 1204 (Tutela delle lavoratrici madri) per essere stata in astensione obbligatoria dal lavoro dal 29 agosto 1995 al 30 dicembre 1995.

Nell’ambito di tale giudizio, il Pretore di Catania ha sollevato questione di legittimità costituzionale, per contrasto con gli artt. 3 e 37 della Costituzione, dei citati artt. 23, comma 7, della legge n. 67 del 1988 e 18 della legge regionale siciliana n. 25 del 1993, nella parte in cui, esclusa la sussistenza della subordinazione nel rapporto di lavoro dei giovani impiegati in attività di utilità collettiva, non prevedono l’applicabilità alle lavoratrici madri, impegnate in tali attività, dell’art. 15 della legge n. 1204 del 1971 (che dispone l’erogazione a loro favore di un’indennità pari all’80% della retribuzione percepita).

Il giudice a quo dà atto che analoga questione é stata già sollevata dal Pretore di Catania, sezione distaccata di Giarre, ed é stata dichiarata inammissibile dalla Corte costituzionale, per difetto di rilevanza, con l’ordinanza n. 6 del 1996 (recte: con la sentenza n. 43 del 1996).

Tuttavia, a suo giudizio, vi sarebbe una palese ed ingiustificata disparità di trattamento delle lavoratrici madri, impiegate in progetti di utilità collettiva ai sensi delle norme impugnate, rispetto sia alle lavoratrici subordinate ed a quelle autonome (alle quali ultime é stata estesa la tutela disposta a favore delle prime, con le leggi n. 546 del 1987, n. 379 del 1990, n. 166 del 1991), sia alle stesse donne impiegate in progetti di utilità sociale approvati dal 1° gennaio 1996 in base a rapporti instaurati ai sensi dei decreti-legge n. 31 del 1995, n. 105 del 1995, n. 232 del 1995, n. 326 del 1995, n. 416 del 1995, n. 515 del 1995 e n. 39 del 1996, rapporti ai quali si applicano le disposizioni in materia di indennità di mobilità, che prevedono l’erogazione dell’indennità di maternità.

Inoltre sarebbe violato l’art. 37 della Costituzione, poichè il trattamento disposto dalle norme impugnate impedirebbe alle predette lavoratrici l’adempimento delle loro essenziali funzioni familiari.

D’altra parte, proprio alla stregua dei ricordati interventi normativi in materia, il Pretore ritiene che non sia consentita un’interpretazione analogica o estensiva delle disposizioni sopra richiamate, "stante l’espressa volontà del legislatore di ridurne, seppure irrazionalmente, l’ambito di applicazione, da un canto sotto il profilo delle categorie protette, dall’altro sotto il profilo dell’efficacia temporale".

2.— Si é costituito in giudizio, ma fuori termine, l’INPS, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o comunque infondata.

3.— Nel giudizio é intervenuto anche il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile o sia comunque rigettata per infondatezza o manifesta infondatezza.

In una successiva memoria, depositata in prossimità dell’udienza, la difesa erariale motiva tali richieste.

L’eccezione di inammissibilità si fonda sul fatto che l’art. 23 della legge n. 67 del 1988 "ha esaurito i propri effetti nel triennio 1988–90 e non era più in vigore allorquando si é verificato l’evento maternità che ha dato luogo alla domanda giudiziaria (1995) … Ne consegue che la questione di legittimità costituzionale sollevata può riferirsi razionalmente alla sola legge regionale" n. 25 del 1993, la quale opera una qualificazione del rapporto di lavoro da cui non sembra derivare la violazione dei principi costituzionali lamentata dal Pretore: violazione che, semmai, potrebbe derivare dalle norme previdenziali che definiscono il pagamento dell’indennità di maternità. Pertanto il Pretore non avrebbe correttamente individuato le norme alle quali dovrebbero essere riferiti i dubbi di costituzionalità sollevati, incorrendo in un vizio logico: il giudice a quo "assume l’illegittimità costituzionale della causa (l’omessa previsione della natura subordinata del rapporto di lavoro) in conseguenza di un suo specifico effetto (l’asserita non spettanza dell’indennità di maternità). In tali circostanze, non sembra dubbio che si debba agire sulle sole norme che disciplinano tali effetti, mentre sarebbe eccessivo e sovrabbondante incidere sulle cause, che dovrebbero essere valutate in base ai diversi parametri che attendono alla complessiva disciplina del rapporto di lavoro".

Sempre in via pregiudiziale, l’Avvocatura eccepisce il difetto di motivazione sulla rilevanza della questione, in quanto: a) se si ritiene che il problema proposto debba essere esaminato alla luce delle concrete modalità di svolgimento del rapporto di lavoro, l’ordinanza di rimessione non valuterebbe se, al di là della qualificazione normativa, il rapporto di lavoro della ricorrente abbia avuto nel concreto i caratteri della subordinazione, così da dar luogo in ogni caso alla corresponsione dell’indennità di maternità; b) se si ritiene che il problema vada, invece, esaminato alla luce dell’astratta qualificazione normativa del rapporto, il Pretore avrebbe omesso di considerare se il diritto all’indennità di maternità a favore della ricorrente non possa essere comunque affermato in base alla legge n. 546 del 1987, che ha esteso alle lavoratrici autonome i benefici già previsti a favore di quelle subordinate.

4.— Nel merito, l’Avvocatura dello Stato ritiene che le norme impugnate sfuggano alle dedotte censure di costituzionalità.

L’art. 23 della legge n. 67 del 1988, ove precisa che l’attività lavorativa ivi prevista non comporta l’instaurazione di un rapporto di lavoro subordinato, sarebbe coerente con gli obiettivi della legge e con la natura e le modalità di espletamento delle prestazioni richieste. Infatti, non si produrrebbe "l’inserimento del lavoratore nè nell’apparato dell’impresa che formalmente assume il compito di eseguire il progetto, nè tantomeno nell’organizzazione del soggetto che propone il progetto", ma l’attività socialmente utile sarebbe prestata in regime di sostanziale autonomia, ai sensi dell’art. 2222 del codice civile.

Perciò "non può invocarsi l’art. 3 Cost., perchè la posizione della lavoratrice assunta ai sensi dell’art. 23 della legge 67 é assimilabile più a quella del giovane in cerca di prima occupazione che non a quella del lavoratore dipendente, come dimostra il fatto che il suo impiego precario e la corresponsione di una indennità oraria sostitutiva dell'indennità di licenziamento sono compatibili con il suo inserimento nelle liste di collocamento".

Neppure sarebbe violato l’art. 37 della Costituzione, perchè l’individuazione dei beneficiari della speciale tutela indennitaria prevista dalla legge n. 1204 del 1971 e dalla legge n. 546 del 1987 rientrerebbe nelle discrezionali valutazioni del legislatore e non sarebbe censurabile, se non contrasti con fondamentali canoni di razionalità.

Considerato in diritto

1.— Il Pretore di Catania ha sollevato questione di legittimità costituzionale, per contrasto con gli artt. 3 e 37 della Costituzione, dell’art. 23, comma 7, della legge 11 marzo 1988, n. 67 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato) e dell’art. 18 delle legge della Regione Siciliana 1° settembre 1993, n. 25 (Interventi straordinari per l’occupazione produttiva in Sicilia), nella parte in cui, esclusa la sussistenza della subordinazione nel rapporto di lavoro dei giovani impiegati in attività di utilità collettiva, non prevedono l’applicabilità alle lavoratrici madri, impegnate in tali attività, dell’art. 15 della legge n. 1204 del 1971 (che dispone l’erogazione a loro favore di un’indennità pari all’80% della retribuzione percepita).

2.— Occorre preliminarmente esaminare le eccezioni sollevate dall’Avvocatura dello Stato, secondo la quale:

a) l’art. 23 della legge n. 67 del 1988 "ha esaurito i propri effetti nel triennio 1988–90 e non era più in vigore allorquando si é verificato l’evento maternità che ha dato luogo alla domanda giudiziaria (1995)", per cui la sollevata questione può riferirsi alla sola legge regionale n. 25 del 1993;

b) il Pretore di Catania non avrebbe correttamente individuato le norme cui riferire i dubbi di costituzionalità sollevati, poichè ha denunciato l’illegittimità costituzionale dell’omessa previsione della natura subordinata del rapporto di lavoro socialmente utile in conseguenza dell’asserita non spettanza dell’indennità di maternità, mentre avrebbe dovuto impugnare le sole norme che disciplinano tale ultimo beneficio;

c) la questione sarebbe inammissibile per difetto di motivazione sulla rilevanza, dal momento che l’ordinanza di rimessione non valuterebbe se, al di là della qualificazione normativa, lo specifico rapporto di lavoro della ricorrente abbia avuto nel concreto i caratteri della subordinazione, così da dar luogo alla corresponsione dell’indennità di maternità; anche esaminando il problema alla luce dell’astratta qualificazione normativa del rapporto vi sarebbe ugualmente difetto di motivazione, in quanto il Pretore avrebbe omesso di considerare se il diritto all’indennità di maternità a favore della ricorrente non possa essere comunque affermato in base alla legge n. 546 del 1987, che ha esteso alle lavoratrici autonome i benefici già previsti a favore di quelle subordinate.

L’eccezione sub a) é fondata. Come questa Corte ha già avuto modo di affermare, nella sentenza n. 43 del 1996 (con cui aveva dichiarato inammissibile per difetto di rilevanza una questione analoga, riferita però al solo art. 23 della legge n. 67 del 1988), "la fonte del rapporto di lavoro in questione non può più essere considerata la norma statale impugnata, avendo essa esaurito i propri effetti nel triennio 1988–1990". Ma l’odierna questione investe, oltre al citato art. 23, anche l’art. 18 della legge regionale siciliana n. 25 del 1993, in base al quale l’Assessore regionale al lavoro poteva ammettere al finanziamento progetti di utilità collettiva della durata di 24 mesi, a partire dal 1° gennaio 1994, aventi per oggetto il completamento di quelli realizzati in attuazione della legge n. 67 del 1988, ovvero progetti nuovi. La ricorrente é stata impiegata in base a tale norma regionale, la quale é dunque rilevante nel giudizio pretorile. Pertanto, il presente giudizio di costituzionalità deve essere riferito alla sola norma regionale impugnata, mentre deve essere dichiarata inammissibile la questione relativa alla predetta legge statale.

Le altre eccezioni, invece, non possono essere accolte.

A prescindere dall’accertamento della specifica natura del rapporto di lavoro in questione, il giudice a quo lamenta che per questo tipo di attività, sino alla fine del 1995, non fosse prevista la corresponsione dell’indennità di maternità, a differenza – a suo dire – di tutti gli altri rapporti di lavoro (subordinato, autonomo e libero-professionale) e della medesima attività, se intrapresa dal 1996 in poi. Tale diverso trattamento é chiaramente imputabile alla normativa relativa al lavoro socialmente utile e non a quella che disciplina i benefici previsti a favore delle lavoratrici madri. Inoltre, dal contesto dell’ordinanza di rimessione si deduce che il giudice a quo non ha ritenuto di qualificare l’attività prestata dalla ricorrente come lavoro subordinato, nè come lavoro autonomo; e coerentemente detta ordinanza non denuncia, come sostiene la difesa dello Stato, l’omessa previsione della natura subordinata del rapporto di lavoro, bensì si duole della non spettanza, nell’ipotesi in questione, dell’indennità di maternità.

3.— Nel merito la questione é fondata.

La incontestabile discrezionalità di cui gode il legislatore in materia previdenziale ed assistenziale incontra dei limiti, specialmente riguardo a provvidenze che non hanno soltanto carattere patrimoniale, ma rappresentano soprattutto forme di tutela di una condizione personale (quale la maternità), che trova una peculiare considerazione costituzionale.

Questa Corte ha più volte affermato che la maternità non deve trovare remore per il fatto che la madre sia una lavoratrice. In particolare, si é ribadito in più di un’occasione che l’astensione obbligatoria di cui all’art. 4 della legge n. 1204 del 1971 ha il fine di proteggere la salute della donna e, con ciò, l’essenziale funzione che essa esercita nei confronti del figlio. Per assicurare tale obiettivo occorre rimuovere quegli ostacoli di ordine economico che le renderebbero in concreto più difficile svolgere il proprio insostituibile ruolo di madre: non possono, pertanto, essere ritenute legittime quelle norme che comportino, a motivo della maternità, una sostanziale menomazione economica della lavoratrice (v., da ultimo, le sentenze n. 270 del 1999, n. 3 del 1998, n. 423 del 1995, n. 150 del 1994).

4.— Il rapporto che si instaura a seguito dello svolgimento di lavori socialmente utili o di attività di utilità collettiva (lavori ed attività che, inizialmente diversificati, hanno poi ricevuto una disciplina sempre più omogenea, come segnalato da questa stessa Corte nella sentenza n. 271 del 1996, avente ad oggetto proprio la legge regionale n. 25 del 1993), anche se ha origine da motivi assistenziali, riguarda pur sempre un impegno lavorativo certamente precario ma a carattere continuativo e retribuito, pur se non comporta la cancellazione dalle liste di collocamento.

E’ ben vero che detta attività presenta caratteri peculiari – come l’occupazione per non più di ottanta ore mensili; il compenso orario uguale per tutti, sostitutivo dell’indennità di disoccupazione, versato dallo Stato o dalla Regione e non dal datore di lavoro; la limitazione delle assicurazioni obbligatorie solo a quella contro gli infortuni e le malattie professionali – che possono giustificare la sua riconduzione, da parte del legislatore, al di fuori dell’ambito del rapporto di lavoro tipico. Ma é altrettanto vero che l’indennità di maternità é strettamente collegata, attraverso un meccanismo percentualistico, all’esistenza di una remunerazione per l’attività svolta: per cui non si ravvisano sufficienti ragioni perchè tale indennità non sia corrisposta pure in questo caso (mentre a diversa conclusione si é giunti in un’ipotesi di compenso avente funzione prettamente alimentare, e comunque non riferito nemmeno alla quantità del lavoro prestato, come quello riconosciuto alle volontarie in servizio civile all’estero, oggetto della sentenza costituzionale n. 211 del 1996).

5.— La suddetta conclusione trova conferma nel fatto che lo stesso legislatore ha espressamente previsto l’erogazione dell’indennità in questione nelle più recenti disposizioni in materia di lavori socialmente utili (dapprima nella catena di decreti-legge iniziata con il n. 31 del 1995 e terminata con il n. 510 del 1996 – l’unico convertito, con modificazioni, in legge 28 novembre 1996, n. 608 – e poi nel decreto legislativo n. 468 del 1997, che ha ridisciplinato organicamente la materia); disposizioni in cui può ravvisarsi un carattere sostanzialmente ricognitivo del principio dianzi affermato.

In definitiva deve precisarsi che, se il legislatore può escludere determinati istituti previdenziali o assistenziali per alcune attività lavorative, non può tuttavia privare le stesse di fondamentali garanzie costituzionalmente previste, anche se ha sempre la facoltà di modulare la disciplina dei vari istituti secondo le caratteristiche e le esigenze di ciascuna attività.

Considerata la regolamentazione concretamente data ai lavori socialmente utili e di utilità collettiva prima del e dopo il 1996, la mancata corresponsione dell’indennità di maternità prima di tale anno viene a costituire non una legittima modulazione della disciplina, ma una vera e propria violazione dell’art. 37, primo comma, della Costituzione, che impone di garantire alla madre condizioni di lavoro che le consentano di adempiere alla sua essenziale funzione familiare e di assicurare a lei ed al bambino una speciale adeguata protezione.

6.— Deve, pertanto, essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 18 della legge regionale siciliana n. 25 del 1993, nella parte in cui non prevede l’applicabilità alle lavoratrici madri, impegnate nei lavori socialmente utili e di utilità collettiva ivi previsti, dell’art. 15 della legge n. 1204 del 1971.

Rimane assorbito ogni altro profilo di illegittimità costituzionale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara a) l’illegittimità costituzionale dell’art. 18 della legge della Regione Siciliana 1° settembre 1993, n. 25 (Interventi straordinari per l’occupazione produttiva in Sicilia), nella parte in cui non prevede l’applicabilità alle lavoratrici madri, impegnate nei lavori socialmente utili e di utilità collettiva ivi previsti, dell’art. 15 della legge 30 dicembre 1971, n. 1204 (Tutela delle lavoratrici madri); b) l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 23, comma 7, della legge 11 marzo 1988, n. 67 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 37 della Costituzione, dal Pretore di Catania con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 luglio 1999.

Renato GRANATA, Presidente

Fernando SANTOSUOSSO, Redattore

Depositata in cancelleria il 16 luglio 1999.