SENTENZA N. 119
ANNO 1997
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Dott. Renato GRANATA, Presidente
- Prof. Giuliano VASSALLI
- Prof. Francesco GUIZZI
- Prof. Cesare MIRABELLI
- Prof. Fernando SANTOSUOSSO
- Avv. Massimo VARI
- Dott. Riccardo CHIEPPA
- Prof. Gustavo ZAGREBELSKY
- Prof. Valerio ONIDA
- Prof. Carlo MEZZANOTTE
- Avv. Fernanda CONTRI
- Prof. Guido NEPPI MODONA
- Prof. Piero Alberto CAPOTOSTI
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 2, quarto comma, della legge 20 ottobre 1982, n. 773 (Riforma della Cassa nazionale di previdenza ed assistenza a favore dei geometri), promosso con ordinanza emessa il 23 gennaio 1996 dal Pretore di Bologna sul ricorso proposto da Vanni Pietro contro Cassa nazionale di previdenza ed assistenza geometri, iscritta al n. 606 del registro ordinanze 1996 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 27, prima serie speciale, dell'anno 1996.
Visto l'atto di costituzione di Vanni Pietro;
udito nell'udienza pubblica del 25 febbraio 1997 il Giudice relatore Fernanda Contri;
udito l'avv. Franco Agostini per Vanni Pietro.
Ritenuto in fatto
1. -- Nel corso di un procedimento civile promosso contro la Cassa nazionale di previdenza ed assistenza a favore dei geometri dall'iscritto Pietro Vanni, il Pretore di Bologna, con ordinanza emessa il 23 gennaio 1996, ha sollevato, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, quarto comma, della legge 20 ottobre 1982, n. 773, nella parte in cui non stabilisce, quale limite di reddito oltre il quale debba venir meno il diritto all'integrazione al minimo della pensione di vecchiaia, l'importo del trattamento minimo che la stessa disposizione prevede.
Con il ricorso depositato il 2 febbraio 1994, la parte attrice, titolare di pensione di vecchiaia liquidata dalla predetta Cassa, esponeva che erroneamente quest'ultima aveva determinato la misura della sua pensione prescindendo dagli effetti della sentenza n. 243 del 1992, con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo il quinto comma dell'art. 2 della legge n. 773 del 1982, che prevedeva il cosiddetto criterio del "sottominimo", la cui eliminazione comporta il riconoscimento a tutti gli iscritti, indipendentemente dalla posizione reddituale, del diritto al trattamento minimo.
Ad avviso del giudice rimettente, tale conseguenza deve applicarsi al ricorrente, nonostante la consistenza della sua situazione reddituale. Infatti, venuta meno l'eccezione prevista dal quinto comma dell'art. 2, la disposizione impugnata -- secondo la quale "la misura della pensione non può essere inferiore a sei volte il contributo soggettivo minimo a carico dell'iscritto nell'anno anteriore a quello di maturazione del diritto a pensione" -- garantirebbe "indiscriminatamente a tutti i pensionati della Cassa l'integrazione al trattamento minimo, invece di garantirla esclusivamente a coloro che godono di un reddito complessivo inferiore a tale trattamento minimo e limitatamente alla quota integrativa necessaria a raggiungere la misura reddituale pari al trattamento minimo di pensione".
La questione, osserva il giudice a quo, é rilevante. Ove infatti la Corte costituzionale dichiarasse fondata la questione prospettata, la domanda attorea dovrebbe essere rigettata (almeno relativamente al biennio 1993 e 1994, risultando in tali anni il reddito complessivo annuale dell'attore vicino ai quaranta milioni di lire) e, quanto meno per il biennio indicato, la pensione a carico della Cassa convenuta dovrebbe essere corrisposta non già nella misura pari a tale trattamento minimo, bensì nell'importo risultante dall'applicazione dei criteri generali stabiliti dal capoverso dell'art. 2 della legge n.773 del 1982, nel testo introdotto dall'art. 1 della legge n. 236 del 1990 (e pertanto in misura annuale pari, anzichè a circa 8 milioni di lire per anno, a poco più di 2 milioni di lire).
Il sistema risultante in sèguito all'eliminazione del sottominimo presenta, secondo il pretore rimettente, profili di profonda irragionevolezza e, ad avviso di quest'ultimo, l'unico criterio che appare conforme a canoni di razionalità consisterebbe nell'introduzione, nell'ambito della disciplina in questione, di un limite di reddito oltre il quale venga meno la garanzia del trattamento minimo, pari allo stesso importo del trattamento minimo garantito (con la specificazione che, ai fini della verifica del mancato superamento del limite reddituale, occorrerebbe tener conto di tutti i redditi imponibili ai fini dell'Irpef, esclusi solo quelli soggetti a tassazione separata).
Al giudice a quo l'intervento richiesto alla Corte appare costituzionalmente obbligato in quanto rappresenterebbe l'unica via per riportare al principio di eguaglianza la disciplina del criterio di attribuzione del diritto al trattamento minimo. Egli tuttavia riconosce che "ciò vale ovviamente in riferimento ai poteri, puramente rescindenti, della Corte costituzionale: é ovvio che, ove la Corte dovesse condividere quanto il pretore qui sostiene e dovesse quindi accogliere la questione che si solleva con la presente ordinanza, il legislatore, nell'esercizio della potestà politica sua propria, potrebbe decidere di aumentare per tutti i pensionati della Cassa i trattamenti pensionistici minimi e potrebbe altresì prevedere che tali trattamenti siano maggiori per i pensionati con persone a carico (con il correlativo aumento, per essi, dei limiti reddituali)".
La disciplina denunciata non si giustifica ad avviso del rimettente neppure sulla base del principio, espresso dal capoverso dell'art. 38 della Costituzione, che garantisce ai lavoratori "mezzi adeguati alle loro esigenze di vita", e che prende in considerazione la persona del lavoratore, con le sue complessive esigenze di vita, e non le singole prestazioni pensionistiche isolatamente considerate.
2. -- Nel procedimento davanti a questa Corte si é costituita la parte attrice nel procedimento civile a quo, per svolgere deduzioni a sostegno dell'inammissibilità, "ancor prima" che dell'infondatezza, della questione sollevata dal Pretore di Bologna. Secondo la parte costituitasi nel presente giudizio, l'ordinanza di rimessione formula una proposta di modifica della legge che si presenta in termini articolati e complessi, "tale da far ritenere che essa meglio figurerebbe in un disegno di legge proposto all'esame del Parlamento". Si tratterebbe insomma di un disegno "politico", di una scelta di legislazione sociale che il pretore suggerisce, chiedendo alla Corte un intervento che poi dovrebbe essere integrato dal Parlamento.
Nell'imminenza della data fissata per l'udienza, Pietro Vanni ha depositato una ulteriore memoria illustrativa nella quale, dopo aver premesso che l'ordinanza del giudice a quo si basa su una chiara e fondata interpretazione della legge, imposta dalla richiamata sentenza n. 243 del 1992, aggiunge: "Il pretore chiede una sentenza additiva sulla base di un criterio di scelta sua propria e non con riferimento a principi già contenuti nell'ordinamento in norme analoghe ... Il giudice a quo non si riporta, ai fini del richiesto intervento di 'ragionevolezza', a situazioni normative che, già frutto di scelte discrezionali del legislatore, possano essere invocate a comparazione; e non potrebbe comunque dare alcuna indicazione in questa direzione perchè non sussistono situazioni in effetti comparabili, data la peculiarità della disciplina della Cassa geometri, quanto a struttura, prestazioni, gestione, contributi, etc., che, per esempio, per nulla é rapportabile a quella dei lavoratori dipendenti". D'altro canto, sempre ad avviso della parte costituita nel procedimento davanti a questa Corte, non si comprenderebbero le ragioni del limite reddituale indicato dal giudice rimettente, anche in considerazione della disciplina dettata per i lavoratori dipendenti dall'art. 6, primo comma, del decreto-legge n. 463 del 1983, che prevede un limite di reddito pari a due volte il trattamento minimo.
Considerato in diritto
1. -- Il Pretore di Bologna dubita, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell'art. 2, quarto comma, della legge 20 ottobre 1982, n. 773 (Riforma della Cassa nazionale di previdenza ed assistenza a favore dei geometri), in quanto -- a sèguito della dichiarazione d'incostituzionalità, con sentenza n. 243 del 1992, del quinto comma dello stesso articolo -- garantisce indifferentemente a tutti gli iscritti alla Cassa l'integrazione al trattamento minimo (rectius: la pensione minima) di vecchiaia, invece di garantirla esclusivamente a coloro che godono di un reddito complessivo inferiore a tale trattamento minimo e limitatamente alla quota integrativa necessaria per raggiungere la misura della pensione minima. La disposizione impugnata, in altri termini, appare al pretore rimettente incompatibile con l'art. 3 della Costituzione in quanto prevede, senza alcuna giustificazione, "un trattamento giuridico indifferenziato di fattispecie assai diverse", ed impone alla categoria professionale un obbligo di solidarietà indiscriminato, destinato ad operare anche in favore di geometri iscritti alla Cassa titolari di redditi (non da lavoro autonomo) eventualmente molto elevati nel momento in cui maturano il diritto alla pensione.
2. -- La questione non é fondata.
2.1 -- L'assenza di un limite di reddito oltre il quale venga meno il diritto a percepire la pensione minima caratterizzava il sistema delineato dalla legge 20 ottobre 1982, n. 773, di riforma della Cassa nazionale di previdenza ed assistenza a favore dei geometri, già prima che questa Corte, con la sentenza. n. 243 del 1992, dichiarasse l'illegittimità costituzionale dell'art. 2, quinto comma, della legge medesima, disciplinante il cosiddetto sottominimo in relazione alla pensione di vecchiaia (l'incostituzionalità del sottominimo in relazione alle pensioni di inabilità e di invalidità era stata precedentemente dichiarata con la sentenza n. 243 del 1990).
Al fine di limitare l'operatività del principio solidaristico nei confronti dei professionisti -- obbligatoriamente iscritti alla Cassa in conseguenza della loro iscrizione negli Albi professionali dei geometri -- titolari di posizioni contributive molto modeste in considerazione dell'esiguità del reddito professionale da essi prodotto, sulla base del quale (art. 10 della legge n. 773 del 1982) vengono calcolati i contributi da versare, il criterio del sottominimo impediva all'iscritto di percepire una pensione di importo superiore al reddito professionale medio calcolato in base al criterio di cui al secondo comma (corrispondente alla "media dei più elevati dieci redditi annuali professionali rivalutati, dichiarati dall'iscritto ai fini dell'imposta sul reddito delle persone fisiche, risultanti dalle dichiarazioni relative ai quindici anni solari anteriori alla maturazione del diritto a pensione").
In sèguito alla eliminazione di tale criterio é residuata una disciplina che riconosce a tutti gli iscritti alla Cassa un trattamento minimo di vecchiaia indifferente sia all'entità delle contribuzioni, elemento di cui tiene conto il secondo comma dell'art. 2, che enuncia il criterio generale di liquidazione della pensione annua (la quale, a calcolo, "é pari, per ogni anno di effettiva iscrizione e contribuzione, al 2 per cento della media dei più elevati dieci redditi annuali professionali rivalutati" dell'ultimo quindicennio), sia alle condizioni reddituali del soggetto che abbia maturato il diritto alla pensione di vecchiaia (la quale, in base al primo comma dell'art. 2, "é corrisposta a coloro che abbiano compiuto almeno sessantacinque anni di età, dopo almeno trenta anni di effettiva contribuzione").
Specialmente in sèguito all'annullamento della disposizione disciplinante il sottominimo (che privava del diritto al trattamento minimo soggetti presumibilmente impegnati in attività lavorative diverse da quelle libero-professionali, ovvero titolari di altre coperture assicurative), tali condizioni reddituali dovrebbero, ad avviso del giudice rimettente, rilevare ai fini dell'attribuzione della pensione minima, non potendosi ritenere giustificata l'erogazione di una prestazione previdenziale minima priva di copertura contributiva, a vantaggio indiscriminatamente tanto di soggetti che versano in stato di oggettivo bisogno, quanto di titolari di redditi propri eventualmente anche molto elevati.
La giurisprudenza di questa Corte ha in molte occasioni avuto modo di chiarire che la funzione propria della pensione minima -- riconducibile al secondo comma dell'art. 38 della Costituzione, e parzialmente derogatoria del principio di proporzionalità della pensione ai contributi versati a vantaggio del principio di solidarietà (sentenze n. 240 del 1994, n. 243 del 1992, n. 243 del 1990, n. 1008 del 1988, n. 31 del 1986, nn. 133 e 132 del 1984, n. 34 del 1981) -- non coincide con quella assegnata agli interventi, quali ad esempio la pensione sociale, richiesti dal primo comma dell'art. 38, giacchè "i mezzi necessari per vivere non possono identificarsi con i mezzi adeguati alle esigenze di vita: questi ultimi comprendono i primi ma non s'esauriscono in essi" (sentenza n. 31 del 1986). Inoltre, in varie pronunce questa Corte ha ritenuto non incompatibili con la Costituzione discipline dell'integrazione al minimo prive di qualsiasi riferimento a limiti reddituali ovvero attributive del diritto alla pensione minima anche in caso di cumulo con altre pensioni o retribuzioni (ancora nella sentenza n. 31 del 1986 si constata che "leggi, giurisprudenza e prassi amministrativa hanno enucleato situazioni nelle quali il trattamento minimo delle pensioni dei lavoratori é stato riguardato sotto un profilo oggettivo, quale garanzia, cioé, che la prestazione pensionistica abbia comunque un determinato livello minimo, a prescindere dalle effettive condizioni soggettive del destinatario"; con il che "si é reso obbligatorio ... l'intervento solidaristico anche in ipotesi in cui i bisogni vitali del pensionato certamente risultavano altrimenti soddisfatti"). D'altro canto, l'esigenza di riordinare e riformare una legislazione previdenziale sviluppatasi in tale direzione secondo canoni non sempre rispondenti a razionalità é stata a suo tempo ritenuta urgente da questa Corte, in termini di opportunità (sentenza n. 102 del 1982), senza tuttavia che a tale valutazione si accompagnasse l'indicazione di interventi legislativi costituzionalmente obbligatori.
Da quanto precede discende che l'intervento additivo richiesto non può ritenersi imposto dalla Costituzione, che conferisce al legislatore un'ampia discrezionalità nel porre le condizioni in presenza delle quali riconoscere il diritto al trattamento minimo (ex plurimis, sentenze n. 31 del 1986 e n. 132 del 1984). Anche sulla scorta di una valutazione delle compatibilità finanziarie, il legislatore, una volta assicurato un livello minimo di protezione e nel rispetto del principio di ragionevolezza, é libero di configurare un diritto alla pensione minima più o meno favorevole e generalizzato.
Senza trascurare che le Casse di previdenza delle diverse categorie professionali sono entità distinte, ciascuna con una propria autonomia e con un proprio equilibrio finanziario (sentenza n. 368 del 1988) non é inutile ricordare, da un lato, che gli invocati limiti di reddito non sono stati previsti dal legislatore in sede di disciplina, con legge 20 settembre 1980, n. 576, della pensione minima a carico della Cassa nazionale di previdenza ed assistenza per gli avvocati ed i procuratori. Con la legge citata é stato riformato il sistema previdenziale forense, successivamente assunto a "modello" per la riforma dei sistemi di previdenza di altre categorie di liberi professionisti, compresa la Cassa nazionale di previdenza ed assistenza per gli ingegneri e gli architetti, disciplinata dalla legge 3 gennaio 1981, n. 6 (Norme in materia di previdenza per gli ingegneri e gli architetti), che ugualmente non condiziona l'erogazione della pensione minima a particolari requisiti reddituali. Dall'altro lato, occorre rammentare che la sentenza n. 243 del 1992 ha ritenuto la misura di salvaguardia del sottominimo incompatibile con la Costituzione anche sulla scorta della rilevata previsione, da parte del legislatore che ha riformato la Cassa nazionale di previdenza ed assistenza a favore dei geometri, di un sistema di flussi finanziari specificamente preordinati al finanziamento dell'integrazione al minimo delle pensioni, idonei a garantire l'equilibrio della gestione anche in caso di riconoscimento generalizzato del relativo diritto. Quanto precede non impedisce naturalmente al legislatore di intervenire per modificare il sistema introdotto con la riforma del 1982, anche nella versione risultante dall'annullamento del quinto comma dell'art. 2 della legge n. 773 del 1982, correggendone eventuali difetti o disfunzioni.
2.2. -- Da un differente punto di vista, peraltro, l'accoglimento della questione sollevata dal Pretore di Bologna, per un verso, non modificherebbe la misura degli obblighi contributivi posti a carico dei professionisti iscritti alla Cassa, stabiliti dalla legge a provvista dei ricordati flussi finanziari; per un altro verso, potrebbe introdurre una irragionevole discriminazione in danno di quei professionisti il cui sforzo contributivo, correlato all'esercizio di un'attività libero-professionale più intensa, si sia concentrato, come ben può accadere, non già nell'ultimo quindicennio, bensì nei primi anni di attività.
2.3. -- Il riferimento, contenuto nell'ordinanza di rimessione, ai limiti di reddito previsti dall'art. 6 del decreto-legge n. 463 del 1983 (Misure urgenti in materia previdenziale e sanitaria e per il contenimento della spesa pubblica, disposizioni per vari settori della pubblica amministrazione e proroga di taluni termini) convertito con legge 11 novembre 1983, n. 638, e modificato, nella parte che qui interessa, dall'art. 4 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503, da un lato propone un tertium comparationis non apprezzabile ai fini della valutazione della ragionevolezza della disciplina impugnata, in considerazione dell'improponibilità di un raffronto tra discipline così eterogenee: l'una concernente l'integrazione al minimo delle pensioni a carico delle diverse gestioni INPS, l'altra riguardante le pensioni minime erogate dalla cassa di previdenza di una categoria professionale, caratterizzata da una propria autonomia e da un proprio equilibrio finanziario (sentenza n. 368 del 1988). Dall'altro lato, tale riferimento dimostra -- prevedendo l'art. 6 del decreto-legge n. 463 del 1983, indicato quale tertium comparationis, criteri differenti rispetto a quelli indicati dal giudice a quo ai fini della determinazione del limite reddituale ritenuto necessario -- che il principio di cui il giudice rimettente chiede l'introduzione mediante sentenza additiva rappresenta solo uno dei molteplici criteri ipotizzabili per stabilire una ragionevole correlazione tra la situazione reddituale del pensionato ed il suo diritto a percepire la pensione minima. La disciplina dell'integrazione al trattamento minimo delle pensioni dei lavoratori dipendenti di cui al citato decreto-legge n. 463 del 1983 prevede infatti, all'art. 6, primo comma, nel testo introdotto dall'art. 4 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503, che l'integrazione "non spetta ai soggetti che posseggano: a) nel caso di persona non coniugata, ovvero coniugata ma legalmente ed effettivamente separata, redditi propri assoggettabili all'imposta sul reddito delle persone fisiche per un importo superiore a due volte l'ammontare annuo del trattamento minimo del Fondo pensioni lavoratori dipendenti calcolato in misura pari a tredici volte l'importo mensile in vigore al 1° gennaio di ciascun anno; b) nel caso di persona coniugata, non legalmente ed effettivamente separata, redditi propri per un importo superiore a quello richiamato al punto a), ovvero redditi cumulati con quelli del coniuge per un importo superiore a quattro volte il trattamento minimo medesimo".
L'ordinanza di rimessione, in altri termini, contiene una richiesta di sentenza additiva tendente a prefigurare un'integrazione della legge che non appare univocamente imposta dalla Costituzione. Lo stesso giudice a quo, nel sollevare questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, quarto comma, della legge n. 773 del 1982, nella parte in cui "non stabilisce, quale limite di reddito oltre il quale debba venir meno il diritto all'integrazione al minimo delle pensioni, l'importo del trattamento minimo che la stessa disposizione prevede", precisa che, ai fini della relativa verifica, "occorrerebbe tener conto di tutti i redditi imponibili ai fini dell'Irpef, esclusi solo quelli soggetti a tassazione separata", non senza rimettere a successivi interventi legislativi l'eventuale differenziazione del limite reddituale in relazione alla presenza o all'assenza di persone a carico del pensionato.
3. -- In conclusione, il denunciato quarto comma dell'art. 2 della legge n. 773 del 1982, che individua uno dei possibili criteri di determinazione della pensione di vecchiaia, non é in contrasto con l'invocato art. 3 della Costituzione.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, quarto comma, della legge 20 ottobre 1982, n. 773 (Riforma della Cassa nazionale di previdenza ed assistenza a favore dei geometri), sollevata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dal Pretore di Bologna con l'ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 maggio 1997.
F.to
Renato GRANATA, Presidente
Fernanda CONTRI, Redattore
Depositata in cancelleria il 6 maggio 1997.