SENTENZA N. 148
ANNO 2017
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Paolo GROSSI Presidente
- Alessandro CRISCUOLO Giudice
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
- Franco MODUGNO ”
- Augusto Antonio BARBERA ”
- Giulio PROSPERETTI ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 26 della legge 3 maggio 1967, n. 315 (Miglioramenti al trattamento di quiescenza della Cassa per le pensioni ai sanitari e modifiche agli ordinamenti degli Istituti di previdenza presso il Ministero del tesoro), e degli artt. 204 e 205 del decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1092 (Approvazione del testo unico delle norme sul trattamento di quiescenza dei dipendenti civili e militari dello Stato), promossi dalla Corte dei conti – sezione giurisdizionale per la Regione Calabria, con ordinanze del 6 novembre 2014 e del 16 marzo 2015, iscritte ai nn. 37 e 146 del registro ordinanze 2015 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 12 e 33, prima serie speciale, dell’anno 2015.
Visti gli atti di costituzione dell’Istituto nazionale della previdenza sociale, nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 19 aprile 2016 il Giudice relatore Giulio Prosperetti;
uditi l’avvocato Filippo Mangiapane per l’INPS e l’avvocato dello Stato Giustina Noviello per il Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nuovamente nell’udienza pubblica del 4 aprile 2017, rifissata in ragione della intervenuta modifica della composizione del collegio, il Giudice relatore Giulio Prosperetti;
uditi nuovamente l’avvocato Filippo Mangiapane per l’INPS e l’avvocato dello Stato Giustina Noviello per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.– Con due ordinanze, iscritte, rispettivamente, al n. 37 e al n. 146 del registro ordinanze 2015, la Corte dei conti – sezione giurisdizionale per la Regione Calabria, ha promosso questione di legittimità costituzionale, per violazione degli artt. 3 e 97 della Costituzione, dell’art. 26 della legge 3 maggio 1967, n. 315 (Miglioramenti al trattamento di quiescenza della Cassa per le pensioni ai sanitari e modifiche agli ordinamenti degli Istituti di previdenza presso il Ministero del tesoro), e degli artt. 204 e 205 del decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1092 (Approvazione del testo unico delle norme sul trattamento di quiescenza dei dipendenti civili e militari dello Stato), nella parte in cui non prevedono che i provvedimenti di liquidazione definitiva del trattamento di quiescenza possano essere «rettificati in ogni momento da enti o fondi erogatori, in caso di errore di qualsiasi natura commesso in sede di attribuzione, erogazione o riliquidazione della prestazione».
Il rimettente espone che i giudizi di merito sono stati promossi su ricorso di pensionati, già dipendenti di amministrazione provinciale, avverso provvedimenti con cui l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), gestione ex Istituto nazionale di previdenza per i dipendenti dell’amministrazione pubblica (INPDAP), ha rideterminato in peius i rispettivi trattamenti pensionistici, disponendo, altresì, il recupero nei loro confronti delle maggiori somme erogate.
In particolare, nella prima ordinanza, iscritta al reg. ord. n. 37 del 2015, si espone che l’INPS, con provvedimento del 18 aprile 2014, aveva rideterminato in euro 43.205,63 il trattamento annuo di pensione di euro 58.523,82, già liquidato all’interessato, in via definitiva, a decorrere dal 1° settembre 2004, con determinazione in data 2 dicembre 2004, disponendo il recupero delle maggiori somme erogate, pari a euro 278.771,62.
Nella seconda ordinanza, iscritta al reg. ord. n. 146 del 2015, si espone che l’INPS, con provvedimento del 12 dicembre 2012, aveva rideterminato in euro 39.811,03 il trattamento già liquidato in via definitiva all’interessato in euro 69.366,82, a decorrere dal 1° luglio 2006, con determinazione del 23 gennaio 2007, disponendo il recupero delle maggiori somme erogate, pari ad euro 230.510,25.
1.1.– Nelle ordinanze il rimettente rappresenta che nei giudizi a quibus i ricorrenti avevano dedotto: a) la illegittimità del provvedimento di riliquidazione; b) l’insussistenza dei presupposti di fatto e di diritto legittimanti l’esercizio di potere di modifica dell’ente previdenziale ai sensi dell’art. 205 del d.P.R. n. 1092 del 1973, essendo decorso il termine triennale previsto per la modifica o revoca del provvedimento definitivo; c) la irripetibilità dell’indebito, in base al principio di affidamento nel provvedimento di liquidazione del trattamento e del principio di percezione in buona fede delle maggiori somme corrisposte.
Rappresenta, altresì, il rimettente che in entrambi i giudizi si è costituito l’ente convenuto che, nel ribadire le ragioni della correttezza dei procedimenti di rideterminazione dei trattamenti e la legittimità dei provvedimenti di revoca, ha chiesto il rigetto dei relativi ricorsi, sollevando altresì questione di legittimità costituzionale degli artt. 204 e 205 del d.P.R. n. 1092 del 1973 e dell’art. 26 della legge n. 315 del 1967, in riferimento agli artt. 3, 81 e 97 Cost., «nella parte in cui limitano la possibilità di modifica o revoca della pensione definitiva a una serie tassativa di ipotesi, fissando dei termini temporali ritenuti decadenziali, con l’effetto di consolidamento per il futuro di un trattamento pensionistico errato, in contrasto con quanto sancito dall’art. 52 della legge n. 88/1989 per le pensioni a carico dell’AGO e delle gestioni obbligatorie sostitutive».
Nelle ordinanze di rimessione si espone, poi, che in entrambi i giudizi: a) erano state accolte le istanze cautelari proposte dai ricorrenti sospendendo il recupero dei ratei pensionistici indebiti; b) con sentenze non definitive erano stati rigettati i ricorsi proposti in ordine alla domanda di declaratoria della correttezza dell’applicazione del criterio della media ponderata e della conseguente quantificazione dei trattamenti pensionistici effettuata con i provvedimenti modificati; c) era stata riservata all’esito del giudizio di legittimità costituzionale sulle richiamate disposizioni in materia di modifica dei trattamenti pensionistici dei dipendenti pubblici, la decisione definitiva sul ripristino del trattamento precedentemente goduto dai ricorrenti, nonché sulla irripetibilità delle maggiori somme indebitamente percepite.
1.2.– Ciò premesso, il rimettente espone che l’art. 26 della legge n. 315 del 1967, riguardante i trattamenti erogati agli ex iscritti alle casse pensionistiche gestite dal Ministero del Tesoro, stabilisce che: «I provvedimenti concernenti le domande di riscatto di servizi o periodi ai fini del trattamento di quiescenza e quelle di liquidazione del trattamento stesso, adottati dai competenti organi deliberanti dagli Istituti di Previdenza e resi esecutivi con decreto del Direttore Generale degli Istituti medesimi, possono, d’ufficio o a domanda degli interessati, essere revocati o modificati dagli organi deliberanti predetti entro il termine di novanta giorni decorrente dalla data di comunicazione del decreto agli interessati. La revoca o modifica è ammessa, entro il termine di tre anni dalla data predetta, quando: a) vi sia stato errore di fatto o sia stato omesso di tener conto di elementi risultanti dalla documentazione acquisita; b) vi sia stato errore materiale nel computo del servizio ovvero nella determinazione del contributo di riscatto o dell’importo del trattamento di quiescenza: oppure, entro il termine di dieci anni dalla data stessa, quando: c) siano acquisiti, ad iniziativa delle parti o d’ufficio, documenti che non abbiano formato oggetto di esame in sede di adozione del provvedimento e abbiano rilevanza sulla determinazione del riscatto o del trattamento di quiescenza; d) il provvedimento sia stato adottato sopra documenti falsi».
Prosegue il rimettente rilevando che tale disciplina è stata sostanzialmente replicata dalle disposizioni degli artt. 204 e 205 del d.P.R. n. 1092 del 1973 in materia di trattamento di quiescenza dei dipendenti civili e militari dello stato, disponendo, in particolare, l’art. 204 che «La revoca o la modifica di cui all’articolo precedente può aver luogo quando: a) vi sia stato errore di fatto o sia stato omesso di tener conto di elementi risultanti dagli atti; b) vi sia stato errore nel computo dei servizi o nel calcolo del contributo di riscatto, nel calcolo della pensione, assegno o indennità o nell’applicazione delle tabelle che costituiscono le aliquote o l’ammontare della pensione, assegno o indennità; c) siano stati rinvenuti documenti nuovi dopo l’emissione del provvedimento; d) il provvedimento sia stato emesso in base a documenti riconosciuti o dichiarati falsi», e a sua volta, l’articolo 205 stabilendo che: «La revoca o la modifica sono effettuati d’ufficio o a domanda dell’interessato. Nei casi previsti nelle lettere a) e b) dell’articolo 204 il provvedimento è revocato o modificato d’ufficio non oltre i termine di tre anni dalla data di registrazione del provvedimento stesso; nei casi di cui alle lettere c) e d) di detto articolo il termine è di sessanta giorni dal rinvenimento di documenti nuovi o dalla notizia della riconosciuta o dichiarata falsità dei documenti. La domanda dell’interessato deve essere ripresentata, a pena di decadenza entro i termini stabiliti dal comma precedente; nei casi previsti nelle lettere a) e b) dell’art. 204 il termine decorre dalla data in cui il provvedimento è stato comunicato all’interessato».
Precisa il rimettente che l’art. 8 del decreto del Presidente della Repubblica 8 agosto 1986, n. 538 (Modalità di liquidazione dei trattamenti di quiescenza a favore degli iscritti alle casse pensioni degli istituti di previdenza. Semplificazione di procedure in materia di pagamento degli stipendi ai dipendenti dello Stato), ha espressamente dichiarato applicabile la ricordata normativa nei confronti degli ex iscritti alle casse previdenziali amministrate dal Ministero del Tesoro, stabilendo, al comma 1, che: «Il provvedimento definitivo relativo al trattamento di quiescenza può essere revocato o modificato dall’ufficio che lo ha emesso. Si applicano le disposizioni contenuti negli artt. 204, 205, 206, 207 e 208 del D.P.R. 29.12.1973 n. 1092 e nell’art. 3 della legge 7.8.1985 n. 428. Per i casi previsti dai punti c) e d) dell’art. 204 sopra citato, resta fermo il termine di dieci anni di cui all’art. 26 della legge 3.5.1967 n. 315».
Così illustrata la disciplina in materia di modificabilità dei trattamenti pensionistici dei pubblici dipendenti, il rimettente ne evidenzia la diversità dalle disposizioni dettate dall’art. 52 della legge 9 marzo 1989, n. 88 (Ristrutturazione dell’Istituto nazionale della previdenza sociale e dell’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro), per le pensioni del settore privato a carico dell’INPS, prevedendo, al comma 1, che: «Le pensioni a carico dell’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti dei lavoratori dipendenti, delle gestioni obbligatorie sostitutive o, comunque, integrativa della medesima, della gestione speciale dei minatori, delle gestioni speciali dei commercianti, artigiani, i coltivatori diretti, mezzadri o coloni nonché la pensione sociale di cui all’art. 26 della legge 30 aprile 1969, n. 163, possono essere in ogni momento rettificate dagli enti erogatori, in caso di errore di qualsiasi natura commesso in sede di attribuzione, erogazione o riliquidazione della prestazione».
1.3.– Il rimettente, ponendo a raffronto le due diverse discipline che regolano la modifica da parte dell’ente previdenziale dei trattamenti pensionistici erogati, e assumendo come tertium comparationis la normativa così recata dall’art. 52 della legge n. 88 del 1989, ritiene che l’art. 26 della legge n. 315 del 1967 e gli artt. 204 e 205 del d.P.R. n. 1092 del 1973 violino gli artt. 3 e 97 Cost., nella parte in cui non prevedono che i provvedimenti di liquidazione definitiva del trattamento di quiescenza possano essere «rettificati in ogni momento dagli enti o fondi erogatori, in caso di errore di qualsiasi natura commesso in sede di attribuzione, erogazione o riliquidazione della prestazione».
In particolare, in riferimento alla violazione dell’art. 3 Cost., il rimettente asserisce la irragionevolezza delle disposizioni censurate, in quanto prevedono una disciplina in materia di modifica dei trattamenti pensionistici per i pensionati del settore pubblico più favorevole rispetto a quella prevista dall’art. 52 della legge n. 88 del 1989 per i pensionati del settore privato, senza che ricorrano oggettive differenziazioni tra le situazioni giuridiche tutelate, sia sotto il profilo della procedura seguita che sotto quello dei valori costituzionali tutelati.
Con riguardo all’art. 97 Cost., il rimettente, in una lettura coordinata con l’art. 3 Cost., deduce la irragionevolezza della normativa scrutinata, in quanto sottrae all’erario, in un momento di gravi difficoltà economico-finanziarie e di sostenibilità del sistema previdenziale, la possibilità di impedire il protrarsi di un nocumento patrimoniale corrispondente all’erogazione di un trattamento pensionistico erroneamente calcolato.
1.4.– In ordine alla rilevanza della questione per la definizione dei rispettivi giudizi a quibus, il rimettente assume che, avendo l’amministrazione previdenziale provveduto a rideterminare la pensione definitiva a seguito di riscontrato errore di fatto dopo il termine di tre anni stabilito dalla normativa ricordata, l’INPS non avrebbe potuto esercitare il potere di revoca o modifica del trattamento pensionistico. Ciò condurrebbe, secondo il rimettente, all’accoglimento integrale dei ricorsi proposti, con declaratoria di illegittimità dei provvedimenti così emanati dall’ente di previdenza e ripristino dei trattamenti pensionistici percepiti ex ante, nonché pronuncia di irripetibilità di quanto percepito, per effetto della sopravvenuta immodificabilità della erronea determinazione del trattamento stesso, e non già per avere gli interessati percepito le maggiori somme in buona fede.
Con riguardo alla non manifesta infondatezza della questione, il rimettente, innanzitutto, afferma di essere consapevole che, data la possibilità della coesistenza di una pluralità di regimi previdenziali aventi la medesima finalità posta dall’art. 38 Cost., occorre valutare, secondo la giurisprudenza costituzionale, la diversità fra le discipline in materia in termini di compatibilità con il principio di uguaglianza, alla luce di una adeguata e razionale giustificazione (a tal fine richiamano la sentenza n. 91 del 1984).
Il rimettente, pertanto, si interroga proprio sulla persistenza di intrinseche differenze tra le due discipline esaminate (rispettivamente relative al settore privato e a quello pubblico), alla luce dell’evoluzione legislativa più recente, pervenendo a una risposta negativa.
In proposito le ordinanze richiamano, in via generale, il processo di armonizzazione dei regimi pensionistici avviato dalla legge 8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare), e, sotto il profilo gestionale, la soppressione dell’INPDAP quale polo della previdenza pubblica, con trasferimento delle sue funzioni all’INPS, ai sensi dell’art. 24 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dalla legge 24 dicembre 2011, n. 214.
Sempre ai fini in esame, con riferimento specifico alla peculiare disciplina del procedimento di liquidazione delle pensioni pubbliche, il rimettente si mostra avvertito delle possibili implicazioni sul punto di quanto affermato da questa Corte con la sentenza n. 208 del 2014, con la quale è stata dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 204 del d.P.R. n. 1092 del 1973. Ciò in quanto la Corte, nel confermare la legittimità dell’esclusione dell’errore di diritto tra i casi che giustificano la revoca o la riforma del provvedimento di pensione oltre il termine triennale, ha richiamato la struttura del procedimento di liquidazione delle pensioni pubbliche, distinto nelle due fasi della liquidazione provvisoria e di quella definitiva, consentendo la modificabilità piena fino all’emanazione del provvedimento definitivo.
Tuttavia, il giudice rimettente rileva che tale distinzione, pur perdurante, è di fatto «compressa» dalla circostanza che oramai l’INPS provvede generalmente alla liquidazione immediata in via definitiva dei trattamenti, e solo occasionalmente, e per periodi limitati, alla liquidazione in via provvisoria.
Inoltre, il rimettente evidenzia le conseguenze derivanti dal venir meno dell’assoggettabilità a controllo preventivo da parte della Corte dei conti del provvedimento definitivo per le pensioni pubbliche. In proposito, nell’ordinanaza n. 146 del 2015, si evidenzia che ciò ha comportato una minore «affidabilità» delle medesime, ponendole quindi sullo stesso piano di quelle private, «con possibili ricadute sul piano della certezza e correttezza del contenuto dei provvedimenti» pensionistici, e dunque sul regime della loro modificabilità.
Prosegue il rimettente ritenendo, altresì, che la modificabilità per qualsiasi ragione e senza limiti di tempo delle pensioni pubbliche, al pari di quelle private, non andrebbe a confliggere con la tutela dell’affidamento.
Con riguardo a tale aspetto, il rimettente ricorda che l’illegittimità degli artt. 203, 204 e 205 del d.P.R. n. 1092 del 1973 è stata esclusa dalla Corte costituzionale (sentenza n. 91 del 1984), quale espressione del favor del legislatore per il soggetto pensionato; così come ricorda che la citata sentenza n. 208 del 2014, nel confermare la legittimità costituzionale del medesimo art. 204 del d.P.R. n. 1092 del 1973, ha richiamato l’esigenza di tutelare il legittimo affidamento del pensionato nel trattamento pensionistico riconosciutogli.
Senonché il rimettente, nell’ordinanza n. 146 del 2015, alla luce della più recente dottrina «sensibile alle problematiche giuridico-economiche», dubita della legittimità costituzionale di tali disposizioni, in quanto escludono il potere di annullamento in sede di autotutela «senza tener conto delle conseguenze patrimoniali che derivano da tale scelta», sia perché contestualmente violano i principi costituzionali sul funzionamento della pubblica amministrazione e sull’obbligo di legalità della sua azione.
Inoltre, ritiene il rimettente che non sia evocabile il principio della tutela dell’affidamento del pensionato per consentire una continuità nell’erogazione del trattamento risultato non dovuto, in quanto tale principio non può essere utilizzato come criterio autonomo, ma ricondotto ai principi di uguaglianza, certezza del diritto e legalità.
In proposito, il rimettente, evidenziata la natura del rapporto pensionistico come rapporto di durata, richiama la giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità europee che «ha circoscritto la tutela dell’affidamento, nella declinazione di certezza del diritto, nei limiti degli effetti giuridici già prodotti, che non debbono essere incisi dall’atto sopravvenuto, ma lo ha escluso per quelli futuri non ancora prodotti (CGCE n. 373/1993)». Il rimettente espone che nella stessa direzione si è espressa la stessa Corte costituzionale, relativamente alla possibilità per il legislatore di modificare in peius le disposizioni in materia di prestazioni pensionistiche, pur precisando i limiti di un tale intervento, per non «trasmodare in un regolamento irrazionale e arbitrariamente incidere sulle situazioni sostanziali poste in essere da leggi precedenti».
Inoltre, nelle ordinanze si evidenzia che la necessità di contemperare la tutela dell’affidamento con altri valori costituzionali è implicitamente espressa anche dalla norma (art. 21-nonies della legge 7 agosto 1990, n. 241, recante «Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi»), che subordina l’esercizio del potere di annullamento del provvedimento illegittimo alla sussistenza dell’interesse pubblico.
Pertanto, il rimettente esprime l’avviso che la tutela dell’affidamento sarebbe già assicurata dalla specifica regolazione della ripetizione dell’indebito pensionistico, comune alle pensioni del settore pubblico e del settore privato, secondo cui, in deroga al principio generale posto dall’art. 2033 del codice civile, non si dà luogo a ripetizione dell’indebito nel caso in cui i maggiori trattamenti siano stati percepiti in buona fede.
Conclusivamente, sulla scorta di quanto così dedotto, il rimettente ritiene che le disposizioni pensionistiche in esame per il settore pubblico e quello privato sono accomunate: dalla identità della funzione retributiva; dalla irripetibilità delle maggiori somme percepite dal pensionato in buona fede; dalla non ravvisabilità di una violazione dell’art. 38 Cost., in presenza di erogazioni non dovute che, in quanto tali, non possono concorrere ad integrare, ai fini dell’adeguatezza, la prestazione previdenziale, sicché la loro rideterminazione non può di per sé arrecare alcun vulnus al precetto costituzionale.
Conseguentemente, il rimettente ritiene irragionevoli ed arbitrarie le disposizioni censurate, in materia di modifica dei trattamenti pensionistici risultati illegittimi, in quanto riservano ai pensionati del settore pubblico una disciplina irragionevolmente ed arbitrariamente più favorevole di quella prevista per i pensionati del settore privato; disciplina che «sottrae all’ente previdenziale pubblico la possibilità di impedire il protrarsi per un periodo di tempo indeterminato, di un nocumento patrimoniale corrispondente all’erogazione di un trattamento pensionistico erroneamente calcolato».
Ciò, evidenzia inoltre il rimettente, «in un momento di gravi difficoltà economiche-finanziarie, di ricorrenti timori per la sostenibilità del sistema previdenziale e, infine, in una prospettiva futura di crescente compressione dell’entità delle prestazioni previdenziali a parità di contributi versati» e «senza che, nell’ambito di una previsione generale, non discriminante in relazione all’entità dell’indebito e/o del trattamento pensionistico correttamente determinato, la lesione dell’interesse pubblico trovi un’adeguata giustificazione in situazioni economiche e sociali del pensionato specificamente individuate e non apoditticamente assunte a denominatore comune dell’intera categoria, comprendente anche soggetti titolari di laute ed eventualmente plurime pensioni».
1.5.– Nei due giudizi di legittimità costituzionale si è costituito l’INPS (in quello di cui all’ordinanza n. 37 del 2015, con atto del 9-13 aprile 2015, e nel giudizio di cui all’ordinanza n. 146 del 2015, con atto del 3-10 luglio 2015), chiedendo: a) di dichiarare l’inammissibilità per difetto di rilevanza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 26 della legge n. 315 del 1967 e dell’art. 204 del d.P.R. n. 1092 del 1973; b) previa declaratoria di ammissibilità della questione, di ritenere e dichiarare la illegittimità costituzionale dell’art. 26 della legge n. 315 del 1967 e dell’art. 205 del d.P.R. n. 1092 del 1973, nella parte in cui non prevedono che i provvedimenti di liquidazione definitiva del trattamento di quiescenza possano essere rettificati in ogni tempo.
Con riguardo alla richiesta declaratoria di inammissibilità, l’INPS deduce che non avrebbe alcun rilievo la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 26 della legge n. 315 del 1967 e dell’art. 204 del d.P.R. n. 1092 del 1973 nel sottostante giudizio di merito. Ciò in quanto il rimettente ha qualificato il vizio del provvedimento di rideterminazione del trattamento pensionistico in termini di errore di fatto (sotto la specie dell’errata presupposizione di una circostanza, la cessazione dal servizio nella perdurante qualifica dirigenziale, radicalmente esclusa dagli atti), ipotesi che le citate disposizioni già contemplano tra quelle per le quali si può procedere alla modifica del trattamento pensionistico. Ad avviso dell’INPS, assumono, invece, rilievo le disposizioni del citato art. 26 della legge n. 315 del 1967 e dell’art. 205 del citato d.P.R. n. 1092 del 1973, nella parte in cui stabiliscono i termini entro i quali l’ente previdenziale può rideterminare il trattamento pensionistico in presenza di tale errore, in quanto nei giudizi a quibus i provvedimenti risultano emanati decorsi tali termini; pertanto, in riferimento alla richiesta di dichiarare l’illegittimità costituzionale di tali norme, l’INPS ha svolto argomentazioni adesive e integrative di quelle illustrate nelle ordinanze di rimessione.
1.6.– Con atti depositati il 14 aprile e l’8 settembre 2015, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto, rispettivamente, nei giudizi di cui al reg. ord. n. 37 del 2015 e n. 146 del 2015, chiedendo di dichiarare manifestamente infondata la questione sollevata.
In particolare, con riferimento alla violazione dell’art. 3 Cost., l’Avvocatura generale dello Stato ha escluso il contrasto delle disposizioni scrutinate con i principi di uguaglianza e il canone di ragionevolezza, non ritenendo omogenee le situazioni poste a raffronto, attesa la differenziazione tra pensioni pubbliche e private, restando le pensioni del settore pubblico connotate da persistenti differenze anche con riferimento alla fase liquidatoria.
Quanto al parametro di cui all’art. 97 Cost., la difesa erariale ha escluso la fondatezza dell’eccezione, assumendo che il mero ripristino dell’azione amministrativa non può prevalere sulla tutela della situazione del pensionato con modalità temporali illimitate, secondo l’insegnamento della Corte costituzionale, da ultimo confermato nella citata sentenza n. 208 del 2014.
Tali considerazioni sono state ribadite e precisate dall’Avvocatura generale dello Stato, con memorie del 16-24 marzo 2015.
Considerato in diritto
1.– Con due ordinanze, iscritte al n. 37 e al n. 146 del reg. ord. 2015, la Corte dei conti – sezione giurisdizionale per la Regione Calabria, ha promosso, in termini analoghi, la questione di legittimità costituzionale, per violazione degli artt. 3 e 97 della Costituzione, dell’art. 26 della legge 3 maggio 1967, n. 315 (Miglioramenti al trattamento di quiescenza della Cassa per le pensioni ai sanitari e modifiche agli ordinamenti degli Istituti di previdenza presso il Ministero del tesoro), e degli artt. 204 e 205 del decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1092 (Approvazione del testo unico delle norme sul trattamento di quiescenza dei dipendenti civili e militari dello Stato), nella parte in cui non prevedono che i provvedimenti di liquidazione definitiva del trattamento di quiescenza possano essere «rettificati in ogni momento da enti o fondi erogatori, in caso di errore di qualsiasi natura commesso in sede di attribuzione, erogazione o riliquidazione della prestazione».
Il rimettente, nel rilevare che i ricorrenti nei giudizi a quibus, già lavoratori del settore pubblico, hanno presentato ricorso avverso provvedimenti con cui l’ente previdenziale ha rideterminato in peius i rispettivi trattamenti pensionistici, deduce che tale rideterminazione sarebbe avvenuta oltre il termine previsto dalle censurate disposizioni per la rilevabilità dell’errore. Osserva il rimettente che tale disciplina, nel circoscrivere il potere di modifica a casi tassativi, e nello stabilire per il suo esercizio termini decadenziali, differisce in modo significativo dalle disposizioni che regolano la materia per le pensioni dei lavoratori del settore privato, iscritti all’Istituto nazionale della previdenza e assistenza (INPS), in quanto l’art. 52, comma 1, della legge 9 marzo 1989, n. 88 (Ristrutturazione dell’Istituto nazionale della previdenza sociale e dell’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro), dispone che le pensioni «possono essere rettificate dagli enti erogatori, in caso di errore di qualsiasi natura commesso in sede di attribuzione, erogazione o riliquidazione della prestazione».
Il rimettente, assumendo come tertium comparationis la citata disposizione dell’art. 52, comma 1, della legge n. 88 del 1989, deduce, pertanto, la violazione, da parte delle norme scrutinate, dell’art. 3 Cost., in quanto prevedono in modo irragionevole una disciplina più favorevole in materia di modifica dei trattamenti pensionistici per i pensionati del settore pubblico, e dell’art. 97 Cost., in quanto non consentono all’ente previdenziale di impedire il protrarsi dell’indebita erogazione di parte del trattamento pensionistico erroneamente determinato.
1.1.– I due giudizi possono essere riuniti e decisi con un’unica sentenza, per evidenti ragioni di connessione, prospettando una identica questione.
1.2.– Preliminarmente, questa Corte osserva che la motivazione in punto di rilevanza offerta dal rimettente appare non implausibile. Le circostanze, in fatto e in diritto, come rappresentate nelle ordinanze di rimessione, poste alla base delle determinazioni in via definitiva dei trattamenti pensionistici dei ricorrenti, oggetto di modifica da parte dell’ente previdenziale, condurrebbero il giudice a ritenere decorso il termine triennale per la revoca o modifica del provvedimento definitivo, previsto dalla normativa censurata. Diversamente, l’accoglimento della questione di legittimità costituzionale porterebbe a ritenere legittimi i provvedimenti rideterminativi contestati nei giudizi di merito e a valutare la questione relativa alla restituzione delle maggiori somme corrisposte medio tempore alla stregua delle specifiche disposizioni in materia di ripetizione di indebito pensionistico.
1.3.– Sempre in via preliminare, non può essere accolta l’eccezione di inammissibilità sollevata dall’INPS, in ordine alla rilevanza nei giudizi a quibus della questione di legittimità costituzionale proposta nei confronti dell’art. 26 della legge n. 315 del 1967 e dell’art. 204 del d.P.R. n. 1092 del 1973. L’Istituto assume che il citato art. 204 del d.P.R. n. 1092 del 1973 già prevede che la pensione possa essere rideterminata ove si riscontri, come si è verificato nei casi in oggetto, un errore di fatto, sicché per la definizione dei giudizi rileverebbe solo l’art. 205 del medesimo d.P.R., in quanto stabilisce un termine di tre anni per procedere alla rideterminazione del trattamento pensionistico, termine che risulta decorso nelle vicende a quibus.
Rileva questa Corte che la questione prospettata dal rimettente è diretta a censurare l’intera disciplina recata dall’art. 26 della legge n. 315 del 1967 e dagli artt. 204 e 205 del d.P.R. n. 1092 del 1973, sotto il profilo della sua diversità rispetto alla disciplina della modifica del trattamento di quiescenza del settore privato, dettata dall’art. 52, comma 1, della legge n. 88 del 1989. Quest’ultimo è invocato quale tertium comparationis, in quanto, nel riferirsi testualmente a «errore di qualsiasi natura commesso in sede di attribuzione, erogazione o riliquidazione della prestazione», non distingue, come invece la disciplina del settore pubblico, tra tipologie tassative di errori riscontrabili che danno luogo a possibilità di modifica, né prevede termini per la modifica dei trattamenti. La questione investe dunque tutte le norme censurate proprio nella parte in cui non prevedono, per le pensioni del settore pubblico, una disciplina analoga a quella disposta per le pensioni del settore privato.
2.– Nel merito, va innanzitutto verificato se sussista una giustificata diversità dei sistemi pensionistici del settore privato e del settore pubblico, tale da escludere la configurabilità della violazione dell’art. 3 Cost., alla luce del costante insegnamento di questa Corte, secondo cui la diversità delle situazioni e dei sistemi posti a confronto giustifica, in termini di ragionevolezza, la diversità delle discipline e, conseguentemente, esclude la violazione del principio di uguaglianza (ex plurimis, sentenza n. 146 del 2016).
Sul punto, il rimettente non ravvisa «intrinseche differenze» tra i due ordinamenti pensionistici, assumendo, in sintesi: che in entrambi i settori i trattamenti di quiescenza rispondono all’identica esigenza tutelata dagli artt. 36 e 38 Cost.; che, analogamente, la modifica o rideterminazione dei trattamenti pensionistici risponde, sia nel settore pubblico che in quello privato, alla stessa esigenza posta dall’art. 97 Cost., ma anche ai principi degli artt. 36 e 38 Cost., in quanto la difformità dalle previsioni normative altera la natura di retribuzione differita del trattamento pensionistico, modificando il rapporto tra le due prestazioni e, nello stesso tempo, incide sul principio di adeguatezza posto dall’art. 38 Cost.; che, con riferimento alle differenze fra le gestioni pensionistiche, il sistema previdenziale è stato oggetto di un processo di riforma volto ad armonizzare i diversi regimi, confluiti presso l’INPS quale unico ente gestore; che, infine, anche regole particolari, dettate in ordine ai procedimenti di determinazione e liquidazione dei trattamenti pensionistici del settore pubblico, sono state superate dall’evoluzione normativa.
Sebbene dunque i due regimi pensionistici, pur oggetto di interventi di convergenza operati negli anni dal legislatore, continuano a presentare elementi di motivata diversità, vi sono aspetti della disciplina pensionistica che, come quello in esame, concernendo profili analoghi, richiederebbero da parte del legislatore un percorso di armonizzazione nell’ambito dell’oramai unitario ente pubblico di previdenza obbligatoria nel rapporto con l’utente pensionato, laddove sono venute meno talune differenze settoriali che potevano motivare una diversità di regolazione.
3.– Tuttavia, la impossibilità di ritenere, nella disposizione dell’art. 52, comma 1, della legge n. 88 del 1989, invocata nelle ordinanze di rimessione come tertium comparationis, l’unica soluzione regolatoria della materia compatibile ed anzi imposta dai principi costituzionali, conduce questa Corte a ritenere inammissibile, sotto tale profilo, la questione di legittimità in esame.
La disciplina prevista dalla citata disposizione, nel prevedere la possibilità di rettifica delle pensioni del settore del lavoro privato «in ogni momento» e «in caso di errore di qualsiasi natura commesso in sede di attribuzione, erogazione o riliquidazione della prestazione», non costituisce, infatti, quella soluzione “obbligata” della regolazione della specifica materia in esame che, ai sensi della giurisprudenza costituzionale, deve invece ravvisarsi nella normativa invocata in termini di tertium comparationis.
Ciò anche in considerazione di quanto affermato da questa Corte, pur se con specifico riferimento al sistema delle pensioni del settore pubblico, in ordine alle esigenze di salvaguardare il legittimo affidamento del pensionato sull’entità del trattamento pensionistico erogato (sentenza n. 208 del 2014).
Il necessario intervento per ricomporre il quadro della regolazione della materia, secondo linee coerenti ed omogenee per il settore pensionistico gestito ormai da un unico ente, non può, dunque, che essere rimesso al legislatore, che opererà tenendo conto del mutato contesto normativo, ma anche in funzione di valorizzazione dei profili di equità e solidarietà che caratterizzano il sistema previdenziale. Del resto, questa Corte rileva che i continui interventi normativi sul sistema pensionistico, se hanno posto attenzione ai profili sostanziali di determinazione dei trattamenti, hanno trascurato i pur rilevanti profili di armonizzazione di aspetti quali quelli in esame, costituenti il portato residuale di un assetto superato dall’evoluzione del sistema.
Al legislatore compete, dunque, nell’equilibrato esercizio della sua discrezionalità, valutati tutti i diversi e spesso contrapposti valori ed esigenze in campo, bilanciare i fattori costituzionalmente rilevanti, fissati, in particolare, dagli artt. 3 e 97 Cost., ma anche – per le ragioni correttamente evidenziate dal rimettente – dagli artt. 36 e 38 Cost. A tal fine, l’intervento normativo dovrà, in particolare, armonizzare le esigenze di ripristinare la legittimità del trattamento pensionistico con l’opposta esigenza di tutelare, in presenza di situazioni e condizioni di rilevanza sociale, l’affidamento del pensionato nella stabilità del suo trattamento, decorso un lasso temporale adeguato e coerente con il complessivo ordinamento giuridico.
Conclusivamente, sulla scorta di quanto innanzi considerato, questa Corte non può che formulare l’auspicio che il legislatore proceda, con adeguata tempestività, ad adottare un intervento inteso a superare le riscontrate divergenze tra le discipline previste, rispettivamente, per il settore pubblico, dall’art. 26 della legge n. 315 del 1967 e dagli artt. 204 e 205 del d.P.R. n. 1092 del 1973, e, per il settore privato, dall’art. 52, comma 1, della legge n. 88 del 1989.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 26 della legge 3 maggio 1967, n. 315 (Miglioramenti al trattamento di quiescenza della Cassa per le pensioni ai sanitari e modifiche agli ordinamenti degli Istituti di previdenza presso il Ministero del tesoro), e degli artt. 204 e 205 del decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1092 (Approvazione del testo unico delle norme sul trattamento di quiescenza dei dipendenti civili e militari dello Stato), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, dalla Corte dei conti – sezione giurisdizionale per la Regione Calabria, con le ordinanze in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 aprile 2017.
F.to:
Paolo GROSSI, Presidente
Giulio PROSPERETTI, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 23 giugno 2017.