SENTENZA N. 157
ANNO 1969
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
Prof. Giuseppe BRANCA, Presidente
Prof. Michele FRAGALI
Prof. Costantino MORTATI
Prof. Giuseppe CHIARELLI
Dott. Giuseppe VERZÌ
Dott. Giovanni BATTISTA BENEDETTI
Prof. Francesco PAOLO BONIFACIO
Dott. Luigi OGGIONI
Dott. Angelo DE MARCO
Avv. Ercole ROCCHETTI
Prof. Enzo CAPALOZZA
Prof. Vincenzo MICHELE TRIMARCHI
Prof. Vezio CRISAFULLI
Dott. Nicola REALE
Prof. Paolo ROSSI
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale degli artt. 106, 108, 117 e 118 della legge di registro approvata con regio decreto 30 dicembre 1923, n. 3269, promossi con le seguenti ordinanze:
1) ordinanza emessa il 23 gennaio 1968 dal tribunale di Ferrara nel procedimento civile vertente tra la Società Fru.S.Ca e Cerruti Luigi, iscritta al n. 49 del Registro ordinanze 1968 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 120 del 31 maggio 1968;
2) ordinanza emessa il 3 novembre 1967 dalla Corte d'appello di Bologna nel procedimento civile vertente tra Righi Riva Matilde ed altri e l'Amministrazione delle finanze dello Stato, iscritta al n. 50 del Registro ordinanze 1968 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 127 del 18 maggio 1968;
3) ordinanza emessa il 7 agosto 1968 dal tribunale di Locri nel procedimento civile vertente tra Lombardo Nicola ed altro e Niceforo Francesco, iscritta al n. 200 del Registro ordinanze 1968 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 261 del 12 ottobre 1968.
Visti gli atti di costituzione dell'Amministrazione delle finanze dello Stato e d'intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;
udito nell'udienza pubblica del 29 ottobre 1969 il Giudice relatore Angelo De Marco;
udito il sostituto avvocato generale dello Stato Luciano Tracanna, per il Presidente del Consiglio dei Ministri e per l'Amministrazione finanziaria.
Ritenuto in fatto
1. - Nel giudizio per sequestro giudiziario, prima e per convalida di sequestro, risoluzione di contratto e risarcimento di danni, promosso dai coniugi Nicola Lombardo e Maria Trimarchi contro Francesco Nicefero, in base a scrittura privata del 30 marzo 1964, il tribunale di Locri, con ordinanza 7 agosto 1968, rilevato:
che le reciproche pretese delle parti (il convenuto aveva proposto una domanda riconvenzionale) si fondano sulla scrittura privata 30 marzo 1964, esibita dagli attori, che avrebbe dovuto essere registrata, ai sensi degli artt. 1 e 2 del R.D. 30 dicembre 1923, n. 3269, ma non lo é stata;
che, per l'art. 106 dello stesso R.D. gli atti soggetti a registrazione e non registrati non possono farsi valere in giudizio fino a quando non siano stati registrati, mentre l'art. 118 fa divieto ai giudici di pronunciare sentenze o emettere decreti o provvedimenti, in base ad atti soggetti a registrazione e non registrati;
che tali divieti sembrano contrastare con gli artt. 3, 24 e 113 della Costituzione, in quanto subordinano la tutela giurisdizionale, la quale é voluta dalla Costituzione e deve essere libera, accessibile alla totalità dei cittadini e, in particolare, non limitata da impedimenti ispirati a ragioni fiscali;
tanto rilevato e richiamata, altresì, la sentenza di questa Corte n. 21 del 31 marzo 1961, con la quale é stata dichiarata la illegittimità costituzionale dell'art. 6 della legge 20 marzo 1865, All. E (solve et repete) per contrasto con gli artt. 24, primo comma, e 113 della Costituzione, sollevava d'ufficio questione di legittimità costituzionale dei citati artt. 106 e 118 del R.D. 30 dicembre 1923, n. 3269, in relazione agli artt. 3, 24 e 113 della Costituzione.
Dopo le comunicazioni, notificazioni e pubblicazioni di legge, il giudizio é venuto alla cognizione di questa Corte, senza che vi sia stata alcuna costituzione di parte.
2. - Con atto di citazione 23 gennaio 1962, la società ortofrutticola Fru.S.Ca, corrente in S. Carlo di Ferrara, assumendo che con "stabilito" in data 1 agosto 1961, aveva acquistato dal sig. Luigi Cerruti tutta la produzione di mele di un podere di proprietà di quest'ultimo, sito in Pollonica Po e che il venditore, nell'esecuzione di tale contratto, si era reso inadempiente, conveniva il Cerruti davanti al tribunale di Ferrara, perché si sentisse condannare al risarcimento dei relativi danni ed alle spese ed onorari di lite. Il giudizio, così instaurato, nel corso del quale, tra l'altro, veniva prodotta copia fotografica dello "stabilito" sopra citato, non comprendente, peraltro, la parte contenente le firme dei contraenti, aveva un lungo svolgimento, durante il quale veniva disposte ed eseguite prove per interrogatorio e per testi, nonché consulenze tecniche, veniva rimesso al Consiglio, davanti al quale, finalmente, passava in decisione all'udienza del 25 ottobre 1967. Con ordinanza 23 gennaio 1968, il tribunale, con ampia motivazione, sia sulla rilevanza sia sulla non manifesta infondatezza, sollevava questione di illegittimità costituzionale:
a) degli artt. 106, 108 e 118, comma primo, n. 2, ed ultima parte, del R.D. 30 dicembre 1923, n. 3269, nella parte ideale, in cui dovrebbero essere applicati anche in caso di mancata registrazione degli atti contemplati dagli artt. 1, secondo comma, e 2, prima parte e capoverso n. 1, stesso decreto, in relazione agli artt. 3, primo e secondo comma, e 24, primo comma, della Costituzione;
b) dell'art. 118, primo comma ed ultima parte, del R.D. 30 dicembre 1923, n. 3269, in relazione all'art. 101, capoverso, della Costituzione. In ordine alla prima questione, in sostanza, la motivazione può così riassumersi: La Corte, con la sentenza n. 45 del 1963, nel dichiarare non fondata, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, la questione di costituzionalità degli artt. 85, 106, 108, 118, 121 e 122 del R.D. 30 dicembre 1923, n. 3269, ha considerato soltanto l'ipotesi di atti soggetti a registrazione a termine fisso e non anche quella di atti soggetti a registrazione in caso di uso.
Ora, se riguardo agli atti soggetti a registrazione a termine fisso il ragionamento, in base al quale si é pervenuti alla pronuncia di non fondatezza non lascia margini di dubbio, riguardo agli atti soggetti a registrazione soltanto in caso di uso sembra più pertinente il ragionamento in base al quale la Corte, con la sentenza n. 100 del 1964, ha dichiarato la illegittimità costituzionale degli artt. 77, 78, 79 e 80 della legge sull'imposta di successione approvata col R.D. 30 dicembre 1923, n. 3270. Infatti, per gli atti soggetti a registrazione in caso d'uso, non sussiste alcun obbligo tributario preesistente a carico di chi intende farli valere in giudizio e manca la necessaria correlazione al processo e il carattere di tassa giudiziaria, in quanto l'ammontare del tributo é commisurato ad una percentuale sul valore del negozio, indipendentemente dall'entità della pretesa fatta valere in giudizio.
Inoltre, la Corte avrebbe, comunque, male valutato ed interpretato la consistenza delle norme in esame della legge del registro, in relazione al principio da essa stessa affermato, secondo il quale non incide sul diritto di azione un onere che riguardi la disponibilità di mezzi probatori o la disponibilità delle situazioni sostanziali. In particolare, secondo il giudice a quo, non si spiega come possa conciliarsi l'obbligo di sospendere il giudizio, imposto dall'art. 108, con la negazione che l'obbligo della preventiva registrazione implichi compressione del diritto di azione.
In ordine alla seconda questione, la motivazione può così riassumersi: Per l'art. 101 della Costituzione i giudici sono soggetti soltanto alla legge: non si vede come tale principio, col quale, in sostanza, si sancisce che i giudici, nell'applicazione della legge, non sono ad altro soggetti che alla propria coscienza, possa conciliarsi con il fatto che gli stessi giudici possano essere chiamati a rispondere personalmente dei provvedimenti di volta in volta adottati davanti a semplici uffici finanziari del potere esecutivo.
Nel giudizio così promosso é intervenuto soltanto il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato dall'Avvocatura generale dello Stato.
Sia con la memoria di comparizione, sia con altra memoria depositata l'8 maggio 1969, l'Avvocatura generale dello Stato, dopo avere confutato ampiamente i motivi dell'ordinanza di rinvio, anche alla stregua della giurisprudenza di questa Corte, conclude per la non fondatezza delle proposte questioni.
3. - Il 7 aprile 1956 gli azionisti della Società per azioni Immobiliare Padana (S.I.P.) al fine dichiarato di usufruire delle agevolazioni prevedute dall'art. 30 della legge 6 agosto 1954, n. 603, e dell'art. 1 della legge 18 ottobre 1955, n. 830, approvano, a maggioranza, la proposta di scioglimento della società, con assegnazione dei beni ai soci pro indiviso.
Alcuni soci dissenzienti adivano il tribunale di Parma, che, con sentenza 15 luglio-22 ottobre 1960, dichiarava la nullità della deliberazione suddetta, affermando che la S.I.P. non poteva sciogliersi e assegnare i beni ai soci pro indiviso, senza passare attraverso il procedimento di liquidazione, posto dalla legge a tutela dei terzi.
L'ufficio del registro atti giudiziari di Parma ravvisava nel contenuto di tale sentenza "gli effetti di enunciazione di società irregolare, costituitasi a latere della disciolta S.I.P." ed, in conseguenza, procedeva a tassazione e relativa ingiunzione nei confronti della S.I.P. e di ciascuno dei soci, singolarmente considerati, per la complessiva somma di lire 3 milioni 419.000, quale imposta principale di registro ed accessori, dovuta sulla sentenza citata del tribunale di Parma, come sopra interpretata.
Avverso l'ingiunzione, con atto 26 giugno 1961, proponevano opposizione davanti al tribunale di Bologna la signora Ada Generali, ved. Righi Riva, Marta Righi Riva in Cerri ed il dott. Alberto Remo Cerri, quest'ultimo nella sua qualità di amministratore della S.I.P., sostenendo la illegittimità della tassazione, in quanto la sentenza del tribunale di Parma non conteneva la enunciazione di alcuna società irregolare, ma si limitava a dichiarare la nullità dello scioglimento della S.I.P. e, quindi, la persistenza in vita della medesima.
In tale giudizio intervenivano le sorelle Maria Teresa e Maria Camilla Bertini, figlie di Anna Maria Righi Riva.
Il tribunale adito, con sentenza 17 dicembre 1963-8 gennaio 1964, ritenuta manifestamente infondata la questione di illegittimità costituzionale degli artt. 108 e 118 della legge di registro, in relazione agli artt. 3, 24 e 113 della Costituzione, respingeva l'opposizione. Contro tale sentenza proponevano separatamente appello i soci signora Anna Generali, ved. Righi Riva, la signora Maria Righi Riva in Cerri e le sorelle Bertini, insistendo nel chiedere la dichiarazione di illegittimità della opposta ingiunzione. La Corte d'appello di Bologna con ordinanza 3 novembre 1967, sospeso il giudizio rimetteva gli atti a questa Corte, dichiarando non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 117, prima parte, del R.D. 23 dicembre 1923, n. 3269, modificato dall'art. 1 del R.D. 13 gennaio 1936, n. 2313, in quanto vieta ai funzionari delle cancellerie giudiziarie di rilasciare copie o estratti di sentenze, prima che sia avvenuto il pagamento della imposta di registro, anche quando l'oggetto della controversia involge la constatazione sulla legittimità della imposta di registro relativa alle sentenze stesse, nonché dell'art. 118, prima parte, n. 2, dello stesso R.D. n. 3269 del 1923, come sopra modificato, nella parte in cui, anche nelle ipotesi indicate, fa divieto ai giudici di pronunziare sentenze o emettere decreti o provvedimenti, in base ad atti soggetti a registrazione e non registrati, il tutto in relazione agli artt. 3, 24 e 113 della Costituzione.
Con tale ordinanza la sollevata questione veniva ritenuta rilevante, in quanto ai fini del giudizio era necessario acquisire agli atti la sentenza del tribunale di Parma, nella quale avrebbe dovuto trovare fondamento l'impugnata ingiunzione, mentre la non manifesta infondatezza, con richiamo alla sentenza di questa Corte n. 21 del 31 marzo 1961, veniva motivata con l'assunto che, in sostanza, si verificavano gli estremi di un vero e proprio solve et repete. Dopo le comunicazioni, notificazioni e pubblicazioni di legge il giudizio viene ora alla cognizione della Corte. Le parti private non si sono costituite, ma é intervenuta l'Amministrazione delle finanze, rappresentata dall'Avvocatura generale dello Stato. Sia con la memoria di costituzione, sia con altra memoria depositata l'8 maggio 1969 l'Avvocatura dello Stato sostiene la infondatezza della proposta questione, richiamandosi alla decisione di questa Corte n. 45 del 9 aprile 1963 e sostenendo che nella specie non possono ravvisarsi estremi analoghi a quelli del caso limite, che ha formato oggetto della sentenza n. 80 del 2 luglio 1966 (improcedibilità dell'appello, sancita dall'art. 348 del Cod. proc. civile a carico dell'appellante che non depositi copia della sentenza impugnata).
Considerato in diritto
1. - I tre giudizi, come sopra promossi, vanno riuniti, in quanto hanno per oggetto la denunzia di incostituzionalità, sia pure sotto profili diversi, delle stesse norme del R.D. 30 dicembre 1923, n. 3269, contenente la legge del registro.
2. - In ordine logico, é opportuno esaminare per primo il giudizio promosso con l'ordinanza del tribunale di Locri.
Con tale ordinanza, in riferimento agli artt. 3, 24 e 113 della Costituzione, si denunzia la illegittimità costituzionale degli artt. 106 e 118 del R.D. 30 dicembre 1923, n. 3269, in forza dei quali, rispettivamente, gli atti soggetti a registrazione non possono farsi valere in giudizio finché non siano registrati ed é fatto divieto ai giudici di pronunziare sentenze o emettere decreti o provvedimenti in base ad atti soggetti a registrazione e non registrati: le due norme sarebbero illegittime "per difetto della tutela giurisdizionale, la quale é voluta dalla Costituzione e deve essere libera, accessibile alla totalità dei cittadini e, in particolare, non limitata da impedimenti ispirati a ragioni fiscali".
In riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, la questione é già stata dichiarata infondata con la sentenza di questa Corte 4 aprile 1963, n. 45, con la quale si é affermato: a) essere irrazionale che, sotto il pretesto del rispetto del principio di eguaglianza, si consenta alla parte di trarre vantaggio dalla sua condizione patrimoniale attuale per continuare a sottrarsi all'adempimento di un'obbligazione che si sarebbe dovuta soddisfare già prima del giudizio; 6) non essere esatto che gli obblighi e gli oneri posti dalle norme denunziate impediscono la tutela giurisdizionale del diritto fondato su una scrittura non registrata, in quanto non ottemperando all'obbligo della registrazione, la parte dispone della funzione probatoria documentale, che la scrittura era chiamata a svolgere, sulla base di una valutazione di convenienza compiuta come in ogni caso in cui la legge assoggetta ad oneri l'esercizio di un diritto.
Non risulta che la questione sia già stata esaminata anche in riferimento all'art. 113 della Costituzione.
É chiaro, peraltro, che le stesse considerazioni, testé riportate, in base alle quali si é affermata la infondatezza della questione in riferimento all'art. 24 della Costituzione, valgono anche a dimostrarne l'infondatezza, in riferimento all'art. 113.
3. - Sempre in ordine logico, é opportuno passare all'esame del giudizio promosso con l'ordinanza del tribunale di Ferrara.
Le questioni sottoposte all'esame della Corte con tale ordinanza, possono così riassumersi:
a) se siano in contrasto con gli artt. 3 e 24 della Costituzione le norme contenute negli artt. 106, 108 e 118, comma primo, n. 2 ed ultima parte, della legge sull'imposta di registro, approvata con regio decreto 30 dicembre 1923, n. 3269, modificata dall'art. 1 del R.D. 13 gennaio 1936, n. 2313, nella parte ideale in cui dovrebbero essere applicate anche agli atti soggetti a registrazione soltanto in caso d'uso;
b) se sia in contrasto con l'art. 101 della Costituzione (principio dell'assoggettamento dei giudici soltanto alla legge) la norma dell'art. 118, comma primo ed ultima parte, della citata legge di registro, nella parte in cui, dopo aver posto divieto ai giudici di emettere pronunzie in base ad atti soggetti a registrazione e non registrati, statuisce che i trasgressori sono tenuti al pagamento della tassa di registro e delle sopratasse dovute per l'atto non registrato, salvo regresso verso le parti, assoggettando, così, i giudici a rispondere dei loro atti davanti a uffici finanziari del potere esecutivo.
A) - In ordine alla prima questione si rileva: in sostanza il tema della controversia resta circoscritto all'accertare se fra gli atti soggetti a registrazione a termine fisso e quelli soggetti a registrazione in caso d'uso vi siano differenze tali da imporre una diversa valutazione della costituzionalità, rispetto a questa ultima categoria di atti, della norma (art. 106 della legge di registro) in forza della quale gli atti dell'uno e dell'altro tipo non possono farsi valere in giudizio se non siano stati registrati.
Ove differenze di tale rilievo non risultassero, non resterebbe che uniformarsi, come si é fatto nel giudizio promosso con l'ordinanza del tribunale di Locri, alla precedente giurisprudenza in materia di questa Corte.
Orbene, rispetto all'obbligo della previa registrazione necessaria per far valere tali atti in giudizio, nella stessa ordinanza di rinvio si ammette che il citato art. 106 della legge di registro non fa differenza fra le due categorie di atti.
Vero é che si richiama l'art. 85 della legge di registro, che si riferisce ai soli atti soggetti a registrazione a termine fisso, per adombrare una differenza di disciplina legislativa tra le due categorie di atti.
Basta, però, leggere il citato articolo per rilevare come esso abbia il solo scopo di precisare che l'obbligo della previa registrazione, per gli atti che vi siano soggetti in termine fisso, sussiste anche quando la produzione in giudizio avvenga prima della scadenza di tale termine.
Dall'art. 2, n. 1, della legge di registro risulta, poi, come l'uso prevalente che dà luogo all'obbligo di registrazione, per gli atti che vi sono soggetti soltanto in tal caso, é appunto quello della produzione in giudizio. Perciò é anche maggiore l'analogia del relativo onere con la vera e propria tassa giudiziaria, rispetto a quello gravante sugli atti soggetti a registrazione in termine fisso, onere che ne accentua la stretta e razionale correlazione col processo e dimostra nel contempo che non incide sull'azione.
Su un solo punto, che a questo riguardo viene accennato nell'ordinanza di rinvio, potrebbe profilarsi una notevole e sostanziale differenza tra atti soggetti a registrazione in termine fisso ed atti soggetti a registrazione in caso d'uso.
Per la prima di tali categorie di atti (tranne che nell'ipotesi contemplata nel sopra esaminato art. 85) di regola avviene che se l'atto, quando si vuole far valere in giudizio, non é stato ancora registrato, chi lo produce si trova nelle condizioni di un inadempiente agli obblighi fiscali, che non può, quindi, lamentarsi di una eccessiva onerosità, che gli impedirebbe l'esercizio del diritto alla tutela giurisdizionale.
Per la seconda categoria, invece, poiché l'obbligo della registrazione sorge soltanto nel momento in cui si vuol fare uso dell'atto che vi é soggetto, con la produzione in giudizio, non si può parlare di pregressa inadempienza e poiché l'onere fiscale é commisurato ad una percentuale del valore del negozio, indipendentemente dall'entità della pretesa fatta valere in giudizio, che può essere circoscritta ad una parte trascurabile del negozio stesso (caso limite), non solo non si potrebbe parlare di onere strettamente correlato al processo, ma si dovrebbe ammettere, data la sproporzione tra l'importo della tassa da pagare ed il valore di quanto s'intende conseguire in giudizio, un vero e proprio impedimento all'esercizio del diritto di azione.
A tale dubbio, tuttavia, può rispondersi che, anzitutto, anche chi voglia produrre in giudizio un atto soggetto a registrazione soltanto in caso d'uso, se non lo registra, diventa inadempiente all'obbligo fiscale.
In secondo luogo basta tener presente la tabella D allegata alla legge di registro, che contempla gli atti soggetti a registrazione soltanto in caso d'uso, per rilevare che la loro natura é tale da far escludere che possano presentarsi casi limite come quello ipotizzato nell'ordinanza di rinvio.
Del resto proprio la fattispecie all'esame del giudice a quo dimostra come anche una domanda parziale finisce col porre in discussione l'intero negozio.
Mentre, proprio il sorgere dell'obbligo fiscale nel momento in cui l'atto si vuole far valere in giudizio, come già si é posto in rilievo, conferma, anziché escludere, la correlazione di tale obbligo col processo e ne accentua l'analogia con le tasse giudiziarie.
Comunque, anche a voler ammettere che in casi limite l'importo dell'onere fiscale possa essere sproporzionato rispetto alla pretesa fatta valere in giudizio, a parte, per i meno abbienti, la possibilità della registrazione a debito, in base alla legge sul gratuito patrocinio, non ne deriverebbe addirittura compressione del diritto di azione.
Infatti nell'ordinamento giuridico posto in essere dalla Costituzione i diritti dei cittadini sono armonicamente coordinati con quelli della comunità in modo che finiscono con il limitarsi a vicenda, restando nella legittimità costituzionale.
Il principio che garantisce al cittadino la tutela giurisdizionale dei suoi diritti (art. 24) va, così, coordinato con quello che, come é posto in rilievo nella più volte citata sentenza n. 45 del 1963, é condizione di vita per la comunità, dell'interesse generale alla riscossione dei tributi, che é pure garantito dalla Costituzione (art. 53).
Nessun dubbio, quindi, che quando non si tratti di contestare la legittimità dell'imposizione di un tributo (solve et repete) non contrasti con la Costituzione il condizionare l'esercizio del diritto del cittadino alla tutela giurisdizionale, allo adempimento del suo dovere di contribuente.
Quest'ultima considerazione vale anche a dimostrare come non abbiano fondamento i dubbi circa l'esattezza della valutazione, nell'applicazione concreta, da parte di questa Corte, di taluni principi da essa stessa affermati, che affiorano nell'ordinanza di rinvio.
La prima delle sollevate questioni é, pertanto, infondata.
B) In ordine alla seconda questione si rileva:
L'art. 101 della Costituzione nello statuire che "I giudici sono soggetti soltanto alla legge" ha voluto garantire l'indipendenza dei giudici nell'esercizio delle loro delicate funzioni.
Legge é anche quella fiscale e, quindi, anche ad essa i giudici sono soggetti.
Che, se poi, dalla inosservanza di tale legge possa derivare l'assoggettamento del giudice a talune sanzioni, applicate da organi del potere esecutivo, quali sono gli uffici finanziari, ciò non implica che i giudici siano assoggettati a tali organi: implica soltanto che i giudici, come tutti gli altri cittadini, debbono subire quanto quella legge dispone nei confronti di tutti coloro che non la osservano.
Anche questa seconda questione é, pertanto, infondata.
4. - Infine, in ordine al giudizio instaurato con l'ordinanza della Corte d'appello di Bologna, si rileva:
Con l'ordinanza di rinvio si denunzia, per contrasto con gli artt. 3, 24 e 113 della Costituzione, l'art. 117 della legge di registro, nella parte in cui vieta il rilascio di originali, copie o estratti di sentenze, che non siano state registrate, senza distinguere tra la semplice tassa di sentenza e la cosiddetta "tassa di titolo" imposta sul contenuto della sentenza stessa, nel quale si ravvisi l'enunciazione della esistenza di un negozio giuridico, soggetto a registrazione, quando il rilascio della copia della sentenza sia richiesto per contestare in giudizio la legittimità della imposizione della detta tassa di titolo.
La questione é fondata.
In questo caso, infatti, la sentenza costituisce la base dell'accertamento fiscale la cui legittimità viene contestata in giudizio e, quindi, costituisce l'oggetto del giudizio stesso.
Il condizionare il rilascio della copia di tale sentenza al pagamento della tassa, contro l'imposizione della quale si intende agire in giudizio si traduce in una vera applicazione della regola del solve et repete già dichiarata illegittima da questa Corte con la sentenza n. 21 del 1961.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara l'illegittimità costituzionale degli artt. 117 e 118 del R.D. 30 dicembre 1923, n. 3269 "che approva la legge di registro", modificati con l'art. 1 del R.D. 13 gennaio 1936, n. 2313, nella parte in cui stabiliscono che i funzionari delle cancellerie giudiziarie non possono rilasciare copie o estratti di sentenze non registrate ed i giudici emettere sentenze, decreti o altri provvedimenti sulla base di tali copie ed estratti, anche quando si contesti la legittimità dell'imposta di titolo, accertata in base alle sentenze stesse;
2) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 106 e 118 del citato regio decreto 30 dicembre 1923, n. 3269, sollevata dal tribunale di Locri, con ordinanza 7 agosto 1968, in riferimento agli artt. 3, 24 e 113 della Costituzione;
3) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 106, 108 e 118, comma primo, n. 2, ed ultima parte, del ripetuto regio decreto 30 dicembre 1923, n. 3269, nella parte in cui sono applicabili anche agli atti soggetti a registrazione in caso d'uso, sollevata con ordinanza del tribunale di Ferrara del 23 gennaio 1968, in riferimento agli artt. 3, 24, 101 e 113 della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'11 dicembre 1969.
Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI - Giuseppe VERZÌ - Giovanni BATTISTA BENEDETTI - Francesco PAOLO BONIFACIO - Luigi OGGIONI - Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA - Vincenzo MICHELE TRIMARCHI - Vezio CRISAFULLI - Nicola REALE - Paolo ROSSI
Depositata in cancelleria il 22 dicembre 1969.