Sentenza n.145 del 1987

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SENTENZA N. 145

ANNO 1987

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici

Prof. Antonio LA PERGOLA, Presidente

Prof. Virgilio ANDRIOLI

Dott. Francesco SAJA

Prof. Giovanni CONSO

Prof. Ettore GALLO

Prof. Aldo CORASANITI

Prof. Giuseppe BORZELLINO

Prof. Renato DELL'ANDRO

Prof. Gabriele PESCATORE

Avv. Ugo SPAGNOLI

Prof. Francesco P. CASAVOLA

Prof. Antonio BALDASSARRE

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

        ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 20, ultimo comma, n. 3, della legge 2 febbraio 1973, n. 12 (Natura e compiti dell'Ente nazionale di assistenza per gli agenti e rappresentanti di commercio e riordinamento del trattamento pensionistico integrativo a favore degli agenti e rappresentanti di commercio), promosso con ordinanza emessa l'8 giugno 1982 dal pretore di Milano nel procedimento civile vertente tra Pagni Giuseppe Maria e Enasarco, iscritta al n. 703 del registro ordinanze 1982 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 67 dell'anno 1983;

Visto l'atto di costituzione di Pagni Giuseppe Maria, nonché l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;

Udito nell'udienza pubblica del 27 gennaio 1987 il Giudice relatore Giovanni Conso;

Udito l'avv. Mario Vallo per Pagni Giuseppe Maria e l'avvocato dello Stato Stefano Onufrio per il Presidente del Consiglio dei Ministri.

Ritenuto in fatto

1. - Nel corso del procedimento civile vertente tra Pagni Giuseppe Maria e l'Ente nazionale di assistenza per gli agenti e rappresentanti di commercio (Enasarco), il pretore di Milano ha denunciato, in riferimento agli artt. 3 e 38 della Costituzione, l'illegittimità dell'art. 20, ultimo comma, n. 3, della legge 2 febbraio 1973, n. 12, "nella parte in cui dispone che perdono il diritto a pensione di reversibilità i figli maggiorenni inabili quando a qualsiasi titolo abbiano un reddito proprio".

Quanto alla rilevanza della questione, il giudice a quo osserva che il ricorso proposto dal Pagni dovrebbe essere respinto, essendo il ricorrente proprietario di un appartamento concesso in locazione, nonché titolare di una pensione statale per invalidità civile.

Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo deduce , da un lato, l'irragionevole disparità di trattamento fra la pensione di reversibilità prevista dalla norma impugnata e la pensione di reversibilità dell'assicurazione generale prevista dall'art. 13 del r.d.-l. 14 aprile 1939, n. 636, come modificato dall'art. 2 della legge 4 aprile 1952, n. 218, e sostituito dall'art. 22 della legge 21 luglio 1965, n. 903; dall'altro, la violazione dell'art. 38 della Costituzione, dato che la norma impugnata nega "il diritto alla pensione di reversibilità nonostante che l'inabile é sprovvisto dei mezzi necessari per vivere". Sotto tale ultimo aspetto, il giudice a quo precisa che "la norma può essere valida sole se ed in quanto, subordina il diritto a pensione al non possesso di un reddito sufficiente": nell'attuale assetto, "invece", anche la sola e mera titolarità di un reddito esclude il diritto a pensione.

L'ordinanza, ritualmente notificata e comunicata, é stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 67 del 9 marzo 1983.

2. - Si é costituito il Pagni, rappresentato dalla tutrice Pagni Antonella Besana, con atto di deduzioni del suo difensore, avv. Fiammetta Orsini.

A sostegno della censura relativa alla violazione dell'art. 3 della Costituzione, il Pagni adduce la giurisprudenza della Corte costituzionale (sentenza n. 7/1980), secondo cui il fondamento della reversibilità del trattamento pensionistico consiste nella vivenza a carico del familiare deceduto, cosicché nessun rilievo dovrebbe attribuirsi al possesso di un qualche reddito personale.

Ciò sarebbe del fatto che la pensione di reversibilità é cumulabile con l'eventuale pensione diretta goduta dall'interessato a norma delle leggi n. 153/1969 e n. 114/1974, pensione della quale si consentirebbe l'integrazione al minimo.

Sotto un diverso profilo si osserva, inoltre, che la previsione relativa alla perdita della pensione di reversibilità, sancita dalla legge sull'Enasarco per il figlio maggiorenne inabile in possesso di un reddito proprio, si porrebbe anche in contrasto con la norma, ricavabile della medesima disposizione di legge (art. 20, ultimo comma, n. 3), secondo cui il figlio minorenne non perde la stessa pensione anche se sia in possesso di reddito.

Si mette infine in evidenza che l'art. 20 alle lettere c) e d) del primo comma esclude la pensione di reversibilità allorché i genitori, i fratelli celibi e le sorelle nubili sono titolari di pensione, ossia di un reddito quantificato ed adeguato al minimo vitale, mentre il figlio inabile perde il diritto quando possiede un qualsiasi reddito, che potrebbe rivelarsi di entità simbolica, con evidente assenza di qualunque logica giustificazione della disparità di trattamento.

Con riguardo alla violazione dell'art. 38 della Costituzione, si, ribadisce come tale precetto imponga che al lavoratore inabile sia garantito il mantenimento se sprovvisto dei mezzi necessari per vivere, condizione che non può dirsi insussistente quando l'interessato fruisca di un reddito personale di entità soltanto simbolica.

3. - Il Presidente del Consiglio dei Ministri ha esplicato rituale intervento a mezzo dell'Avvocatura generale dello Stato, sostenendo la non fondatezza della proposta questione.

Ricostruita sommariamente la normativa relativa al trattamento pensionistico di reversibilità, ordinario e integrativo, l'Avvocatura afferma che la norma impugnata disciplina il diritto dei figli inabili alla pensione dell'Enasarco nei medesimi termini nei quali l'art. 22 della legge 21 luglio 1965, n. 903, regola il diritto degli stessi soggetti alla pensione di reversibilità ordinaria: in entrambi i casi verrebbe richiesta la condizione che i soggetti in questione siano "a carico" del familiare defunto, ossia che questi prima del decesso provvedesse al loro sostentamento in maniera continuativa. Il venir meno di siffatto presupposto, e, quindi, la disponibilità di un reddito proprio, determinerebbe la cessazione del diritto a qualunque tipo di pensione. In tal modo la pretesa violazione del principio di eguaglianza si rivelerebbe insussistente, e del pari infondato risulterebbe il dubbio di incostituzionalità in riferimento all'art. 38 della Costituzione.

4. - Con successiva memoria la parte privata ha ribadito le proprie argomentazioni a sostegno della incostituzionalità della disposizione impugnata, facendo, tra l'altro, presente che la norma sospetta di illegittimità costituzionale non trova riscontro nel regime giuridico delle pensioni di reversibilità erogate per altre categorie di lavoratori dalle rispettive gestioni.

Considerato in diritto

1. - Con l'ordinanza in esame il pretore di Milano chiede a questa Corte di pronunciarsi sulla legittimità costituzionale dell'art. 20, ultimo comma, n. 3, della legge 2 febbraio 1973, n. 12 (Natura e compiti dell'Ente nazionale di assistenza per gli agenti e rappresentanti di commercio e riordinamento del trattamento pensionistico integrativo a favore degli agenti e dei rappresentanti di commercio), "nella parte in cui dispone che perdono il diritto alla pensione di reversibilità i figli maggiorenni inabili quando a qualsiasi titolo abbiano un reddito proprio", in riferimento agli artt. 3 e 38 della Costituzione.

Più specificamente, l'art. 3 della Costituzione viene invocato perché, in forza della norma oggetto di denuncia, "risulta attuata una disparità di trattamento senza razionale giustificazione" tra la pensione di reversibilità Enasarco ivi disciplinata e la pensione di reversibilità dell'assicurazione generale obbligatoria spettante "ai figli di qualunque età riconosciuti inabili al lavoro e a carico del genitore nel momento del decesso di questi", a prescindere dall'esistenza di eventuali redditi propri. L'art. 38 della Costituzione viene, invece, invocato, con implicito riferimento al suo primo comma, perché la norma denunciata "nega il diritto alla pensione di reversibilità nonostante che l'inabile é sprovvisto dei mezzi necessari per vivere", mentre "per essere valida" dovrebbe subordinare il diritto a pensione "al non possesso di un reddito sufficiente".

2. - Delle due questioni proposte, la seconda si appalesa inammissibile per contraddittorietà della motivazione sulla rilevanza. É, infatti, lo stesso giudice a quo ad asserire, conclusivamente, che nel caso di specie si sarebbe "in presenza" di un reddito, sia pur "appena", "sufficiente per vivere", così smentendo quanto sostenuto poco prima circa la necessità di dichiarare invalida la norma per garantire all'inabile la disponibilità di mezzi sufficienti.

3. - Più complesso il discorso sulla rilevanza dell'altra questione.

Poiché dagli atti di causa emerge con chiarezza che nella fattispecie concreta la controversia di merito ha per oggetto non la perdita del diritto alla pensione di reversibilità Enasarco, prevista dalla norma impugnata, bensì la stessa acquisizione iniziale di tale diritto, anche la prima questione, come letteralmente prospettata, non risulterebbe ammissibile per difetto di rilevanza.

Dai medesimi atti si ricava, però con altrettanta chiarezza che, per prassi costante dell'Ente erogatore, in conformità alle perentorie indicazioni del Ministero competente, il fatto di avere "a qualsiasi titolo un reddito proprio" comporta automaticamente per i figli maggiorenni inabili al lavoro non solo la perdita del diritto già riconosciuto alla pensione di reversibilità di cui all'art. 19 della legge 2 febbraio 1973, n. 12 (e lo stesso é a dirsi per il diritto già riconosciuto alla pensione indiretta di cui all'art. 18 della stessa legge), ma pure, e prima ancora, l'iniziale disconoscimento del diritto all'una o all'altra pensione.

Tutto ciò sta a significare che il secondo dei due eventi da cui il n. 3 del settimo ed ultimo comma dell'art. 20 della legge 2 febbraio 1973, n. 12, fa discendere la successiva perdita del diritto a pensione per i figli maggiorenni inabili al lavoro "quando cessi lo stato di inabilità o quando a qualsiasi titolo abbiano un reddito proprio" viene sussunto, in via interpretativa, a completamento della disciplina che l'art. 20 dedica nei suoi primi sei commi all'iniziale acquisizione del diritto alla pensione di reversibilità o alla pensione indiretta. Più precisamente, il completamento accede al terzo di tali commi, cioè al comma alla cui stregua va verificata la sussistenza della condizione posta dalla lettera b) del primo comma (l'essere "a carico dell'agente o del rappresentante di commercio al momento del decesso di questo") ai fini dell'acquisizione del diritto alla pensione per "i figli di qualunque età riconosciuti inabili al lavoro".

Così riportata alla norma che il diritto vivente trae dal combinato disposto del terzo e del settimo comma, n. 3, dell'art. 20 della legge 2 febbraio 1973, n. 12, nel senso di negare il diritto di acquisire la pensione di reversibilità ai figli maggiorenni inabili al lavoro allorché a qualsiasi titolo abbiano un reddito proprio, la questione di legittimità proposta in riferimento all'art. 3 della Costituzione non può non considerarsi rilevante.

4. - Quanto al merito, la denunciata disparità di trattamento rispetto alla pensione di reversibilità dell'assicurazione generale obbligatoria prevista dall'art. 13 del r.d.-l. 14 aprile 1939, n. 636, come sostituito dapprima dall'art. 2 della legge 4 aprile 1952, n. 218, e poi dall'art. 22 della legge 21 luglio 1965, n. 903 - pur essendo innegabile, dal momento che in nessuna delle formulazioni di tale art. 13 si rinviene traccia di una condizione analoga a quella posta dall'art. 20, settimo comma, n. 3, della legge 2 febbraio 1973, n. 12 - non basta di per se stessa a far ritenere violato l'art. 3 della Costituzione.

Si tratta, infatti, di una disparità che, per più di un motivo, non può dirsi priva di qualsiasi giustificazione e, quindi, palesemente irragionevole. Già in via generale, lo stato complessivo della normativa previdenziale, in quanto caratterizzata da profonde differenziazioni nelle posizioni assicurative con molteplicità di discipline e di strutture, rende problematica ogni operazione diretta ad isolare singoli aspetti di un dato trattamento previdenziale per compararli con i corrispondenti, ma diversificati, aspetti di un altro trattamento.

Più in particolare, come questa Corte ha ripetutamente avuto modo di sottolineare, persino le diverse condizioni soggettive ed oggettive degli iscritti all'assicurazione generale obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia ed i superstiti rispetto alla condizioni dei lavoratori soggetti alle gestioni speciali dello stesso I.N.P.S. escludono in linea di massima la violazione del principio di eguaglianza (v. sentenze n. 155/1969 e n. 102/1976). Nel caso di specie, poi, la pensione Enasarco, attualmente regolata dalla legge 2 febbraio 1973, n. 12, é gestita dal Consiglio di amministrazione dello stesso ente attraverso un apposito Fondo, detto Fondo di previdenza per gli agenti e rappresentanti di commercio, ad integrazione della pensione "istituita" dalla legge 22 luglio 1986, n. 613: l'art. 1 di quest'ultima ha, infatti, esteso l'assicurazione obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia ed i superstiti agli esercenti attività commerciale, dando vita presso l'I.N.P.S. ad una gestione speciale per tale assicurazione (art. 5) e facendo nel contempo assumere al trattamento previdenziale in precedenza autonomamente previsto per gli agenti ed i rappresentanti di commercio la "natura integrativa" di cui si é detto (art. 29, secondo comma, poi ribadito dall'art. 2, primo comma, della legge 2 febbraio 1973, n. 12).

A parte il fatto che, come bene ha osservato l'Avvocatura dello Stato nell'atto di intervento per il Presidente del Consiglio dei Ministri, "appare veramente arduo istituire un confronto tra un trattamento pensionistico e l'altro quando il soggetto che ha agito in giudizio gode di entrambi", ciò implicando ovviamente una non coincidenza tra essi, resta in ogni caso incontestabile la conclusione alla quale é giunta in udienza la stessa Avvocatura dello Stato: pensione generale e pensione Enasarco si collocano su due piani diversi, in posizioni non omogenee, per cui non può certo dirsi arbitrario che la seconda abbia un connotato privo di rispondenza nella disciplina dell'altra.

2. - La lamentata mancanza di una razionale giustificazione alla base della norma in esame, se dev'essere esclusa sotto il profilo comparativo dianzi considerato, emerge, però, per altra via, risultando la norma stessa priva di coerenza intrinseca (v. sentenze n. 69/1982, n. 215 e n. 222 del 1983).

Il far dipendere l'insorgenza del rapporto giuridico previdenziale in favore di un figlio maggiorenne riconosciuto inabile al lavoro, oltrechè dal requisito della di lui vivenza a carico del lavoratore pensionato nel momento del decesso di quest'ultimo, dalla condizione della totale mancanza di redditi propri del superstite, come pretende il combinato disposto del terzo e del settimo comma, n. 3, dell'art. 20 della legge 2 febbraio 1973, n. 12, é, nella tassativa indiscriminatezza di tale condizione, contrario ai più elementari canoni dell'equità e della logica.

La circostanza che una simile statuizione non trovi riscontro in nessun altro dei pur numerosissimi e svariatissimi trattamenti previdenziali per i superstiti non é certo di per sé idonea ad inficiare la norma denunciata, stanti le considerazioni più sopra svolte sulla non omogeneità delle molteplici discipline riscontrabili in materia, ma appare pur sempre ricca di significato, rivelandosi chiaro sintomo della unanimemente riconosciuta esigenza di non paralizzare il requisito sostanziale della vivenza a carico con un drastico dato formale. Prova ne sia che le altre normative, le quali, anche ad evitare un sistematico ricorso ad accertamenti giurisdizionali o comunque un intenso contenzioso, si preoccupano di circoscrivere, per lo più in sede regolamentare o addirittura di direttive interne, il requisito della vivenza a carico, affiancandogli la previsione di un limite reddituale, si avvalgono di criteri, pur sempre presuntivi e per ciò stesso opinabili, ma mai così totalmente negativi da far dipendere l'esclusione della pensione di reversibilità dalla "sola e mera titolarità di un reddito nummo uno", come icasticamente sintetizza il giudice a quo.

Questa inesorabile caratteristica della pensione di reversibilità Enasarco ai figli maggiorenni inabili al lavoro - che risale all'art. 21, settimo comma, n. 3, del d.P.R. 30 aprile 1968, n. 758, recante norme regolamentari del trattamento integrativo riconosciuto dal già ricordato art. 29, secondo comma, della legge 22 luglio 1966, n. 613, poi riprodotto in termini pressoché identici nell'art. 20 della legge 2 febbraio 1973, n. 12, qui in discussione - svuota di contenuto il requisito della vivenza a carico: la sua operatività viene, infatti, limitata ai soli casi in cui l'inabile al lavoro non abbia alcun reddito proprio, rimanendo priva di incidenza in ogni altro caso, qualunque sia l'entità del reddito.

Ma - poiché la vivenza a carico, in quanto collegata non ad una libera disponibilità del genitore a prestare per ragioni effettive tutto quanto possa servire al figlio maggiorenne, bensì alla non altrimenti fronteggiabile mancanza dei mezzi necessari al sopravvivere di quest'ultimo, presuppone l'esistenza di uno stato di bisogno - svuotare di contenuto il requisito della vivenza a carico equivale a disconoscere aprioristicamente e, quindi, ingiustificatamente l'eventuale esistenza dello stato di bisogno.

In tal modo resta elusa, già a livello normativo, e, quindi, con una generalizzazione inaccettabile, la funzione stessa della pensione di reversibilità ai superstiti: quella di dare garanzia di continuità al loro sostentamento, globalmente inteso come l'insieme delle necessità di vita e di mantenimento, una garanzia tanto più ineludibile (v. sentenza n.7/1980) nel caso particolarmente delicato, anche per le esigenze di assistenza e di cura, del figlio maggiorenne inabile nel momento del decesso del lavoratore pensionato, dipendendo la sua precedente vivenza a carico del genitore dalle condizioni fisiche che gli impedivano ed ora - salvo il venir meno dello stato di inabilità - gli impediscono di provvedere alle proprie necessità di vita e di mantenimento. Il riconoscimento della pensione di reversibilità, reso necessario dalla situazione di bisogno determinata dall'interruzione della fonte di sostentamento costituita dal reddito paterno, diviene così "una sorta di proiezione oltre la morte" della funzione assolta in vita da tale reddito (sentenza n. 6/1980), funzione che l'esistenza di un qualsiasi altro reddito, pure minimo, proprio del superstite non può certo surrogare sic et simpliciter.

Ciò é tanto vero che, nella valutazione della stessa vivenza a carico da parte della giurisprudenza ordinaria, l'effettivo mantenimento del figlio inabile non deve necessariamente aver costituito un onere gravante in misura totale sul lavoratore pensionato, bastando che questi l'abbia sopportato in misura prevalente, nel senso di aver dovuto integrare il reddito proprio del primo perché inidoneo a garantirne il sostentamento.

Il combinato disposto del terzo e del settimo comma, n. 3, dell'art. 20 della legge 2 febbraio 1973, n. 12, deve, pertanto, essere dichiarato costituzionalmente illegittimo in quanto nega il diritto di acquisire la pensione di reversibilità ai figli maggiorenni inabili al lavoro allorché a qualsiasi titolo abbiano "un" reddito proprio.

Una volta esclusa l'operatività di una condizione negativa così in antitesi con i più elementari canoni dell'equità e della logica, l'eventuale indicazione di un particolare limite reddituale non rientra sicuramente nei poteri di questa Corte. Spetta caso mai al legislatore di effettuare le possibili scelte e comunque agli interpreti di ricavare dal sistema i criteri valutativi più idonei a meglio puntualizzare i dati essenziali della vivenza a carico e dello stato di bisogno.

6. - In applicazione dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, é pure da dichiarare illegittimo negli stessi termini dianzi precisati il combinato disposto del terzo e del settimo comma, n. 3, dell'art. 20 della legge 2 febbraio 1973, n. 12, in quanto, al medesimo modo della pensione di reversibilità, nega ai figli maggiorenni inabili al lavoro, che a qualsiasi titolo abbiano un reddito proprio, il diritto alla pensione indiretta. La diversità tra l'uno e l'altro tipo di pensione, avendo in questo settore una portata meramente formale (sentenza n. 169/1986), é priva di riflessi in ordine all'insorgenza del diritto a favore dei superstiti, cosicché dall'illegittimità costituzionale della norma relativa al primo deriva come conseguenza l'illegittimità della parallela norma relativa al secondo.

7. - Del pari, in applicazione dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, va dichiarata l'illegittimità costituzionale del settimo comma, n. 3, dell'art. 20 della legge 2 febbraio 1973, n. 12, nella parte in cui prevede che i figli maggiorenni inabili al lavoro perdano il diritto alla pensione indiretta o di reversibilità "o quando a qualsiasi titolo abbiano un reddito proprio". La coincidenza di contenuti impone una soluzione analoga alle precedenti.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

a) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 20, settimo comma, n. 3, della legge 2 febbraio 1973, n. 12 (Natura e compiti dell'Ente nazionale di assistenza per gli agenti e rappresentanti di commercio e riordinamento del trattamento pensionistico integrativo a favore degli agenti e dei rappresentanti di commercio), sollevata, in riferimento all'art. 38 della Costituzione, dal pretore di Milano con l'ordinanza in epigrafe;

b) dichiara l'illegittimità costituzionale del combinato disposto del terzo e del settimo comma, n. 3, dell'art. 20 della legge 2 febbraio 1973, n. 12, in quanto nega il diritto alla pensione di reversibilità ai figli maggiorenni inabili al lavoro allorché a qualsiasi titolo abbiano un reddito proprio;

c) dichiara, in applicazione dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l'illegittimità costituzionale del combinato disposto del terzo e del settimo comma, n. 3, dell'art. 20 della legge 2 febbraio 1973, n. 12, in quanto nega il diritto alla pensione indiretta ai figli maggiorenni inabili al lavoro allorché a qualsiasi titolo abbiano un reddito proprio;

d) dichiara, in applicazione dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l'illegittimità costituzionale dell'art. 20, settimo comma, n. 3, della legge 2 febbraio 1973, n. 12, nella parte in cui prevede la perdita del diritto alla pensione indiretta o di reversibilità ai figli maggiorenni inabili al lavoro "o quando a qualsiasi titolo abbiano un reddito proprio".

Così deciso in Roma, in camera di consiglio, nella sede della Corte costituzionale, palazzo della Consulta, il 10 aprile 1987.

 

Il Presidente: LA PERGOLA

Il Redattore: CONSO

Depositata in cancelleria il 23 aprile 1987.

Il direttore della cancelleria: MINELLI