SENTENZA N. 25
ANNO 2022
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Giancarlo CORAGGIO;
Giudici : Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 9, comma 2, e 12-bis, comma 1, della legge 1° dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio) e dell’art. 5 della legge 28 dicembre 2005, n. 263 (Interventi correttivi alle modifiche in materia processuale civile introdotte con il decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, nonché ulteriori modifiche al codice di procedura civile e alle relative disposizioni di attuazione, al regolamento di cui al regio decreto 17 agosto 1907, n. 642, al codice civile, alla legge 21 gennaio 1994, n. 53, e disposizioni in tema di diritto alla pensione di reversibilità del coniuge divorziato), promosso dalla Corte d’appello di Salerno, sezione civile, nel procedimento fra T. F. e la Fondazione Enasarco e altri, con ordinanza del 20 ottobre 2020, iscritta al n. 44 del registro ordinanze 2021 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 15, prima serie speciale, dell’anno 2021.
Visti l’atto di costituzione dell’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udita nell’udienza pubblica del 30 novembre 2021 la Giudice relatrice Emanuela Navarretta;
uditi l’avvocata Antonella Patteri per l’INPS e l’avvocato dello Stato Maurizio Greco per il Presidente del Consiglio dei ministri;
deliberato nella camera di consiglio del 30 novembre 2021.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 20 ottobre 2020, iscritta al registro ordinanze n. 44 del 2021, la Corte d’appello di Salerno, sezione civile, ha sollevato, in riferimento agli artt. 2 e 3 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 9 (recte: art. 9, comma 2) e 12-bis (recte: art. 12-bis, comma 1) della legge 1° dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio) e dell’art. 5 della legge 28 dicembre 2005, n. 263 (Interventi correttivi alle modifiche in materia processuale civile introdotte con il decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, nonché ulteriori modifiche al codice di procedura civile e alle relative disposizioni di attuazione, al regolamento di cui al regio decreto17 agosto 1907, n. 642, al codice civile, alla legge 21 gennaio 1994, n. 53, e disposizioni in tema di diritto alla pensione di reversibilità del coniuge divorziato), nella parte in cui non prevedono, ai fini della corresponsione della pensione di reversibilità e di una quota dell’indennità di fine rapporto, che il requisito della titolarità dell’assegno divorzile, in caso di morte dell’obbligato intervenuta successivamente a una sentenza parziale di divorzio, ma prima della definitiva determinazione dell’assegno, sussista anche in presenza di provvedimenti provvisori presidenziali che riconoscano provvidenze economiche all’ex coniuge.
2.– In punto di fatto, il rimettente riferisce che T. F. aveva percepito, durante gli anni in cui si era svolta la causa di divorzio, sino alla data del decesso dell’ex coniuge, l’assegno disposto in via provvisoria dal Presidente del Tribunale ordinario di Salerno.
Di seguito, con la morte dell’ex coniuge, il processo di divorzio si era concluso con una sentenza di cessazione della materia del contendere, pronunciata dopo il passaggio in giudicato della sentenza parziale, che aveva già deciso lo scioglimento del rapporto matrimoniale incidendo sullo status coniugale.
2.1.– Secondo quanto espone il rimettente, l’ex coniuge superstite, non avendo impugnato la sentenza di cessazione della materia del contendere, che pertanto era passata in giudicato, presentava, il 12 luglio 2019, ricorso al Tribunale per ottenere la determinazione della quota di pensione di reversibilità nonché della quota di trattamento di fine rapporto di sua spettanza. Il Tribunale rigettava entrambe le richieste, motivando il relativo decreto del 18 febbraio 2020 con la non titolarità, in capo alla ricorrente, dell’assegno di divorzio.
2.2.– Il giudice a quo prosegue nell’esporre che T. F. aveva proposto reclamo avverso il citato provvedimento, motivando la sua mancata impugnazione della sentenza di cessazione della materia del contendere con la seguente argomentazione: «per costante giurisprudenza di legittimità, la morte di uno dei coniugi in pendenza del giudizio di separazione o divorzio comporta la declaratoria di cessazione della materia del contendere e […], pertanto, ella non poteva [id est: la reclamante non aveva potuto] impugnare la conforme sentenza emessa dal Tribunale, impedendo che la stessa divenisse irrevocabile».
Il rimettente puntualizza, di seguito, che T. F., sul presupposto dell’assegno di divorzio percepito in virtù di «provvedimenti provvisori» in vigore sino alla scomparsa dell’ex coniuge, «invocava, in caso di rigetto della sua domanda, la violazione dei principi costituzionali relativi al divieto di disparità di trattamento».
3.– Così riferite le premesse in fatto, il giudice a quo passa ad illustrare il quadro normativo che regola la corresponsione della pensione di reversibilità e dell’indennità di fine rapporto, nonché i principali sviluppi giurisprudenziali che hanno interessato la materia.
3.1.– Il rimettente ricorda che, a norma dell’art. 9, comma 2, della legge n. 898 del 1970, «[i]n caso di morte dell’ex coniuge e in assenza di un coniuge superstite avente i requisiti per la pensione di reversibilità, il coniuge rispetto al quale è stata pronunciata sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio ha diritto, se non passato a nuove nozze e sempre che sia titolare di assegno ai sensi dell’articolo 5, alla pensione di reversibilità, sempre che il rapporto da cui trae origine il trattamento pensionistico sia anteriore alla sentenza».
Precisa, inoltre, che la citata disposizione è stata successivamente oggetto di una interpretazione autentica a opera dell’art. 5 della legge n. 263 del 2005, il quale specifica che «per titolarità dell’assegno ai sensi dell’articolo 5 deve intendersi l’avvenuto riconoscimento dell’assegno medesimo da parte del tribunale ai sensi del predetto articolo 5 della citata legge n. 898 del 1970».
Infine, rileva che, sebbene testualmente riferita al solo art. 9 della legge n. 898 del 1970, l’interpretazione autentica sarebbe applicabile anche all’art. 12-bis, «posto che esso richiede, ai fini del riconoscimento del TFR, il medesimo requisito della titolarità dell’assegno di divorzio».
3.2.– Il giudice a quo precisa che l’interpretazione autentica aveva composto una divergenza ermeneutica che era sorta nella giurisprudenza in ordine ai presupposti indicati dall’art. 9, comma 2, della legge n. 898 del 1970.
Secondo una prima tesi doveva ritenersi indispensabile la concreta previsione in via giudiziale dell’assegno (sono richiamate le sentenze della Corte di cassazione: sezione prima civile, 10 ottobre 2003, n. 15148; sezioni unite civili, 12 gennaio 1998, n. 159; sezione prima civile, 8 gennaio 1997, n. 75; sezione lavoro, 26 luglio 1993, n. 8335), mentre, secondo una diversa ricostruzione (difesa sin dalla sentenza della Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 10 settembre 1990, n. 9309), poteva considerarsi sufficiente l’esistenza, in astratto, dei presupposti per l’attribuzione dell’assegno, «diritto accertabile incidenter tantum anche da parte del giudice delle pensioni» (viene richiamata Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 17 gennaio 2000, n. 457).
3.3.– Da ultimo, il rimettente puntualizza che, a seguito dell’intervento legislativo di interpretazione autentica, la giurisprudenza ha ulteriormente precisato che «l’assegno deve essere giudizialmente riconosciuto in modo formale e definitivo, (salva ogni impugnabilità o successiva possibilità di revisione), non essendo utili, ai fini in oggetto, determinazioni provvisorie in attesa della decisione» (è richiamata sul punto la sentenza della Corte di cassazione, sezione prima civile, 11 aprile 2011, n. 8228). La legge, dunque, non consentirebbe «di ritenere sufficiente il provvedimento provvisorio di riconoscimento dell’assegno divorzile concesso dal Presidente del Tribunale in sede di comparizione delle parti» (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 20 febbraio 2018, n. 4107).
3.4.– Il rimettente giunge, pertanto, alla seguente conclusione.
Ove vi sia stata, come nel caso da cui origina il giudizio a quo, una sentenza parziale di divorzio, mentre «la decisione, sia sull’an, che sul quantum dell’assegno, sia stata rinviata alla fase successiva», «l’accertamento giudiziale non potrà compiersi dopo il decesso dell’obbligato, vigendo l’opposto principio della cessazione della materia del contendere con riferimento al rapporto di coniugio ed a tutti i profili economici connessi».
Pertanto, poiché alla parte reclamante residuava «il solo riconoscimento dell’assegno divorzile contenuto nell’ordinanza emessa dal Presidente del Tribunale ex art. 4, comma 8, legge n. 898/1970», ma tale provvedimento, in virtù del quadro normativo e giurisprudenziale esposto, non avrebbe alcuna valenza ai fini della corresponsione dei benefici economici oggetto del contendere, emergerebbe un vulnus costituzionale, in riferimento agli artt. 2 e 3 Cost.
4.– Passando, dunque, a motivare la non manifesta infondatezza della questione sollevata, il rimettente premette che il trattamento pensionistico di cui all’art. 9, comma 2, della legge n. 898 del 1970 non avrebbe natura meramente previdenziale, bensì assolverebbe «la precipua funzione di assicurare all’ex coniuge la continuità del sostegno economico in precedenza garantitogli mediante il pagamento dell’assegno di divorzio» (è richiamata, in proposito, la sentenza di questa Corte n. 419 del 1999).
Il giudice a quo colloca, dunque, tale trattamento nel quadro di un sistema, disegnato dal legislatore, che sarebbe vòlto a tutelare diritti fondamentali «nel modo più completo, per proteggere parti giudizialmente ritenute economicamente deboli e perciò vulnerabili».
In particolare, secondo il rimettente, la tutela del coniuge economicamente più debole sarebbe affidata, sino alla sentenza di divorzio, al sostegno economico nell’ambito del rapporto di coniugio, nonché al riconoscimento della pensione di reversibilità e dell’indennità di fine rapporto. Successivamente, non sarebbe più il rapporto di coniugio a garantire protezione, ma opererebbero le norme divorzili «che equiparano coniuge ed ex coniuge ai fini della reversibilità e garantiscono una quota dell’indennità di fine rapporto».
4.1.– Ciò premesso, il rimettente solleva, in riferimento agli artt. 2 e 3 Cost., questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 2, della legge n. 898 del 1970 e dell’art. 5 della legge n. 263 del 2005, sulla base delle seguenti argomentazioni.
4.1.1.– Ritiene, innanzitutto, che il citato art. 9, comma 2, per come interpretato dalla disposizione di interpretazione autentica, anch’essa censurata, contrasti con l’art. 2 Cost. «nella misura in cui subordina la […] funzione solidaristica della pensione di reversibilità alla sussistenza di presupposti meramente formali».
4.1.2.– Individua, inoltre, «un vulnus, verosimilmente non considerato dal Legislatore, anche in ragione del fatto che sono successivamente intervenute modifiche in tema di sentenza non definitiva di divorzio, che riguarda la posizione di chi non è più coniuge, perché già divorziato, ma non ha ancora visti regolamentati i suoi diritti definitivi in tema di assegno divorzile». In particolare, il giudice a quo sostiene che, per chi versi nella situazione della parte reclamante nel giudizio principale (ossia l’essere già divorziato, ma non ancora titolare di assegno di divorzio), vi sarebbe «una disparità di trattamento sia con chi abbia già ottenuto un divorzio, sia con chi non l’abbia ottenuto».
4.1.3.– Parimenti, ravvisa una disparità di trattamento tra chi abbia già conseguito «una sentenza non passata in giudicato e, quindi, suscettibile di essere travolta e chi abbia ottenuto un mero provvedimento presidenziale». Il rimettente precisa che tale disparità sarebbe «processualmente giustificabile», stante la differenza tra provvedimento provvisorio e sentenza, ma sarebbe comunque «fonte di ingiustizie sostanziali», ove si applicasse a casi, quale quello di cui si controverte nel giudizio principale, ove la parte «aveva goduto dell’assegno, non solo durante il periodo di separazione, ma anche per quattro anni nel giudizio divorzile».
Pertanto, il rimettente sostiene che la medesima norma precluderebbe irragionevolmente «al destinatario di un assegno divorzile provvisorio l’accesso alla tutela pensionistica ex art. 9 comma 2, sebbene anch’egli [fosse] beneficiario di una forma di contribuzione economica al pari dell’ex coniuge cui l’assegno sia stato riconosciuto con sentenza».
4.2.– Infine, il giudice a quo ritiene che analoghe censure di legittimità costituzionale vadano riferite all’art. 12-bis, comma 1, della stessa legge n. 898 del 1970 che, al pari dell’indicato art. 9, comma 2, presuppone il requisito della titolarità dell’assegno di divorzio ai fini della corresponsione del trattamento di fine rapporto in favore dell’ex coniuge.
5.– Con atto depositato il 4 maggio 2021, è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, eccependo l’inammissibilità e la non fondatezza delle questioni.
5.1.– Ad avviso della difesa erariale, le questioni sarebbero inammissibili per difetto di rilevanza e per errata individuazione delle norme da applicare ai fini della definizione del giudizio principale.
5.1.1.– Quanto ai profili attinenti alla rilevanza, l’Avvocatura osserva che la «condizione giuridica della reclamante» nel giudizio principale «deriva […] dalla decisione del tribunale di dichiarare estinto il giudizio di divorzio per cessazione della materia del contendere a seguito della morte dell’ex coniuge potenzialmente obbligato a versare l’assegno, statuizione che ha precluso la riassunzione del giudizio nei confronti degli eredi del de cuius, sia pure limitatamente alle domande relative ai diritti patrimoniali». La difesa erariale osserva che il rimettente «omette di analizzare il fatto che la normativa vigente e in particolare le norme censurate non precludono la possibilità di conseguire, anche in caso di morte dell’ex coniuge durante il giudizio, l’accertamento con sentenza del diritto all’assegno di divorzio».
L’interveniente ritiene, pertanto, che il denunciato «“vulnus” nel sistema» non deriverebbe dall’applicazione delle norme censurate. Se, infatti, tale vulnus viene identificato con riferimento alla posizione di coloro che ottengono una sentenza non definitiva di divorzio, «ma non riescono ad ottenere, per causa non imputabile, la pronuncia definitiva sugli aspetti patrimoniali», il mancato conseguimento della statuizione definitiva sull’assegno non deriverebbe, ad avviso della difesa erariale, dalle norme della cui legittimità costituzionale si dubita.
5.1.2.– Quanto alle censure formulate in riferimento alla violazione dell’art. 3 Cost., sotto il profilo dell’asserita sussistenza di una «irragionevole disparità di trattamento tra chi ha ottenuto il divorzio e l’accertamento del diritto di percepire un contributo economico dall’ex coniuge con sentenza definitiva e chi, sia pure titolare di assegno in forza di provvedimento provvisorio, non ha conseguito questa decisione a causa della premorte dell’ex coniuge», la censura non sarebbe «correttamente formulata» e sarebbe pertanto inammissibile: mancherebbe, infatti, l’individuazione della ratio che sta alla base delle norme censurate, «alla luce della differente situazione giuridica di chi è destinatario di una statuizione provvisoria emessa a seguito di cognizione sommaria e di chi, invece, ottiene l’accertamento del diritto all’assegno con statuizione a seguito di giudizio di cognizione piena».
5.1.3.– In aggiunta, l’Avvocatura contesta l’ammissibilità delle questioni, sul presupposto che il giudice rimettente non avrebbe tentato un’interpretazione costituzionalmente orientata delle disposizioni censurate (sono richiamate la sentenza di questa Corte n. 255 del 2017 e le ordinanze n. 212, n. 101 e n. 15 del 2011 e n. 322 del 2010), il che dovrebbe prescindere «dalla correttezza o meno dell’interpretazione» prospettata, profilo che invece atterrebbe al merito.
5.2.– Di seguito, l’interveniente sviluppa molteplici argomentazioni che deporrebbero per la non fondatezza delle questioni sollevate.
5.2.1.– Innanzitutto, ritiene non fondata la censura secondo cui, stante la funzione solidaristica dei diritti alla pensione di reversibilità e alla quota di indennità di fine rapporto, sarebbe violato l’art. 2 Cost., in quanto le norme che regolano tali diritti subordinerebbero il loro riconoscimento a un dato meramente formale.
Ad avviso dell’Avvocatura, il dato sarebbe tutt’altro che formale, poiché consisterebbe nella necessità di ricollegare i trattamenti patrimoniali in questione alla sussistenza, accertata giudizialmente, di tutte le condizioni indicate dall’art. 5, sesto comma, della legge n. 898 del 1970. La difesa erariale osserva che tale disposizione «è chiara nel vincolare la corresponsione dell’assegno divorzile al requisito che l’ex coniuge non abbia mezzi adeguati e non possa procurarseli per ragioni oggettive e tenuto conto “delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio”». Per tali ragioni, la difesa erariale ritiene che il vincolo solidaristico cui è tenuto l’ex coniuge obbligato presupponga di necessità l’avvenuta verifica giudiziale sia dell’inadeguatezza dei mezzi dell’ex coniuge beneficiario, sia della conseguenza della sperequazione reddituale dalle scelte comuni di vita degli ex coniugi, per effetto delle quali un coniuge abbia sacrificato le proprie aspettative professionali e reddituali a beneficio della conduzione familiare (viene richiamata, in proposito, Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 17 aprile 2019, n. 10782).
5.2.2.– Per la medesima ragione, l’Avvocatura contesta che possa ritenersi irragionevole il diverso trattamento di chi, dopo lo scioglimento del matrimonio, abbia potuto ottenere, prima che l’ex coniuge morisse, solo un provvedimento provvisorio di riconoscimento dell’assegno di divorzio, rispetto a chi sia riuscito a conseguire per tempo la sentenza che decide a riguardo. «La differenza tra sentenza e ordinanza provvisoria non è meramente formale ma deve essere messa in rapporto con la situazione che forma oggetto di tali provvedimenti, che solo nel caso di sentenza viene compiutamente verificata». Ed è per questo che la giurisprudenza escluderebbe l’equivalenza fra provvedimento presidenziale provvisorio e sentenza ai fini del riconoscimento della titolarità dell’assegno (sono richiamate le sentenze della Corte di cassazione, sezione prima civile, 11 aprile 2011, n. 8228; 9 giugno 2010, n. 13899 e 8 luglio 2005, n. 14381).
La difesa erariale osserva, inoltre, che, ove la questione venisse accolta, si creerebbe il paradossale esito per cui «all’ex coniuge di un soggetto in vita potrebbe essere corrisposto un assegno divorzile solo all’esito dell’attività istruttoria, mentre all’ex coniuge di un soggetto premorto alla conclusione del giudizio relativo agli aspetti patrimoniali del divorzio verrebbe attribuito un trattamento pensionistico e di fine rapporto prescindendo completamente da una tale attività», facendo così dipendere l’approfondimento e le condizioni dell’accertamento da un fatto puramente casuale, qual è la morte di uno dei coniugi.
Di seguito, l’Avvocatura ribadisce che l’ordinamento fornirebbe gli strumenti adeguati per dare all’ex coniuge una piena tutela in caso di premorte, riassumendo la causa dichiarata estinta nei confronti degli eredi del de cuius, e coltivando in quella sede le relative pretese patrimoniali (sono richiamate le sentenze della Corte di cassazione, sezione prima civile, 3 agosto 2007, n. 17041 e 2 settembre 1997, n. 8381).
5.2.3.– Anche in merito allo specifico profilo della violazione del principio di eguaglianza per l’irragionevole distinzione che le norme censurate creerebbero tra chi riceve un emolumento mensile sulla base di un’ordinanza presidenziale provvisoria e chi è invece titolare di un assegno di divorzio in forza di una sentenza non ancora passata in giudicato, e quindi parimenti suscettibile di essere caducata, la difesa erariale ritiene che la questione non sia fondata, in quanto la sentenza sarebbe comunque «un provvedimento tendenzialmente definitivo», suscettibile di acquisire la stabilità del giudicato ove non impugnata.
6.– Con atto depositato il 4 maggio 2021, si è costituito in giudizio l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), parte del giudizio principale, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.
La parte deduce che la verifica della condizione di effettiva titolarità dell’assegno, riconosciuta giudizialmente con provvedimento non provvisorio, risponderebbe alla «generale esigenza di certezza dei rapporti giuridici, esigenza che diventa ancora più stringente quando si tratta di rapporti e diritti previdenziali». Nello specifico, la parte eccepisce che, poiché al provvedimento presidenziale provvisorio non seguirebbe necessariamente l’attribuzione piena del diritto all’assegno, posto che la statuizione provvisoria potrebbe essere sostituita da un provvedimento di opposto tenore, il requisito sarebbe funzionale all’interesse pubblico di verificare che le condizioni stabilite per l’accesso all’assegno siano state compiutamente valutate dal giudice. Ciò non sarebbe in contrasto con la funzione solidaristica della pensione di reversibilità e – anzi – proprio tale funzione imporrebbe che «le limitate risorse pubbliche non vengano distribuite senza l’attenta e scrupolosa verifica dei requisitivi costitutivi, per evitare che tali risorse vengano disperse».
7.– Nell’udienza del 30 novembre 2021 sono intervenute la difesa dell’INPS e l’Avvocatura generale dello Stato, che hanno insistito per le conclusioni rassegnate negli scritti difensivi.
Considerato in diritto
1.– Con ordinanza del 20 ottobre 2020, iscritta al registro ordinanze n. 44 del 2021, la Corte d’appello di Salerno, sezione civile, ha sollevato, in riferimento agli artt. 2 e 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 9 (recte: art. 9, comma 2) e 12-bis (recte: art. 12-bis, comma 1) della legge 1° dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio) e dell’art. 5 della legge 28 dicembre 2005, n. 263 (Interventi correttivi alle modifiche in materia processuale civile introdotte con il decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, nonché ulteriori modifiche al codice di procedura civile e alle relative disposizioni di attuazione, al regolamento di cui al regio decreto 17 agosto 1907, n. 642, al codice civile, alla legge 21 gennaio 1994, n. 53, e disposizioni in tema di diritto alla pensione di reversibilità del coniuge divorziato), nella parte in cui non prevedono, ai fini della corresponsione della pensione di reversibilità e di una quota dell’indennità di fine rapporto, che il requisito della titolarità dell’assegno divorzile, in caso di morte dell’obbligato intervenuta successivamente a una sentenza parziale di divorzio, ma prima della definitiva determinazione dell’assegno, sussista anche in presenza di provvedimenti provvisori presidenziali che riconoscano provvidenze economiche all’ex coniuge.
1.1.– L’art. 9, comma 2, della legge n. 898 del 1970 prevede che «[i]n caso di morte dell’ex coniuge e in assenza di un coniuge superstite avente i requisiti per la pensione di reversibilità, il coniuge rispetto al quale è stata pronunciata sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio ha diritto, se non passato a nuove nozze e sempre che sia titolare di assegno ai sensi dell’articolo 5, alla pensione di reversibilità, sempre che il rapporto da cui trae origine il trattamento pensionistico sia anteriore alla sentenza».
1.2.– L’art. 5 della legge n. 263 del 2005 reca un’interpretazione autentica dell’indicato art. 9, comma 2, specificando che tale disposizione debba interpretarsi «nel senso che per titolarità dell’assegno ai sensi dell’articolo 5 deve intendersi l’avvenuto riconoscimento dell’assegno medesimo da parte del tribunale ai sensi del predetto articolo 5 della citata legge n. 898 del 1970».
1.3.– Infine, l’art. 12-bis,comma 1, della medesima legge n. 898 del 1970 dispone che «[i]l coniuge nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio ha diritto, se non passato a nuove nozze e in quanto sia titolare di assegno ai sensi dell’articolo 5, ad una percentuale dell’indennità di fine rapporto percepita dall’altro coniuge all’atto della cessazione del rapporto di lavoro anche se l’indennità viene a maturare dopo la sentenza».
2.– In punto di fatto, il rimettente riferisce che T. F., in qualità di coniuge divorziato di A. C., aveva chiesto, con ricorso del 12 luglio 2019, la determinazione della quota di pensione di reversibilità nonché della quota di trattamento di fine rapporto di sua spettanza.
Tuttavia, secondo quanto riporta il rimettente, con decreto del 18 febbraio 2020, il Tribunale ordinario di Salerno aveva rigettato entrambe le richieste in ragione della non titolarità, in capo alla ricorrente, di un assegno di divorzio. La motivazione del rigetto risiedeva nella circostanza che «il divorzio era stato pronunciato con sentenza parziale, con riserva di esaminare nel prosieguo le questioni di carattere economico e il relativo giudizio si era però concluso, in conseguenza della morte in corso di causa, con una pronuncia di cessazione della materia del contendere, non impugnata e pertanto divenuta irrevocabile».
La Corte d’appello rimettente prosegue nell’esporre che T. F. aveva proposto reclamo, motivando la mancata impugnazione della sentenza di cessazione della materia del contendere con l’orientamento costante della giurisprudenza di legittimità vòlto a ravvisare, in caso di «morte di uno dei coniugi in pendenza del giudizio di separazione o divorzio[, la] cessazione della materia del contendere e che, pertanto, ella non poteva [id est: la parte reclamante non aveva potuto] impugnare la conforme sentenza emessa dal Tribunale, impedendo che la stessa divenisse irrevocabile».
Il giudice a quo conclude, pertanto, che T. F. faceva valere il suo diritto alla pensione di reversibilità e a una quota di indennità di fine rapporto, in ragione dell’assegno di divorzio percepito, sino alla scomparsa dell’ex coniuge, in virtù di «provvedimenti provvisori» del Presidente del Tribunale di Salerno e che «invocava, in caso di rigetto della sua domanda, la violazione dei principi costituzionali relativi al divieto di disparità di trattamento».
3.– Così riportate le premesse in fatto, il giudice rimettente ricostruisce il quadro normativo che impedirebbe di riconoscere alla reclamante nel giudizio principale il diritto alla pensione di reversibilità e alla quota di indennità di fine rapporto, in mancanza della sentenza che accerta il diritto all’assegno di divorzio ai sensi dell’art. 5 della legge n. 898 del 1970.
Tale presupposto difetterebbe, nel caso di specie, in presenza di un assegno riconosciuto in via meramente provvisoria con provvedimento del Presidente del tribunale, il che – secondo il rimettente – evidenzierebbe un vulnus costituzionale.
4.– In punto di non manifesta infondatezza, il giudice a quo ritiene che l’art. 9, comma 2, della legge n. 898 del 1970, per come interpretato alla luce dell’art. 5, della legge n. 263 del 2005, anch’esso censurato, contrasti con l’art. 2 Cost. «nella misura in cui subordina la […] funzione solidaristica della pensione di reversibilità alla sussistenza di presupposti meramente formali».
Ravvisa, inoltre, una violazione anche dell’art. 3 Cost., per irragionevole disparità di trattamento fra chi versi nella situazione della parte reclamante nel giudizio principale, ossia l’essere già divorziato, ma non ancora titolare di assegno di divorzio, e chi abbia «già ottenuto un[a sentenza di] divorzio» o, viceversa, «chi non l’abbia ottenut[a]» e goda ancora delle tutele coniugali.
In particolare, denuncia una disparità di trattamento tra chi abbia già conseguito «una sentenza [relativa all’assegno di divorzio] non passata in giudicato e, quindi, suscettibile di essere travolta e chi abbia ottenuto un mero provvedimento presidenziale» che abbia riconosciuto in via provvisoria un assegno. Il rimettente precisa che tale disparità sarebbe «processualmente giustificabile», stante la differenza tra provvedimento provvisorio e sentenza, ma sarebbe «fonte di ingiustizie sostanziali», ove si applicasse a casi, quale quello di cui si controverte nel giudizio principale, ove la parte «aveva goduto dell’assegno, non solo durante il periodo di separazione, ma anche per quattro anni nel giudizio divorzile».
Pertanto, sostiene che la medesima norma precluderebbe irragionevolmente «al destinatario di un assegno divorzile provvisorio l’accesso alla tutela pensionistica ex art. 9, comma 2, sebbene anch’egli [fosse] beneficiario di una forma di contribuzione economica al pari dell’ex coniuge cui l’assegno sia stato riconosciuto con sentenza».
Il giudice a quo appunta, infine, analoghe censure all’art. 12-bis, comma 1, della stessa legge n. 898 del 1970 che, al pari dell’art. 9, comma 2, prevede il requisito della titolarità dell’assegno di divorzio ai fini della corresponsione del trattamento di fine rapporto in favore dell’ex coniuge.
5.– Con atto depositato il 4 maggio 2021, è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, eccependo l’inammissibilità e la non fondatezza delle questioni.
5.1.– In rito, l’Avvocatura generale dello Stato ritiene le questioni di legittimità costituzionale in esame inammissibili «sia sotto il profilo della rilevanza che della esatta individuazione delle norme rilevanti per la soluzione della causa».
In particolare, la Corte d’appello rimettente ometterebbe «di analizzare il fatto che la normativa vigente e in particolare le norme censurate non precludono la possibilità di conseguire, anche in caso di morte dell’ex coniuge durante il giudizio, l’accertamento con sentenza del diritto all’assegno di divorzio».
Di conseguenza, la questione sarebbe irrilevante poiché, «pure essendo vero che il giudice deve applicare le norme censurate per statuire sulla domanda della reclamante, è pure vero che il mancato conseguimento della statuizione definitiva sull’assegno non deriva dalle norme della cui legittimità si dubita».
6.– In via preliminare, al fine di esaminare le eccezioni di inammissibilità, occorre rievocare il quadro normativo e giurisprudenziale, nel quale si colloca la vicenda oggetto del giudizio a quo.
6.1.– Secondo l’art. 9, comma 2, della legge n. 898 del 1970 (come modificato dall’art. 13 della legge 6 marzo 1987, n. 74, recante «Nuove norme sulla disciplina dei casi di scioglimento di matrimonio»), il diritto alla pensione di reversibilità scaturisce, insieme con altri presupposti, dalla titolarità del diritto all’assegno di divorzio. Quest’ultimo, a sua volta, è giustificato da ragioni assistenziali e compensativo-perequative, che coniugano, nei rapporti orizzontali, la solidarietà con l’esigenza di riequilibrare gli effetti delle scelte condivise nello svolgimento della vita coniugale. In virtù di tale presupposto, anche il diritto alla pensione di reversibilità rispecchia, sul piano assiologico, una funzione solidaristica (sentenze n. 419 del 1999, n. 286 del 1987 e n. 7 del 1980), che sottende, al contempo, istanze perequativo-compensative.
Analogamente, ai sensi dell’art. 12-bis, comma 1, della legge n. 898 del 1970 (introdotto con l’art. 16 della legge n. 74 del 1987), la pretesa di una quota dell’indennità di fine rapporto dipende, fra l’altro, dalla titolarità dell’assegno di cui all’art. 5 della legge n. 898 del 1970 ed è giustificata dalla prevalente funzione perequativo-compensativa.
I diritti alla pensione di reversibilità e ad una quota di indennità di fine rapporto svolgono, in sostanza, funzioni che, nei rapporti orizzontali tra ex coniugi, riflettono istanze di rilievo costituzionale, che attengono alla solidarietà e all’effettività del principio di eguaglianza.
6.2.– Deve, poi, precisarsi che tali diritti, pur traendo giustificazione e origine dai rapporti fra gli ex coniugi, producono effetti che si riverberano anche nei confronti di terzi.
Al fine, dunque, di evitare che, nell’ambito di processi relativi a pretese previdenziali, coinvolgenti gli enti obbligati a tali prestazioni, possano porsi, tramite accertamenti incidenter tantum, questioni inerenti alla spettanza in astratto del diritto all’assegno di divorzio, l’art. 5 della legge n. 263 del 2005, disposizione di interpretazione autentica, ha previsto che «per titolarità dell’assegno […] deve intendersi l’avvenuto riconoscimento dell’assegno medesimo da parte del tribunale ai sensi del[l’] art. 5 della […] legge n. 898 del 1970». Resta salva l’equiparazione al provvedimento giudiziale della convenzione di negoziazione assistita, ai sensi dell’art. 6, comma 3, del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 132 (Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell’arretrato in materia di processo civile), convertito, con modificazioni, nella legge 10 novembre 2014, n. 162.
In particolare, l’esclusione dell’accertamento incidenter tantum si è posta in linea di continuità con la scelta effettuata dalla legge n. 74 del 1987 di rendere automatico il riconoscimento del diritto di cui all’art. 9, comma 2, della legge n. 898 del 1970 (nonché di aggiungere la previsione di cui all’art. 12-bis). La novella del 1987 ha, infatti, disegnato con l’art. 9, comma 2, «un nuovo istituto […], che il legislatore ha prescelto allo scopo di eliminare le occasioni di litigiosità di cui la norma abrogata si era dimostrata gravida» (sentenza n. 777 del 1988).
6.3.– Escluso, dunque, dal legislatore l’accertamento incidenter tantum, si pone il problema delle ipotesi in cui l’ex coniuge muoia in pendenza del giudizio che deve ancora definire il diritto all’assegno di divorzio.
In tali casi, la prosecuzione del processo serve a far valere il diritto alle prestazioni inerenti all’assegno di divorzio, che sono in concreto maturate dall’ex coniuge sopravvissuto nei confronti dell’altro ex coniuge, nel periodo che intercorre fra la sentenza parziale di divorzio e la morte di quest’ultimo, prestazioni patrimoniali trasmissibili iure hereditario. Al contempo, l’accertamento del diritto all’assegno, nell’ambito di un giudizio in via principale e a cognizione piena, consente, facendo applicazione dei criteri fissati dall’art. 5 della legge n. 898 del 1970, di dare fondamento ai diritti alla pensione di reversibilità e a una quota dell’indennità di fine rapporto.
Senza la prosecuzione del processo, resterebbe la sola sentenza parziale di divorzio, passata in giudicato, che, per un verso, scioglie il vincolo matrimoniale, non offrendo le garanzie che spetterebbero all’ex coniuge in conseguenza del divorzio, e, per un altro verso, essendo la modificazione dello status correlata al divorzio antecedente alla morte, priva l’ex coniuge delle tutele che, viceversa, avrebbe se lo scioglimento fosse stato causato dal decesso.
6.4.– Orbene, in merito alla prosecuzione del processo di divorzio, nelle ipotesi sopra richiamate, si registra un contrasto nella giurisprudenza della Corte di cassazione.
Secondo una prima ricostruzione, il procedimento di divorzio deve poter proseguire, permanendo l’interesse dell’altra parte alla pronuncia (così Corte di cassazione, sezione sesta civile, sentenza 24 luglio 2014, n. 16951; sezione sesta civile, ordinanza 11 aprile 2013, n. 8874; sezione prima civile, sentenza 3 agosto 2007, n. 17041).
Secondo una diversa impostazione, la morte di una delle parti del processo determinerebbe la cessazione della materia del contendere in ordine alle domande accessorie ancora sub iudice, anche ove avvenisse dopo l’eventuale sentenza parziale di scioglimento per divorzio dello status coniugale, a nulla rilevando il suo passaggio in giudicato (in questo senso Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 20 febbraio 2018, n. 4092; sezione sesta civile, ordinanza 8 novembre 2017, n. 26489; sezione prima civile, sentenza 26 luglio 2013, n. 18130).
Da ultimo, i divergenti indirizzi giurisprudenziali hanno indotto la prima sezione della Corte di cassazione, con l’ordinanza interlocutoria 29 ottobre 2021, n. 30750, a inviare gli atti al primo presidente perché valuti l’opportunità di rimettere l’esame della questione alle Sezioni unite civili. In particolare, l’ordinanza richiama l’attenzione sul contrasto giurisprudenziale relativo alle «sorti del giudizio di separazione o divorzio quando intervenga, nel corso del loro svolgimento (come nel caso in esame), la morte di una parte e se, dunque, un evento simile determini la cessazione della materia del contendere, sia con riferimento al rapporto di coniugio, sia a tutti i profili economici connessi e, per quel che rileva in questa sede, in presenza del passaggio in giudicato della sentenza non definitiva che ha pronunciato lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, riguardo alla determinazione della quota della pensione di reversibilità in astratto spettante al coniuge divorziato e al coniuge superstite».
6.5.– Tanto premesso, questa Corte non può esimersi dal sottolineare che dalla soluzione del citato contrasto interpretativo dipendono tutele sostanziali, che – come sopra evidenziato – riflettono, nei rapporti orizzontali fra ex coniugi, istanze di rango costituzionale.
7.– Al contempo, proprio alla luce del descritto quadro normativo e giurisprudenziale, le eccezioni di inammissibilità sollevate dall’Avvocatura generale dello Stato risultano fondate.
Il rimettente, a fronte della richiesta applicazione di norme che presuppongono l’avvenuto accertamento del diritto all’assegno di divorzio, afferma lapidariamente che «l’accertamento giudiziale [di tale diritto] non [poteva] compiersi dopo il decesso dell’obbligato, vigendo [il] principio della cessazione della materia del contendere con riferimento al rapporto di coniugio ed a tutti i profili economici connessi».
Per converso, il quadro normativo e giurisprudenziale, sopra riportato, dimostra che non sussiste – e non sussisteva neppure prima dell’ordinanza interlocutoria n. 30750 del 2021 – il citato principio, bensì un contrasto interpretativo, di cui il rimettente avrebbe dovuto dare conto.
A fronte di tale contrasto, il giudice a quo, senza adeguatamente confrontarsi con la giurisprudenza sul punto, ha assunto che la parte reclamante non avrebbe potuto impugnare la sentenza di cessazione della materia del contendere, relativa al giudizio avente ad oggetto l’accertamento del presupposto costitutivo dei diritti previsti dalle norme censurate.
Il rimettente non dà, pertanto, una spiegazione adeguata del perché debba applicare tali norme. Non fornisce, cioè, una congrua motivazione sulla rilevanza delle questioni sollevate in merito a disposizioni, che in tanto si trova ad applicare, dubitando della loro legittimità costituzionale, in quanto cerca di ovviare alla pregressa scelta di fatto della parte reclamante di non impugnare, nel precedente giudizio di divorzio, la sentenza di cessazione della materia del contendere.
Per costante orientamento di questa Corte, ove l’ordinanza di rimessione risulti «carente […] nella motivazione sulla rilevanza» e impedisca di procedere allo «scrutinio in ordine alla sussistenza del necessario nesso di pregiudizialità tra la questione proposta e la definizione del giudizio principale», si deve ritenere «inammissibile la questione medesima (ordinanza n. 314 del 2012)» (sentenza n. 50 del 2014).
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 9, comma 2, e 12-bis, comma 1, della legge 1° dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio) e dell’art. 5 della legge 28 dicembre 2005, n. 263 (Interventi correttivi alle modifiche in materia processuale civile introdotte con il decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, nonché ulteriori modifiche al codice di procedura civile e alle relative disposizioni di attuazione, al regolamento di cui al regio decreto 17 agosto 1907, n. 642, al codice civile, alla legge 21 gennaio 1994, n. 53, e disposizioni in tema di diritto alla pensione di reversibilità del coniuge divorziato), sollevate, in riferimento agli artt. 2 e 3 della Costituzione, dalla Corte d’appello di Salerno, sezione civile, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 30 novembre 2021.
F.to:
Giancarlo CORAGGIO, Presidente
Emanuela NAVARRETTA, Redattrice
Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria
Depositata in Cancelleria il 28 gennaio 2022.