SENTENZA N. 2
ANNO 2025
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta da:
Presidente: Giovanni AMOROSO
Giudici: Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 438, comma 1-bis, del codice di procedura penale, come introdotto dall’art. 1, comma 1, lettera a), della legge 12 aprile 2019, n. 33 (Inapplicabilità del giudizio abbreviato ai delitti puniti con la pena dell’ergastolo), promosso dalla Corte di assise di Cassino, nel procedimento penale a carico di S. D.C. con ordinanza del 12 aprile 2024, iscritta al n. 101 del registro ordinanze 2024 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 23, prima serie speciale, dell’anno 2024, la cui trattazione è stata fissata per l’adunanza in camera di consiglio del 10 dicembre 2024.
Visto l’atto d’intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio dell’11 dicembre 2024 il Giudice relatore Stefano Petitti;
deliberato nella camera di consiglio dell’11 dicembre 2024.
Ritenuto in fatto
1.– La Corte di assise di Cassino, con ordinanza del 12 aprile 2024 (iscritta al n. 101 del registro ordinanze 2024), solleva questioni di legittimità costituzionale dell’art. 438, comma 1-bis, del codice di procedura penale, come introdotto dall’art. 1, comma 1, lettera a), della legge 12 aprile 2019, n. 33 (Inapplicabilità del giudizio abbreviato ai delitti puniti con la pena dell’ergastolo), in riferimento agli artt. 3, 24, 27 e 111 della Costituzione.
1.1.– La Corte rimettente riferisce di essere chiamata a giudicare della responsabilità dell’imputato S. D.C. per il delitto di omicidio aggravato dall’aver agito per motivi abietti e futili di cui agli artt. 575 e 577, primo comma, numero 4), del codice penale, quest’ultimo in relazione all’art. 61, numero 1), cod. pen., per il quale è prevista la pena dell’ergastolo.
A seguito della notifica del decreto di giudizio immediato, l’imputato ha chiesto di definire il processo nelle forme del rito abbreviato.
In esito alla camera di consiglio del 15 gennaio 2024, il Giudice per le indagini preliminari ha dichiarato la richiesta inammissibile, rilevando che il delitto per cui si procede rientra nella previsione dell’art. 438, comma 1-bis, cod. proc. pen., secondo il quale «[n]on è ammesso il giudizio abbreviato per i delitti puniti con la pena dell’ergastolo».
La richiesta di ammissione al rito abbreviato è stata reiterata nell’udienza dibattimentale del 15 marzo 2024 dinnanzi alla Corte rimettente, che ha sospeso il giudizio ritenendo rilevanti e non manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 438, comma 1-bis, cod. proc. pen.
2.– L’ordinanza di rimessione muove dalla presa d’atto per cui, nella «comune interpretazione», l’art. 438, comma 1-bis, cod. proc. pen., nel momento in cui rimanda ai «delitti puniti con la pena dell’ergastolo» quali imputazioni preclusive dell’accesso al giudizio abbreviato, si riferisce non solo alle fattispecie autonome di reato, ma anche a quei delitti cui acceda la contestazione di aggravanti idonee, come nel caso di specie, a condurre alla sanzione detentiva perpetua.
Accertata la rilevanza delle questioni, perché dalla caducazione della norma censurata deriverebbe l’applicabilità in via diretta del giudizio abbreviato richiesto dall’imputato, la Corte rimettente ritiene che esse siano anche non manifestamente infondate, e che i dubbi di legittimità costituzionale si pongano «sotto un diverso angolo prospettico» rispetto a quelli già esaminati da questa Corte, e dichiarati non fondati, nelle sentenze n. 207 del 2022 e n. 260 del 2020.
3.– La disposizione censurata violerebbe, in primo luogo, gli artt. 3 e 27 Cost., con riferimento al giudizio di comparazione tra le fattispecie autonome di reato che prevedono la pena dell’ergastolo e i delitti (come quello di cui al giudizio a quo) «che pervengono a tale estrema sanzione solo in virtù di contestate, riconosciute e valutate come plusvalenti circostanze che aggravano la fattispecie base per cui è prevista una (seppure elevata) pena detentiva a termine».
Ad avviso del giudice a quo, malgrado le richiamate sentenze di questa Corte abbiano attribuito rilievo al giudizio di maggiore disvalore della fattispecie in concreto aggravata, operato dal legislatore, ciò nondimeno dovrebbe ritenersi irragionevole l’accostamento tra l’ipotesi di omicidio aggravato e altra fattispecie di reato punita, nella sua ipotesi base, con la pena dell’ergastolo, come nel caso del delitto di strage (art. 422 cod. pen.).
Pertanto, accomunare in una medesima norma processuale di sfavore «fatti-reato dissimili e smaccatamente di diversa gravità» dovrebbe ritenersi lesivo dei principi di uguaglianza, proporzionalità e finalismo rieducativo della pena.
4.– L’art. 438, comma 1-bis, cod. proc. pen. sarebbe costituzionalmente illegittimo, per contrasto con i medesimi artt. 3 e 27 Cost., anche alla luce di quanto oggi prevede l’art. 442, comma 2-bis, cod. proc. pen., introdotto dall’art. 24, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150 (Attuazione della legge 27 settembre 2021, n. 134, recante delega al Governo per l’efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari), secondo cui la pena inflitta è ulteriormente ridotta di un sesto in caso di non impugnazione della sentenza di condanna emessa in un procedimento definito con rito abbreviato.
Per effetto di tale novella legislativa, con riferimento al delitto di omicidio doloso si verrebbe a determinare un eccessivo e irragionevole ampliamento della forbice edittale di pena detentiva astrattamente comminabile, tale per cui la contestazione di una sola circostanza aggravante condurrebbe alla irrogazione della pena dell’ergastolo (con conseguente preclusione per l’accesso al giudizio abbreviato), laddove, per l’ipotesi-base, la pena detentiva minima ammonterebbe (anche in applicazione dell’art. 442, comma 2-bis, cod. proc. pen.) a sette anni, nove mesi e dieci giorni.
L’eccessivo iato tra queste due ipotesi renderebbe la preclusione contenuta nella disposizione censurata ancor più irragionevole rispetto al quadro emergente dal contesto normativo su cui sono intervenute le precedenti decisioni di questa Corte e si porrebbe anche in contrasto con la finalità rieducativa della pena, atteso che il reo non potrebbe «comprendere adeguatamente […] il disvalore del proprio comportamento».
5.– Da ultimo, sarebbero lesi anche gli artt. 3, 24 e 111 Cost.
In caso di giudizio immediato, infatti, la traslazione del processo direttamente in dibattimento, senza il filtro dell’udienza preliminare, determinerebbe un vulnus dei diritti della difesa, perché la contestazione dell’aggravante, formulata dal pubblico ministero e valutata dal giudice per le indagini preliminari, non sarebbe vagliata da un giudice terzo e imparziale a seguito di un’adeguata interlocuzione con la difesa.
Di conseguenza, l’imputato verrebbe privato della possibilità di accedere al giudizio abbreviato per effetto di un atto riconducibile unicamente al pubblico ministero.
Né potrebbe valere, in senso contrario, la possibilità che venga svolta la camera di consiglio di cui all’art. 458, comma 2, cod. proc. pen. Sia perché questa può essere richiesta unicamente dall’imputato, che potrebbe non avere consapevolezza dello sbarramento posto dall’art. 438, comma 1-bis, cod. proc. pen., sia perché, in quella sede, il giudice per le indagini preliminari non potrebbe comunque modificare l’imputazione a favore del reo, dovendosi attenere a quella contestata in sede di decreto di giudizio immediato.
6.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate manifestamente infondate, perché i dubbi di legittimità costituzionale avanzati dalla Corte di assise di Cassino sarebbero del tutto sovrapponibili a quelli già decisi e dichiarati non fondati da questa Corte in altre occasioni, soprattutto con la sentenza n. 260 del 2020.
Ad avviso dell’Avvocatura, in tale sentenza (come nella successiva ordinanza n. 214 del 2021), l’irragionevolezza della disposizione censurata è stata esclusa in riferimento alla diversità del trattamento sanzionatorio tra fattispecie diverse, sulla base della circostanza che l’eventuale vizio affliggerebbe, semmai, la previsione che dispone la pena detentiva perpetua e non già la disciplina processuale che preclude, in via generale, l’accesso al giudizio abbreviato per gli imputati di reati puniti con l’ergastolo.
Peraltro, la regola per cui la preclusione all’accesso al giudizio abbreviato è commisurata alla pena detentiva prevista per la fattispecie aggravata sarebbe assistita da una «solida ragionevolezza», considerato che il legislatore avrebbe inteso attribuire un rilievo specifico al disvalore connesso alla condotta concreta dell’imputato, senza che ciò escluda la possibilità che, nel corso del giudizio, la relativa valutazione sia suscettibile di correzione, «quanto meno nella forma del riconoscimento della riduzione di pena connessa alla scelta del rito, come accade rispetto a ogni altro rito alternativo».
Quanto, poi, alla censura di irragionevolezza legata al sopravvenire dell’art. 442, comma 2-bis, cod. proc. pen., l’Avvocatura richiama quanto affermato da questa Corte nella sentenza n. 197 del 2023.
In relazione, da ultimo, alla dedotta violazione degli artt. 3, 24 e 111 Cost., l’interveniente rileva, evocando nuovamente la sentenza n. 260 del 2020, che la valutazione intorno all’ammissibilità del giudizio abbreviato non è affidata al solo pubblico ministero, ma è oggetto di vaglio anche da parte dei giudici che intervengono nelle fasi successive del giudizio.
Considerato in diritto
1.– La Corte di assise di Cassino, con l’ordinanza indicata in epigrafe, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 438, comma 1-bis, cod. proc. pen., secondo cui «[n]on è ammesso il giudizio abbreviato per i delitti puniti con la pena dell’ergastolo», in riferimento agli artt. 3, 24, 27 e 111 Cost.
La Corte rimettente premette di doversi pronunciare, in sede di giudizio immediato, su un’imputazione per il delitto di omicidio aggravato ai sensi degli artt. 575, 577, primo comma, numero 4), cod. pen., in relazione alla circostanza aggravante di cui all’art. 61, numero 1), cod. pen., per cui è prevista la pena dell’ergastolo.
2.– Secondo l’ordinanza di rimessione, la disposizione censurata contrasterebbe, innanzi tutto, con gli artt. 3 e 27 Cost., perché il legislatore avrebbe irragionevolmente dettato una medesima preclusione processuale per ipotesi diverse, quali quelle riconducibili a fattispecie autonome di reato punite con la pena dell’ergastolo (è addotto a tertium comparationis il delitto di strage di cui all’art. 422 cod. pen.) e quelle inerenti a fattispecie che pervengono a tale sanzione – come nel caso di cui al giudizio a quo – unicamente in ragione della contestazione di circostanze aggravanti.
In secondo luogo, la preclusione contenuta nella disposizione censurata si rivelerebbe ancor più irragionevole e lesiva dei medesimi parametri costituzionali, rispetto al momento in cui analoga censura è stata vagliata dalla sentenza n. 260 del 2020 di questa Corte e dichiarata non fondata, per effetto dell’entrata in vigore dell’art. 442, comma 2-bis, cod. proc. pen., introdotto dall’art. 24, comma 1, lettera c), del d.lgs. n. 150 del 2022, secondo cui la pena inflitta è ulteriormente ridotta di un sesto in caso di non impugnazione della sentenza di condanna emessa in un procedimento definito con rito abbreviato.
Da ultimo, l’art. 438, comma 1-bis, cod. proc. pen. confliggerebbe anche con gli artt. 3, 24 e 111 Cost., considerato che l’imputato, tratto a giudizio immediato, si vedrebbe privato della possibilità di accedere al giudizio abbreviato unicamente per effetto della contestazione di una circostanza aggravante operata dal pubblico ministero, senza che sia stato effettuato un vaglio ad opera di un giudice terzo e imparziale e in contraddittorio con le parti.
3.– Le questioni non sono fondate.
4.– Non fondata, innanzi tutto, è la questione con cui la Corte rimettente censura l’art. 438, comma 1-bis, cod. proc. pen., perché esso accomunerebbe sotto l’egida di una norma processuale di sfavore «fatti-reato dissimili e smaccatamente di diversa gravità» in contrasto con i principi di uguaglianza, proporzionalità e finalismo rieducativo della pena di cui agli artt. 3 e 27 Cost., in ragione dell’assoggettamento a una medesima preclusione degli imputati di fattispecie autonome di reato punite ex se con la pena dell’ergastolo (come il delitto di strage) e di quelli di delitti per i quali si perviene al medesimo esito per effetto di circostanze aggravanti (come quella contestata nel giudizio a quo).
4.1.– Già nell’ordinanza n. 163 del 1992, questa Corte ha ritenuto, in linea generale, che «l’inapplicabilità del giudizio abbreviato ai reati punibili con la pena dell’ergastolo, non è in sé irragionevole, né l’esclusione di alcune categorie di reati, come attualmente quelli punibili con l’ergastolo, in ragione della maggiore gravità di essi, determina una ingiustificata disparità di trattamento rispetto agli altri reati, trattandosi di situazioni non omogenee».
Quanto, poi, all’asserito deteriore trattamento che deriverebbe, per gli imputati di delitti cui consegue la pena detentiva perpetua in ragione della sussistenza di circostanze aggravanti, rispetto agli imputati di delitti puniti, nella loro ipotesi base, con l’ergastolo, questa Corte ha già chiarito, a più riprese e soprattutto nella sentenza n. 260 del 2020, che la censura, in casi del genere, dovrebbe più correttamente appuntarsi sulla previsione che dispone la pena perpetua per i reati contestati nel giudizio a quo – nella vicenda in esame, l’omicidio aggravato dai motivi abietti e futili –, «giacché è proprio da tale previsione che deriva l’asserita diseguaglianza di trattamento sanzionatorio rispetto a fatti che si assumono più gravi». La preclusione all’accesso al giudizio abbreviato costituisce, pertanto, «null’altro che il riflesso processuale della previsione edittale della pena dell’ergastolo per quelle ipotesi criminose, previsione che non è oggetto di censura da parte del rimettente» (ordinanza n. 214 del 2021).
Sennonché, come in quei casi, anche nel giudizio in esame il giudice a quo non contesta la scelta legislativa consistente nella previsione della pena dell’ergastolo per il titolo di reato per cui sta procedendo.
Né può ritenersi irragionevole che la disposizione oggetto di censura stabilisca una medesima preclusione all’accesso al giudizio abbreviato per tutti gli imputati di reati punibili con la pena dell’ergastolo, poiché quest’ultima «segnala […] un giudizio di speciale disvalore della figura astratta del reato che il legislatore, sulla base di una valutazione discrezionale che non è qui oggetto di censure, ha ritenuto di formulare» (sentenza n. 260 del 2020).
Contrariamente a quanto assume la Corte rimettente, pertanto, non v’è ragione per negare alla regola incorporata nell’art. 438, comma 1-bis, cod. proc. pen. una solida ragionevolezza, perché la scelta legislativa di far dipendere l’accesso al giudizio abbreviato dalla sussistenza di una circostanza a effetto speciale «esprime un giudizio di disvalore della fattispecie astratta marcatamente superiore a quello che connota la corrispondente fattispecie non aggravata; e ciò indipendentemente dalla sussistenza nel caso concreto di circostanze attenuanti, che ben potranno essere considerate dal giudice quando, in esito al giudizio, irrogherà la pena nel caso di condanna» (ancora sentenza n. 260 del 2020).
5.– Con una seconda questione, la Corte di assise di Cassino censura l’art. 438, comma 1-bis, cod. proc. pen., poiché la preclusione all’accesso al giudizio abbreviato per gli imputati di delitti cui accedono circostanze aggravanti che conducono all’irrogazione della pena perpetua risulterebbe ancora più irragionevole dopo l’entrata in vigore dell’art. 442, comma 2-bis, cod. proc. pen., che attribuisce al giudice dell’esecuzione il potere di ridurre di un sesto la pena inflitta nel caso in cui la sentenza di condanna resa in esito allo svolgimento di un giudizio abbreviato non sia stata impugnata né dall’imputato né dal suo difensore.
Secondo la Corte rimettente, per effetto di tale novum legislativo, tra il trattamento sanzionatorio riservato a chi sia imputato del delitto di omicidio non aggravato e quello previsto per chi, imputato dello stesso delitto, si veda contestare anche una sola circostanza aggravante a effetto speciale si verrebbe a determinare «un eccessivo allargamento della forbice del limite edittale».
Nel primo caso, infatti, con il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e le riduzioni di pena connesse alla scelta del rito speciale, tra cui la richiamata riduzione di un sesto in caso di mancata impugnazione, si perverrebbe a una pena concretamente irrogabile nel minimo pari a sette anni, nove mesi e dieci giorni di reclusione, a fronte di una sanzione detentiva che giunge alla pena dell’ergastolo, ove venga contestata una circostanza aggravante tale da precludere l’accesso al giudizio abbreviato. Esito, quest’ultimo, che renderebbe irragionevole la disposizione censurata e che pregiudicherebbe la finalità rieducativa della pena, attesa l’impossibilità, per il condannato, «di comprendere adeguatamente, con piena consapevolezza, il disvalore del proprio comportamento».
5.1.– Anche tale questione deve ritenersi non fondata.
Il vizio prospettato dall’ordinanza di rimessione non mostra, infatti, di considerare la specificità, più volte messa in risalto dalla giurisprudenza di questa Corte, che assume il principio di proporzionalità della pena nel caso del trattamento sanzionatorio del delitto di omicidio, come da ultimo sistematicamente inquadrato nella sentenza n. 197 del 2023 (precedente alla sollevazione delle odierne questioni, ma non richiamata dal giudice a quo).
In tale pronuncia sono stati, innanzi tutto, ribaditi i precedenti di questa Corte, nei quali è stato chiaramente affermato che il principio di proporzionalità esige «che la pena sia adeguatamente calibrata non solo al concreto contenuto di offensività del fatto di reato per gli interessi protetti, ma anche al disvalore soggettivo espresso dal fatto medesimo», il quale a sua volta «dipende in maniera determinante non solo dal contenuto della volontà criminosa (dolosa o colposa) e dal grado del dolo o della colpa, ma anche dalla eventuale presenza di fattori che hanno influito sul processo motivazionale dell’autore, rendendolo più o meno rimproverabile» (sentenza n. 73 del 2020; nello stesso senso, sentenze n. 94 del 2023 e n. 55 del 2021).
Nel caso dell’omicidio, peraltro, la considerazione da prestare doverosamente a questi profili è acuita dalla circostanza che esso può essere connotato, nei casi concreti, da «livelli di gravità notevolmente differenziati», che possono aver riguardo tanto al profilo oggettivo – in relazione, in particolare, alla tipologia e alle modalità della condotta – quanto a quelli soggettivi, attinenti al diverso grado di manifestazione dell’intento omicidiario.
Come correttamente sottolineato dall’Avvocatura generale dello Stato, proprio il delitto di omicidio è quello nel quale si manifesta con particolare evidenza la necessità di una graduazione anche significativa del trattamento sanzionatorio, perché «l’unica figura legale di omicidio volontario abbraccia condotte dal disvalore soggettivo affatto differente: dall’assassinio compiuto da un sicario o da un membro di un gruppo criminale contro un esponente di una cosca rivale, alla brutale uccisione della moglie o della compagna, sino a condotte omicide […] maturate in contesti di prolungata e intensa sofferenza, causata da una lunga serie di soprusi e maltrattamenti posti in essere – colpevolmente o no – dalle stesse vittime» (sentenza n. 197 del 2023).
Proprio la necessità, costituzionalmente avvalorata, di tale graduazione quoad poenam, unitamente alla considerazione per i caratteri del fatto di reato contestato all’imputato nel giudizio a quo, chiariscono pertanto perché può ritenersi non fondata la censura sollevata dalla Corte rimettente, sia in relazione alla violazione del principio di ragionevolezza, sia con riguardo al connesso profilo di violazione del principio di rieducatività della pena.
6.– Con una terza e ultima questione, la Corte di assise di Cassino censura l’art. 438, comma 1-bis, cod. proc. pen., in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost., perché, essendo stato tratto l’imputato a giudizio immediato, l’inammissibilità della richiesta di accesso al giudizio abbreviato sarebbe stata determinata dalla sola contestazione dell’aggravante dei motivi abietti e futili da parte del pubblico ministero, senza un adeguato vaglio da parte del giudice dell’udienza preliminare, contrariamente a quanto richiesto dai principi del giusto processo.
Non sarebbe, infatti, adeguato allo scopo il controllo effettuato dal giudice per le indagini preliminari ai sensi dell’art. 458 cod. proc. pen., anche laddove, come nel giudizio a quo, si sia svolta l’udienza camerale di cui al comma 2 del medesimo articolo, considerato che la serenità di giudizio del giudice per le indagini preliminari dovrebbe ritenersi compromessa dalla pregressa conoscenza degli atti assunti in sede investigativa e dall’impossibilità di modificare autonomamente l’imputazione proposta dal pubblico ministero, modificazione consentita invece in sede di udienza preliminare.
6.1.– Anche tale questione deve essere dichiarata non fondata, alla luce di quanto statuito dalla sentenza n. 260 del 2020.
Innanzi tutto, occorre ribadire che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, «la facoltà di chiedere i riti alternativi – quando è riconosciuta – costituisce una modalità, tra le più qualificanti ed incisive (sentenze n. 237 del 2012 e n. 148 del 2004), di esercizio del diritto di difesa (ex plurimis, sentenze n. 273 del 2014, n. 333 del 2009 e n. 219 del 2004). Ma è altrettanto vero che la negazione legislativa di tale facoltà in rapporto ad una determinata categoria di reati non vulnera il nucleo incomprimibile del predetto diritto» (sentenza n. 95 del 2015).
L’accesso a tali riti, peraltro, costituisce «parte integrante del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost. soltanto in quanto il legislatore abbia previsto la loro esperibilità in presenza di certe condizioni; di talché esso deve essere garantito – o quanto meno deve essere garantito il recupero dei vantaggi sul piano sanzionatorio che l’accesso tempestivo al rito avrebbe consentito – ogniqualvolta il rito alternativo sia stato ingiustificatamente negato a un imputato per effetto di un errore del pubblico ministero nella formulazione dell’imputazione, di una erronea valutazione di un giudice intervenuto in precedenza nella medesima vicenda processuale, ovvero di una modifica dell’imputazione nel corso del processo (sentenza n. 14 del 2020 e precedenti ivi citati). Ma dall’art. 24 Cost. non può dedursi un diritto di qualunque imputato ad accedere a tutti i riti alternativi previsti dall’ordinamento processuale penale, come invece parrebbe, erroneamente, presupporre il giudice a quo» (sentenza n. 260 del 2020).
Nell’impianto della riforma contenuta nella legge n. 33 del 2019, l’imputazione formulata dal pubblico ministero è oggetto di un primo vaglio ad opera del giudice per le indagini preliminari, che è tenuto, al termine dell’udienza preliminare, a provvedere sulla richiesta originaria avanzata dall’imputato, e comunque sull’eventuale riproposizione della domanda di giudizio abbreviato formulata ai sensi dell’art. 438, comma 6, cod. proc. pen.
Al di là del rito all’interno del quale è chiamato a giudicare sulle richieste dell’imputato, il giudice del dibattimento, ai sensi dell’art. 438, comma 6-ter, cod. proc. pen., è in ogni caso tenuto ad applicare la riduzione di pena prevista per il rito speciale in questione nel caso in cui, in esito all’accertamento del fatto, siano ritenute insussistenti le aggravanti contestate dal pubblico ministero che avrebbero determinato l’applicabilità della pena dell’ergastolo e, quindi, l’inammissibilità del giudizio abbreviato ai sensi dell’art. 438, comma 1-bis, cod. proc. pen.
La preclusione all’accesso al giudizio abbreviato, pertanto, dipende solo nella fase iniziale dalla valutazione del pubblico ministero sull’oggetto della contestazione. Tale valutazione «è poi oggetto di puntuale vaglio da parte dei giudici che intervengono nelle fasi successive del processo, ed è sempre suscettibile di correzione, quanto meno nella forma del riconoscimento della riduzione di pena connessa alla scelta del rito, come accade rispetto a ogni altro rito alternativo» (sentenza n. 260 del 2020).
Questa affermazione vale anche per il giudizio immediato, rispetto al quale l’art. 458 cod. proc. pen. (non censurato nel presente giudizio) demanda al giudice per le indagini preliminari di decidere sulla richiesta di giudizio abbreviato avanzata dall’imputato, pronunciandosi «in ogni caso» in camera di consiglio, nel corso della quale è applicabile anche l’art. 438, comma 6-ter, cod. proc. pen. (a seguito delle modifiche introdotte dall’art. 27, comma 1, lettera b, numero 1, del d.lgs. n. 150 del 2022).
7.– Le questioni devono pertanto essere dichiarate non fondate.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 438, comma 1-bis, del codice di procedura penale, come introdotto dall’art. 1, comma 1, lettera a), della legge 12 aprile 2019, n. 33 (Inapplicabilità del giudizio abbreviato ai delitti puniti con la pena dell’ergastolo), sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24, 27 e 111 della Costituzione, dalla Corte di assise di Cassino, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l’11 dicembre 2024.
F.to:
Giovanni AMOROSO, Presidente
Stefano PETITTI, Redattore
Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria
Depositata in Cancelleria il 17 gennaio 2025