Sentenza n. 351 del 1996

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SENTENZA N. 351

ANNO 1996

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

-     Avv. Mauro FERRI, Presidente

-     Prof. Luigi MENGONI

-     Prof. Enzo CHELI

-     Dott. Renato GRANATA

-     Dott. Giuliano VASSALLI

-     Prof. Cesare MIRABELLI

-     Prof. Fernando SANTOSUOSSO

-     Avv. Massimo VARI

-     Dott. Cesare RUPERTO

-     Dott. Riccardo CHIEPPA

-     Prof. Gustavo ZAGREBELSKY

-     Prof. Valerio ONIDA

-     Prof. Carlo MEZZANOTTE

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt.41-bis, comma 2, e 14-ter della legge 26 luglio 1975, n.354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), promossi con n. 3 ordinanze emesse il 7 settembre 1995 (n. 2 ordd.) e il 12 dicembre 1995 dal Tribunale di sorveglianza di Firenze rispettivamente iscritte ai nn. 904 e 905 del registro ordinanze 1995 e 249 del registro ordinanze 1996 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 1 e 12, prima serie speciale, dell'anno 1996.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 10 luglio 1996 il Giudice relatore Valerio Onida.

Ritenuto in fatto

 

1.-- Con due ordinanze di contenuto analogo, emesse il 7 settembre 1995, e pervenute a questa Corte il 6 dicembre 1995 e il 26 aprile 1995 (R.O. nn. 904 e 905 del 1995), il Tribunale di sorveglianza di Firenze ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 13, secondo comma, 3, primo comma, 27, terzo comma, e 113, primo e secondo comma, della Costituzione, dell'art.41-bis, comma 2, e dell'art. 14- ter della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà).

Le disposizioni impugnate disciplinano, rispettivamente, la prima, il potere del Ministro di grazia e giustizia, quando ricorrano gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica, e anche a richiesta del Ministro dell'interno, di sospendere in tutto o in parte, nei confronti di singoli detenuti per taluno dei delitti di cui all'art.4-bis dell'ordinamento penitenziario (cioé' essenzialmente dei delitti di criminalità organizzata), l'applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dal medesimo ordinamento "che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza"; la seconda, e cioé' l'art. 14-ter, il procedimento di reclamo al Tribunale di sorveglianza avverso il provvedimento dell'amministrazione penitenziaria che dispone o proroga nei confronti di singoli detenuti il regime di sorveglianza speciale previsto dall'art. 14-bis dell'ordinamento penitenziario, reclamo che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, condivisa dalla Corte di cassazione, e' esperibile anche contro il provvedimento ministeriale applicativo dell'art.41-bis.

La questione e' stata sollevata d'ufficio nel corso di giudizi promossi con reclami di detenuti, destinatari di provvedimenti ministeriali ai sensi dell'art. 41-bis, contro questi ultimi.

Il remittente premette che la norma di cui all'art. 41-bis, e quella connessa dell'art. 14-ter, sono state oggetto, nella giurisprudenza della Corte di cassazione, di una "lettura non costituzionale", secondo la quale i provvedimenti ministeriali in questione sarebbero sindacabili bensì dal Tribunale di sorveglianza, ma solo in ordine all'esistenza dei presupposti per l'applicazione di detto art. 41-bis ad un determinato soggetto, non invece in ordine al loro contenuto, e cioé' alle singole misure, in esso disposte, limitative della applicazione della ordinaria normativa penitenziaria.

Il giudice a quo si diffonde nell'argomentare la possibilità di una diversa "lettura costituzionale" delle norme, secondo cui dovrebbe invece ammettersi il sindacato del Tribunale di sorveglianza anche sulle singole misure restrittive. A tal proposito richiama le indicazioni recate nelle sentenze n. 349 e n. 410 del 1993 di questa Corte, secondo cui l'art. 41-bis consente la sola sospensione di quelle medesime regole e istituti che già nell'ordinamento penitenziario appartengono alla competenza di ciascuna amministrazione penitenziaria e che si riferiscono al regime di detenzione in senso stretto.

Inoltre il giudice a quo osserva che le stesse pronunce della Corte affermano che i detenuti sono titolari di diritti che debbono essere garantiti, e dunque quando siano in gioco tali diritti o la violazione del rispetto della personalità del detenuto e' ammesso il sindacato del Tribunale di sorveglianza, adito col reclamo di cui all'art. 14-ter, dato che il contenuto del regime di sorveglianza particolare e' largamente coincidente con quello del regime disposto ai sensi dell'art. 41-bis.

Ora, secondo il remittente, può essere materia del reclamo ex art.14-ter anche la illegittimità delle singole misure disposte; onde, parimenti, in sede di reclamo avverso il decreto di cui all'art. 41-bis dovrebbe potersi accertare sia se il provvedimento violi situazioni soggettive attive del detenuto, tenendo anche conto delle indicazioni fornite dall'art. 14-quater, comma 4 -- ove si specificano le materie che non possono essere toccate dalle restrizioni disposte col regime di sorveglianza speciale --, sia se le limitazioni apportate alle comuni regole di trattamento siano coerenti con i fini di cui all'art. 41-bis, e non siano adottate a scopi puramente afflittivi, che potrebbero contrastare con le regole minime di rispetto della personalità del detenuto.

D'altra parte -- sostiene il remittente -- se così non fosse non sarebbe possibile controllare che i provvedimenti ministeriali contengano solo limitazioni che non ledono diritti del detenuto, e dunque si potrebbe dare un'applicazione dell'art. 41-bis contrastante con la Costituzione.

Il giudice a quo analizza poi criticamente l'accennato indirizzo giurisprudenziale della Corte di cassazione, osservando che esso presuppone che attraverso lo specifico contenuto del provvedimento amministrativo non possa consumarsi alcuna violazione di diritti, il che non e', e che il controllo, pur sempre di legittimità, sul contenuto dell'atto non comporta sostituzione o integrazione della volontà dell'amministrazione, ma solo dichiarazione di inefficacia delle clausole dell'atto che realizzano violazioni di diritti.

Secondo il remittente la interpretazione "non costituzionale" dell'art. 41-bis, che sarebbe seguita dalla Corte di cassazione, per la sua ormai raggiunta stabilità e per la sua provenienza dal giudice di legittimità sarebbe "l'unica interpretazione oggi possibile della normativa in questione", che dunque lo stesso remittente fa propria come premessa per sollevare la questione di costituzionalità.

Dopo avere illustrato in via esemplificativa alcune statuizioni dello stesso Tribunale, rese in altra occasione, e volte ad affermare la illegittimità, con conseguente dichiarazione di inefficacia, di talune misure previste da un provvedimento ministeriale ex art. 41-bis, il giudice a quo passa ad illustrare le censure di illegittimità costituzionale che muove alle norme impugnate, così come interpretate dal giudice di legittimità.

Esse confliggerebbero in primo luogo con l'art. 13, secondo comma, della Costituzione, in quanto l'assenza di sindacato sul contenuto delle singole misure lascerebbe mano libera all'amministrazione nel determinare tale contenuto, potendo così incidere su quel "residuo" di libertà personale che il detenuto pur conserva e che non può essere modificato da misure restrittive al di fuori della duplice garanzia della riserva di legge e della riserva di giurisdizione. Sarebbe infatti violata la riserva di legge perchè' l'art. 41-bis non dà alcuna indicazione sulle possibili restrizioni che possono essere disposte;

sarebbe altresì violata la riserva di giurisdizione in quanto il giudice non potrebbe verificare la legittimità del contenuto delle restrizioni.

In secondo luogo le norme impugnate sarebbero in contrasto con l'art.3, primo comma, della Costituzione, in quanto consentirebbero all'amministrazione di applicare regimi penitenziari differenziati che superano ogni ragionevolezza.

In terzo luogo sarebbe violato l'art. 27, terzo comma, della Costituzione in quanto, consentendo all'amministrazione di introdurre senza alcun controllo di contenuto restrizioni all'ordinario regime carcerario, non si escluderebbe che possano realizzarsi trattamenti contrari al senso di umanità. Inoltre, poichè' in concreto le restrizioni apportate comportano la cessazione delle attività di osservazione e di trattamento, verrebbe meno tutta la strumentazione giuridica prevista dall'ordinamento penitenziario per l'attuazione della finalità rieducativa della pena.

Infine il remittente ritiene che le norme impugnate, interpretate nel senso di escludere la sindacabilità del contenuto dei provvedimenti applicativi dell'art. 41-bis, contrastino con l'art. 113 della Costituzione, apportando limitazioni al principio della piena sindacabilità giurisdizionale degli atti della pubblica amministrazione.

2.-- Con successiva ordinanza del 12 dicembre 1995, pervenuta a questa Corte il 26 febbraio 1996 (R.O. n. 249 del 1996), lo stesso Tribunale di sorveglianza di Firenze ha sollevato, sempre nel corso di un procedimento di reclamo avverso un decreto ministeriale di applicazione dell'art. 41-bis dell'ordinamento penitenziario, identica questione di legittimità costituzionale delle norme già indicate.

Richiamato il contenuto delle precedenti ordinanze di rimessione, il giudice a quo aggiunge alcune considerazioni circa la portata, che si asserisce lesiva di diritti dei detenuti, di alcune clausole contenute nei decreti ministeriali di applicazione dell'art. 41-bis, anche alla luce di una circolare della stessa amministrazione: in particolare si sostiene che i decreti comporterebbero la sospensione di ogni attività di osservazione e trattamento nei confronti dei detenuti, come risulterebbe anche dagli effetti della misura che restringe a due ore giornaliere il passeggio all'aria; e che la limitazione dei colloqui con i familiari violerebbe un diritto dei detenuti, non rimesso alla discrezionalità dell'amministrazione anche se specificato nel suo contenuto dal regolamento di esecuzione della legge penitenziaria.

Il remittente conclude che, se non fosse possibile il sindacato giurisdizionale sul contenuto dei provvedimenti ministeriali, potrebbe essere realizzato in via amministrativa un regime penitenziario al di fuori di qualsiasi regola, il che non sarebbe in linea con le indicazioni delle sentenze n. 349 e n. 410 del 1993 di questa Corte.

3.-- E' intervenuto in tutti i giudizi il Presidente del Consiglio dei ministri, chiedendo in primo luogo che la questione sia dichiarata inammissibile per difetto di rilevanza, in quanto le ordinanze non farebbero alcun riferimento ai casi che hanno dato origine ai concreti procedimenti, riconducendosi le censure di illegittimità costituzionale alla norma "in se'" e non in quanto applicabile ai casi che hanno dato origine ai procedimenti pendenti davanti al giudice a quo.

In subordine, l'Avvocatura chiede che la questione sia dichiarata non fondata. Non si potrebbe infatti affermare che restrizioni in ordine ad alcune regole di trattamento comportino di per se', ed in astratto, violazioni dell'art. 13 della Costituzione, essendo la stessa legge che determina in via generale i casi in cui può farsi ricorso all'applicazione dell'art. 41-bis.

Ne' sarebbero violati gli artt. 3 e 27, secondo comma, della Costituzione, in quanto la specificità delle situazioni cui la norma si applica renderebbe ragionevole il differente trattamento, mentre tale applicazione non darebbe luogo di per se' e automaticamente a trattamenti contrari al senso di umanità, ne' escluderebbe il fine rieducativo della pena.

Infine non sarebbe violato l'art. 113 della Costituzione, in quanto la garanzia della tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi non potrebbe stravolgere il principio costituzionale della divisione dei poteri, da intendersi, con riguardo alla materia in esame, nel senso che l'autorità giudiziaria può disapplicare gli atti amministrativi illegittimi ma non può sostituirsi all'autorità amministrativa nel regolamento delle singole fattispecie concrete, sostituzione che inevitabilmente avverrebbe ove si riconoscesse al giudice il potere di disapplicare il provvedimento che ha disposto in concreto specifiche misure a salvaguardia di esigenze di ordine e di sicurezza degli istituti di pena.

Considerato in diritto

 

1.-- Le tre ordinanze sollevano identica questione, e pertanto i relativi giudizi possono essere riuniti e decisi con unica pronuncia.

2.-- La questione investe l'art. 41-bis, comma 2, dell'ordinamento penitenziario, e insieme l'art. 14-ter della stessa legge, che disciplina il procedimento di reclamo ritenuto applicabile nei riguardi dei provvedimenti adottati ai sensi dello stesso art. 41-bis.

Ma essa, pur essendo riferita a quattro diversi parametri costituzionali -- l'art. 13, secondo comma, l'art. 3, primo comma, l'art. 27, terzo comma, e l'art.113, primo e secondo comma, della Costituzione --, pone in sostanza un unico quesito, concernente i limiti del sindacato del Tribunale di sorveglianza sui decreti ministeriali applicativi dell'art. 41-bis, muovendo da una interpretazione della norma, che si afferma essersi consolidata nella giurisprudenza della Corte di cassazione, che limiterebbe tale sindacato ai presupposti del provvedimento e della sua applicabilità al singolo detenuto, con esclusione di un controllo sul contenuto delle singole misure con esso adottate. Sarebbe proprio tale interpretazione, secondo il remittente, a porre la norma in contrasto con i principii costituzionali indicati.

3. -- Deve disattendersi, in primo luogo, l'eccezione di inammissibilità per irrilevanza sollevata dall'Avvocatura dello Stato. Benchè' in effetti le ordinanze, pur singolarmente diffuse, non si soffermino a motivare specificamente in ordine alla rilevanza della questione nei giudizi a quibus, e da questo punto di vista si presentino come tecnicamente difettose, può ritenersi che la rilevanza stessa risulti prima facie dalla circostanza che, in giudizi promossi con reclami avverso provvedimenti ministeriali di applicazione o di proroga dello speciale regime di cui all'art. 41-bis dell'ordinamento penitenziario, il giudice si e' posto, d'ufficio, il quesito circa i confini del sindacato che esso era chiamato ad esercitare, ed ha dubitato della costituzionalità delle norme dalle quali ha ritenuto discenda appunto una limitazione di tale sindacato.

D'altra parte la Corte non ignora che, nei fatti, il contenuto dei decreti ministeriali applicativi dell'art. 41-bis corrisponde spesso ad uno schema comune, tanto che, per ciò che riguarda le misure disposte, si e' in presenza di una sorta di regolamentazione derogatoria di carattere generale, di cui si decide l'applicazione ai singoli detenuti, più che di provvedimenti singoli volta per volta autonomamente determinati nel loro contenuto dispositivo: il che concorre, evidentemente, ad allontanare l'attenzione dalla specificità dei singoli casi per concentrarla sulle scelte di carattere quasi "normativo" effettuate dall'amministrazione penitenziaria attraverso i provvedimenti in questione.

In ogni caso ha carattere generale e assorbente il quesito circa i limiti del sindacato giudiziario su di essi.

4.-- Nel merito, la questione e' infondata nei sensi di seguito precisati.

Il secondo comma dell'art. 41-bis dell'ordinamento penitenziario, inserito come norma ad efficacia temporalmente limitata a tre anni dal d.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito dalla legge 7 agosto 1992, n. 356 (artt. 19 e 29) -- efficacia poi prorogata fino al 31 dicembre 1999 dall'art. 1 della legge 16 febbraio 1995, n. 36 --, e' inteso a consentire all'amministrazione penitenziaria, per esigenze emergenti di ordine e sicurezza non già interne ai singoli stabilimenti carcerari (al che provvedono il regime di sorveglianza particolare di cui all'art. 14-bis nonchè' il potere di provvedere a situazioni di emergenza conferito al Ministro di grazia e giustizia dal primo comma dell'art. 41-bis dello stesso ordinamento penitenziario), ma esterne, e dunque attinenti alla lotta alla criminalità organizzata, di disporre che singoli detenuti per delitti connessi a tale forma di criminalità -- vuoi in corso di esecuzione della pena, vuoi in custodia cautelare -- siano sottoposti ad un regime carcerario derogatorio, attraverso la sospensione totale o parziale, nei loro confronti, dell'applicazione di regole di trattamento e di istituti previsti dalla legge, allorquando tali regole e istituti "possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza".

L'apprezzamento dei motivi di ordine e di sicurezza che richiedano l'applicazione della norma, e delle circostanze che ne consiglino l'applicazione ai singoli detenuti, e' rimesso all'autorità amministrativa, e precisamente al Ministro di grazia e giustizia, anche su richiesta del Ministro dell'interno: salvo -- su ciò non vi e' oggi discussione -- il controllo dell'autorità giudiziaria sotto ogni profilo di legittimità di detta determinazione, compreso dunque l'eccesso di potere nelle sue varie manifestazioni suscettibili di rivelare un non corretto uso del potere amministrativo.

Circa le modalità del controllo giurisdizionale sui provvedimenti ministeriali hanno fatto chiarezza precedenti pronunce di questa Corte, affermando che essi sono "certamente sindacabili dal giudice ordinario, il quale, in caso di reclamo, eserciterà su di essi il medesimo controllo giurisdizionale che l'ordinamento penitenziario gli attribuisce in via generale sull'operato dell'amministrazione penitenziaria e sui provvedimenti comunque concernenti l'esecuzione delle pene" (sentenza n.349 del 1993); e che la tutela giurisdizionale dei diritti costituzionalmente garantiti dei detenuti, mediante il sindacato sulla legittimità dei provvedimenti adottati dall'amministrazione penitenziaria ai sensi dell'art. 41- bis, spetta al giudice dei diritti, e cioé' al giudice ordinario, e in particolare "a quello stesso organo giurisdizionale cui e' demandato il controllo sull'applicazione, da parte della medesima amministrazione, del regime di sorveglianza particolare" (sentenza n. 410 del 1993).

La questione ora posta concerne però l'estensione del controllo giurisdizionale sulla legittimità dei provvedimenti sotto il profilo del loro contenuto dispositivo, e dunque sulla legittimità in concreto delle singole misure con essi disposte.

Ora, non vi e' dubbio che il sindacato giurisdizionale sulle determinazioni dell'amministrazione, per esplicare pienamente la sua funzione a tutela dei diritti dei detenuti, debba estendersi non solo alla sussistenza dei presupposti per l'adozione del provvedimento, ma anche al rispetto dei limiti posti dalla legge e dalla Costituzione in ordine al contenuto di questo, vuoi sotto il profilo della eventuale lesione di situazioni non comprimibili, vuoi sotto quello della congruità delle misure in concreto disposte rispetto ai fini per i quali la legge consente all'amministrazione di disporre un regime derogatorio rispetto a quello ordinario. La norma non si limita infatti a prevedere la sottoposizione ad un regime già interamente predeterminato dalla legge (nel qual caso l'unico controllo giurisdizionale possibile -- a parte eventuali contrasti fra la stessa legge e la Costituzione -- potrebbe vertere sulla sussistenza dei presupposti per l'adozione del provvedimento), ma affida un assai ampio spazio di scelta all'amministrazione riguardo al concreto atteggiarsi del regime derogatorio.

Questa Corte ha già avuto modo di segnare, in via di interpretazione conforme a Costituzione, alcuni limiti per così dire esterni che l'amministrazione non può valicare nel configurare detto regime. Così, in primo luogo, non possono essere adottate misure comunque incidenti "sulla qualità e quantità della pena" o sul "grado di libertà personale del detenuto" (sentenza n. 349 del 1993), onde nemmeno possono adottarsi determinazioni che vengano a precludere o a condizionare in via di diritto l'applicabilità ai detenuti di benefici che incidano sullo stato di libertà (ferme restando le limitazioni che in generale la legge ha posto in tale materia nei confronti dei condannati per taluni delitti: art. 4-bis, comma 1, dell'ordinamento penitenziario, su cui v. sentenze n. 357 del 1994, n. 68 e n. 504 del 1995, nonchè' sentenze n. 306 del 1993, n. 39 del 1994, n. 361 del 1994).

Da questo punto di vista non potrebbe ritenersi consentita, in sede di provvedimenti ex art. 41-bis, la sospensione di ogni attività di osservazione e di trattamento del detenuto, tale da precludere l'adempimento delle condizioni cui la legge subordina la concessione di detti benefici.

Questa prima delimitazione dell'ambito applicativo della norma, per cui essa consente di sospendere l'applicazione solo "di quelle medesime regole ed istituti che già nell'ordinamento penitenziario appartengono alla competenza di ciascuna amministrazione penitenziaria e che si riferiscono al regime di detenzione in senso stretto" (sentenza n. 349 del 1993), ha consentito alla Corte di escludere che l'art. 41-bis sia di per se' in contrasto con l'art. 13, secondo comma, della Costituzione.

Infatti, se non e' consentito, attraverso i provvedimenti ministeriali in questione, adottare misure qualificabili come restrittive della libertà personale del detenuto (perchè' attinenti alla qualità e quantità della pena o alla misura della sua residua libertà personale), ma solo misure di trattamento rientranti nell'ambito di competenza dell'amministrazione penitenziaria, attinenti alle modalità concrete, rispettose dei diritti del detenuto, di attuazione del regime carcerario in quanto tale, e dunque già potenzialmente ricomprese nel quantum di privazione della libertà personale conseguente allo stato di detenzione, per ciò stesso non vengono in considerazione ne' la riserva di legge ne' la riserva di giurisdizione stabilite dall'art. 13, secondo comma, della Costituzione. Onde deve ribadirsi, sotto questo profilo, l'infondatezza, nei sensi ora precisati, della censura riproposta in questa sede.

Deve però, per converso, riaffermarsi la pienezza del sindacato giurisdizionale sui provvedimenti, al fine di consentire di verificare in concreto l'osservanza da parte dell'amministrazione di tale limite frapposto al suo potere.

Proprio l'esigenza di garantire il rispetto di questo limite "funzionale" del potere ministeriale comporta, già sotto questo primo profilo, la necessità di estendere il controllo giurisdizionale sul provvedimento alle singole misure in esso disposte, al fine di verificarne la compatibilità con quel limite, anche -- come si e' già accennato -- per ciò che attiene alle conseguenze indirette che possano discendere, in linea di diritto, dalla sospensione di regole o istituti di trattamento sulla concedibilità di benefici incidenti sullo stato di libertà (come la liberazione anticipata di cui all'art. 54 dell'ordinamento penitenziario).

5.-- L'art. 41-bis, comma 2, dell'ordinamento penitenziario prevede che possa essere sospesa l'applicazione delle regole e degli istituti "che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza". Ciò comporta un ulteriore preciso limite, questa volta "interno", all'esercizio del potere ministeriale: non possono cioé' disporsi misure che per il loro contenuto non siano riconducibili alla concreta esigenza di tutelare l'ordine e la sicurezza, o siano palesemente inidonee o incongrue rispetto alle esigenze di ordine e di sicurezza che motivano il provvedimento.

Mancando tale congruità, infatti, le misure in questione non risponderebbero più al fine per il quale la legge consente che esse siano adottate, ma acquisterebbero un significato diverso, divenendo ingiustificate deroghe all'ordinario regime carcerario, con una portata puramente afflittiva non riconducibile alla funzione attribuita dalla legge al provvedimento ministeriale.

Ne' tale funzione potrebbe essere alterata o forzata attribuendo alle misure disposte uno scopo "dimostrativo", volto cioe' a privare una categoria di detenuti di quelle che vengono considerate manifestazioni di "potere reale" e occasioni per aggregare intorno ad essi "consenso" traducibile in termini di potenzialità offensive criminali.

Se e' vero infatti che va combattuto in ogni modo il manifestarsi all'interno del carcere di forme di "potere" dei detenuti più forti o più facoltosi, suscettibili anche di rafforzare le organizzazioni criminali, e' anche vero che ciò deve perseguirsi attraverso la definizione e l'applicazione rigorosa e imparziale delle regole del trattamento carcerario (in più luoghi la legge si dimostra consapevole di questa esigenza, e in generale dell'esigenza di assicurare condizioni di parità fra i detenuti: cfr. ad es. art. 1, primo comma, art. 3, art.14- bis, comma 1, lettera c), dell'ordinamento penitenziario; art. 14, primo comma, art. 72, primo comma, n. 12, del regolamento di esecuzione di cui al d.P.R. n. 431 del 1976). Non potrebbe, per converso, considerarsi legittimo, a questo scopo, l'impiego di misure più restrittive nei confronti di singoli detenuti in funzione di semplice discriminazione negativa, non altrimenti giustificata, rispetto alle regole e ai diritti valevoli per tutti.

Anche il controllo sul rispetto del predetto limite "interno" al potere ministeriale comporta evidentemente la possibilità per l'autorità giudiziaria di sindacare la legittimità del contenuto del provvedimento, e dunque delle singole misure in esso disposte.

6.-- Costituiscono, infine, limite all'esercizio del potere ministeriale il divieto di disporre trattamenti contrari al senso di umanità e l'obbligo di "dar conto dei motivi di un'eventuale deroga del trattamento rispetto alle finalità rieducative della pena" (sentenza n. 349 del 1993).

Da un lato dunque dovrà verificarsi che le singole misure e il loro complesso non siano tali da vanificare del tutto quella finalità rieducativa che deve, se pur non in modo esclusivo, connotare la pena ai sensi dell'art. 27, terzo comma, della Costituzione. Dall'altro lato dovrà verificarsi che non sia violato il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità, verifica quest'ultima tanto più delicata trattandosi di misure che derogano al trattamento carcerario ordinario.

A questo proposito si pone il quesito -- a cui risultano esser date, in giurisprudenza, risposte non univoche -- se un limite assoluto al contenuto delle misure derogatorie si tragga, per analogia, dall'art. 14- quater, comma 4, dell'ordinamento penitenziario, che specifica gli ambiti della vita carceraria che non possono essere incisi dalle restrizioni disposte con il regime di sorveglianza particolare, di cui all'art. 14-bis dello stesso ordinamento: considerato che, come questa Corte ha rilevato, tale ultimo regime "nella sua concreta applicazione viene ad assumere un contenuto largamente coincidente con il regime differenziato introdotto con il provvedimento ex art. 41-bis, comma 2, di sospensione del trattamento penitenziario" (sentenza n. 410 del 1993).

Benchè' la Corte non sia chiamata, in questa sede, a pronunciarsi ex professo su tale problema (al quale peraltro le ordinanze del giudice a quo esplicitamente si riferiscono), deve rilevarsi che non può mancare la individuazione di parametri normativi per la concretizzazione del divieto di trattamenti contrari al senso di umanità, e che da questo punto di vista le indicazioni fornite dal legislatore con il quarto comma dell'art. 14-quater appaiono particolarmente pregnanti.

In ogni caso, anche la verifica in concreto del rispetto, da parte dei provvedimenti ministeriali, dei limiti da ultimo accennati comporta il più ampio sindacato di legittimità della magistratura di sorveglianza sul contenuto delle singole misure disposte.

7.-- Così interpretate, le norme denunciate sfuggono alle censure mosse dal giudice remittente.

In particolare, non e' violato l'art. 27, terzo comma, della Costituzione, in quanto e' dato un controllo giurisdizionale idoneo a evitare che in concreto i provvedimenti ministeriali contraddicano la finalità rieducativa della pena o comportino trattamenti contrari al senso di umanità; non e' violato l'art. 113 della Costituzione, data la pienezza del sindacato giurisdizionale da riconoscersi sui provvedimenti ministeriali; ma non e' violato nemmeno l'art. 3, primo comma, della Costituzione, essendovi strumenti idonei a mantenere o a ricondurre i trattamenti differenziati disposti con i provvedimenti ex art. 41-bis nei limiti delle finalità e dunque della giustificazione poste a base della norma.

L'interpretazione qui accolta e' d'altra parte necessaria per non conferire all'art. 41-bis un significato che contrasterebbe, invece, con i predetti parametri costituzionali; ed e' dunque imposta in forza del canone per cui fra più interpretazioni possibili della stessa norma deve preferirsi quella che consente di dare ad essa un significato conforme o non contrastante con la Costituzione (cfr., ex plurimis, sentenze nn. 311, 234 e 98 del 1996 e 19 del 1995).

Ne', peraltro, tale interpretazione appare contraddetta da una univoca e consolidata giurisprudenza dei giudici di legittimità, tale da indurre questa Corte ad assumerne il contenuto come premessa del proprio giudizio. Al contrario, recenti pronunce della Corte di cassazione, successive alla promozione dei presenti giudizi e in contrasto con quelle citate dal giudice a quo, hanno riconosciuto la pienezza del sindacato giudiziale anche sulle singole misure restrittive, al fine di verificarne la compatibilità con i principi di individualizzazione e di proporzionalità di cui all'art.27, primo e terzo comma, e all'art. 3 della Costituzione, nonchè' "con quel grado di flessibilità del contenuto afflittivo necessario sia ai fini di rieducazione del detenuto che per l'ordine e la sicurezza", e dunque al fine di controllare sotto il profilo della legittimità vuoi la rispondenza delle restrizioni alla finalità di pubblico interesse che il provvedimento deve perseguire, vuoi l'assenza di lesioni di diritti costituzionalmente garantiti dei detenuti o di trattamenti contrari al senso di umanità: ammettendo la "disapplicazione" sia totale che parziale del provvedimento illegittimo da parte del giudice di sorveglianza (cfr. Cass., sez. prima penale, 12 febbraio 1996, n. 6873; 1° marzo 1996, n. 684).

Questa recente giurisprudenza ha altresì chiarito il significato e la portata del potere riconosciuto al tribunale di sorveglianza di "disapplicare" in tutto o in parte il provvedimento ministeriale. In quanto giudice di diritti, il tribunale di sorveglianza non esercita, nei confronti del provvedimento ministeriale, una giurisdizione di impugnazione dell'atto, ma semplicemente si pronuncia sui diritti e sul trattamento del detenuto sulla base delle norme legislative e regolamentari applicabili, e dunque tenendo conto delle sole deroghe a queste legittimamente disposte dal Ministro nell'esercizio del potere di cui all'art. 41-bis (cfr. in questo senso Cass., sez. prima penale, 12 febbraio 1996, n. 6873, cit.). Eventuali misure illegittime, lesive dei diritti del detenuto, dovranno perciò essere a questi fini disattese, secondo la regola generale per cui il giudice dei diritti applica i regolamenti e gli atti dell'amministrazione solo in quanto legittimi (art. 5 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. E).

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 41-bis, comma 2, e dell'art. 14- ter della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), sollevata, in riferimento agli artt. 13, secondo comma, 3, primo comma, 27, terzo comma, e 113, primo e secondo comma, della Costituzione, dal Tribunale di sorveglianza di Firenze con le ordinanze indicate in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14/10/96.

Mauro FERRI, Presidente

Valerio ONIDA, Redattore

Depositata in cancelleria il 18/10/96.