SENTENZA N. 7
ANNO 1999
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Dott. Renato GRANATA, Presidente
- Prof. Francesco GUIZZI
- Prof. Cesare MIRABELLI
- Prof. Fernando SANTOSUOSSO
- Avv. Massimo VARI
- Dott. Cesare RUPERTO
- Dott. Riccardo CHIEPPA
- Prof. Gustavo ZAGREBELSKY
- Prof. Valerio ONIDA
- Avv. Fernanda CONTRI
- Prof. Guido NEPPI MODONA
- Prof. Piero Alberto CAPOTOSTI
- Prof. Annibale MARINI
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 21 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 634 (Disciplina dell’imposta di registro), promosso con ordinanza emessa il 6 marzo 1997 dalla Commissione tributaria regionale della Lombardia sul ricorso proposto dall’Ufficio del registro di Milano contro Fadini Mario, iscritta al n. 807 del registro ordinanze 1997 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 48, prima serie speciale, dell’anno 1997.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 25 novembre 1998 il Giudice relatore Fernando Santosuosso.
Ritenuto in fatto
1.— L’Ufficio del registro atti giudiziari e ammende di Milano, con avviso notificato il 5 dicembre 1985, liquidava l’imposta di registro sulla sentenza resa dal Tribunale di Milano nella causa tra Mario Fadini e Angelo Invernizzi, con la quale il primo era stato condannato al pagamento, a favore del secondo, della somma di lire 110 milioni. L’imposta era applicata, oltre che sull’importo oggetto della condanna e sui relativi interessi, sull’enunciazione – contenuta, secondo l’ufficio, nella sentenza – di un mutuo di lire 40 milioni e di un riconoscimento di debito per oltre 187 milioni di lire.
Contro il suddetto avviso Mario Fadini ricorreva alla Commissione tributaria di primo grado di Milano, la quale accoglieva parzialmente il ricorso. Nell’ambito del giudizio d’appello avverso tale ultima decisione, promosso dall’ufficio del registro, la Commissione tributaria regionale della Lombardia ha sollevato d’ufficio questione di legittimità costituzionale dell’art. 21 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 634 (Disciplina dell’imposta di registro), riprodotto nell’art. 22 del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131 (Approvazione del testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro), nella parte in cui sottopone ad imposta di registro le disposizioni enunciate negli atti dell’autorità giudiziaria, per contrasto con gli artt. 76, 77, 24 e 53 della Costituzione.
2.— Secondo il giudice a quo, l’applicazione della cosiddetta imposta "di titolo" alle enunciazioni dei rapporti giuridici contenute nei provvedimenti giudiziari sarebbe contraria ai principi contenuti nella legge delega 9 ottobre 1971, n. 825 (Delega legislativa al Governo della Repubblica per la riforma tributaria) – sulla base della quale é stato emanato il d.P.R. n. 634 del 1972, poi trasfuso nel testo unico approvato con d.P.R. n. 131 del 1986 – che prescriveva, in materia di imposta di registro, di "eliminare ogni impedimento fiscale al diritto dei cittadini di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi" (art. 7, comma secondo, numero 7).
Infatti, sottoporre ad imposta le enunciazioni contenute negli atti giudiziari significherebbe rendere onerose le allegazioni e produzioni difensive, in quanto le enunciazioni tassate traggono origine da tali difese. Verrebbe, dunque, prevista un’imposta sugli strumenti difensivi utilizzati dalle parti, in aggiunta a quella sull’esito del giudizio. Ciò costituirebbe, se non un deterrente alle allegazioni, certamente un ostacolo oggettivo, che la legge delega imponeva di rimuovere.
L’imposta sulle enunciazioni violerebbe, inoltre, l’art. 24 della Costituzione: essa verrebbe a dipendere, in buona sostanza, dalla motivazione dei provvedimenti giudiziari, in quanto sarebbe sufficiente che il giudice si dilunghi o meno nella parte motiva per provocare effetti fiscali diversi, con la possibilità addirittura che un difetto di motivazione – ossia un motivo di impugnazione della sentenza – venga a costituire un vantaggio fiscale, mentre la completezza della motivazione accrescerebbe l’onerosità della pronuncia, alterando e distorcendo sia la libera esplicazione dei diritti difensivi delle parti, sia le modalità di adempimento dell’obbligo di motivare i provvedimenti giudiziari.
Infine, sarebbe violato l’art. 53 della Costituzione, in quanto l’imposta di registro sugli atti soggetti obbligatoriamente a registrazione verrebbe, nel caso di rapporti giuridici enunciati nelle pronunce giudiziarie, a perdere la necessaria relazione di attualità temporale tra il verificarsi del presupposto dell’imposta e l’imposizione stessa. Verrebbero, infatti, assoggettate a prelievo (per di più con aliquote attuali) manifestazioni indirette di una capacità contributiva che può essere anche remota nel tempo; e ciò anche se tra la disposizione enunciata e la registrazione dell’atto che la enuncia siano decorsi i termini stabiliti dalla legge per la decadenza dell’azione di accertamento e riscossione dell’imposta da parte dell’Amministrazione finanziaria.
3.— Nel giudizio davanti alla Corte costituzionale non si é costituita la parte privata, mentre é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha concluso per l’inammissibilità (pur senza motivare tale richiesta) o comunque l’infondatezza della questione.
Riguardo alla violazione della legge delega – che prescriveva di rimuovere ogni ostacolo al diritto di agire in giudizio – la difesa erariale afferma che costituisce un impedimento di tal genere non qualsiasi onere che faccia carico a chi agisce o resiste in giudizio, ma soltanto un vero e proprio ostacolo frapposto alla valida instaurazione del rapporto processuale ed al riconoscimento del diritto o dell’interesse legittimo fatto valere in giudizio.
Quello che impropriamente la Commissione tributaria ritiene sia un impedimento alle allegazioni difensive é invece, per l’Avvocatura dello Stato, la legittima conseguenza del comportamento tenuto dalle parti, le quali possono produrre o enunciare in giudizio anche atti che dovevano essere registrati in termine fisso, senza che ciò comporti alcuna limitazione o alcuna sanzione di carattere processuale. Ma la legge, ovviamente, non può mancare di trarre le conseguenze dal comportamento tenuto dalle parti – che, in ordine alla registrazione, é illegittimo – e impone la tassazione, con le sanzioni per il ritardo nella registrazione.
Inoltre, dato che le spese di registrazione degli atti enunciati – al pari di quelle di registrazione della sentenza – seguono la regola della soccombenza, esse fanno carico alla parte che ha ingiustamente promosso il giudizio o che ha ingiustamente costretto l’altra parte a promuoverlo: anche se, per ipotesi, si affermasse che costituiscono un ostacolo all’esercizio del diritto di difesa, tale ostacolo non varrebbe per la parte che ha rispettato la legge e che é uscita vittoriosa dal giudizio.
Riguardo alla violazione dell’art. 24 della Costituzione, l’Avvocatura dello Stato richiama le considerazioni appena fatte, che escludono, a suo avviso, che possa configurarsi alcuna remora all’azione in giudizio.
In relazione all’ulteriore profilo denunciato dall’ordinanza di rimessione, la possibilità che la tassazione degli atti enunciati possa finire per dipendere dalla minore o maggiore ampiezza della motivazione sarebbe esclusa dal fatto che il nostro ordinamento processuale civile é informato ai principi generali della domanda e della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, sicchè sono le parti che decidono di introdurre o meno nel giudizio le domande e i fatti che le sostengono, mentre il giudice é vincolato ad esse ed ai loro presupposti di fatto.
Quanto infine alla violazione del principio di capacità contributiva sancito dall'art. 53 della Costituzione, l’Avvocatura rileva come la stessa Commissione tributaria rimettente non neghi che la stipulazione di un atto possa costituire un legittimo indice di capacità contributiva, per cui il dubbio di costituzionalità riguarda soltanto la possibilità che si colpisca una capacità non più attuale.
Tale dubbio non avrebbe, però, ragione di sussistere perchè l’enunciazione tassabile riguarda esclusivamente la parte dell’atto enunciato non ancora eseguita (art. 21, comma terzo, del d.P.R. n. 634 del 1972). L’imposta colpirebbe dunque, per definizione, solo le disposizioni dell’atto enunciato che debbono ancora produrre effetti e che attengono ad una capacità contributiva tuttora in atto.
Considerato in diritto
1.— La Commissione tributaria regionale della Lombardia ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 21 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 634 (Disciplina dell’imposta di registro), riprodotto nell’art. 22 del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131 (Approvazione del testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro), nella parte in cui sottopone ad imposta di registro le disposizioni enunciate negli atti dell’autorità giudiziaria, per contrasto con gli artt. 76, 77, 24 e 53 della Costituzione.
2.— La questione é infondata.
In materia questa Corte costituzionale é più volte intervenuta, soprattutto prima della riforma tributaria del 1972, enunciando principi che meritano di essere ripresi e sviluppati.
Riguardo ai rapporti fra diritto di azione (o di resistenza in giudizio) ed oneri fiscali, é stato affermato che "la Costituzione non garantisce a tutti l’esercizio gratuito della tutela giurisdizionale e non vieta di imporre prestazioni fiscali in stretta e razionale correlazione con il processo, sia che configurino vere e proprie tasse giudiziarie, sia che abbiano riguardo all’uso di documenti necessari alla pronuncia finale dei giudici" (sentenze n. 45 del 1963 e n. 157 del 1969). Così la determinazione di concrete modalità di esercizio della tutela giudiziaria non lede la garanzia apprestata dall’art. 24, comma primo, della Costituzione, ove non comporti l’impossibilità, o comunque gravi difficoltà, nella esplicazione del diritto. D’altronde l’interesse alla riscossione dei tributi é protetto dalla Costituzione, all’art. 53, sullo stesso piano di ogni diritto individuale.
Sono stati pertanto dichiarati illegittimi soltanto quegli istituti o quelle modalità di applicazione delle varie imposte che, per natura o per misura, rendevano sostanzialmente impossibile o eccessivamente gravoso lo svolgimento delle attività processuali, come gli artt. 77–80 del regio decreto n. 3270 del 1923, nella parte in cui disponevano che le persone ivi indicate non potessero agire in giudizio senza aver dato prova dell’avvenuto pagamento delle imposte di successione (sentenza n. 100 del 1964).
Riguardo, in particolare, all’utilizzazione in giudizio di atti non registrati, quelle remote sentenze non accoglievano le censure mosse al regio decreto n. 3269 del 1923, nonostante che – al contrario della normativa vigente, impugnata nel presente giudizio – quella disciplina ne impedisse la stessa produzione. Ciò perchè il divieto operava "non sull’azione, ma sulla disponibilità dei mezzi probatori"; invero – si osservava – "non ottemperando all’obbligo di registrazione, la parte dispone della funzione probatoria o documentale che la scrittura é chiamata a svolgere, sulla base di una valutazione di convenienza". D’altronde, sarebbe stato irrazionale permettere alla parte di trarre vantaggio dalla sua situazione di inadempimento, "consentendole di continuare a sottrarsi ad obblighi fiscali il cui presupposto si é comunque verificato prima dell’inizio del giudizio" (sentenze n. 45 del 1963 e n. 157 del 1969).
3.— Diversamente dalla normativa previgente, il d.P.R. n. 634 del 1972, trasfuso nel testo unico n. 131 del 1986, consente alle parti – anche se esse, é il caso di sottolineare, abbiano violato la legge tributaria e non abbiano provveduto alla registrazione di atti che vi erano soggetti – di allegarli o enunciarli ugualmente negli atti processuali, nè vieta al giudice di porli alla base della propria decisione (art. 63, comma terzo, del d.P.R. n. 634 del 1972, trasfuso, con modificazioni, nell’art. 65, comma 6, del d.P.R. n. 131 del 1986). Tuttavia, tali atti devono essere poi inviati all’ufficio del registro, per essere sottoposti alla tassazione ed all’applicazione delle sanzioni per la ritardata registrazione.
La Commissione tributaria regionale della Lombardia ritiene che la suddetta disciplina contrasti con la legge delega n. 825 del 1971, violando gli artt. 76 e 77 della Costituzione. Tale assunto é infondato, dal momento che la tassazione si riferisce non a qualunque generica menzione, in un provvedimento giudiziario, di un atto, ma alla enunciazione degli atti posti dal giudice alla base della propria decisione, come precisato dalla dottrina e dalla giurisprudenza. In tal caso, nel dovere di regolarizzare fiscalmente questi atti determinanti per la pronuncia non si ravvisa alcun ostacolo "al diritto dei cittadini di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi", ostacolo che la legge delega imponeva di rimuovere.
Nel valutare la conformità ad essa del decreto delegato, occorre poi considerare la ratio della delega, ossia le ragioni e le finalità che hanno ispirato il legislatore delegante (come richiede la giurisprudenza di questa Corte: si veda, per tutte, la sentenza n. 141 del 1993). Quest’ultimo, nel caso in esame, aveva certo presente il dibattito sul divieto di allegare o enunciare in giudizio atti che non fossero stati registrati: deve, quindi, ritenersi che il suo scopo sia stato proprio quello di eliminare tale divieto, mentre non si rinviene una precisa volontà di esentare dall’imposta di registro nè gli atti giudiziari, nè quelli in essi enunciati.
4.— La norma impugnata non viola nemmeno l’ulteriore parametro dell’art. 24 della Costituzione.
Secondo il giudice a quo, sottoporre ad imposta le enunciazioni contenute negli atti giudiziari significherebbe rendere onerose le allegazioni e produzioni difensive, e quindi incidere in pieno sul diritto di difesa. L’imposta di cui si tratta verrebbe inoltre a dipendere, "in buona sostanza", dalla motivazione dei provvedimenti giudiziari, in quanto sarebbe sufficiente che il giudice si dilungasse o meno "nella parte motiva per provocare effetti fiscali diversi", con la possibilità addirittura che un difetto di motivazione – ossia un motivo di impugnazione della sentenza – "potrebbe costituire un vantaggio fiscale, mentre l’onerosità sarebbe destinata ad accrescersi quanto più ampia e completa (o addirittura sovrabbondante) fosse la motivazione".
Anche tali censure sono prive di fondamento.
Infatti, se l’atto enunciato (e per questo motivo tassato) era soggetto ad imposta in termine fisso, le parti risultano inadempienti ad un loro preciso dovere fiscale; nonostante ciò, la legge, come si é rilevato, consente loro di allegarlo o enunciarlo ugualmente ed al giudice di porlo alla base della propria decisione. Tale garanzia, peraltro, non può comportare la trasformazione in lecito di un comportamento illecito: per questo il legislatore delegato ha disposto che l’atto sia inviato all’ufficio del registro, per essere sottoposto alla tassazione ed all’applicazione delle sanzioni per la ritardata registrazione.
Se, invece, il provvedimento enunciato é soggetto a tassazione in caso d’uso, é proprio la sua allegazione in giudizio che, rappresentandone una forma d’uso, ne legittima la sottoposizione all’imposta di registro. D’altra parte, si é già sottolineato che, per essere conforme alla Costituzione, la normativa va interpretata nel senso che deve essere tassato non qualunque atto la cui esistenza sia stata genericamente segnalata dalle parti, ma soltanto quei provvedimenti posti dal giudice alla base della propria decisione; sicchè non rilevano in alcun modo la mera segnalazione dell’atto, nè l’ampiezza della motivazione della sentenza.
E contro le eventuali illegittime tassazioni permangono comunque alle parti i mezzi di difesa nelle sedi competenti.
5.— Infine, non sussiste la violazione del principio di capacità contributiva sancito dall'art. 53 della Costituzione, sotto il profilo dell’assenza di attualità della suddetta capacità.
In proposito, questa Corte ha precisato che tale principio ha carattere oggettivo, perchè si riferisce ad indici rivelatori di ricchezza e non già a situazioni concrete del contribuente (cfr. le sentenze n. 14 del 1995 e n. 315 del 1994). In questo caso l’indice di capacità contributiva assunto dal legislatore consiste nel fatto del compimento di determinati atti giuridici; e l’obbligo tributario, volta a volta, consegue immediatamente a tale compimento, ovvero é afferente al momento dell’eventuale utilizzo dell’atto stesso.
La stessa norma impugnata chiarisce che é sottoposta a tassazione la sola parte dell’atto enunciato non ancora eseguita, cioé quella su cui verte il rapporto giuridico controverso (art. 21, comma terzo, del d.P.R. n. 634 del 1972). L’imposta colpisce, dunque, soltanto le disposizioni dell’atto enunciato che vengono ancora utilizzate.
Ciò vale, ovviamente, nell’ipotesi di atti soggetti a registrazione in caso d’uso. Per quelli che dovevano essere registrati in termine fisso vale, invece, la considerazione, già formulata, che chi li allega o li enuncia in giudizio é inadempiente agli obblighi fiscali e non può quindi lamentarsi di una supposta inattualità o gravosità del carico tributario, riversando sul fisco la colpa per il proprio illegittimo comportamento.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 21 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 634 (Disciplina dell’imposta di registro), riprodotto nell’art. 22 del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131 (Approvazione del testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro), sollevata, in riferimento agli artt. 76, 77, 24 e 53 della Costituzione, dalla Commissione tributaria regionale della Lombardia con ordinanza del 6 marzo 1997.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18 gennaio 1999.
Presidente Renato GRANATA
Redattore Fernando SANTOSUOSSO
Depositata in cancelleria il 21 gennaio 1999