Sentenza n. 144 del 2024

SENTENZA N. 144

ANNO 2024

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta da:

Presidente: Augusto Antonio BARBERA

Giudici: Franco MODUGNO, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 35, comma 3, del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241 (Norme di semplificazione degli adempimenti dei contribuenti in sede di dichiarazione dei redditi e dell’imposta sul valore aggiunto, nonché di modernizzazione del sistema di gestione delle dichiarazioni), promosso dal Consiglio di Stato, sezione settima, nel procedimento vertente tra M. N., l’Associazione nazionale tributaristi LAPET e l’Agenzia delle entrate, con ordinanza del 31 gennaio 2024, iscritta al n. 23 del registro ordinanze 2024 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 10, prima serie speciale, dell’anno 2024.

Visti l’atto di costituzione di M. N. e dell’Associazione nazionale tributaristi LAPET, nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri e del Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili;

udito nell’udienza pubblica del 5 giugno 2024 il Giudice relatore Marco D’Alberti;

uditi gli avvocati Massimo Luciani per il Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili e Antonio Martini per M. N. e l’Associazione nazionale tributaristi LAPET, nonché l’avvocato dello Stato Fabrizio Urbani Neri per il Presidente del Consiglio dei ministri;

deliberato nella camera di consiglio del 19 giugno 2024.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 31 gennaio 2024, iscritta al n. 23 reg. ord. 2024, il Consiglio di Stato, sezione settima, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 35, comma 3, del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241 (Norme di semplificazione degli adempimenti dei contribuenti in sede di dichiarazione dei redditi e dell’imposta sul valore aggiunto, nonché di modernizzazione del sistema di gestione delle dichiarazioni), in riferimento agli artt. 3, 41 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 56 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea e 16 della direttiva 2006/123/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 dicembre 2006, relativa ai servizi nel mercato interno.

La disposizione è censurata nella parte in cui individua i soggetti abilitati al rilascio del visto di conformità sulle dichiarazioni dei redditi e dell’imposta sul valore aggiunto (IVA) nell’elenco di professionisti contenuto nelle sole lettere a) e b) del comma 3 dell’art. 3 del d.P.R. 22 luglio 1998, n. 322 (Regolamento recante modalità per la presentazione delle dichiarazioni relative alle imposte sui redditi, all’imposta regionale sulle attività produttive e all’imposta sul valore aggiunto, ai sensi dell’articolo 3, comma 136, della legge 23 dicembre 1996, n. 662), ossia «gli iscritti negli albi dei dottori commercialisti, dei ragionieri e dei periti commerciali e dei consulenti del lavoro» (lettera a) e «i soggetti iscritti alla data del 30 settembre 1993 nei ruoli di periti ed esperti tenuti dalle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura per la sub-categoria tributi, in possesso di diploma di laurea in giurisprudenza o in economia e commercio o equipollenti o diploma di ragioneria» (lettera b), e non li individua anche «negli altri soggetti indicati dallo stesso comma 3 e, in particolare, in quelli di cui alla lett. e)», ossia «gli altri incaricati individuati con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze».

1.1.– Le questioni sono sollevate nel giudizio di appello avverso la sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, che ha respinto il ricorso presentato da M. N., di professione tributarista, e dall’Associazione nazionale tributaristi LAPET (di seguito: LAPET), alla quale la prima è iscritta, per l’annullamento della «nota» di data 11 febbraio 2021 con cui l’Agenzia delle entrate - Direzione regionale per la Puglia ha negato a M. N. l’abilitazione al rilascio del visto di conformità sulle dichiarazioni dei redditi e dell’IVA, inviate dalla stessa all’amministrazione finanziaria.

Il rimettente premette che:

– il diniego impugnato davanti al TAR Puglia si fonda sul disposto dell’art. 35, comma 3, del d.lgs. n. 241 del 1997, in quanto tale disposizione, nel rinviare all’art. 3, comma 3, lettere a) e b), del d.P.R. n. 322 del 1998, riserva il rilascio del visto di conformità ai soli soggetti abilitati all’invio in forma telematica delle dichiarazioni dei redditi indicati nelle citate lettere a) e b);

– il medesimo art. 3, comma 3, del d.P.R. n. 322 del 1998 prevede ulteriori categorie di soggetti abilitati all’invio in forma telematica delle dichiarazioni dei redditi, tra le quali, in via residuale, quella degli «altri incaricati individuati con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze», di cui alla lettera e);

– in attuazione di quest’ultima disposizione, il decreto del Ministro delle finanze 19 aprile 2001, recante «Ampliamento delle categorie di soggetti da includere tra gli incaricati alla trasmissione telematica dei dati contenuti nelle dichiarazioni. Art. 3, comma 3, lettera e), del decreto del Presidente della Repubblica 22 luglio 1998, n. 322, come modificato dal decreto del Presidente della Repubblica 22 ottobre 1999, n. 542», ha abilitato all’invio in forma telematica delle dichiarazioni dei redditi «coloro che esercitano abitualmente l’attività di consulenza fiscale», categoria in cui rientrerebbero i tributaristi iscritti alla LAPET;

– la LAPET è «un’associazione professionale a carattere nazionale, costituita tra coloro che esercitano la consulenza nelle materie contabili, fiscali e tributarie, senza iscrizione in albi professionali», con compiti statutari di «vigilanza sulla attività professionale degli associati nei confronti dei terzi e della pubblica amministrazione»;

– tra le parti del giudizio a quo è pacifico che la professione di tributarista, oltre ad essere «riconosciuta da numerose norme di legge», consisterebbe «nella tenuta della contabilità delle imprese; nell’assistenza fiscale comprensiva della compilazione delle dichiarazioni fiscali e dell’abilitazione alla trasmissione telematica delle dichiarazioni stesse; ed inoltre in tutte le altre attività riferibili ai servizi contabili, fiscali, tributari amministrativi e/o aziendali, tranne quelli riservati a professionisti iscritti in albi, ruoli od elenchi»;

– l’art. 23 del decreto del Ministro delle finanze 31 maggio 1999, n. 164 (Regolamento recante norme per l’assistenza fiscale resa dai Centri di assistenza fiscale per le imprese e per i dipendenti, dai sostituti d’imposta e dai professionisti ai sensi dell’articolo 40 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241), nel disporre che «[i] professionisti rilasciano il visto di conformità se hanno predisposto le dichiarazioni e tenuto le relative scritture contabili» (comma 1), porrebbe una regola di identità tra il soggetto che appone il visto di conformità e colui che predispone le dichiarazioni e cura la tenuta delle scritture contabili, «senza tuttavia consentire il reciproco, [...] cioè il rilascio del visto di conformità da parte del professionista [non abilitato a tale rilascio] che abbia presentato all’amministrazione finanziaria la dichiarazione dei redditi»;

– il visto di conformità avrebbe lo scopo (indicato nella circolare del Ministero delle finanze del 17 giugno 1999, n. 134, in tema di «Disposizioni in materia di assistenza fiscale – Visto di conformità di cui all’art. 35 del d.lgs. n. 241 del 1997») di «garantire ai contribuenti assistiti un corretto adempimento di taluni obblighi tributari» e di «agevolare l’Amministrazione finanziaria nella selezione delle posizioni da controllare e nell’esecuzione dei controlli di propria competenza». Esso si distinguerebbe, secondo le definizioni enunciate nell’art. 2 del citato d.m. 31 maggio 1999, n. 164, in un visto cosiddetto “leggero” e in uno cosiddetto “pesante”, corrispondenti ad altrettanti livelli di certezza sulla correttezza delle dichiarazioni fiscali. Il primo, previsto dall’art. 35, comma 2, lettera a), del d.lgs. n. 241 del 1997, consisterebbe nell’attestazione di conformità tra i dati esposti nella dichiarazione dei redditi e la documentazione ad essa relativa, implicando «il riscontro della corrispondenza dei dati esposti nella dichiarazione alle risultanze della relativa documentazione e alle disposizioni che disciplinano gli oneri deducibili e detraibili, le detrazioni e i crediti d’imposta, lo scomputo delle ritenute d’acconto» (art. 2, comma 1, del d.m. 31 maggio 1999, n. 164); il secondo, previsto al comma 1, lettera a), dello stesso art. 35, attesterebbe la regolare tenuta della contabilità da parte del contribuente e la corrispondenza ad essa dei dati esposti nella dichiarazione dei redditi (art. 2, comma 2, del medesimo decreto ministeriale);

– M. N. e la LAPET hanno riproposto in appello le censure già disattese dal TAR Puglia, sostenendo, in primo luogo, che il rinvio alla norma regolamentare di cui al d.P.R. n. 322 del 1998, contenuto nell’art. 35, comma 3, del d.lgs. n. 241 del 1997, sarebbe interpretabile estensivamente, così da potersi riferire anche ai tributaristi non costituiti in un ordine, e prospettando, in secondo luogo, questioni di legittimità costituzionale e «pregiudiziali comunitarie», per l’esistenza di un’ingiustificata discriminazione in danno dei tributaristi.

1.2.– Ciò premesso, il rimettente osserva che l’interpretazione estensiva prospettata dagli appellanti nel processo principale non sarebbe percorribile, in quanto, «lungi dal rimanere circoscritta al dato testuale, [...] si tradurrebbe nell’integrazione del precetto normativo fissato dalla richiamata norma primaria».

Da qui, secondo il rimettente, la rilevanza delle eccepite questioni di legittimità costituzionale dell’art. 35, comma 3, del d.lgs. n. 241 del 1997, «poiché il disposto della norma primaria con il rinvio in essa contenuto, non interpretabile estensivamente [...], costituisce l’unico fondamento del diniego di abilitazione al rilascio del visto di conformità impugnato nel [...] giudizio [a quo]».

Di tali questioni, tuttavia, sarebbero non manifestamente infondate solo quelle riferite agli artt. 3, 41 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione ai parametri interposti sopra indicati.

1.3.– In primo luogo, la disposizione censurata violerebbe l’art. 3 Cost., per lesione dei principi di ragionevolezza e di non discriminazione.

Il rimettente osserva, preliminarmente, che il rilievo pubblicistico del visto di conformità, correlato all’attività di controllo spettante all’amministrazione finanziaria, esige che l’individuazione delle figure professionali abilitate al suo rilascio risponda a ragioni di affidabilità e di competenza.

Tali ragioni, tuttavia, non varrebbero a giustificare la riserva a favore dei soli professionisti iscritti negli albi e nei ruoli indicati alle lettere a) e b) del comma 3 dell’art. 3 del d.P.R. n. 322 del 1998. L’ordinamento, infatti, consentirebbe ai tributaristi, benché non iscritti, di operare come consulenti fiscali, di predisporre e trasmettere le dichiarazioni fiscali, nonché di trattare e conservare i dati contabili, rendendo così ingiustificata la loro esclusione dal rilascio del visto di conformità, non solo di quello “leggero”, consistente in un controllo di carattere formale sulla corrispondenza della documentazione utilizzata per le dichiarazioni fiscali con i dati in esse esposti, ma anche di quello “pesante”, esteso al controllo sostanziale sulla regolare tenuta della contabilità da parte del contribuente e sulla corrispondenza ad essa dei dati esposti nelle dichiarazioni.

Né la riserva in esame – e la conseguente diversità di trattamento – sarebbero ragionevolmente giustificate da un «principio di preferenza per le professioni organizzate in ordini o collegi», discendente dalla loro organizzazione in un ente esponenziale istituito per legge e titolare di poteri di carattere pubblicistico sui relativi appartenenti, tra cui il potere di vigilanza sul rispetto della deontologia richiesta per l’esercizio dell’attività.

Questo principio, di cui sarebbe espressione la disposizione censurata, poggerebbe sul presupposto che solo una vigilanza deontologica istituzionale sui soggetti abilitati ad apporre il visto di conformità sia in grado di offrire all’amministrazione finanziaria garanzie adeguate ai fini dell’attività di controllo delle dichiarazioni fiscali.

Tuttavia, l’evoluzione del quadro normativo avrebbe reso non più «attuale» un simile presupposto, così da giustificare l’abbandono dell’orientamento giurisprudenziale «contrario alle tesi degli appellanti», espresso dal medesimo Consiglio di Stato, sezione quarta, nella sentenza 28 novembre 2012, n. 6028.

Infatti, la legge 14 gennaio 2013, n. 4 (Disposizioni in materia di professioni non organizzate), sancendo il principio del libero esercizio delle professioni non ordinistiche, con l’obiettivo di adeguare l’ordinamento giuridico nazionale ai «principi dell’Unione europea in materia di concorrenza e di libertà di circolazione» (art. 1, comma 1), avrebbe introdotto elementi di assimilazione tra professioni organizzate in ordini o collegi e professioni che tali non sono.

In particolare, il rimettente osserva che la legge n. 4 del 2013:

– prevede la libera costituzione di associazioni professionali «di natura privatistica [...] con il fine di valorizzare le competenze degli associati e garantire il rispetto delle regole deontologiche, agevolando la scelta e la tutela degli utenti nel rispetto delle regole sulla concorrenza», e con i compiti di promuovere «la formazione permanente dei propri iscritti», di «vigila[re] sulla condotta professionale degli associati e stabili[re] le sanzioni disciplinari da irrogare agli associati per le violazioni» del codice del consumo di cui al decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206 (Codice del consumo, a norma dell’articolo 7 della legge 29 luglio 2003, n. 229) (art. 2, commi 1 e 3);

– consente alle associazioni in questione di iscriversi in un elenco «pubblicato dal Ministero dello sviluppo economico [ora Ministero delle imprese e del made in Italy] nel proprio sito internet», da cui deriva la «assunzione di responsabilità» sul possesso dei requisiti previsti dalla legge per queste forme associative professionali e sul rispetto delle prescrizioni della medesima legge (art. 2, comma 7);

– collega all’iscrizione nel menzionato elenco – di cui la LAPET si sarebbe avvalsa – l’assoggettamento al potere ministeriale di vigilanza e di irrogazione di sanzioni.

Pur riconoscendo (all’art. 2, comma 6) l’antitesi tra la libera professione, da un lato, e l’esercizio delle attività professionali riservate dalla legge a specifiche categorie di soggetti iscritti al relativo albo professionale, d’altro lato, la legge n. 4 del 2013 avrebbe dunque promosso la costituzione di organizzazioni privatistiche a base associativa finalizzate a garantire che l’attività professionale prestata dai propri aderenti sia svolta secondo adeguati criteri di capacità e competenza professionale e nel rispetto delle relative norme deontologiche.

Il raggiungimento di tale risultato determinerebbe, quanto al controllo sui requisiti di capacità e correttezza, anche sul piano deontologico, richiesti per il rilascio del visto di conformità, l’equiparazione delle due categorie di professioni, che si distinguerebbero ormai solo per la natura del mezzo (pubblicistica nell’un caso, privatistica nell’altro) utilizzato a questo fine.

Risultando tali funzioni di controllo adeguatamente perseguibili attraverso strumenti privatistici, «tanto più quando questi siano a loro volta inquadrati in un sistema pubblicistico di vigilanza ministeriale», la disposizione censurata avrebbe creato una disparità di trattamento non giustificata rispetto ai professionisti iscritti all’ordine.

1.4.– L’art. 35, comma 3, del d.lgs. n. 241 del 1997 violerebbe anche l’art. 41 Cost.

Dalla descritta riserva ex lege deriverebbe l’effetto di limitare, per le categorie non comprese in essa, il libero esercizio dell’attività professionale, incidendo negativamente sulla libertà di iniziativa economica dei tributaristi, dovendo i singoli professionisti e le loro associazioni rappresentative essere considerate imprese ai sensi del diritto della concorrenza.

In particolare, i professionisti non iscritti agli ordini subirebbero uno sviamento di clientela verso i professionisti iscritti anche per attività non riservate a questi ultimi, in contrasto con il principio di concorrenza.

Infatti, la mera predisposizione e trasmissione delle dichiarazioni fiscali, senza possibilità di apporre il visto di conformità, priverebbe la clientela dei primi dei rilevanti vantaggi prodotti sulla posizione fiscale e amministrativa dall’apposizione del visto, con conseguente maggiore convenienza a rivolgersi ai professionisti iscritti all’ordine anche per la predisposizione e la trasmissione delle dichiarazioni fiscali, essendo costoro gli unici in grado di rilasciare il visto di conformità. In tal modo, la limitazione dei soggetti abilitati al rilascio del visto di conformità avrebbe l’effetto di estendere la riserva, di fatto, anche ad attività liberalizzate, in contrasto con il carattere tassativo ed eccezionale, riconosciuto dalla giurisprudenza di legittimità, delle attività riservate agli iscritti all’ordine, riconosciuto dalla giurisprudenza di legittimità (sono citate le sentenze della Corte di cassazione, sezione seconda civile, 28 marzo 2019, n. 8683, e 11 giugno 2010, n. 14085).

1.5.– Infine, la disposizione censurata violerebbe l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 56 TFUE e 16 della direttiva 2006/123/CE, «la quale osta a restrizioni normative nazionali non conformi ai principi di non discriminazione, necessità e proporzionalità (par. 3 della disposizione da ultimo richiamata)».

Premesso che secondo la Corte di giustizia dell’Unione europea (grande camera, sentenza 30 gennaio 2018, in cause riunite C-360/15 e C-31/16, X e Visser) la richiamata direttiva si applicherebbe non solo al prestatore che intende stabilirsi in un altro Stato membro, ma anche a quello che intende stabilirsi nel proprio Stato e dunque anche in situazioni puramente interne, la discriminazione in danno della categoria dei professionisti non costituiti in un ordine violerebbe il «loro diritto di matrice sovranazionale alla libera prestazione dei [...] servizi», in quanto non necessaria, mancando un sottostante motivo imperativo di interesse generale, né proporzionata, eccedendo rispetto agli obiettivi di tutela dell’interesse fiscale dello Stato.

2.– M. N. e la LAPET, parti appellanti nel giudizio a quo, si sono costituite in giudizio con atto depositato il 26 marzo 2024, concludendo per la declaratoria di illegittimità costituzionale della disposizione censurata.

2.1.– Esse aderiscono alle questioni sollevate dal rimettente e prospettano ulteriori profili di illegittimità costituzionale per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., evocando quali parametri interposti anche l’art. 15 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, sulla tutela del diritto di ogni individuo «di lavorare e di esercitare una professione liberamente scelta o accettata», nonché «il combinato disposto» dell’art. 101, paragrafo 1, TFUE, e dell’art. 4, paragrafo 3, del Trattato sull’Unione europea, «considerata la normativa interna, ovvero l’art. 35, comma terzo del d.lgs. n. 241 del 1997, quale ostacolo alla piena espansione della concorrenza e, in ogni caso, capace [di] restringere e/o falsare il gioco della concorrenza interna».

Infine, chiedono che questa Corte, ove ritenga necessario chiarire il significato e gli effetti delle norme dell’Unione europea evocate nel presente giudizio, promuova un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea, ai sensi dell’art. 267 TFUE.

3.– Con atto depositato il 26 marzo 2024 è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per la non fondatezza delle questioni.

3.1.– Secondo l’interveniente, tutte le questioni muovono dall’asserita irragionevolezza della distinzione tra professioni ordinistiche e non ordinistiche ai fini del rilascio del visto di conformità, sia “pesante” che “leggero”, non sussistendo più, ad avviso del rimettente, una differenza apprezzabile tra le due categorie professionali, tenuto conto dell’approvazione della legge n. 4 del 2013 e del fatto che i tributaristi non iscritti possono inviare le dichiarazioni dei redditi all’amministrazione finanziaria.

Tale distinzione, tuttavia, sarebbe più che ragionevole e costituirebbe in ogni caso il frutto di una scelta discrezionale del legislatore non manifestamente irragionevole.

3.1.1.– Quanto alla violazione dell’art. 3 Cost., non sarebbe condivisibile l’assunto del rimettente per cui la citata legge n. 4 del 2013 avrebbe sostanzialmente equiparato professioni ordinistiche e non, sotto il profilo della garanzia di esercizio della professione nel possesso di requisiti di capacità e correttezza.

L’interveniente osserva che i professionisti indicati nella disposizione censurata garantiscono in modo intenso l’amministrazione finanziaria circa la professionalità e la correttezza nell’apposizione del visto, in quanto hanno superato un esame di Stato o hanno conseguito una laurea abilitante alla professione; inoltre, essendo iscritti ad un albo vigilato da uffici ministeriali, sono soggetti a pregnanti obblighi deontologici, al controllo sullo svolgimento corretto e regolare dell’attività professionale e al potere disciplinare esercitato dall’ordine o collegio di appartenenza.

La legge n. 4 del 2013, lungi dall’avere sostanzialmente assimilato le due categorie di professioni, ne avrebbe confermato la «scissione [...] in ordine alle attività», là dove, all’art. 2, comma 6, ha previsto che ai professionisti non organizzati in ordini o collegi, anche se iscritti alle associazioni professionali di natura privatistica disciplinate dallo stesso art. 2, «non è consentito l’esercizio delle attività professionali riservate dalla legge a specifiche categorie di soggetti, salvo il caso in cui dimostrino il possesso dei requisiti previsti dalla legge e l’iscrizione al relativo albo professionale». Sarebbe pertanto evidente che il legislatore del 2013 non ha parificato, ai fini che qui interessano, «i soggetti di cui alle lettere a) e b) rispetto a quelli di cui alla lettera e)», avendo ribadito il divieto per i secondi, in quanto non iscritti, di svolgere un’attività riservata dalla legge solo ai primi, in quanto iscritti.

Né sarebbe sufficiente, ai fini dell’assimilazione prospettata dal giudice a quo, la prevista possibilità che le menzionate associazioni professionali siano iscritte in un apposito elenco pubblicato nel sito internet del Ministero delle imprese e del made in Italy, in quanto l’attività ministeriale di vigilanza conseguente a tale iscrizione non sarebbe esercitata sulle professioni non organizzate, ma esclusivamente sulla «corretta attuazione delle disposizioni della […] legge» (art. 10, comma 1, della legge n. 4 del 2013).

Inoltre, il citato Ministero, qualora venissero meno i requisiti e le prescrizioni previste per l’iscrizione, non potrebbe esercitare un potere di sospensione o di cancellazione dell’associazione dall’elenco, mentre il potere sanzionatorio attribuito in via generale all’Autorità garante della concorrenza e del mercato opererebbe nelle sole ipotesi in cui la condotta delle associazioni iscritte configuri una pratica commerciale scorretta.

Quanto ai singoli esercenti le professioni non ordinistiche, invece, non sussisterebbe un sistema generale di vigilanza e di controllo pubblicistico sulle attività professionali da essi svolte nei confronti dei terzi e della pubblica amministrazione.

I tributaristi, peraltro, potrebbero esercitare la professione anche in assenza di iscrizione ad un’associazione, onde in tali ipotesi non sarebbe svolto nei loro confronti alcun controllo, né da parte dell’associazione, né da parte del ministero competente.

La novella del 2013 non avrebbe dunque il fine di rimuovere dall’ordinamento le riserve di attività in favore dei professionisti iscritti (assunto, questo, implicitamente sotteso al ragionamento del giudice a quo), bensì il fine di disciplinare le professioni non ordinistiche, in precedenza non regolamentate, onde tutelare non soltanto i professionisti, ma soprattutto i consumatori e il mercato.

Ciò posto, l’interveniente osserva che la scelta del legislatore rientrerebbe nella sua insindacabile sfera di discrezionalità, non potendosi nutrire dubbi sulla non manifesta irragionevolezza del diverso trattamento previsto dalla disposizione censurata.

L’attività di rilascio del visto di conformità costituirebbe una specifica funzione pubblicistica delegata a soggetti privati, apparendo dunque ragionevole riservarla a professionisti che, essendo iscritti in albi o collegi, sono soggetti ai poteri di carattere pubblicistico – tra cui quello di far osservare la deontologia professionale – di cui è titolare il loro ente esponenziale istituito per legge.

Le medesime considerazioni giustificherebbero la scelta di non delegare la suddetta funzione pubblicistica a professionisti iscritti ad associazioni di diritto privato, le quali potrebbero esercitare nei loro confronti, in linea di principio, poteri di natura meramente privatistica, dovendosi considerare, al riguardo, che l’apposizione del visto di conformità produce effetti giuridici di particolare rilevanza (in particolare, ai fini del rimborso dei crediti IVA e dell’utilizzo in compensazione di crediti tributari).

Questioni analoghe – osserva ancora l’interveniente – sarebbero state comunque già esaminate da questa Corte, che con la sentenza n. 307 del 2002 ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 36 del d.lgs. n. 241 del 1997, alla cui stregua il rilascio della «certificazione tributaria» è riservata ai revisori contabili, iscritti in determinati e specifici albi professionali, con una anzianità professionale di cinque anni.

3.1.2.– Le precedenti argomentazioni difensive consentirebbero di rigettare anche le questioni riferite agli artt. 41 e 117, primo comma, Cost., in quanto la violazione di tali parametri dovrebbe pur sempre presupporre l’irragionevolezza del diverso trattamento censurato dal rimettente.

Si dovrebbe considerare, al riguardo, che la contestata riserva a favore delle professioni ordinistiche tende alla salvaguardia di altri interessi di rilievo costituzionale, tra i quali il buon andamento dell’amministrazione, la tutela delle pubbliche finanze nonché la tutela dei contribuenti, «potenzialmente rilevanti anche come consumatori». Alla luce della giurisprudenza costituzionale sulla necessità di bilanciare tutti i valori e i principi costituzionali, la questione si risolverebbe – nuovamente – nell’accertare se, in concreto, il bilanciamento tra i contrapposti interessi sia stato ragionevolmente operato dal legislatore.

Quanto alla violazione dell’art. 41 Cost., l’attuale regime non pregiudicherebbe la libertà di iniziativa economica dei tributaristi non iscritti agli ordini professionali, in quanto costoro sono abilitati allo svolgimento di una serie di altre rilevanti attività in ambito fiscale. Il sistema vigente garantirebbe la tutela della concorrenza anche nell’ambito delle professioni ordinistiche, permettendo lo svolgimento dell’attività consistente nel rilascio del visto di conformità agli iscritti a diversi ordini professionali (l’ordine dei consulenti del lavoro e l’ordine dei dottori commercialisti e degli esperti contabili).

Quanto alla violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., le motivazioni che hanno indotto il legislatore a limitare ad alcune categorie il rilascio del visto giustificherebbe, per le ragioni già esposte, il superamento dei principi della direttiva europea relativa ai servizi nel mercato interno, che prevede la derogabilità dei suoi principi generali per soddisfare un’esigenza imperativa di pubblico interesse, sempre che la deroga sia proporzionale.

4.– Con atto depositato il 26 marzo 2024 è intervenuto in giudizio anche il Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili, che ha concluso per la manifesta inammissibilità e, in subordine, per la non fondatezza delle questioni.

Il Consiglio ha anche depositato una memoria il 15 maggio 2024.

5. – Anche M. N. e la LAPET hanno depositato il 15 maggio 2024 una memoria illustrativa, in cui contestano l’ammissibilità dell’intervento del Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili, richiamando la sentenza di questa Corte n. 307 del 2002.

Contestano, altresì, l’eccezione di inammissibilità delle questioni per ambiguità del petitum, sollevata dall’interveniente, osservando che il risultato avuto di mira dal giudice a quo sarebbe quello di consentire anche ai professionisti non compresi nelle categorie di cui alle lettere a) e b), e individuati con riferimento alla lettera e), di apporre il visto di conformità.

Nel merito, replicano alle deduzioni difensive del Presidente del Consiglio dei ministri e dell’interveniente, deducendo, riguardo alla violazione dell’art. 3 Cost., che l’irragionevolezza della disposizione denunciata deriverebbe in modo evidente dalla discriminazione dei professionisti “non ordinistici” indicati nella lettera e) rispetto a quelli rientranti nella lettera b), considerato che «questi ultimi sono professionisti non ordinistici al pari dei ricorrenti, perché non iscritti ad albi ma inseriti nei ruoli di periti ed esperti tenuti dalle camere di commercio, in esito ad una semplice domanda e senza aver superato un esame abilitante».

Quanto alla violazione dell’art. 117, primo comma, Cost. lamentano il contrasto con i seguenti ulteriori parametri interposti: artt. 3, paragrafo 3, e 5, paragrafi 1, 3 e 4, TUE; artt. 49 e 56 TFUE; art. 15 della direttiva 2006/123/CE; art. 59, paragrafo 9, della direttiva (UE) 2013/55 del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 novembre 2013, recante modifica della direttiva 2005/36/CE relativa al riconoscimento delle qualifiche professionali e del regolamento (UE) n. 1024/2012 relativo alla cooperazione amministrativa attraverso il sistema di informazione del mercato interno; artt. 1 e 7 della direttiva (UE) 2018/958 del Parlamento europeo e del Consiglio del 28 giugno 2018, relativa a un test della proporzionalità prima dell’adozione di una nuova regolamentazione delle professioni; artt. 15 e 16 CDFUE.

6.– L’intervento del Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili è stato dichiarato inammissibile con ordinanza letta in udienza.

Considerato in diritto

1.– Il Consiglio di Stato, sezione settima, dubita della legittimità costituzionale dell’art. 35, comma 3, del d.lgs. n. 241 del 1997, in riferimento agli artt. 3, 41 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 56 TFUE e 16 della direttiva 2006/123/CE.

Tale disposizione è censurata nella parte in cui individua i soggetti abilitati al rilascio del visto di conformità sulle dichiarazioni dei redditi e dell’IVA nei professionisti incaricati della trasmissione in via telematica delle dichiarazioni di cui alle lettere a) e b) dell’art. 3, comma 3, del d.P.R. n. 322 del 1998, ossia «gli iscritti negli albi dei dottori commercialisti, dei ragionieri e dei periti commerciali e dei consulenti del lavoro» (lettera a) e «i soggetti iscritti alla data del 30 settembre 1993 nei ruoli di periti ed esperti tenuti dalle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura per la sub-categoria tributi, in possesso di diploma di laurea in giurisprudenza o in economia e commercio o equipollenti o diploma di ragioneria» (lettera b), e non li individua anche «negli altri soggetti indicati dallo stesso comma 3 e, in particolare, in quelli di cui alla lett. e)», ossia «gli altri incaricati individuati con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze», tra i quali rientrano «coloro che esercitano abitualmente l’attività di consulenza fiscale», in forza del d.m. 19 aprile 2001.

Le questioni sono sollevate nel giudizio di appello avverso la sentenza del TAR Puglia che ha respinto il ricorso presentato da M. N., tributarista, e dalla LAPET, alla quale la prima è iscritta, per l’annullamento del provvedimento con cui l’Agenzia delle entrate le ha negato l’abilitazione al rilascio del visto di conformità sulle dichiarazioni dei redditi e dell’IVA, inviate dalla stessa all’amministrazione finanziaria.

1.1.– Secondo il rimettente, l’art. 35, comma 3, del d.lgs. n. 241 del 1997, nel riservare il rilascio del visto di conformità solo a taluni professionisti, violerebbe in primo luogo i principi di ragionevolezza e di non discriminazione di cui all’art. 3 Cost., in quanto l’ordinamento consente ai tributaristi, benché non iscritti in ordini o collegi, di operare come consulenti fiscali, di predisporre e trasmettere le dichiarazioni fiscali, nonché di trattare e conservare i dati contabili. Ne conseguirebbe una disparità di trattamento non giustificata, alla luce del riconoscimento delle professioni non organizzate in ordini o collegi di cui alla legge n. 4 del 2013, in base alla quale il controllo sull’esistenza dei requisiti di capacità e correttezza e sul rispetto della deontologia professionale risulta adeguatamente perseguibile attraverso strumenti privatistici, quali sono le associazioni professionali disciplinate all’art. 2 della stessa legge.

In secondo luogo, sarebbe violato l’art. 41 Cost., in quanto dalla disposizione censurata deriverebbe l’effetto di limitare, per le categorie non comprese nella riserva ex lege, il libero esercizio dell’attività professionale, incidendo negativamente sulla libertà di iniziativa economica dei tributaristi, i quali subirebbero uno sviamento di clientela verso i professionisti iscritti agli ordini anche per attività non riservate a questi ultimi, in contrasto con il principio di concorrenza.

Infine, la disposizione censurata violerebbe l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 56 TFUE e 16 della direttiva 2006/123/CE, per lesione del diritto alla libera prestazione dei servizi all’interno dell’Unione, in quanto la prospettata discriminazione in danno della categoria di professionisti non costituiti in un ordine non sarebbe necessaria, mancando un sottostante motivo imperativo di interesse generale, né sarebbe proporzionata, eccedendo rispetto agli obiettivi di tutela dell’interesse fiscale dello Stato.

2.– Va innanzitutto ribadita l’inammissibilità dell’intervento ad opponendum spiegato in giudizio dal Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili, per le ragioni indicate nell’ordinanza letta all’udienza del 5 giugno 2024, allegata alla presente sentenza.

3.– Nell’atto di costituzione in giudizio e nella successiva memoria illustrativa le parti appellanti nel processo principale hanno prospettato la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost. anche in relazione a numerosi parametri interposti non evocati nell’ordinanza di rimessione, quali: gli artt. 15 e 16 CDFUE; gli artt. 49 e 101, paragrafo 1, TFUE; gli artt. 3, paragrafo 3, 4, paragrafo 3, e 5, paragrafi 1, 3 e 4, TUE; l’art. 15 della direttiva 2006/123/CE; l’art. 59, paragrafo 9, della direttiva 2013/55/UE; gli artt. 1 e 7 della direttiva 2018/958/UE.

Per costante giurisprudenza costituzionale, «l’oggetto del giudizio di costituzionalità in via incidentale è limitato alle norme e ai parametri indicati nelle ordinanze di rimessione, mentre non possono essere presi in considerazione, oltre i limiti in queste fissati, ulteriori questioni o profili di costituzionalità dedotti dalle parti, sia che siano stati eccepiti ma non fatti propri dal giudice a quo [...], sia che siano diretti ad ampliare o modificare successivamente il contenuto delle stesse ordinanze (ex plurimis, sentenze n. 35 del 2017, n. 203 del 2016, n. 56 del 2015, n. 271 del 2011 e n. 86 del 2008)» (sentenza n. 35 del 2021; nello stesso senso, sentenza n. 149 del 2021).

Le ulteriori censure prospettate dalle parti del giudizio a quo sono dunque inammissibili, in quanto dirette a estendere il thema decidendum oltre i termini definiti nell’ordinanza di rimessione.

Nella stessa memoria illustrativa le suddette parti deducono, in riferimento alla violazione dell’art. 3 Cost., che l’irragionevolezza della disposizione censurata deriverebbe dalla discriminazione dei professionisti indicati nella lettera e) dell’art. 3, comma 3, del d.P.R. n. 322 del 1998 rispetto a quelli indicati nella precedente lettera b), considerato che «questi ultimi sono professionisti non ordinistici al pari dei ricorrenti, perché non iscritti ad albi ma inseriti nei ruoli di periti ed esperti tenuti dalle camere di commercio, in esito ad una semplice domanda e senza aver superato un esame abilitante».

Anche questo profilo di illegittimità costituzionale è inammissibile, non essendo contenuto nell’ordinanza di rimessione.

Il giudice a quo, infatti, lamenta la sussistenza di una discriminazione lesiva dell’art. 3 Cost. perché la disposizione censurata costituirebbe l’espressione, irragionevole in quanto non più coerente con il mutato quadro normativo, di un principio di preferenza per le professioni del sistema ordinistico. A tal fine, egli mette a confronto soltanto i professionisti non organizzati in ordini o collegi, compresi tra i soggetti di cui alla lettera e), e quelli iscritti negli albi professionali, con evidente riferimento ai soggetti indicati nella lettera a) dell’art. 3, comma 3, del d.P.R. n. 322 del 1998 («gli iscritti negli albi dei dottori commercialisti, dei ragionieri e dei periti commerciali e dei consulenti del lavoro»).

4.– Nel merito, va innanzitutto precisato che il visto di conformità ha lo scopo di garantire ai contribuenti assistiti un corretto adempimento di taluni obblighi tributari e di agevolare l’amministrazione finanziaria nella selezione delle posizioni da controllare e nell’esecuzione dei controlli di propria competenza.

Come questa Corte ha già osservato nella sentenza n. 307 del 2002, con riferimento alla «certificazione tributaria» di cui all’art. 36 del medesimo d.lgs. n. 241 del 1997, ma con argomenti estensibili anche al visto di conformità di cui all’art. 35, quest’ultimo fa parte degli strumenti adottati dal legislatore per semplificare gli adempimenti e riorganizzare il lavoro degli uffici. Queste finalità sono state perseguite mediante l’individuazione di “strutture intermedie” tra contribuente e amministrazione finanziaria, con il proposito di avvalersene non solo per l’assistenza fiscale a favore e nell’interesse del contribuente, ma anche per l’affidamento di compiti a dette “strutture” qualificate (individuate entro limitate fasce di soggetti), nel quadro di un alleggerimento del lavoro degli stessi uffici. Ciò all’evidente scopo di consentire controlli e verifiche degli uffici finanziari più agevoli e concentrati su dati in vario modo già oggetto di elaborazione e riscontro da parte delle anzidette “strutture intermedie”, che ne assumono la responsabilità.

Si sono così attribuiti, in linea con il principio di sussidiarietà orizzontale di cui all’art. 118, ultimo comma, Cost., compiti di collaborazione a soggetti qualificati, estranei all’apparato degli uffici pubblici, con affidamento di oneri e adempimenti da svolgere nell’interesse prevalente dell’amministrazione. Questo rapporto collaborativo si inquadra in una metodologia di riorganizzazione dell’attività amministrativa rivolta principalmente alla verifica e al riscontro di dati ed elementi raccolti e basati su dichiarazioni e asseverazioni, con assunzione di responsabilità da parte del soggetto dichiarante.

In questa sede rilevano il visto di conformità di cui al comma 2, lettera a), dell’art. 35 del d.lgs. n. 241 del 1997 (comunemente detto “leggero”) e quello di cui al comma 1, lettera a), della stessa disposizione (comunemente detto “pesante”).

Il primo ha per oggetto la «conformità dei dati delle dichiarazioni unificate alla relativa documentazione». Il regolamento di cui al d.m. 31 maggio 1999, n. 164, emanato ai sensi dell’art. 40 del d.lgs. n. 241 del 1997, precisa che esso implica «il riscontro della corrispondenza dei dati esposti nella dichiarazione alle risultanze della relativa documentazione e alle disposizioni che disciplinano gli oneri deducibili e detraibili, le detrazioni e i crediti d’imposta, lo scomputo delle ritenute d’acconto» (art. 2, comma 1). Ne consegue che l’apposizione del visto attesta la corretta determinazione anche degli imponibili e dei relativi importi dovuti a titolo di saldo o di acconto ovvero dei rimborsi spettanti al contribuente assistito.

Il secondo visto ha per oggetto la «conformità dei dati delle dichiarazioni predisposte […] alla relativa documentazione e alle risultanze delle scritture contabili, nonché di queste ultime alla relativa documentazione contabile». Lo stesso regolamento precisa (all’art. 2, comma 2) che esso implica, inoltre: «a) la verifica della regolare tenuta e conservazione delle scritture contabili obbligatorie ai fini delle imposte sui redditi e delle imposte sul valore aggiunto; b) la verifica della corrispondenza dei dati esposti nella dichiarazione alle risultanze delle scritture contabili e di queste ultime alla relativa documentazione».

4.1.– Ciò premesso, la questione sollevata in riferimento all’art. 3 Cost. non è fondata.

La censura di irragionevole disparità di trattamento, con effetti discriminatori, si impernia sull’equiparabilità dei professionisti appartenenti al sistema ordinistico ai professionisti che, pur non essendo organizzati in ordini o collegi, possono operare come consulenti fiscali, predisporre e trasmettere le dichiarazioni fiscali, nonché trattare e conservare i dati contabili, ma non sono abilitati al rilascio del visto di conformità.

L’equiparabilità – e quindi l’omogeneità tra le situazioni poste a confronto – deriverebbe dall’assoggettamento di entrambe le categorie professionali ad adeguate funzioni di controllo, anche sul piano deontologico, circa l’esistenza dei requisiti di capacità e correttezza professionale, funzioni che si distinguerebbero ormai solo per la natura (pubblicistica nell’un caso, privatistica nell’altro) del mezzo utilizzato per raggiungere lo scopo.

Artefice di tale risultato sarebbe stata la legge n. 4 del 2013, che ha promosso la costituzione di organizzazioni privatistiche a base associativa finalizzate a garantire che l’attività professionale prestata dai propri aderenti sia svolta secondo adeguati criteri di capacità e competenza professionale e nel rispetto delle relative norme deontologiche.

Al riguardo, si osserva in primo luogo che la stessa legge n. 4 del 2013 prevede, al comma 6 dell’art. 2, che «[a]i professionisti di cui all’art. 1, comma 2, anche se iscritti alle associazioni di cui al presente articolo, non è consentito l’esercizio delle attività professionali riservate dalla legge a specifiche categorie di soggetti, salvo il caso in cui dimostrino il possesso dei requisiti previsti dalla legge e l’iscrizione al relativo albo professionale».

Il legislatore del 2013 distingue, quindi, le due categorie sotto lo specifico profilo delle attività che la legge può riservare ai professionisti organizzati in ordini o collegi.

Nessuna equiparazione è dunque predicabile, ai fini che qui interessano, avendo proprio la legge n. 4 del 2013 ribadito il divieto per i professionisti non organizzati, anche se iscritti alle associazioni, di svolgere un’attività riservata dalla legge a specifiche categorie di soggetti.

In secondo luogo, non rileva che le associazioni professionali di cui all’art. 2 della legge n. 4 del 2013 siano «inquadrat[e] in un sistema pubblicistico di vigilanza ministeriale», come afferma il giudice a quo, attesa la possibilità che esse si iscrivano volontariamente nel menzionato elenco pubblicato nel sito internet del Ministero (ora) delle imprese e del made in Italy.

Tale iscrizione comporta esclusivamente, ai sensi dell’art. 10 della legge n. 4 del 2013, un’attività ministeriale di vigilanza sulla corretta attuazione delle disposizioni della legge da parte delle associazioni, senza poteri di cancellazione dall’elenco e di vigilanza sui professionisti.

È vero che le associazioni, comprese o non comprese nell’elenco, promuovono la formazione permanente dei propri iscritti, adottano un codice di condotta ai sensi dell’art. 27-bis cod. consumo, vigilano sulla condotta professionale degli associati e stabiliscono le sanzioni disciplinari da irrogare agli associati per le violazioni del medesimo codice (art. 2, comma 3, della legge n. 4 del 2013), ma l’esercizio di tali funzioni, in violazione delle regole di condotta, potrebbe comportare al massimo, sul piano deontologico e disciplinare, l’esclusione dell’associato dall’associazione, in base alle regole statutarie e civilistiche, senza incidere direttamente sulla continuità dell’esercizio della professione. Il professionista rimane esposto solo alla responsabilità per le pratiche commerciali scorrette, prevista dall’art. 27 cod. consumo.

Quanto agli ordini professionali (come quelli a cui appartengono i professionisti abilitati al rilascio del visto di conformità), la costante giurisprudenza di questa Corte, «peraltro in armonia con la giurisprudenza di legittimità (fra le altre, Cassazione civile, sezione prima, sentenza 14 ottobre 2011, n. 21226) e con la giurisprudenza amministrativa (fra le tante, Consiglio di Stato, sezione quarta, decisione 16 marzo 2004, n. 1344), li ha configurati come “enti pubblici ad appartenenza necessaria” (sentenza n. 405 del 2005)» (sentenza n. 259 del 2019). Questa Corte ha, inoltre, riconosciuto che la loro istituzione e disciplina «“risponde all’esigenza di tutelare un rilevante interesse pubblico la cui unitaria salvaguardia richiede che sia lo Stato a prevedere specifici requisiti di accesso”, affidando loro “il compito di curare la tenuta degli albi nonché di controllare il possesso e la permanenza dei requisiti in capo a coloro che sono già iscritti o che aspirino ad iscriversi”, in vista dell’obiettivo di “garantire il corretto esercizio della professione a tutela dell’affidamento della collettività” (sentenza n. 405 del 2005). Si tratta, in altri termini, di organismi associativi a partecipazione obbligatoria cui il legislatore statale ha affidato poteri, funzioni e prerogative, sottoposti a vigilanza da parte di organi dello Stato-apparato, tutti preordinati “alla tutela di pregnanti interessi di rilievo costituzionale” (sentenza n. 173 del 2019, inerente all’Ordine forense), connessi all’esercizio di attività professionali» (ancora, sentenza n. 259 del 2019).

Tali poteri, funzioni e prerogative sono dunque più estesi ed effettivi di quelli esercitati dalle associazioni previste dalla legge n. 4 del 2013, in quanto sottoposti a diretta vigilanza da parte di organi statali e corredati da incisive potestà disciplinari nei confronti degli iscritti, che possono determinare, tra l’altro, la sospensione o la radiazione, con conseguente impossibilità (temporanea o definitiva) di esercitare legittimamente la professione, e quindi tutte le attività per cui è richiesta l’iscrizione all’albo.

A ciò va aggiunto che il legittimo accesso agli albi presuppone il superamento di un apposito esame di Stato diretto alla verifica dei requisiti necessari per l’esercizio della professione, non previsto per l’iscrizione alle citate associazioni.

4.1.1.– Accertato che permane una diversità sostanziale tra le due categorie di professionisti, resta da verificare la ragionevolezza della scelta operata dal legislatore, in quanto di fronte a norme che differenziano alcuni soggetti dagli altri «gli argomenti relativi all’eguaglianza e quelli relativi alla ragionevolezza si sovrappongono e si intrecciano, costituendo la ragionevolezza, oltre che canone autonomo di legittimità della legge, anche – e prima ancora – criterio applicativo del principio di eguaglianza (sentenza n. 148 del 2017 e ordinanza n. 184 del 2018)» (sentenza n. 77 del 2023).

La verifica conduce a un esito positivo.

È da considerare il rilevante interesse pubblico correlato al rilascio del visto di conformità, che non si risolve nella mera predisposizione e trasmissione delle dichiarazioni o nella tenuta delle scritture e dei dati contabili, ma è diretto ad agevolare e rendere più efficiente l’esercizio dei poteri di controllo e di accertamento dell’amministrazione finanziaria, con assunzione della relativa responsabilità (si pensi, ad esempio, alla corretta determinazione degli oneri detraibili collegati al cosiddetto “superbonus edilizio”). Non è dunque irragionevole abilitare al rilascio del visto i professionisti iscritti a ordini, che, avendo superato un esame di Stato per accedere agli albi ed essendo soggetti alla penetrante vigilanza degli ordini anche sul piano deontologico, sono muniti di particolari requisiti attitudinali e di affidabilità, a garanzia degli interessi dell’amministrazione alla corretta esecuzione dell’adempimento.

È evidente, sotto questo profilo, non già la conformità della disposizione censurata a un generale principio di preferenza dell’ordinamento per le professioni ordinistiche, ipotizzato dal rimettente, bensì il rapporto tra le scelte operate dal legislatore e «le esigenze di buon andamento ed imparzialità dell’amministrazione» (sentenza n. 307 del 2002).

4.1.2.– In definitiva, sono da escludere sia la discriminazione che l’irragionevolezza prospettate dal rimettente, in riferimento all’art. 3 Cost.

4.2.– La violazione dell’art. 41 Cost. deriverebbe dall’incidenza negativa della disposizione censurata sulla libertà di iniziativa economica dei tributaristi non iscritti agli ordini, i quali subirebbero uno sviamento di clientela verso i professionisti iscritti anche per attività non riservate a questi ultimi, in contrasto con il principio di concorrenza.

Il giudice a quo osserva che i contribuenti sarebbero indotti a rivolgersi con preferenza ai professionisti che possono rilasciare il visto di conformità anche per la predisposizione e la trasmissione delle dichiarazioni fiscali, poiché in tal modo potrebbero giovarsi dei vantaggi connessi all’apposizione del visto. Ciò estenderebbe la riserva, di fatto, anche ad attività liberalizzate, in contrasto con il carattere tassativo ed eccezionale delle attività riservate agli iscritti all’ordine.

4.2.1.– La questione non è fondata.

Secondo il costante orientamento di questa Corte (tra le molte, sentenze n. 150 del 2022, n. 151 e n. 47 del 2018, n. 16 del 2017 e n. 56 del 2015), non è configurabile una lesione della libertà d’iniziativa economica privata allorché, come sancito dall’art. 41, secondo comma, Cost., l’apposizione di limiti di ordine generale al suo esercizio corrisponda, oltre che alla protezione di valori primari attinenti alla persona umana, all’utilità sociale, purché l’individuazione di quest’ultima, che spetta al legislatore, non appaia arbitraria e non venga perseguita mediante misure palesemente incongrue.

In altri termini, in forza dell’art. 41 Cost., «sono ammissibili limiti della libertà d’iniziativa economica privata, purché giustificati dall’esigenza di tutelare interessi di rango costituzionale», ferma la necessaria «congruità e proporzionalità delle relative misure, risultando in tal modo chiara la correlazione esistente tra tale parametro e l’art. 3 Cost.» (sentenza n. 94 del 2013).

Questi principi valgono anche per la tutela della libertà di concorrenza, che pure trova fondamento nell’art. 41 Cost. Libertà di rilievo essenziale nell’ordinamento giuridico, che può tuttavia incontrare limiti, purché ragionevoli e proporzionati, quando entri in gioco lo svolgimento di funzioni di tipo pubblicistico, come certamente è quella del rilascio del visto di conformità qui in esame.

Ebbene, richiamate le precedenti considerazioni sullo scopo perseguito dal legislatore (punti 4 e 4.1.1. del Considerato in diritto), i limiti all’esercizio della libertà di iniziativa economica censurati dal rimettente sono giustificati dall’utilità sociale non arbitrariamente individuata nelle già indicate esigenze, corrispondenti a interessi di rango costituzionale, di buon andamento ed imparzialità dell’amministrazione finanziaria, ex art. 97 Cost.

Né la misura disposta dal legislatore risulta palesemente incongrua rispetto a tale finalità, per le ragioni già individuate nello scrutinio di ragionevolezza.

Profili di arbitrarietà o di palese incongruità non derivano nemmeno dagli asseriti effetti di sviamento della clientela a favore dei professionisti iscritti agli albi, prospettati dal giudice a quo.

A tal proposito, va precisato che si tratta di conseguenze ipotetiche ed eventuali, in quanto la scelta del professionista cui affidare la predisposizione e la trasmissione delle dichiarazioni, nonché la tenuta della contabilità, non è necessariamente condizionata dall’interesse del cliente ad ottenere il visto di conformità, potendo entrare in gioco fattori diversi (non da ultimo, il corrispettivo della prestazione).

D’altra parte, non si può ritenere che la disposizione censurata consenta un’estensione della riserva anche ad attività liberalizzate, poiché essa ragionevolmente integra e rafforza le garanzie di corretta esecuzione dell’adempimento, assicurando che il visto sia rilasciato da un qualificato professionista che abbia direttamente elaborato e riscontrato i dati utilizzati per le dichiarazioni, nell’ambito di una prestazione che il legislatore considera inscindibile.

Anche da questo angolo visuale, dunque, la scelta dei professionisti abilitati operata dal legislatore è congrua rispetto al perseguimento dell’utilità sociale sopra indicata. Finalità, quest’ultima, che vale di per sé ad escludere che l’art. 35, comma 3, del d.lgs. n. 241 del 1997 abbia perseguito il diverso scopo, censurato dal rimettente, di «tutelare [...] l’interesse corporativo di una categoria professionale a mantenere sfere di competenza professionale in chiave di generale esclusività monopolistica».

4.3.– Infine, la disposizione censurata violerebbe l’art. 117, primo comma, Cost., per lesione del diritto dei professionisti non costituiti in ordini o collegi alla libera prestazione dei servizi all’interno dell’Unione europea. In particolare, la discriminazione di tale categoria di professionisti non sarebbe necessaria, mancando un sottostante motivo imperativo di interesse generale, né sarebbe proporzionata, eccedendo rispetto agli obiettivi di tutela dell’interesse fiscale dello Stato.

4.3.1.– Anche tale questione non è fondata.

Il rimettente indica quali parametri interposti gli artt. 56 TFUE e 16 della direttiva 2006/123/CE.

L’art. 56 TFUE prevede che «[...] le restrizioni alla libera prestazione dei servizi all’interno dell’Unione sono vietate nei confronti dei cittadini degli Stati membri stabiliti in uno Stato membro che non sia quello del destinatario della prestazione» (paragrafo 1).

La libertà di prestazione dei servizi trova dunque applicazione in presenza di un elemento transfrontaliero e non invece in situazioni puramente interne, come quella in esame.

La medesima conclusione vale anche per l’art. 16 della direttiva 2006/123/CE.

Questa disposizione, contenuta nel Capo IV della direttiva, relativo alla libera circolazione dei servizi, prevede che «[g]li Stati membri rispettano il diritto dei prestatori di fornire un servizio in uno Stato membro diverso da quello in cui sono stabiliti» (paragrafo 1).

È vero che, secondo la costante giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, la direttiva 2006/123/CE si applica non solo al prestatore che intende stabilirsi in un altro Stato membro, ma anche a quello che intende stabilirsi nel proprio Stato, e dunque anche in situazioni puramente interne, ma tale principio, invocato dal rimettente, è stato affermato dalla giurisprudenza europea con riguardo alle disposizioni relative alla libertà di stabilimento di cui al Capo III della medesima direttiva (X e Visser, punti 103, 105, 108 e 110; nello stesso senso, sentenze 21 dicembre 2023, in causa C-278/22, Autotechnica Fleet Services, punto 31; 13 gennaio 2022, in causa C-55/20, Minister Sprawiedliwości, punto 89; 4 luglio 2019, in causa C-393/17, Kirschstein, punto 2: tutte relative a disposizioni del Capo III).

Invece, «per quanto concerne le disposizioni del capo IV della direttiva 2006/123, relativo alla libera circolazione dei servizi», la Corte di giustizia ha osservato che «il legislatore dell’Unione si è dato cura di precisare più volte, in particolare all’articolo 16, paragrafo 1, e all’articolo 18, paragrafo 1, di tale direttiva, che dette disposizioni riguardano il diritto dei prestatori “di fornire un servizio in uno Stato membro diverso da quello in cui sono stabiliti” e sono relative al caso “di un prestatore stabilito in un altro Stato membro”» (sentenza X e Visser, punto 102).

4.3.2.– Anche qualora si volesse sostenere che si tratti di una situazione transfrontaliera, la questione non sarebbe fondata.

Sotto questo profilo, occorrerebbe verificare se l’applicazione della disposizione censurata a soggetti stabiliti in altri Stati membri sia compatibile con la libera prestazione dei servizi.

Secondo la costante giurisprudenza della Corte di giustizia, una restrizione alla libera prestazione dei servizi è comunque giustificata a condizione che essa persegua un obiettivo di interesse generale (ossia risponda a motivi imperativi di interesse pubblico), sia idonea a garantire la realizzazione dello stesso e non ecceda quanto necessario per raggiungerlo (tra le molte, sentenza 17 dicembre 2015, in causa C-342/14, X-Steuerberatungsgesellschaft, punto 52; sentenza 17 ottobre 2002, in causa C-79/01, Payroll, punto 28).

La disposizione censurata rispetta queste condizioni.

I motivi imperativi di interesse pubblico che ne giustificano l’adozione sono individuabili nell’interesse generale «collegato alla tutela dei destinatari dei servizi [...] nei confronti del danno che essi potrebbero subire a causa di servizi prestati da soggetti che non abbiano le necessarie qualifiche professionali o morali» (Corte di giustizia dell’Unione europea, sentenza 30 marzo 2006, in causa C-451/03, Servizi ausiliari dottori commercialisti, punto 38), nella «prevenzione dell’evasione fiscale» (sentenza X-Steuerberatungsgesellschaft, punto 53) e nella «efficacia dei controlli fiscali» (Corte di giustizia dell’Unione europea, sentenza 11 dicembre 2014, in causa C-678/11, Commissione europea, punto 45).

L’idoneità a realizzare i predetti obiettivi deriva dagli stessi elementi che rendono la disposizione censurata non irragionevole (punto 4.1.1. del Considerato in diritto).

Infine, la scelta operata dal legislatore non è sproporzionata, in quanto una disciplina meno restrittiva, che consentisse il rilascio del visto di conformità a chiunque presti liberamente consulenza fiscale, non offrirebbe le medesime garanzie di attitudine, di affidabilità e di sottoposizione dei professionisti a controlli stringenti, che possono condurre alla sospensione o alla cessazione della loro attività.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 35, comma 3, del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241 (Norme di semplificazione degli adempimenti dei contribuenti in sede di dichiarazione dei redditi e dell’imposta sul valore aggiunto, nonché di modernizzazione del sistema di gestione delle dichiarazioni), sollevate, in riferimento agli artt. 3, 41 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 56 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea e 16 della direttiva 2006/123/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 12 dicembre 2006, relativa ai servizi nel mercato interno, dal Consiglio di Stato, sezione settima, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 giugno 2024.

F.to:

Augusto Antonio BARBERA, Presidente

Marco D'ALBERTI, Redattore

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

Depositata in Cancelleria il 23 luglio 2024

Il Direttore della Cancelleria

F.to: Roberto MILANA

Allegata: ordinanza dibattimentale del 5 giugno 2024