SENTENZA N. 146
ANNO 2020
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Marta CARTABIA;
Giudici: Aldo CAROSI, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, lettera a), numero 1, del decreto legislativo 15 settembre 2017, n. 147 (Disposizioni per l’introduzione di una misura nazionale di contrasto alla povertà), promosso dal Tribunale ordinario di Bergamo, sezione lavoro, nel procedimento vertente tra J.C.C. e il Comune di Bergamo e altro, con ordinanza del 1° agosto 2019, iscritta al n. 244 del registro ordinanze 2019 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 3, prima serie speciale, dell’anno 2020.
Visti gli atti di costituzione di J.C.C. e dell’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito il Giudice relatore Daria de Pretis ai sensi del decreto della Presidente della Corte del 20 aprile 2020, punto 1), lettere a) e c), in collegamento da remoto, senza discussione orale, in data 10 giugno 2020;
deliberato nella camera di consiglio del 19 giugno 2020.
1.– Il Tribunale ordinario di Bergamo, sezione lavoro, solleva questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, lettera a), numero 1), del decreto legislativo 15 settembre 2017, n. 147 (Disposizioni per l’introduzione di una misura nazionale di contrasto alla povertà), che, fra i diversi requisiti necessari per l’ottenimento del reddito di inclusione (da ora, anche: ReI), richiede agli stranieri il «possesso del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo», in riferimento agli artt. 2, 3, 31, 38, 117 della Costituzione, nonché in relazione all’art. 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, e agli artt. 20, 21, 33 e 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007.
Il giudizio a quo è stato promosso da J.C.C., cittadina boliviana, con ricorso proposto ai sensi dell’art. 28 del decreto legislativo 1 settembre 2011, n. 150 (Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell’articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69), contro il Comune di Bergamo e l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS).
La ricorrente, soggiornante in Italia dal 2010, il 6 marzo 2018 aveva presentato al Comune domanda finalizzata ad ottenere il reddito di inclusione. Tale domanda è stata respinta dal Comune, per mancato uso delle modalità telematiche e per il mancato possesso del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo. La ricorrente riferiva di essere in possesso di tutti i requisiti previsti dal d.lgs. n. 147 del 2017 per beneficiare del reddito di inclusione, ad eccezione del permesso di soggiorno di lungo periodo, ed eccepiva in giudizio l’illegittimità costituzionale in parte qua dell’art. 3 del d.lgs. n. 147 del 2017.
Il rimettente argomenta l’ammissibilità dell’azione proposta, osservando che si tratta di azione contro la discriminazione e non di azione in materia previdenziale: la domanda della ricorrente «ha ad oggetto l’accertamento della discriminazione, la sua cessazione, la rimozione degli effetti e, quale conseguenza di ciò, l’erogazione della prestazione, […] per cui correttamente è stato attivato il procedimento» di cui all’art. 28 del d.lgs. n. 150 del 2011. Non osterebbe, poi, all’ammissibilità il fatto che il Comune abbia applicato una norma legislativa «in quanto la nozione di discriminazione accolta dalla normativa europea e dalla legislazione nazionale è di tipo oggettivo e ha riguardo all’effetto pregiudizievole prodotto da qualsiasi disposizione, criterio, prassi, atto, patto o comportamento, indipendentemente dalla motivazione e dall’intenzione di chi li pone in essere».
Il giudice a quo ritiene dirimente, per la soluzione della controversia, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, lettera a), numero 1), del d.lgs. n. 147 del 2017, «vigente ratione temporis», là dove richiede agli stranieri il permesso di soggiorno di lungo periodo, «escludendo gli stranieri in possesso di permesso di soggiorno per motivi di lavoro (o per altri motivi)».
Il rimettente precisa, quanto alla rilevanza, che non sono in discussione tutti gli altri requisiti per l’accesso al beneficio, dal momento che la ricorrente «risultava residente in Italia, in via continuativa, da almeno due anni» e sussistevano, altresì, i requisiti relativi alla condizione economica e alla composizione del nucleo familiare. Né rileverebbe il fatto che la domanda sia stata presentata in forma cartacea, anziché telematicamente, «trattandosi solo di irregolarità formale, peraltro imputabile alla strutturazione del sistema, che non incide sul riconoscimento della prestazione, ove sussista il diritto».
Il rimettente ricorda che il reddito di inclusione era una «misura unica a livello nazionale di contrasto alla poverta` e all’esclusione sociale» (art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 147 del 2017) e ne illustra i requisiti, sia economici sia attinenti al nucleo familiare. Secondo il giudice a quo, il reddito di inclusione è una prestazione essenziale, volta al soddisfacimento di «“bisogni primari” inerenti alla stessa sfera di tutela della persona umana»: di fronte a tali prestazioni, qualsiasi discriminazione tra cittadini e stranieri regolarmente soggiornanti si porrebbe in contrasto con l’art. 14 CEDU (vengono citate a tal proposito le sentenze di questa Corte n. 40 del 2013 e n. 187 del 2010). Il reddito di inclusione sarebbe una prestazione essenziale perché è finalizzato all’affrancamento da una «situazione di vera e propria povertà» e alla garanzia del «diritto ad un’esistenza libera e dignitosa». Il rimettente ricorda che numerose norme costituzionali si pongono l’obiettivo di contrastare la povertà economica in quanto ostacolo al godimento dei diritti fondamentali; inoltre, in base all’art. 2, comma 13, del d.lgs. n. 147 del 2017 il reddito di inclusione costituiva «livello essenziale delle prestazioni […] nel limite delle risorse disponibili nel Fondo Povertà».
Lo Stato sarebbe soggetto a controllo giurisdizionale nel momento in cui limita il godimento di prestazioni essenziali e di diritti fondamentali; nel caso di specie, la norma censurata si porrebbe in contrasto con gli artt. 2, 3, 31, 38, 117 Cost., nonché con l’art. 14 della CEDU.
In ogni caso, anche qualora il reddito di inclusione fosse considerato «prestazione esterna al nucleo dei bisogni essenziali», la limitazione delle prestazioni sociali «deve pur sempre rispondere al principio di ragionevolezza ex art. 3 Cost.» e tale principio può ritenersi rispettato solo qualora «sussista una ragionevole correlazione tra la richiesta e le situazioni di bisogno o di disagio, in vista delle quali le singole prestazioni sono state previste» (vengono citate le sentenze di questa Corte n. 166 e n. 107 del 2018). Il giudice a quo rileva che la disciplina in questione già contemplava «il requisito del radicamento», essendo necessario – per ottenere il beneficio – essere «residente in Italia, in via continuativa, da almeno due anni al momento di presentazione della domanda». L’esclusione degli stranieri sprovvisti del permesso di soggiorno di lungo periodo andrebbe «a penalizzare proprio i nuclei familiari più bisognosi, tradendo l’intento dichiarato dal legislatore». Infatti, molto spesso gli stranieri non riescono a ottenere il permesso in questione «in quanto titolari di un reddito inferiore a quello (pur basso) prescritto a tal fine dall’art. 9 T.U. immigrazione».
Il rimettente ritiene che per la norma censurata varrebbero a fortiori le argomentazioni svolte dalla Cassazione, sezione lavoro, nell’ordinanza 17 giugno 2019, n. 16164, con cui è stata sollevata questione di legittimità costituzionale in relazione all’assegno di natalità di cui all’art. 1, comma 125, della legge 23 dicembre 2014, n. 190, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2015)». Inoltre, la norma censurata si discosterebbe dall’art. 42 (recte, 41) del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), che garantisce parità di trattamento – in materia di assistenza sociale – agli stranieri titolari di permesso di soggiorno valido almeno un anno.
Dunque, l’art. 3, comma 1, lettera a), numero 1), del d.lgs. n. 147 del 2017 contemplerebbe una disparità di trattamento irragionevole, in violazione dell’art. 3 Cost., in quanto avrebbe «introdotto un elemento di distinzione arbitrario, nella mancanza di alcuna ragionevole correlazione tra la residenza protratta per il tempo necessario all’ottenimento del permesso di lungo soggiorno e la situazione di disagio economico che il legislatore ha posto alla base della provvidenza»; né si comprenderebbe perché il legislatore non abbia «ritenuto sufficiente, quale elemento indicativo di uno stabile radicamento sul territorio, il requisito della residenza continuativa biennale, pretendendo il permesso di lungo soggiorno». Inoltre, secondo il rimettente il reddito di inclusione sarebbe una prestazione diversa dall’assegno sociale, per il quale la sentenza n. 50 del 2019 della Corte costituzionale ha fatto salvo il requisito del permesso di soggiorno di lungo periodo.
In definitiva, la norma censurata si porrebbe in contrasto, oltre che con l’art. 3 Cost., con gli artt. 20, 21, 33 e 34 CDFUE, «che enunciano il principio di uguaglianza e di non discriminazione, garantiscono “la protezione della famiglia sul piano giuridico, economico e sociale” (art. 33, 1° comma, CDFUE) e “il diritto all’assistenza sociale e all’assistenza abitativa […]” (art. 34, comma 3, CDFUE)».
Il giudice a quo precisa poi che la prestazione in esame non ricade nell’ambito di operatività dell’art. 12 della direttiva 2011/98/UE, del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, relativa a una procedura unica di domanda per il rilascio di un permesso unico che consente ai cittadini di paesi terzi di soggiornare e lavorare nel territorio di uno Stato membro e a un insieme comune di diritti per i lavoratori di paesi terzi che soggiornano regolarmente in uno Stato membro, che riconosce il diritto alla parità di trattamento nei settori della sicurezza sociale di cui al regolamento (CE) n. 883/2004, del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, relativo al coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale, «non rientrando nell’elenco dei rischi di cui all’art. 3» del citato regolamento: infatti, il reddito di inclusione non avrebbe la finalità di «compensare i carichi familiari, poiché il suo riconoscimento non è subordinato alla sussistenza di nucleo familiare numericamente consistente, ma alla situazione di povertà del nucleo familiare, che può essere semplicemente composto anche da solo due persone». In ogni caso, aggiunge il rimettente, se anche l’art. 12 della direttiva 2011/98/UE fosse applicabile, «ciò non impedirebbe un vaglio di legittimità della disposizione per le motivazioni già esposte dalla Corte di cassazione con la richiamata ordinanza n. 16164/19, che si intendono qui richiamate».
2.– Il 30 gennaio 2020 si è costituito l’INPS, convenuto nel giudizio a quo.
In primo luogo, la parte eccepisce l’inammissibilità della questione per difetto di motivazione sulla rilevanza, in quanto un’eventuale pronuncia di accoglimento «non potrebbe portare ad una conseguente pronuncia di riconoscimento del reddito d’inclusione in capo alla ricorrente». Infatti, il ricorso ex art. 28 del d.lgs. n. 150 del 2011 sarebbe inammissibile in quanto esperibile solo a fronte di un comportamento discriminatorio, non in caso di legittimo diniego della prestazione per assenza di un requisito previsto dalla legge. La motivazione del giudice a quo su tale eccezione sarebbe «poco plausibile». Inoltre, la sentenza di accoglimento non potrebbe rendere antigiuridico un comportamento che tale non era nel momento in cui è stato tenuto.
Ancora, la questione sarebbe inammissibile perché il rimettente – in assenza di pronunce della Cassazione – avrebbe omesso di sperimentare una possibile interpretazione adeguatrice della disposizione censurata.
La parte osserva poi che la motivazione dell’ordinanza sarebbe contraddittoria, in quanto il giudice a quo riconduce il reddito di inclusione alle prestazioni essenziali ma poi esclude che esso rientri nell’ambito di applicazione della direttiva 2011/98/UE, che riconosce il diritto alla parità di trattamento nei settori della sicurezza sociale.
Venendo alla non manifesta infondatezza, la parte riepiloga la normativa dettata in materia e osserva che il reddito di inclusione non potrebbe essere considerato né un mero “sussidio” per l’affrancamento dalla povertà né «una prestazione che afferisce a bisogni primari ed essenziali della persona». Il reddito di inclusione non sarebbe solo un beneficio economico ma «un più ampio progetto personalizzato […] volto a “traghettare” verso l’autonomia chi è in condizioni di povertà». Non sarebbe una «prestazione meramente assistenziale e generalizzata», poiché esso non viene corrisposto «ove il nucleo familiare non sottoscriva e persegua il “progetto personalizzato”». La realizzazione di tale progetto comporterebbe «una giustificata e necessaria correlazione tra la prestazione ed un maggiore e più intenso radicamento del soggetto nel territorio dello Stato italiano tale da rendere ragionevole la previsione del requisito del possesso del permesso di soggiorno di lungo periodo»: invero la realizzazione del progetto potrebbe essere «vanificata e/o non perseguibile ove fosse sufficiente, ai fini dell’accesso al ReI, un permesso lavorativo di più breve periodo».
Il reddito di inclusione non rientrerebbe fra le prestazioni essenziali di sicurezza sociale di cui al regolamento (CE) n. 883/2004 e ciò implicherebbe «la discrezionalità dello Stato membro di disciplinare e condizionare il riconoscimento della misura di politica attiva […] in considerazione della peculiare finalità della prestazione all’esame».
L’INPS richiama la sentenza n. 50 del 2019 di questa Corte (che ha fatto salvo il requisito del permesso di lungo periodo per l’assegno sociale) e osserva che l’uguaglianza tra cittadini italiani (ed europei) e stranieri va garantita solo per le prestazioni finalizzate al soddisfacimento di un bisogno primario dell’individuo, «che si configura come diritto inviolabile». Al di fuori di questi casi, il legislatore potrebbe richiedere agli stranieri un titolo di soggiorno che attesti «un’attiva partecipazione […] alla vita sociale ed allo sviluppo/progresso del Paese». Le considerazioni espresse nella citata sentenza n. 50 del 2019 sarebbero estendibili a tutte le prestazioni «che non sono poste a garanzia della stessa sopravvivenza», che potrebbero essere limitate a quegli stranieri che hanno contribuito al «progresso morale e materiale» della collettività.
Il requisito del permesso di lungo periodo si raccorderebbe con la previsione dell’art. 41 t.u. immigrazione, in connessione con l’art. 80, comma 19, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2001)».
3.– Il 3 febbraio 2020 si è costituita J.C.C., ricorrente nel giudizio a quo. La parte espone che i profili rilevanti, quali emergono dall’ordinanza di rimessione, sono due: a) la prestazione risponde a bisogni essenziali della persona e, dunque, non sarebbe «suscettibile di limitazioni afferenti lo status civitatis»; b) il requisito in questione (permesso di soggiorno di lungo periodo) non risponderebbe al criterio di «ragionevole correlabilità» di cui alla giurisprudenza costituzionale.
Sotto il primo profilo, la parte ricorda le pronunce di accoglimento di questa Corte relative alle prestazioni di invalidità, che si sono fondate su diversi parametri, che sarebbero pertinenti anche nel caso in esame. Infatti, anche il bisogno di emanciparsi «da una condizione di povertà assoluta» sarebbe riconducibile alla ratio delle sentenze menzionate: in altri termini, il «diritto a una vita dignitosa» avrebbe «fondamento costituzionale». La parte rammenta che la legge 15 marzo 2017, n. 33 (Delega recante norme relative al contrasto della povertà, al riordino delle prestazioni e al sistema degli interventi e dei servizi sociali), definisce il reddito di inclusione come livello essenziale delle prestazioni sociali, in coerenza con la legge 8 novembre 2000, n. 328 (Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali), e rileva che la soglia economica fissata dalla norma censurata è «ampiamente inferiore a quella utilizzata dall’ISTAT per definire le famiglie in condizioni di povertà assoluta». Sarebbe evidente che «l’uscita da una condizione di povertà assoluta appartiene al nucleo dei bisogni primari ed essenziali della persona». Il diritto ad un’esistenza libera e dignitosa dovrebbe essere «tutelato in quanto tale», al di là del “canale” di cui all’art. 36 Cost. e dei casi di inabilità al lavoro. Anche l’art. 34, paragrafo 3, CDFUE parlerebbe di «esistenza dignitosa» senza fare riferimento al lavoro.
Con riferimento ai bisogni primari, nessuna limitazione potrebbe essere opposta con riferimento a condizioni personali estranee al bisogno: men che meno potrebbero essere esclusi gli stranieri ratione census (cioè per non aver raggiunto il reddito necessario ad ottenere il permesso di lungo periodo) o ratione temporis (cioè per non aver maturato la residenza quinquennale necessaria per il permesso in questione).
Sotto il secondo profilo, la parte evidenzia il «circolo vizioso» tra un titolo di soggiorno (permesso di lungo periodo) che richiede due requisiti economici minimi (reddito pari all’assegno sociale e alloggio idoneo) e una prestazione destinata ai casi di povertà assoluta. Anche a tale proposito viene richiamata la giurisprudenza costituzionale relativa alle prestazioni di invalidità.
La parte poi rileva che, nel caso di prestazioni richieste prima del 31 luglio 2018 (come nel caso di specie), il reddito di inclusione «si configura […] essenzialmente come prestazione a sostegno della famiglia con bimbi minori», il che la differenzierebbe rispetto all’assegno sociale oggetto della sentenza di questa Corte n. 50 del 2019, in quanto si tratterebbe di una «prestazione erogata nella prima fase della vita adulta», quando il percorso di inserimento sociale è necessariamente più breve di quello compiuto da un ultrasessantacinquenne. Il legislatore non potrebbe introdurre criteri selettivi estranei alla finalità perseguita. Il «circolo vizioso» sarebbe «ancora più illogico» poiché, più alto è il numero di figli, più è difficile ottenere il permesso di lungo periodo in quanto aumenta il reddito necessario per conseguirlo.
La parte sottolinea poi che nel senso dell’infondatezza non si potrebbe invocare la citata sentenza n. 50 del 2019, in quanto quella pronuncia avrebbe differenziato l’assegno sociale dalle prestazioni destinate a soddisfare i bisogni primari della persona. Inoltre, la sentenza di questa Corte n. 107 del 2018 avrebbe negato rilievo all’argomento del “contributo pregresso” ai fini dell’individuazione dei beneficiari delle prestazioni sociali.
Ancora, la parte osserva che la disciplina statale prevede ulteriori requisiti che garantiscono comunque un sufficiente radicamento territoriale del richiedente: sarebbe sempre necessario un permesso per lavoro nel nucleo familiare e inoltre è richiesta la residenza biennale in Italia.
In definitiva, il requisito del permesso di lungo periodo sarebbe irragionevole, non proporzionato e discriminatorio verso gli stranieri.
4.– Con atto depositato il 4 febbraio 2020 è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato.
In primo luogo, l’Avvocatura eccepisce l’inammissibilità della questione perché il rimettente chiederebbe «una sentenza additiva, che modifichi la norma denunciata». Il giudice a quo proporrebbe di abolire per gli stranieri il requisito del permesso di lungo periodo, «reputando per tali soggetti sufficiente il requisito della residenza continuativa in Italia da almeno due anni». Senonché, una cosa sarebbero i requisiti di residenza, un’altra i requisiti di soggiorno, che sarebbero richiesti anche per i cittadini europei, dovendo questi essere titolari «del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente» (come previsto dalla stessa norma censurata). La difesa dello Stato rileva che, in base al diritto europeo (art. 11 della direttiva 2003/109/CE del Consiglio del 25 novembre 2003, relativa allo status dei cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo), l’accesso degli stranieri alle prestazioni sociali è limitato ai soggiornanti di lungo periodo, salvo l’ampliamento previsto dalla direttiva 2011/98/UE in relazione a determinati settori di sicurezza sociale. Dunque, la norma censurata avrebbe optato per «la sola possibilità» a disposizione del legislatore nazionale. In base alla proposta del rimettente, il reddito di inclusione dovrebbe essere concesso agli stranieri sulla base della sola residenza biennale continuativa, mentre per i cittadini europei ciò non sarebbe sufficiente: ciò determinerebbe uno «stravolgimento dell’impianto della norma denunciata, che verrebbe trasformata in una disciplina sostanzialmente diversa, e non costituzionalmente obbligata; e anzi costituzionalmente vietata dall’art. 117 c. 1 Cost., nella misura in cui genererebbe una discriminazione a danno dei cittadini dell’Unione e a vantaggio dei cittadini di paesi terzi». Poiché quella proposta dal giudice a quo non è l’unica soluzione configurabile in alternativa a quella censurata, la questione sarebbe inammissibile per invasione della discrezionalità legislativa.
Inoltre, secondo l’Avvocatura l’ordinanza di rimessione sarebbe «priva di idonea motivazione in punto di rilevanza». Essa rileva che la ricorrente ha chiesto il reddito di inclusione il 6 marzo 2018, «ricevendo un immediato rigetto», e non ha impugnato tale provvedimento, proponendo invece nel 2019 l’azione anti-discriminazione al fine di ottenere l’attribuzione del reddito di inclusione. Tale istituto, osserva la difesa erariale, è stato poi abrogato dal decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4 (Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni), convertito nella legge 28 marzo 2019, n. 26, che ha introdotto il reddito di cittadinanza. In base all’art. 13, comma 1, di tale decreto, «[a] decorrere dal 1° marzo 2019, il Reddito di inclusione non puo` essere piu` richiesto e a decorrere dal successivo mese di aprile non e` piu` riconosciuto, ne´ rinnovato». La stessa disposizione regola il caso in cui «il Reddito di inclusione sia stato riconosciuto in data anteriore al mese di aprile 2019»: invece, rileva l’Avvocatura, «[n]on sono state adottate disposizioni di diritto transitorio che regolino in modo specifico l’applicabilità della disciplina del reddito di inclusione nelle cause, come quella pendente davanti al giudice a quo, che abbiano ad oggetto la richiesta di attribuzione del REI, ancora pendenti alla data di entrata in vigore della nuova disciplina». Il giudice a quo non argomenterebbe sull’applicabilità della norma abrogata ai fini della decisione. Inoltre, l’ordinanza non indicherebbe la data precisa di presentazione del ricorso, non essendo possibile stabilire se esso sia precedente o successivo al 29 gennaio 2019, data di abrogazione della norma censurata (recte: l’abrogazione decorre dal 1° aprile 2019, ai sensi dell’art. 11 del d.l. n. 4 del 2019).
Ancora, la motivazione sulla rilevanza sarebbe insufficiente perché il rimettente non specifica il titolo che legittima il soggiorno in Italia della ricorrente.
In relazione alla non manifesta infondatezza, l’Avvocatura rileva che il reddito di inclusione sarebbe diverso dalle altre prestazioni assistenziali in relazione alle quali la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 80, comma 19, della legge n. 388 del 2000: in quei casi «si trattava del riconoscimento di benefici attinenti ai bisogni primari e vitali della persona». Il permesso di lungo periodo offrirebbe la prova del radicamento dello straniero nell’ordinamento italiano, in mancanza del quale non potrebbe «parlarsi di una situazione di povertà che spetti all’ordinamento italiano soccorrere, né vi è la base per predisporre e attuare nel tempo il progetto personalizzato». Il reddito di inclusione presupporrebbe un radicamento già esistente, non sarebbe lo strumento per crearlo. La norma censurata sarebbe volta a scoraggiare il cosiddetto “turismo assistenziale”. A sostegno dell’infondatezza, l’Avvocatura invoca la citata sentenza n. 50 del 2019, riguardante l’assegno sociale. Inoltre, proprio le sentenze della Corte costituzionale che hanno esteso a tutti gli stranieri regolari, a prescindere dal permesso di lungo periodo, diverse prestazioni assistenziali condurrebbero ancor più a ritenere ragionevole la richiesta di tale permesso per il reddito di inclusione, trattandosi di un diritto “finanziariamente condizionato”, che impone un bilanciamento tra diritti individuali ed esigenze finanziarie. Dunque, l’art. 3 Cost. non sarebbe violato.
L’Avvocatura nega poi che sia violato l’art. 31 Cost., che contemplerebbe una tutela della famiglia «ma sempre nei limiti delle compatibilità finanziarie e sul presupposto che si tratti non della famiglia “in astratto”, bensì della famiglia specificamente riferibile alla società italiana». Inoltre, l’art. 31 lascerebbe discrezionalità al legislatore e non lo costringerebbe a prevedere proprio il reddito di inclusione e a individuare i requisiti auspicati dal rimettente.
Ancora, la difesa erariale nega che il reddito di inclusione sia una «prestazione essenziale»: esso mira a contrastare una situazione di povertà, «per quanto difficile, comunque compatibile con lo svolgimento di attività lavorativa».
Sarebbe infondata anche la questione riferita all’art. 117, primo comma, Cost., «per il tramite del principio di non discriminazione di cui agli artt. 20 e 21» CDFUE. La scelta di limitare la prestazione de qua ai soli stranieri lungosoggiornanti sarebbe in linea con il diritto europeo, in particolare con la direttiva 2003/109/CE.
Infine, sarebbe insussistente la violazione dell’art. 34 CDFUE. Tale disposizione non si applicherebbe perché la materia del «contrasto alla povertà» sarebbe di competenza degli Stati membri. Comunque, come già detto per l’art. 31 Cost., l’art. 34 CDFUE non costringerebbe il legislatore a prevedere proprio il reddito di inclusione né a individuare i requisiti auspicati dal rimettente.
5.– L’11 maggio 2020 l’INPS ha depositato una memoria integrativa. In essa afferma che il rimettente avrebbe dovuto motivare sull’applicabilità, nel suo giudizio, della norma censurata, abrogata dal d.l. n. 4 del 2019, in quanto la fattispecie oggetto del giudizio a quo non rientrerebbe nell’ambito di applicazione della disposizione transitoria di cui all’art. 13 del d.l. n. 4 del 2019. Nel merito, l’INPS ribadisce le considerazioni già svolte nell’atto di costituzione, sottolineando la natura non di mero sussidio economico della misura ma di progetto personalizzato di inclusione sociale e di accompagnamento del nucleo familiare destinatario, e sostenendo che le conclusioni della sentenza n. 50 del 2019, più volte richiamata, sarebbero estensibili al reddito di inclusione, che non sarebbe destinato al soddisfacimento di un bisogno primario. Si dovrebbe inoltre tener conto della limitatezza delle risorse disponibili.
Il 15 maggio 2020 anche J.C.C. ha depositato una memoria integrativa. In primo luogo la parte replica alle eccezioni di inammissibilità sollevate dall’INPS e dall’Avvocatura nei loro atti di costituzione e intervento. Nel merito osserva che il fatto che il ReI comprenda un progetto personalizzato di inclusione sociale non giustifica la sua destinazione esclusiva agli stranieri che in passato hanno già conseguito tale inclusione, ottenendo il permesso di soggiorno di lungo periodo, con esclusione dei soggetti più bisognosi, che non sono riusciti ad avere i requisiti necessari per quel permesso.
Inoltre, non sarebbe esatto rappresentare lo straniero privo del permesso di lungo periodo come una persona “di passaggio”, né ravvisare nel permesso di lungo periodo una garanzia di stabilità futura (a tal proposito la parte invoca la sentenza di questa Corte n. 44 del 2020). Ancora, la parte rileva che il parametro dell’art. 31 Cost. è stato invocato in modo pertinente dal giudice a quo, in quanto la domanda del ReI è stata presentata quando era vigente il testo del d.lgs. n. 147 del 2017 che richiedeva una certa composizione del nucleo familiare. Infine, non sarebbe corretto evocare il tema dei limiti finanziari, perché la prestazione in questione è erogata nei limiti della dotazione del Fondo povertà.
6.– Il 3 giugno 2020 J.C.C. ha depositato «brevi note aggiuntive», ai sensi del decreto della Presidente della Corte del 20 aprile 2020, punto 1, lettera c). In esse rileva che il giudizio in questione è destinato ad avere effetti «su soli due casi o poco più» ma che la decisione della Corte assume rilevanza con riferimento al reddito di cittadinanza. La parte sottolinea poi le differenze tra il ReI e l’assegno sociale, oggetto della citata sentenza n. 50 del 2019, osservando che per il ReI non avrebbe senso chiedere un titolo di soggiorno che attesta il precedente inserimento sociale, visto che tale inserimento renderebbe superfluo il ReI. La parte rimarca che il d.lgs. n. 147 del 2017 qualifica come livello essenziale delle prestazioni non solo il beneficio economico del ReI ma anche la valutazione multidimensionale e il progetto personalizzato, confermando che il percorso di inclusione «è il tratto caratteristico dell’istituto». Per lo stesso motivo non si potrebbe estendere al ReI l’argomento della sentenza n. 50 del 2019, secondo la quale il reddito conseguito per accedere al permesso di lungo periodo può poi venire meno: diversamente dall’assegno sociale, il ReI è destinato al lavoratore povero o a chi cerca lavoro e una differenza nelle possibilità di accesso a migliori occasioni di lavoro «contraddirebbe il principio generale paritario di cui all’art. 10 convenzione OIL 143/74». Infine, la parte riferisce della situazione di altri Paesi europei e osserva che in nessuno le prestazioni di inclusione sociale sarebbero condizionate «a un titolo di soggiorno che manifesti già tale inclusione».
1.– Nel giudizio iscritto al reg. ord. n. 244 del 2019, il Tribunale ordinario di Bergamo, sezione lavoro, dubita della legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, lettera a), numero 1), del decreto legislativo 15 settembre 2017, n. 147 (Disposizioni per l’introduzione di una misura nazionale di contrasto alla povertà), che, fra i diversi requisiti necessari per l’ottenimento del reddito di inclusione, richiede agli stranieri il «possesso del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo».
Il rimettente divide le questioni sollevate in due gruppi, il secondo dei quali ha carattere subordinato. In primo luogo, il giudice a quo ritiene che la norma censurata violi gli artt. 2, 3, 31, 38, 117 della Costituzione, nonché l’art. 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, in quanto il reddito di inclusione sarebbe una prestazione essenziale, diretta a soddisfare «“bisogni primari” inerenti alla stessa sfera di tutela della persona umana». In relazione a questo tipo di prestazioni, qualsiasi discriminazione tra cittadini e stranieri regolarmente soggiornanti sarebbe incostituzionale.
Con il secondo ordine di censure il rimettente osserva che, anche qualora il reddito di inclusione fosse considerato «prestazione esterna al nucleo dei bisogni essenziali», non vi sarebbe una ragionevole correlazione tra il requisito richiesto e le situazioni di bisogno a rimedio delle quali la prestazione è prevista, considerato anche che la disciplina in questione già contemplava «il requisito del radicamento», essendo necessario – per ottenere il beneficio – essere «residente in Italia, in via continuativa, da almeno due anni al momento di presentazione della domanda» (art. 3, comma 1, lettera a, numero 2, del d.lgs. n. 147 del 2017); di qui la asserita violazione dell’art. 3 Cost. e degli artt. 20, 21, 33 e 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007.
2.– Sia l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) che l’Avvocatura generale dello Stato hanno sollevato diverse eccezioni di inammissibilità. Con una di esse – formulata dall’Avvocatura nel primo atto difensivo e ripresa dall’INPS nella memoria integrativa – in particolare, è lamentato un difetto di motivazione sulla rilevanza delle questioni, in quanto il rimettente non avrebbe tenuto conto dell’intervenuta abrogazione della norma censurata ad opera del decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4 (Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni), convertito nella legge 28 marzo 2019, n. 26, né avrebbe argomentato sulla sua applicabilità, nonostante l’abrogazione e sebbene la stessa normativa abrogatrice preveda una disposizione transitoria sui termini di applicabilità della disciplina censurata. Più precisamente, sia l’Avvocatura che l’INPS osservano che, in base alla disciplina transitoria contenuta nell’art. 13, comma 1, del d.l. n. 4 del 2019, come convertito, il reddito di inclusione può essere chiesto fino al 28 febbraio 2019 e può essere riconosciuto fino al 31 marzo 2019, nel qual caso «il beneficio continua ad essere erogato per la durata inizialmente prevista», fatta salva la possibilità di presentare domanda per il reddito di cittadinanza. Secondo l’Avvocatura, «la ricorrente non rientra tra coloro ai quali il REI è stato erogato prima della sua abrogazione e che possono perciò continuare a fruirne secondo la previgente disciplina, sia pure per un periodo limitato, anche dopo l’abrogazione del D.Lgs. n. 147/17».
Nella propria memoria integrativa, J.C.C. ha replicato all’eccezione, osservando che, in caso di contenzioso, la decisione del giudice «si sostituisce con effetto ex tunc alla decisione dell’amministrazione» (la domanda è stata respinta dal Comune di Bergamo nel marzo 2018); non ci sarebbe stata necessità di una norma transitoria sui giudizi pendenti, «essendo ovvio che le decisioni giudiziarie garantiscono tutti i diritti azionati entro il limite temporale fissato dal legislatore (1.3.2019)», a prescindere dalla successiva abrogazione.
2.1.– L’eccezione è fondata.
Il rimettente omette completamente di dare conto dell’intervenuta abrogazione della norma censurata, così come di indicare le ragioni che lo inducono a ritenerla nondimeno applicabile.
Il Capo II del d.lgs. n. 147 del 2017 (comprendente la disposizione censurata, cioè l’art. 3, comma 1, lettera a, numero 1) è stato abrogato a decorrere dal 1° aprile 2019 (e non dal 29 gennaio 2019, come riferisce l’Avvocatura) in virtù di quanto disposto dall’art. 11, comma 1, del d.l. n. 4 del 2019, come convertito, che ha sostituito la misura del reddito di inclusione con la nuova misura del reddito di cittadinanza.
Sebbene, dunque, l’abrogazione della norma sospettata di incostituzionalità fosse stata già disposta il 28 gennaio 2019, con efficacia dal successivo 1° aprile, nell’ordinanza di rimessione assunta il 1° agosto 2019 il giudice a quo tace del tutto sulla radicale modifica del quadro normativo, non menziona l’intervenuta abrogazione della norma censurata, né tanto meno prende in considerazione la norma transitoria contenuta nell’art. 13, comma 1, del d.l. n. 4 del 2019, come convertito, e la sua specifica portata in relazione al caso oggetto del suo giudizio, come invece sarebbe stato necessario per dare conto della rilevanza della questione sottoposta a questa Corte.
Dall’ordinanza si può solo indirettamente cogliere che il rimettente non era probabilmente inconsapevole dell’avvenuta abrogazione, per il riferimento al fatto che la norma censurata sarebbe stata «vigente ratione temporis» e per l’uso in vari punti dell’imperfetto nella descrizione della disciplina del reddito di inclusione. Tali elementi non sono tuttavia sufficienti né ai fini della corretta ricostruzione del quadro normativo, né comunque a quelli di un’adeguata illustrazione della rilevanza, dato che, trascurando del tutto l’esistenza della norma transitoria indicata e omettendo di considerarne il contenuto, il rimettente non fornisce alcuna argomentazione a sostegno dell’applicabilità della norma abrogata.
La citata disposizione transitoria stabilisce quanto segue: «[a] decorrere dal 1° marzo 2019, il Reddito di inclusione non può essere più richiesto e a decorrere dal successivo mese di aprile non è più riconosciuto, né rinnovato. Le richieste presentate ai comuni entro i termini di cui al primo periodo, ai fini del riconoscimento del beneficio, devono pervenire all’INPS entro i successivi sessanta giorni. Per coloro ai quali il Reddito di inclusione sia stato riconosciuto in data anteriore al mese di aprile 2019, il beneficio continua ad essere erogato per la durata inizialmente prevista, fatti salvi la possibilità di presentare domanda per il Rdc [Reddito di cittadinanza], nonché il progetto personalizzato definito ai sensi dell’articolo 6 del decreto legislativo n. 147 del 2017».
L’Avvocatura e l’INPS interpretano siffatta previsione come un divieto assoluto di riconoscimento del reddito di inclusione a partire dal 1° aprile 2019, mentre la ricorrente nel giudizio a quo ritiene che essa non riguardi l’ipotesi in cui il reddito venga riconosciuto dopo quella data in esito a un giudizio pendente che lo riconosca come dovuto precedentemente, e che dunque il beneficio in essa previsto possa essere riconosciuto anche dopo il 1° aprile 2019, a seguito di una decisione giurisdizionale.
La totale mancanza di una benché minima argomentazione sulla portata della norma transitoria – come detto, neppure menzionata – e sulla permanente applicabilità della norma censurata nei giudizi pendenti si traduce in una omessa motivazione sulla rilevanza di tutte le questioni, con la conseguenza della loro inammissibilità (ex multis, sentenze n. 30 e n. 13 del 2020). Di fronte al silenzio del giudice a quo toccherebbe a questa Corte pronunciarsi direttamente sugli effetti dell’abrogazione della norma censurata sui giudizi pendenti, ricostruendo il significato della disposizione transitoria e applicando i criteri in ipotesi individuati dalla giurisprudenza per fattispecie simili, ma si tratterebbe di operazioni di spettanza del giudice a quo, sulle quali questa Corte esercita solo un controllo successivo di sufficienza e plausibilità in funzione della verifica della rilevanza.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, lettera a), numero 1), del decreto legislativo 15 settembre 2017, n. 147 (Disposizioni per l’introduzione di una misura nazionale di contrasto alla povertà), sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 31, 38 e 117 della Costituzione, nonché in relazione all’art. 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, e agli artt. 20, 21, 33 e 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, dal Tribunale ordinario di Bergamo, sezione lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 giugno 2020.
F.to:
Marta CARTABIA, Presidente
Daria de PRETIS, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 10 luglio 2020.