Sentenza n. 64 del 2024

SENTENZA N. 64

ANNO 2024

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta da:

Presidente: Augusto Antonio BARBERA;

Giudici: Franco MODUGNO, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 133, comma 1, del decreto legislativo 30 maggio 2002, n. 113, recante «Testo unico delle disposizioni legislative in materia di spese di giustizia. (Testo B)», trasfuso nell’art. 133, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia. (Testo A)», promosso dal Tribunale ordinario di Cagliari, in funzione di giudice del lavoro, nel procedimento vertente tra M.M. B. e l’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (INAIL), con ordinanza del 20 giugno 2023, iscritta al n. 121 del registro ordinanze 2023 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 39, prima serie speciale, dell’anno 2023.

Visti l’atto di costituzione dell’INAIL e l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 19 marzo 2024 il Giudice relatore Luca Antonini;

uditi l’avvocato Giandomenico Catalano per l’INAIL e l’avvocato dello Stato Pietro Garofoli per il Presidente del Consiglio dei ministri;

deliberato nella camera di consiglio del 19 marzo 2024.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 20 giugno 2023 (reg. ord. n. 121 del 2023), il Tribunale ordinario di Cagliari, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato – in riferimento agli artt. 3, 23, 53, 76 e 111, secondo comma, della Costituzione – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 133, comma 1, del decreto legislativo 30 maggio 2002, n. 113, recante «Testo unico delle disposizioni legislative in materia di spese di giustizia. (Testo B)», trasfuso nell’art. 133, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia. (Testo A)».

La suddetta disposizione stabilisce che «[i]l provvedimento che pone a carico della parte soccombente non ammessa al patrocinio [a spese dello Stato] la rifusione delle spese processuali a favore della parte ammessa dispone che il pagamento sia eseguito a favore dello Stato».

Essa è censurata nella parte in cui, secondo l’interpretazione datane dal diritto vivente, prevede che, qualora risulti vittoriosa la parte non abbiente ammessa al beneficio del patrocinio a spese dello Stato, il giudice civile quantifichi le spese processuali dovute a quest’ultimo dal soccombente «secondo i criteri ordinari, in misura piena e quindi superiore rispetto a quella dei compensi dovuti dallo Stato [stesso] al difensore del non abbiente».

2.– Investito del ricorso diretto all’annullamento di una cartella esattoriale emessa per la riscossione di un credito vantato dall’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (INAIL), il rimettente riferisce di essere chiamato, nel definire il giudizio, a regolare le spese processuali, ponendole a carico dell’Istituto resistente secondo il principio della soccombenza e disponendone il pagamento a favore dello Stato, poiché la parte vittoriosa è stata ammessa al suddetto beneficio.

2.1.– Il giudice a quo rileva che, in tal caso, la giurisprudenza di legittimità (sono citate Corte di cassazione, sezione sesta civile, sottosezione seconda, ordinanze 19 settembre 2017, n. 21611, e 16 settembre 2016, n. 18167; sezione sesta penale, sentenza 8 novembre-14 dicembre 2011, n. 46537) avrebbe inizialmente enunciato il principio della necessaria coincidenza tra la somma che va rifusa allo Stato ai sensi dell’art. 133, comma 1, del d.P.R. n. 115 del 2002 e quella erogata dallo Stato stesso al difensore della parte non abbiente e liquidata ai sensi degli artt. 82, comma 1, e 130, comma 1, del medesimo d.P.R., in forza dei quali i compensi dovuti a tale difensore debbono essere quantificati in misura non superiore ai valori medi previsti dai parametri recati dall’apposito decreto ministeriale e poi ridotti della metà.

Il rimettente precisa che, tuttavia, la giurisprudenza civile di legittimità sarebbe successivamente pervenuta alla conclusione opposta, affermando che «il giudice civile, diversamente da quello penale, non è tenuto a quantificare in misura uguale le somme dovute dal soccombente allo Stato […] e quelle dovute dallo Stato [stesso] al difensore del non abbiente […], alla luce delle peculiarità che caratterizzano il sistema processualpenalistico di patrocinio a spese dello Stato e del fatto che, in caso contrario, si verificherebbe una disapplicazione del summenzionato art. 130. In tal modo, si evita che la parte soccombente verso quella non abbiente sia avvantaggiata rispetto agli altri soccombenti e si consente allo Stato, tramite l’eventuale incasso di somme maggiori rispetto a quelle liquidate al singolo difensore, di compensare le situazioni di mancato recupero di quanto corrisposto e di contribuire al funzionamento del sistema nella sua globalità» (è citata Corte di cassazione, sezione seconda civile, ordinanza 11 settembre 2018, n. 22017).

Tale orientamento avrebbe trovato, poi, conferma – «e non più solo sotto forma di obiter» – in numerose altre pronunce della Corte di cassazione (sono citate Corte di cassazione, sezione seconda civile, sentenze 19 gennaio 2021, n. 777 e 3 gennaio 2020, n. 19; sezione lavoro, sentenza 26 marzo 2019, n. 8387; sezione seconda civile, ordinanza 8 gennaio 2020, n. 136; sezione sesta civile, sottosezione lavoro, ordinanza 3 maggio 2019, n. 11590), consolidandosi al punto da divenire diritto vivente.

3.– Così interpretato, l’art. 133, comma 1, del d.P.R. n. 115 del 2002 violerebbe, a parere del giudice a quo, gli evocati parametri costituzionali.

3.1.– Alla prospettazione dei dubbi di legittimità costituzionale viene premessa una ricostruzione diacronica della disciplina legislativa dell’assistenza giudiziaria alle persone non abbienti, per desumerne che, prima dell’adozione del d.P.R. n. 115 del 2002 – il quale ha accorpato le disposizioni legislative di cui al d.lgs. n. 113 del 2002 e le disposizioni regolamentari di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 114, recante «Testo unico delle disposizioni regolamentari in materia di spese di giustizia. (Testo C)» –, lo Stato avrebbe potuto «recupera[re] dalla parte soccombente diversa da quella non abbiente gli importi dovuti al difensore della parte beneficiaria del patrocinio gratuito e non anche somme maggiori».

Con la norma indubbiata, quindi, sarebbe stato «per la prima volta» previsto che lo Stato possa «recuperare dalla parte soccombente il valore dei compensi di avvocato liquidabile […] come se la parte vincitrice non fosse ammessa al patrocinio», ovvero senza «il limite della coincidenza di detto valore con quello dei compensi anticipati dall’Erario all’avvocato della parte gratuitamente difesa».

Di qui la dedotta violazione dell’art. 76 Cost., poiché tale previsione contrasterebbe con l’art. 7 della legge 8 marzo 1999, n. 50 (Delegificazione e testi unici di norme concernenti procedimenti amministrativi - Legge di semplificazione 1998).

Questa disposizione, nel delegare il Governo all’adozione di testi unici finalizzati al riordino delle norme legislative e regolamentari in un complesso di materie, tra cui quella delle spese di giustizia, detterebbe infatti, al comma 2, lettera d), il criterio direttivo del mero «coordinamento formale del testo delle disposizioni vigenti», consentendo di superare tale limite solo se ciò sia funzionale all’obiettivo «della coerenza logica e sistematica della normativa riordinata» (sono citate le sentenze n. 53 e n. 52 del 2005 di questa Corte).

Il Governo, invece, con la disposizione denunciata non si sarebbe limitato, alla luce delle considerazioni dianzi svolte, al mero coordinamento formale, avendo invece introdotto una norma del tutto innovativa.

Né, d’altro canto, una siffatta scelta potrebbe essere giustificata in quanto preordinata al suddetto obiettivo e, in particolare, allo scopo di «allineare» la disciplina del beneficio de quo a quella della condanna al pagamento delle spese di lite di cui all’art. 91 del codice di procedura civile, la cui «funzione (indennitaria)» sarebbe stata, anzi, snaturata.

3.2.– Risulterebbero violati anche gli artt. 3, 23, 53 e 111, secondo comma, Cost.

Ritiene in proposito il rimettente che l’obbligo del pagamento di una somma, «corrispondente al valore “pieno” degli onorari», superiore a quella dovuta dallo Stato al difensore della parte non abbiente costituisca, per la differenza tra i due importi, un «prelievo coattivo», traducendosi in una obbligazione di natura tributaria.

Della fattispecie tributaria sussisterebbero, infatti, tutti gli elementi caratteristici definiti dalla giurisprudenza di questa Corte, dal momento che, per la detta differenza: a) la condanna al pagamento delle spese processuali determinerebbe «senz’altro una definitiva e significativa decurtazione patrimoniale a carico» della parte soccombente; b) tale decurtazione non riguarderebbe un rapporto sinallagmatico; c) le risorse così ottenute si giustificherebbero «con l’obiettivo di finanziare in generale l’istituzione del patrocinio per i non abbienti».

L’obbligazione tributaria in discorso, tuttavia, sarebbe irragionevolmente «sganciata da ogni verifica sulla capacità contributiva» e foriera di un’ingiustificata disparità di trattamento tra i soccombenti, poiché questi sarebbero «chiamat[i] a contribuire alla spesa generale connessa» all’istituto de quo solo se condannati al pagamento delle spese di lite e non anche nel caso in cui il giudice disponga la compensazione delle spese stesse.

Inoltre – osserva ancora il rimettente –, dalla suddetta natura tributaria deriverebbe altresì che la disposizione denunciata si risolverebbe nell’attribuzione all’autorità giudiziaria di «una funzione impositiva».

Di qui «una inevitabile confusione tra l’espletamento della funzione giurisdizionale, che esige garanzie di […] imparzialità» ai sensi dell’art. 111, secondo comma, Cost., «e l’espletamento di un potere prettamente riferibile allo Stato Amministrazione», con la conseguente «perdita della posizione di terzietà propria del giudice».

4.– Tanto chiarito in punto di non manifesta infondatezza, il Tribunale rimettente, per un verso, osserva che non sarebbe praticabile un’esegesi costituzionalmente orientata, giacché questa, alla luce del consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, sarebbe «destinata ad essere cassata».

Per altro verso, ribadisce che, per definire il giudizio sottoposto alla sua cognizione, deve pronunciarsi anche sulle spese processuali, condannando la parte resistente al loro pagamento in favore dello Stato, in applicazione della disposizione denunciata.

Donde la rilevanza delle questioni sollevate.

5.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili e, in ogni caso, non fondate.

5.1.– L’eccepita inammissibilità è basata, in primo luogo, sul rilievo per cui le doglianze del giudice a quo non avrebbero dovuto attingere la disposizione denunciata, ma il suo combinato disposto con l’art. 130, comma 1, del d.P.R. n. 115 del 2002, nella parte in cui prevede che lo Stato recuperi una somma maggiore di quella liquidata dal giudice in favore del difensore della parte ammessa al beneficio in parola.

In secondo luogo, le questioni sollevate sarebbero inammissibili perché il rimettente, essendosi «limita[to] a richiamare alcuni precedenti della giurisprudenza di legittimità», non avrebbe specificamente motivato in ordine alla esistenza del contestato diritto vivente e, di conseguenza, all’impraticabilità di un’interpretazione costituzionalmente conforme della disposizione sospettata.

Risulterebbe, infine, in ogni caso inammissibile la questione sollevata in riferimento all’art. 23 Cost., non avendo il giudice a quo in alcun modo motivato il supposto contrasto con questo parametro costituzionale.

5.2.– Nel merito, le questioni sarebbero comunque non fondate.

Osserva l’Avvocatura generale che l’art. 133, comma 1, del d.P.R. n. 115 del 2002 non prevede espressamente se il giudice civile debba liquidare le spese processuali applicando, o meno, la riduzione della metà prevista dall’art. 130, comma 1, del medesimo d.P.R., limitandosi a stabilire che il loro pagamento sia disposto a favore dello Stato.

Non sarebbe, pertanto, ravvisabile la lamentata violazione dell’art. 76 Cost., poiché il legislatore delegato avrebbe fedelmente «compilato il testo unico nel rispetto dei criteri di delega» e a essere mutata sarebbe solo l’interpretazione che della disposizione censurata è stata fornita dalla giurisprudenza di legittimità.

Parimenti priva di fondamento risulterebbe la dedotta violazione degli artt. 3, 53 e 111, secondo comma, Cost.

L’ammissione al patrocinio a spese dello Stato – rileva la difesa statale – darebbe luogo esclusivamente a un «rapporto tra la parte ammessa e il proprio difensore e […] tra costoro e lo Stato», sicché nessun riflesso potrebbe avere nei confronti della parte soccombente, rispetto alla quale rappresenterebbe una circostanza del tutto neutra.

Sarebbe, quindi, del tutto ragionevole che il giudice quantifichi le spese di lite senza dimezzare i compensi per l’attività difensiva: in tal modo, infatti, il soccombente resta tenuto al pagamento del medesimo importo che avrebbe dovuto rifondere qualora la controparte non fosse stata ammessa al beneficio, con la conseguenza che non subirebbe alcun pregiudizio e, per converso, non trarrebbe indebitamente profitto da un fatto estraneo alla sua sfera giuridica, ovvero dalle condizioni economiche della controparte stessa.

In definitiva, al lume di tali rilievi, non sarebbe ravvisabile «alcun prelievo di natura anche solo latamente tributaria» nei confronti del soccombente.

Dal che, conclude l’Avvocatura generale, deriverebbe anche l’insussistenza della lamentata compromissione del principio di terzietà del giudice.

6.– Si è costituito in giudizio l’INAIL, parte resistente nel processo principale, che, ricostruita la vicenda processuale da cui trae origine l’ordinanza di rimessione, ha chiesto l’accoglimento delle questioni sollevate in riferimento agli artt. 3, 23, 53 e 111, secondo comma, Cost., «rimette[ndosi] alla valutazione» di questa Corte in merito alla censura di violazione dell’art. 76 Cost.

Considerato in diritto

1.– Con ordinanza del 20 giugno 2023 (reg. ord. n. 121 del 2023), il Tribunale di Cagliari, in funzione di giudice del lavoro, dubita della legittimità costituzionale dell’art. 133, comma 1, del d.lgs. n. 113 del 2002, trasfuso nell’art. 133, comma 1, del d.P.R. n. 115 del 2002, a mente del quale «[i]l provvedimento che pone a carico della parte soccombente non ammessa al patrocinio [a spese dello Stato] la rifusione delle spese processuali a favore della parte ammessa dispone che il pagamento sia eseguito a favore dello Stato».

2.– Ad avviso del rimettente, questa disposizione violerebbe gli artt. 3, 23, 53, 76 e 111, secondo comma, Cost., nella parte in cui, secondo l’interpretazione datane dal diritto vivente, prevede che, in caso di vittoria della lite della parte non abbiente ammessa al beneficio del patrocinio a spese dello Stato, il giudice civile quantifichi le spese processuali dovute a quest’ultimo dal soccombente «secondo i criteri ordinari, in misura piena e quindi superiore rispetto a quella dei compensi dovuti dallo Stato [stesso] al difensore del non abbiente». Compensi, questi, che, ai sensi degli artt. 82, comma 1, e 130, comma 1, del d.P.R. n. 115 del 2002, devono essere quantificati in misura non superiore ai valori medi dei parametri volti alla determinazione dei compensi per l’attività difensiva e poi ridotti della metà.

3.– Osserva in limine il giudice a quo che la giurisprudenza civile di legittimità, dopo avere inizialmente espresso un diverso orientamento, si sarebbe ormai assestata – assurgendo a diritto vivente – nel senso di escludere che il giudice debba quantificare le spese dovute allo Stato dalla parte soccombente nella misura, dimidiata, che lo Stato stesso è tenuto a versare al difensore della parte non abbiente vittoriosa.

Questo esito ermeneutico, che impone quindi la quantificazione nella misura normale, lo induce tuttavia a ritenere che la norma denunciata leda, innanzitutto, l’art. 76 Cost.

Alla stregua del criterio direttivo dettato dall’art. 7, comma 2, lettera d), della legge n. 50 del 1999, il testo unico di cui al d.P.R. n. 115 del 2002 – nel quale, come è noto, sono confluite le disposizioni legislative del d.lgs. n. 113 del 2002 e quelle regolamentari del d.P.R. n. 114 del 2002 – avrebbe dovuto, infatti, provvedere al mero coordinamento formale del previgente assetto legislativo; la disposizione sospettata, invece, recherebbe una norma innovativa, nemmeno giustificabile in forza di esigenze di coerenza sistematica. La «funzione (indennitaria)» della condanna al pagamento delle spese di lite di cui all’art. 91 cod. proc. civ. sarebbe stata, anzi, snaturata.

Secondo il rimettente, l’art. 133, comma 1, del d.P.R. n. 115 del 2002 violerebbe anche gli artt. 3, 23, 53 e 111, secondo comma, Cost.

A suo avviso, l’obbligo, in capo alla parte soccombente condannata alle spese, di corrispondere allo Stato una somma maggiore rispetto all’ammontare dei compensi da questo dovuti al difensore della parte non abbiente vittoriosa avrebbe, infatti, natura tributaria, per la differenza tra i due importi.

Tale obbligazione, tuttavia, risulterebbe irragionevolmente disancorata da un concreto indice di capacità contributiva, generando, peraltro, un’ingiustificata disparità di trattamento tributario tra i soccombenti, poiché graverebbe su di essi solo se condannati al pagamento delle spese di lite e non anche nel caso in cui il giudice disponga la compensazione delle spese stesse.

Dalla suddetta natura discenderebbe, inoltre, che la disposizione sospettata si risolverebbe nell’attribuzione all’autorità giudiziaria di «una funzione impositiva», così minando la terzietà del giudice, giacché darebbe luogo a una «inevitabile confusione tra l’espletamento della funzione giurisdizionale […] e l’espletamento di un potere [quello impositivo] prettamente riferibile allo Stato Amministrazione».

4.– Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha eccepito l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale sollevate, anzitutto, perché il rimettente avrebbe errato nell’indirizzare le proprie censure nei confronti della disposizione denunciata anziché verso il suo combinato disposto con l’art. 130, comma 1, del d.P.R. n. 115 del 2002.

L’eccezione non coglie nel segno.

Il giudice a quo, infatti, non si duole in alcun modo della disciplina recata dal citato art. 130, comma 1 – che stabilisce la decurtazione della metà del compenso spettante al difensore della parte che fruisce del beneficio –, ma esclusivamente del fatto che il successivo art. 133, comma 1, come interpretato dalla giurisprudenza civile di legittimità, escluda che il giudice debba tenere conto di detta decurtazione in sede di condanna al pagamento delle spese: pertanto, esso assume correttamente a bersaglio delle proprie censure quest’ultima disposizione, che tale condanna disciplina.

4.1.– È priva di pregio anche l’eccezione d’inammissibilità con cui l’Avvocatura generale lamenta che il rimettente non avrebbe sufficientemente motivato sulle ragioni per cui si sarebbe al cospetto di un diritto vivente e, di conseguenza, sull’asserita impraticabilità di un’interpretazione adeguatrice.

Diversamente da quanto sostenuto dalla difesa statale, infatti, il Tribunale di Cagliari non si è «limita[to] a richiamare alcuni precedenti della giurisprudenza di legittimità»: al contrario, esso si è soffermato sul mutamento di orientamento che si è registrato in seno alla Corte di cassazione civile, a partire da una pronuncia del 2018 (Cass., n. 22017 del 2018) e poi confermato in numerose altre decisioni; l’adozione di una differente opzione esegetica verrebbe quindi a confliggere con quella fatta propria dal giudice di ultimo grado.

Nella giurisprudenza civile di legittimità, in effetti, si è radicata l’interpretazione volta a escludere la necessaria coincidenza tra i due importi che vengono in rilievo (ex plurimis, Corte di cassazione, sezione seconda civile, sentenza 16 novembre 2023, n. 31928, e sezione lavoro, sentenze 20 dicembre 2019, n. 34190, e n. 8387 del 2019; sezione prima civile, ordinanza 2 gennaio 2024, n. 64; sezione seconda civile, ordinanza 5 maggio 2023, n. 11804; sezione sesta civile, sottosezione seconda, ordinanza 14 novembre 2019, n. 29688, e sottosezione lavoro, n. 11590 del 2019).

Quindi, il giudice a quo ha correttamente assunto tale approdo interpretativo in termini di diritto vivente e ne ha richiesto, su tale presupposto, il controllo di compatibilità con i parametri costituzionali evocati (ex plurimis, sentenze n. 38 del 2024, n. 243, n. 178 e n. 20 del 2022).

4.2.– Merita, invece, accoglimento l’eccezione di inammissibilità della censura formulata in riferimento all’art. 23 Cost., per omessa motivazione in ordine alla non manifesta infondatezza del prospettato dubbio di legittimità costituzionale.

L’ordinanza di rimessione, infatti, è tutta incentrata sulla considerazione per cui si sarebbe in presenza di un’obbligazione di natura tributaria, mentre omette qualsiasi specifica argomentazione a sostegno del denunciato contrasto con il parametro in discorso, il quale, pertanto, risulta evocato in maniera generica e assertiva (ex plurimis, sentenza n. 161 del 2023).

5.– Con la prima questione di legittimità costituzionale sollevata, il rimettente deduce la violazione dell’art. 76 Cost., perché, come si è detto, introducendo una norma, a suo dire, del tutto innovativa, non giustificata da alcuna esigenza di coerenza sistematica e anzi contraria alla «funzione (indennitaria) propria della condanna al rimborso delle spese processuali», il Governo, con l’art. 133, comma 1, del d.P.R. n. 115 del 2002, avrebbe violato il criterio direttivo di cui all’art. 7, comma 2, lettera d), della legge n. 50 del 1999.

Nell’emanazione del testo unico in discussione, il legislatore delegato, infatti, avrebbe dovuto attenersi al criterio del coordinamento formale del testo delle disposizioni vigenti, potendo apportare le sole «modifiche necessarie per garantire la coerenza logica e sistematica» della normativa riordinata.

5.1.– In effetti, il testo unico in cui si colloca il suddetto art. 133, comma 1, è stato emanato sulla base dell’art. 7 della legge n. 50 del 1999, come modificato dall’art. 1 della legge 24 novembre 2000, n. 340 (Disposizioni per la delegificazione di norme e per la semplificazione di procedimenti amministrativi - Legge di semplificazione 1999), che aveva demandato al Governo la redazione di testi unici finalizzati al riordino delle norme legislative e regolamentari in un complesso di materie, tra cui le spese di giustizia.

Si tratta quindi di una tipologia di delega diretta al riordino o al riassetto di settori normativi, per la quale questa Corte ha inquadrato in limiti rigorosi l’esercizio, da parte del legislatore delegato, di poteri innovativi della normazione vigente, «da intendersi in ogni caso come strettamente orientati e funzionali alle finalità esplicitate dalla legge di delega» (sentenza n. 84 del 2017).

In tale cornice, questa Corte si è peraltro specificamente occupata, in più occasioni, della delega prevista dall’art. 7 della legge n. 50 del 1999 e, proprio in riferimento al testo unico sulle spese di giustizia, ha affermato che il criterio direttivo del coordinamento può anche «essere non solo formale», e dunque tradursi in un testo non meramente compilativo, purché, però, l’obiettivo rimanga «quello della coerenza logica e sistematica della normativa riordinata» (sentenza n. 174 del 2005).

5.2.– Ciò premesso, va infine precisato che la questione di legittimità costituzionale per l’eccesso di delega sollevata dal rimettente non investe la disposizione in sé considerata, ma la norma che il diritto vivente vi avrebbe tratto, attraverso un mutamento di orientamento a partire dal 2018, stabilendo che il giudice civile condanna la parte soccombente senza «il limite della coincidenza» con i «compensi anticipati dall’Erario all’avvocato della parte gratuitamente difesa».

5.3.– La questione non è fondata.

Va innanzitutto chiarito che, in ipotesi, la violazione dell’art. 76 Cost. ben potrebbe manifestarsi anche in riferimento a una norma ricavata dal diritto vivente, dal momento che sarebbe comunque addebitabile al legislatore delegato l’emanazione di una disposizione che, per il suo tenore, legittima un’interpretazione in contrasto con i principi e i criteri direttivi stabiliti dal legislatore delegante.

Tale ipotesi, tuttavia, non si verifica nel caso di specie, perché la norma censurata non determina il suddetto contrasto.

5.3.1.– Come si è chiarito, secondo la giurisprudenza di legittimità che si è consolidata dopo il 2018, il giudice civile non deve quantificare in misura uguale le somme dovute, ai sensi dell’art. 133, comma 1, del d.P.R. n. 115 del 2002, dal soccombente allo Stato e quelle dovute, ai sensi degli artt. 82, comma 1, e 130, comma 1, del medesimo d.P.R., dallo Stato stesso al difensore del non abbiente.

A tale interpretazione la Corte di cassazione civile è pervenuta, superando il precedente orientamento, per un triplice e convincente ordine di ragioni.

Innanzitutto, in quanto «[n]on si vede […] perché nel processo civile la parte che risulti soccombente nei confronti della parte non abbiente debba essere avvantaggiata (con evidente violazione del principio di uguaglianza) rispetto alle altre parti soccombenti» (Cass., n. 22017 del 2018; nello stesso senso, Cass., n. 29688 del 2019).

Inoltre, perché «il soccombente è tenuto per definizione a corrispondere l’importo liquidato dal giudice secondo tariffa, non l’importo che il vincitore deve al proprio difensore, che non costituisce, infatti, parametro per la liquidazione giudiziale» (Corte di cassazione, sezione sesta civile, sottosezione seconda, ordinanze 5 marzo 2020, n. 6120, e ancora n. 29688 del 2019).

Infine, perché «la valutazione d’eventuale effetto d’arricchimento dell’Erario non va effettuata in modo atomistico con riguardo alla singola lite, bensì va considerato come la questione – alla luce del parametro costituzionale portato [dall’]art. 81 Cost. – sia da esaminare avendo […] riguardo al pubblico servizio – difesa assicurata ai non abbienti – reso dallo Stato» (Corte di cassazione, sezione seconda civile, ordinanza 19 agosto 2019, n. 21484).

5.3.2.– Ricostruite in questi termini la ratio e la portata dell’art. 133, comma 1, del d.P.R. n. 115 del 2002, si deve escludere che, a differenza di quanto ritenuto dal giudice rimettente, nella norma sia ravvisabile una deviazione dalla natura propria dell’istituto del rimborso delle spese nel giudizio civile e, soprattutto, si deve parimenti escludere che tale norma abbia carattere realmente innovativo rispetto al quadro normativo previgente all’esercizio della delega.

L’art. 15-sexies, comma 2, lettera a), della legge 30 luglio 1990, n. 217 (Istituzione del patrocinio a spese dello Stato per i non abbienti) – come novellata dalla legge 29 marzo 2001, n. 134 (Modifiche alla legge 30 luglio 1990, n. 217, recante istituzione del patrocinio a spese dello Stato per i non abbienti), che ha esteso il patrocinio a spese dello Stato a tutti i giudizi civili, nonché a quelli amministrativi e agli affari di volontaria giurisdizione – disponeva, infatti, che l’ammissione a tale istituto facesse, tra l’altro, sorgere in capo allo Stato il diritto di «ripetizione degli onorari dalla parte contraria, condannata nelle spese».

Anche se il termine «ripetizione» poteva far ipotizzare che questa dovesse essere limitata a quanto in concreto sborsato dallo Stato, la disposizione in esame, tuttavia, non imponeva tale conclusione, poiché non prevedeva espressamente che il giudice fosse tenuto a quantificare tali onorari nella misura ridotta della metà dal successivo art. 15-quaterdecies, comma 1, della medesima legge n. 217 del 1990. Nemmeno l’art. 15-sexiesdecies, comma 1, obbligava a tale coincidenza tra la quantificazione in sede di condanna alle spese e la liquidazione a favore del difensore della parte ammessa al beneficio.

In assenza di una previsione letterale ostativa, l’interpretazione oggi seguita dal diritto vivente, e fondata prevalentemente su argomenti di tipo sistematico, che il rimettente evidentemente non condivide, ben avrebbe potuto svilupparsi anche in riferimento al quadro normativo precedente all’esercizio della delega (sul quale peraltro un diritto vivente non è maturato, data la breve vigenza delle suddette disposizioni).

Non erra il rimettente nel sostenere che «mai era stato previsto dalla legge che lo Stato potesse recuperare dalla parte soccombente importi maggiori rispetto a quelli anticipati per compensi all’avvocato del non abbiente»; l’argomento, tuttavia, non è dirimente: da un lato, infatti, non era espressamente previsto neppure il contrario e, dall’altro, nemmeno era necessaria una previsione espressa per giungere all’interpretazione negletta dal giudice a quo, potendo questa, nel silenzio delle disposizioni, essere ricavata anche allora in via sistematica, per mezzo della normale attività ermeneutica.

5.3.3.– In conclusione, sebbene la possibilità per il legislatore delegato di introdurre norme innovative della disciplina vigente fosse delimitata entro confini rigorosi, una volta escluso, in radice, il carattere effettivamente tale dell’art. 133, comma 1, del d.P.R. n. 115 del 2002, la censura del rimettente deve ritenersi non fondata.

6.– Le ulteriori questioni sollevate dal giudice a quo in riferimento agli artt. 3, 53 e 111, secondo comma, Cost. sono basate sulla comune premessa di un’asserita natura tributaria del «prelievo coattivo» che subirebbe il soccombente nel caso in cui la controparte vittoriosa sia stata ammessa al patrocinio gratuito.

Tale assunto non può essere condiviso.

La regolamentazione delle spese processuali nel giudizio civile attiene alla regola generale victus victori stabilita dall’art. 91, primo comma, cod. proc. civ., secondo cui «[i]l giudice, con la sentenza che chiude il processo davanti a lui, condanna la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell’altra parte e ne liquida l’ammontare insieme con gli onorari di difesa» (sentenza n. 77 del 2018). L’istituto risponde quindi alla logica per cui l’alea del processo «grava sulla parte soccombente perché è quella che ha dato causa alla lite non riconoscendo, o contrastando, il diritto della parte vittoriosa ovvero azionando una pretesa rivelatasi insussistente» (ancora sentenza n. 77 del 2018); le spese di lite, dunque, devono essere sopportate da chi ha reso necessaria l’attività del giudice.

Nel caso particolare in cui la parte vittoriosa è stata ammessa al patrocinio a spese dello Stato, la regolamentazione delle spese di lite attiene quindi a un «rapport[o] distinto[o] e autonom[o]» (sentenza n. 109 del 2022) da quello che sorge per effetto dell’ammissione stessa; quest’ultimo, a cui le parti del giudizio rimangono totalmente estranee, si instaura direttamente tra il difensore del beneficiario del patrocinio e lo Stato, mentre il primo si instaura inter partes, tra soccombente e vincitore, con il giudice che applica gli ordinari criteri di liquidazione delle spese, senza che il medesimo soccombente subisca, a differenza di quanto sostiene il rimettente, alcuna ulteriore effettiva decurtazione.

L’istituto della rifusione delle spese è, pertanto, concettualmente estraneo alla logica propria dell’obbligazione tributaria, che implica, invece, una «effettiva decurtazione patrimoniale» attraverso un «prelievo coattivo, finalizzato al concorso alle pubbliche spese e posto a carico di un soggetto passivo in base ad uno specifico indice di capacità contributiva» (ex plurimus, sentenza n. 128 del 2022).

6.1.– La tesi del rimettente si fonda, pertanto, su un errore di prospettiva che, peraltro, condurrebbe a garantire un ingiustificato vantaggio patrimoniale alla parte soccombente solo perché la controparte rientra fra gli indigenti e lo Stato si fa carico, anche attraverso la fiscalità generale, dell’onere del loro patrocinio, attuando così gli artt. 3, secondo comma, e 24, terzo comma, Cost. (ex plurimis, sentenze n. 10 del 2022 e n. 157 del 2021), secondo un criterio di sostenibilità (sentenza n. 35 del 2019) che prevede, al fine di contenere la spesa pubblica, un abbattimento dei compensi per le relative prestazioni professionali.

Infine, va anche considerato che questa Corte ha già escluso, anche con riguardo al rapporto che lo Stato instaura con il difensore, che le «manovre legislative» che prevedono l’abbattimento del compenso professionale abbiano attinenza con gli obblighi tributari, trattandosi più semplicemente di una modalità, parzialmente diversa, di determinazione dei compensi medesimi, in funzione di prestazioni di facere (sentenza n. 192 del 2015).

Sicché, a seguire la indebita commistione dei rapporti che vengono in rilievo, insita nella prospettazione del rimettente, si giungerebbe al paradosso che, mentre l’abbattimento della metà del compenso prevista dall’art. 130, comma 1, del d.P.R. n. 115 del 2002 non costituisce un prelievo tributario nei confronti del difensore della parte non abbiente che la subisce, diverrebbe invece tale per la controparte soccombente che viene, invece, condannata secondo gli ordinari criteri di liquidazione delle spese e non subisce alcuna reale decurtazione.

6.1.1.– Dalla confutazione del presupposto su cui si basano le questioni sollevate in riferimento agli artt. 3, 53 e 111, secondo comma, Cost. discende la non fondatezza delle stesse.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 133, comma 1, del decreto legislativo 30 maggio 2002, n. 113, recante «Testo unico delle disposizioni legislative in materia di spese di giustizia. (Testo B)», trasfuso nell’art. 133, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia. (Testo A)», sollevata, in riferimento all’art. 23 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Cagliari, in funzione di giudice del lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe;

2) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 133, comma 1, del d.lgs. n. 113 del 2002, trasfuso nell’art. 133, comma 1, del d.P.R. n. 115 del 2002, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 53, 76 e 111, secondo comma, Cost., dal Tribunale ordinario di Cagliari, in funzione di giudice del lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 marzo 2024.

F.to:

Augusto Antonio BARBERA, Presidente

Luca ANTONINI, Redattore

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

Depositata in Cancelleria il 19 aprile 2024