Sentenza n.6 del 1980
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SENTENZA N.6

ANNO 1980

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori giudici

Avv. Leonetto AMADEI  Presidente

Dott. Giulio GIONFRIDA

Prof. Edoardo VOLTERRA

Prof. Guido ASTUTI

Prof. Antonino DE STEFANO

Prof. Leopoldo ELIA

Prof. Guglielmo ROEHRSSEN

Avv. Oronzo REALE

Dott. Brunetto BUCCIARELLI DUCCI

Avv. Alberto MALAGUGINI

Prof. Livio PALADIN

Dott. Arnaldo MACCARONE

Prof. Antonio LA PERGOLA

Prof. Virgilio ANDRIOLI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 13 del r.d.l. 14 aprile 1939, n. 636, sostituito dall'art. 2 della legge 4 aprile 1952, n. 218 (modificazioni delle disposizioni sulle assicurazioni obbligatorie); dell'art. 22, comma quinto, della legge 21 luglio 1965, n. 903 (avviamento alla riforma e miglioramento dei trattamenti di pensione della previdenza sociale), promossi con le seguenti ordinanze:

1) ordinanza emessa il 27 maggio 1975 dal giudice del lavoro del tribunale di Genova nel procedimento civile vertente tra Bensi Aurelio e l'INPS, iscritta al n. 302 del registro ordinanze 1975 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 235 del 3 settembre 1975;

2) ordinanza emessa il 15 gennaio 1976 dal tribunale di Ravenna nel procedimento civile vertente tra Zeccoli Tonino e l'INPS, iscritta al n. 137 del registro ordinanze 1976 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 85 del 31 marzo 1976;

3) ordinanza emessa il 18 marzo 1976 dal tribunale di Ravenna nel procedimento civile vertente tra Gatta Alvaro e l'INPS, iscritta al n. 357 del registro ordinanze 1976 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 158 del 16 giugno 1976;

4) ordinanza emessa il 12 luglio 1976 dal pretore di Bologna nel procedimento civile vertente tra Zanasi Germano e l'INPS, iscritta al n. 645 del registro ordinanze 1976 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 333 del l 5 dicembre 1976;

5) ordinanza emessa il 4 febbraio 1977 dal pretore di Genova nel procedimento civile vertente tra Oddone Ugo e l'INPS, iscritta al n. 160 del registro ordinanze 1977 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 141 del 25 maggio 1977;

6) ordinanza emessa il 22 novembre 1978 dal pretore di Reggio Emilia nel procedimento civile vertente tra Roversi Giuseppe e l'INPS, iscritta al n. 25 del registro ordinanze 1979 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 73 del 14 marzo 1979.

Visti gli atti di costituzione dell'INPS, di Zanasi Germano, di Roversi Giuseppe, nonchè gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 10 ottobre 1979 il Giudice relatore Giulio Gionfrida;

uditi gli avvocati Ettore Patrizi per Zanasi, Marco Vais per Roversi, Paolo Boer per l'INPS e il sostituto avvocato generale dello Stato Franco Chiarotti, per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. - Nel corso di un procedimento civile, vertente tra Aurelio Bensi e l'Istituto Nazionale della Previdenza Sociale ed avente ad oggetto riconoscimento del diritto a pensione di riversibilità, l'adito giudice del lavoro del Tribunale di Genova ha sollevato, ritenendola rilevante e non manifestamente infondata, questione di legittimità, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dell'art. 13, comma quarto, r.d.l. 1939 n. 636 sub art. 2 della legge 4 aprile 1952, n. 218 (ora sostituito dall'art. 22, comma quinto, della legge 21 luglio 1965, n. 903), < perchè tale norma ammette il marito, quale coniuge superstite, al godimento della pensione di riversibilità soltanto quando sia riconosciuto invalido ai sensi della stessa legge, mentre non richiede questa condizione per la moglie superstite >.

2. - Analoga questione di costituzionalità è stata sollevata anche: dal Tribunale di Ravenna, con ordinanze 15 gennaio e 18 marzo 1976 (in cause Zeccoli-INPS e Gatta-INPS) in riferimento agli artt. 29, 31, 37, 38 oltrechè 3, della Costituzione; dal Pretore di Bologna, con ordinanza 12 luglio 1976 (in causa Zanasi-INPS), in riferimento agli artt. 3,4,29,31,37, 38 della Costituzione; dal Pretore di Genova, con ordinanza 4 febbraio 1977 (in causa Oddone-INPS), per contrasto con gli artt. 3,4,37, 38 della Costituzione; dal Pretore di Reggio Emilia, con ordinanza 22 novembre 1978 (in causa Roversi-INPS.), in riferimento al solo art. 3 della Costituzione.

3. - Nei giudizi relativi alle ordinanze del Tribunale di Genova e di Ravenna e del Pretore di Reggio Emilia si è costituito il convenuto INPS, che ha sostenuto la piena legittimità della normativa impugnata.

Opposte conclusioni hanno rassegnato, invece, le parti private Germano Zanasi e Giuseppe Roversi, costituitesi rispettivamente nei giudizi relativi alle ordinanze del Pretore di Bologna e di Reggio Emilia.

In questo secondo giudizio e in quello promosso dal Tribunale di Ravenna è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri a mezzo dell'Avvocatura dello Stato, la quale ha concluso per una dichiarazione di infondatezza della questione sollevata.

Considerato in diritto

1. - I Tribunali di Genova e Ravenna ed i Pretori di Bologna, Genova e Reggio Emilia, con le ordinanze in epigrafe indicate, hanno sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 13 del r.d.l. 14 aprile 1939, n. 636 (contenente modificazioni delle disposizioni sulle assicurazioni obbligatorie per l'invalidità e la vecchiaia, per la tubercolosi e per la disoccupazione involontaria), sostituito con l'art. 2 della legge 4 aprile 1952, n. 218 e con l'art. 22 della legge 21 luglio 1965, n. 903, per la parte in cui detta norma stabilisce che spetta la pensione di riversibilità al marito superstite < solo nel caso che esso sia riconosciuto invalido al lavoro >, mentre analoga condizione non prevede quando superstite sia invece la moglie.

La norma è denunziata per contrasto con l'art. 3 della Costituzione e, dai Pretori di Reggio Emilia e Genova, anche in relazione (rispettivamente) agli artt. 4, 37, 38, 29 e 31 della Costituzione.

Poiché la questione di legittimità costituzionale devoluta alla Corte è sostanzialmente unica, i relativi giudizi vengono riuniti al fine della decisione con unica sentenza.

2. - Il profilo ricorrente ed assorbente, sotto cui la questione è prospettata nelle varie ordinanze di rinvio, è quello del mancato rispetto del principio di eguaglianza da parte del legislatore.

Il dato di comparazione è rappresentato dal comma primo del citato art. 13 r.d.l. n. 636/1939, secondo cui nel caso di morte del pensionato o dell'assicurato, e semprechè per quest'ultimo sussistano al momento della morte le condizioni di assicurazione e contribuzione, spetta il trattamento di pensione, cosiddetto appunto di riversibilità, alla moglie superstite. E, raffrontata tale disposizione con la diversa disciplina stabilita, nel successivo comma quinto dello stesso art. 13, per l'ipotesi opposta che superstite sia il marito in relazione alla quale è previsto invece che la pensione è corrisposta solo se egli sia riconosciuto invalido al lavoro si denunzia che le due situazioni, che sarebbero identiche, sono regolate in maniera difforme, senza che la disparità di trattamento abbia una razionale giustificazione, ma unicamente per motivi di diversità di sesso del coniuge superstite.

3. - La questione così prospettata è già stata esaminata da questa Corte che, con sentenza n. 201 del 1972 (che i giudici a quibus non hanno mancato di ricordare), ebbe ad escludere il già allora dedotto contrasto dell'art. 13 r.d.l. 1939 n. 636 con l'art. 3 della Costituzione, ritenendo (anche in relazione alla precedente sentenza n. 119 del 1972, che aveva respinto analogo quesito di costituzionalità della corrispondente disposizione per le pensioni a carico dello Stato, di cui all'art. 11 legge 1958 n. 46) che non potessero essere qualificate eguali, e quindi meritevoli dello stesso trattamento giuridico, le situazioni conseguenti alla morte del dipendente o pensionato, qualora superstite fosse la moglie ovvero il marito. E ciò argomentò < dalla considerazione della realtà sociale che denuncia nel campo del lavoro la minore probabilità che sia il marito anziché la moglie a dipendere economicamente dal coniuge assicurato o pensionato e fa apparire tale situazione come normale >.

Questa affermazione viene ora appunto rimessa in discussione dai giudici a quibus. I quali osservano criticamente sul punto che la realtà del lavoro femminile nell'odierno assetto socio-economico del Paese e la nuova configurazione legislativa dei rapporti patrimoniali tra i coniugi (introdotta con legge n. 151 del 1975 di riforma del diritto di famiglia) non autorizzerebbero più una tale presunzione di dipendenza economica della moglie dal marito.

4. - Ritiene la Corte, superando i propri ricordati precedenti, che la questione oggi nuovamente sollevata sia fondata, a prescindere da un esame comparativo delle posizioni dell'uomo e della donna quanto alle possibilità di accesso al lavoro e al dato statistico della sua prestazione.

Infatti ciò che unicamente rileva è che, rispetto al profilo delle finalità di tutela perseguite dal legislatore con l'estensione del trattamento di pensione al coniuge superstite, la situazione si presenta con connotati assolutamente identici di fronte al decesso del lavoratore assicurato o pensionato, sia questi il marito ovvero la moglie.

5. - Occorre, invero, considerare che già nel sistema previdenziale per i dipendenti pubblici attuato dalla prima legge (14 febbraio 1861, n. 173) di organizzazione amministrativa dello Stato italiano e definito nel successivo testo unico approvato con r.d. 21 febbraio 1895, n. 70, in cui si rinviene (art. 104) la prima regolamentazione dell'istituto in esame, l'estensione del trattamento di pensione in favore della moglie superstite del dipendente defunto tendeva a realizzare una sorta di proiezione oltre la morte della funzione di sostentamento assolta in vita dal reddito del marito, anche in correlazione all'obbligo normativo in tal senso esistente.

E ciò, non tanto per eliminare uno stato di bisogno quale poi previsto come presupposto costante dalle disposizioni estensive del beneficio della riversibilità ad altre categorie di soggetti come i figli maggiorenni, i collaterali e gli ascendenti , sibbene per porre al riparo il coniuge dalla eventualità stessa del bisogno.

Il che, appunto, dà ragione del fatto che non fossero richieste, per la moglie superstite, altre condizioni che quelle stesse costitutive del diritto a pensione del lavoratore defunto.

La mancata indicazione del marito tra i beneficiari del trattamento di riversibilità si spiega sempre nell'ottica della regolamentazione originaria dell'istituto su richiamata non tanto con il fatto che il lavoro della donna coniugata non trovasse riscontro nella situazione sociale ed economica dell'epoca, almeno come dato di frequenza apprezzabile, quanto e soprattutto in collegamento alla disciplina civilistica che, di fronte ad un eventuale reddito di lavoro della moglie, non prevedeva un obbligo di destinazione al sostentamento del marito, se non per l'ipotesi eccezionale che questi non avesse mezzi sufficienti e nei limiti di tale situazione di bisogno.

6. - A tale normativa previdenziale del pubblico impiego si è sostanzialmente ispirata la legge n. 636 del 1939 sulle assicurazioni generali invalidità e vecchiaia, che ha introdotto l'istituto della riversibilità nell'ambito del lavoro privato, là dove ha previsto il diritto a pensione della moglie superstite indipendentemente da un suo stato di bisogno effettivo o presunto.

E, nell'estendere il trattamento di riversibilità anche in favore del marito superstite, la stessa legge del 1939 (con la disposizione appunto di cui all'art. 13, a sua volta poi ricalcato dall'art. 11 della legge 1958, n. 46 per i pubblici dipendenti) lo ha subordinato alla condizione dell'invalidità lavorativa, per identiche ragioni di parallelismo con la disciplina del codice civile, quanto alla detta correlazione tra apporto economico della moglie alla famiglia e limite dello stato di bisogno del marito.

7. - Successivamente, pero, la situazione sociale ed economica del paese come esattamente sottolineato anche in varie ordinanze dei giudici di rinvio è mutata profondamente. Ed in tale nuovo contesto il lavoro femminile si è inserito come fenomeno di innegabile rilevanza sociale. In particolare, il lavoro della donna coniugata, indipendentemente da ogni considerazione statistica di frequenza, è venuto assumendo, con riguardo alle ipotesi in cui in fatto comunque si verifica, connotazione non diversa da quella del lavoro del marito, quanto alla destinazione del relativo reddito nell'ambito della famiglia, per il soddisfacimento degli interessi comuni di questa.

Questa realtà, di assoluta evidenza sul piano effettuale, si rispecchia del resto ora anche nella previsione normativa del l'art. 143 cod. civ., quale sostituito dall'art. 24 della legge di riforma del diritto di famiglia 19 maggio 1975, n. 151 (secondo cui < entrambi i coniugi sono tenuti ciascuno in relazione alle proprie sostanze ed alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo a contribuire ai bisogni della famiglia >).

Ma giova notare che, già prima e indipendentemente da questo intervento legislativo, l'esigenza di un'assoluta equiparazione risultava, sul piano del fondamento normativo, direttamente dal principio di parità dei coniugi sancito dagli articoli 3 e 29 della Carta costituzionale; sicché la riforma del diritto di famiglia non ha fatto che estrinsecare quanto era implicito nel dettato costituzionale.

Con tale dettato l'attuale art. 143 cod. civ. evidentemente si è posto in sintonia; diversamente dal precedente art. 145 del codice civile. Il quale ultimo, per altro, sia pur in prospettiva rovesciata (secondo i termini della questione a suo tempo sollevata) già aveva formato oggetto di decisione di parziale illegittimità (sentenza n. 133 del 1970), sul presupposto appunto dell'esigenza di rispetto della parità dei coniugi nei loro rapporti patrimoniali.

8. - Dovendo, pertanto, riconoscersi che la funzione di apporto economico alla famiglia assolta dal reddito lavorativo della moglie (ove di fatto questo sussista) è identica a quella assicurata dal reddito lavorativo del marito, ne consegue che la normativa sulla riversibilità, che tale apporto economico intende perpetuare oltre la morte del coniuge lavoratore, non può razionalmente distinguere nella disciplina le due situazioni (sotto il profilo considerato identiche) conseguenti rispettiva mente alla morte della moglie o del marito assicurato o pensionato.

A questa logica, rispettosa dei precetti costituzionali su indicati, si ispira la nuova legge 9 dicembre 1977, n. 903 (Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro) il cui art. 11 stabilisce testualmente che < le prestazioni ai superstiti erogate dall'assicurazione generale obbligatoria I.V.S. sono estese alle stesse condizioni previste per la moglie dell'assicurato o pensionato al marito dell'assicurata o della pensionata deceduta posteriormente alla data di entrata in vigore della presente legge >.

9. - La normativa precedente e cioè appunto l'art. 13 r.d. 1939 n. 636 nella parte impugnata in contrasto, invece, per le ragioni che si è detto con i parametri di cui agli artt. 3 e 29 della Costituzione, va conseguenzialmente ora dichiarata illegittima.

E tale dichiarazione va estesa, ex art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, all'ultimo inciso dell'art. 11, comma primo, legge n. 903 del 1977 cit., in quanto limita la prevista attribuzione della pensione di riversibilità, alle stesse condizioni previste per la moglie superstite, al marito della assicurata o della pensionata < deceduta posteriormente alla data di entrata in vigore della presente legge >: con il che la pensione di riversibilità spetta comunque al marito superstite quale che sia la data del decesso della assicurata, o pensionata.

Quanto all'art. 11 della legge 1958 n. 46 (che contiene norma analoga a quella dell'art. 13 r.d. n. 636, comma quinto, in materia di pensione per i dipendenti statali) non si pone problema di declaratoria di illegittimità derivata, risultando tale norma abrogata dall'art. 11 legge 1977 n. 903, che, ex comma secondo, si applica < anche ai dipendenti dello Stato >, e, per effetto della dichiarazione di parziale illegittimità di cui sopra, senza limitazioni temporali. 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 13 r.d.l. 14 aprile 1939, n. 636 (Modificazioni delle disposizioni sulle assicurazioni obbligatorie per l'invalidità e la vecchiaia, per la tubercolosi e per la disoccupazione involontaria), convertito nella legge 6 luglio 1939, n. 1272, sostituito con l'art. 2 della legge 4 aprile 1952, n. 218 (riordinamento delle pensioni sul l'assicurazione obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia e i superstiti), e con l'art. 22 della legge 21 luglio 1965, n. 903 (Avviamento alla riforma e miglioramento dei trattamenti di pensione della previdenza sociale), nella parte in cui (comma quinto) stabilisce che < se superstite è il marito la pensione è corrisposta solo nel caso che esso sia riconosciuto invalido al lavoro ai sensi del primo comma dell'art. 10 >;

dichiara altresì d'ufficio, ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, la illegittimità costituzionale dell'art. 11, comma primo, della legge 9 dicembre 1977, n. 903 (Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro) limitatamente alle parole <deceduta posteriormente alla data di entrata in vigore della presente legge>.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25/01/80.

Leonetto AMADEI – Giulio GIONFRIDA - Edoardo  VOLTERRA – Guido  ASTUTI – Michele  ROSSANO – Antonino  DE STEFANO – Leopoldo  ELIA – Guglielmo  ROEHRSSEN – Oronzo REALE - Brunetto  BUCCIARELLI DUCCI – Alberto  MALAGUGINI – Livio  PALADIN – Arnaldo  MACCARONE – Antonio  LA PERGOLA – Virgilio  ANDRIOLI

Giovanni  VITALE - Cancelliere

 

Depositata in cancelleria il 30/01/80.