SENTENZA N. 254
ANNO 2019
Commenti alla decisione di
I. Michele M.
Porcelluzzi, In
difesa della libertà religiosa: la Corte Costituzionale e la legge lombarda
sull’edilizia di culto, per g.c. di Diritti Comparati
II. Giuseppe Tropea, Edilizia
di culto: un importante passo avanti verso la "laicità positiva”, per g.c. di Giustizia
Insieme
III. Leonardo
Brunetti, Costituzionalmente
illegittima la legge regionale lombarda c.d. "antimoschee”,
per g.c. del Forum di Quaderni Costituzionali
IV. Natascia Marchei,
La
libertà religiosa al centro dell’ultima sentenza della Corte costituzionale
sulla legge lombarda per il governo del territorio, per g.c.
dell’Osservatorio delle libertà ed istituzioni
religiose (OLIR)
V. Germana Carobene, La
cosiddetta normativa "anti moschee” tra politiche di governance e tutela della
libertà di culto, per g.c. di Stato,
Chiese e pluralismo confessionale
VI. Natascia Marchei, La
Corte costituzionale sugli edifici di culto tra limiti alla libertà
religiosa e interventi positivi, per
g.c. di Stato,
Chiese e pluralismo confessionale
VII. Andrea Ambrosi, La
garanzia del diritto ad un luogo di culto: un interminabile percorso ad
ostacoli, per g.c. del Forum
di Quaderni Costituzionali
VIII. Stefano
Montesano, L’edilizia
di culto regionale (di nuovo) alla prova della giurisprudenza amministrativa e
costituzionale, per g.c. di Stato, Chiese e pluralismo confessionale
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Giorgio LATTANZI;
Giudici: Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo
CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON,
Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO,
Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 72, commi 1, 2 e 5,
secondo periodo, della legge
della Regione Lombardia 11 marzo 2005, n. 12 (Legge per il governo del
territorio), come modificati dall’art. 1, comma 1, lettera c), della legge
della Regione Lombardia 3 febbraio 2015, n. 2, recante «Modifiche alla legge
regionale 11 marzo 2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) - Principi
per la pianificazione delle attrezzature per servizi religiosi», promossi
dal Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia con decisioni del 3 agosto
e dell’8 ottobre 2018, rispettivamente iscritte ai numeri 159
e 172
del registro ordinanze 2018 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica numeri 45 e 48, prima serie speciale, dell’anno 2018.
Visti gli atti di costituzione dell’Associazione Culturale Islamica
Ticinese (già Associazione Comunità Islamica Ticinese), nonché gli atti di intervento
della Regione Lombardia e, fuori termine, dell’Associazione culturale Assalam di Cantù;
udito nell’udienza pubblica del 22 ottobre 2019 il Giudice relatore Daria
de Pretis;
uditi gli avvocati Piera Pujatti per la Regione
Lombardia e Aldo Travi per l’Associazione Culturale Islamica Ticinese (già
Associazione Comunità Islamica Ticinese).
Ritenuto in fatto
1.– Con sentenza non definitiva del 3 agosto 2018, iscritta al reg. ord. n. 159 del 2018, il Tribunale amministrativo regionale
per la Lombardia ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art.
72, commi 1 e 2, della legge della Regione Lombardia 11 marzo 2005, n. 12
(Legge per il governo del territorio), nel testo risultante dalle modifiche
apportate dall’art. 1, comma 1, lettera c), della legge della Regione Lombardia
3 febbraio 2015, n. 2, recante «Modifiche alla legge regionale 11 marzo 2005,
n. 12 (Legge per il governo del territorio) - Principi per la pianificazione
delle attrezzature per servizi religiosi», per contrasto con gli artt. 2, 3 e 19 della Costituzione.
L’art. 72, comma 1, stabilisce che «[l]e aree che accolgono attrezzature
religiose o che sono destinate alle attrezzature stesse sono specificamente
individuate nel piano delle attrezzature religiose, atto separato facente parte
del piano dei servizi, dove vengono dimensionate e disciplinate sulla base
delle esigenze locali, valutate le istanze avanzate dagli enti delle
confessioni religiose di cui all’articolo 70». Il comma 2 dispone che
«[l]’installazione di nuove attrezzature religiose presuppone il piano di cui
al comma 1; senza il suddetto piano non può essere installata nessuna nuova
attrezzatura religiosa da confessioni di cui all’articolo 70».
Il TAR riferisce che l’Associazione Culturale Madni,
una associazione volta a mantenere e valorizzare le tradizioni culturali dei
paesi di origine dei musulmani residenti nel territorio e a rafforzare il
legame con i cittadini locali, ha ottenuto il 15 gennaio 2016 un permesso
edilizio al fine di adibire un complesso immobiliare ad attività di culto.
Successivamente tale permesso è stato annullato d’ufficio dal Comune di Castano
Primo con determinazione del 13 marzo 2017, dal momento che l’intervento
edilizio, essendo preordinato alla realizzazione di un’attrezzatura religiosa
ai sensi della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, avrebbe richiesto la
preventiva approvazione del piano delle attrezzature religiose (di seguito:
PAR), di cui invece il Comune di Castano Primo ha ritenuto di non dotarsi.
L’Associazione ha impugnato l’annullamento d’ufficio (e il rapporto della
Polizia locale del 9 novembre 2016) e ha chiesto il risarcimento del danno.
Il rimettente ricostruisce la cornice normativa in cui si inquadra la
controversia e ricorda che la sentenza n. 63 del
2016 della Corte costituzionale, resa nell’ambito di un giudizio in via
principale, ha annullato alcune delle norme introdotte dalla legge reg.
Lombardia n. 2 del 2015 in materia di attrezzature religiose, senza però
toccare – in quanto non impugnate – le previsioni dell’art. 72 che subordinano
la realizzazione di tali attrezzature all’approvazione di un apposito piano.
Il TAR respinge come infondati tutti i numerosi motivi di ricorso
presentati dall’associazione ricorrente, ad eccezione di quello relativo
all’illegittimità costituzionale dell’art. 72 della legge reg. Lombardia n. 12
del 2005, come modificato nel 2015.
1.1.– Quanto alla rilevanza, il TAR spiega che la decisione della causa
dipende esclusivamente dalla soluzione della questione di legittimità
costituzionale dell’art. 72 della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, sulla
cui base è stato assunto il provvedimento di autotutela censurato. L’esercizio
del potere di autotutela richiede, infatti, ai sensi dell’articolo 21-nonies
della legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento
amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi), anzitutto
l’illegittimità del provvedimento annullato, e l’accertamento di tale profilo
«riposa esclusivamente nella soluzione delle questioni di legittimità
costituzionale prospettate nei confronti della legge regionale».
Il TAR non ritiene, invece, che incida sulla rilevanza della questione la
sopravvenuta legge della Regione Lombardia 25 gennaio 2018, n. 5
(Razionalizzazione dell'ordinamento regionale. Abrogazione di disposizioni di
legge), la quale, all’art. 2 dispone che «[a] decorrere dall’entrata in vigore
della presente legge sono o restano abrogate: [...] b) le seguenti leggi o
disposizioni operanti modifiche alla legislazione regionale [...] 69) L.R. 3
febbraio 2015, n. 2 (Modifiche alla legge regionale 11 marzo 2005, n. 12 (Legge
per il governo del territorio) - Principi per la pianificazione delle
attrezzature per servizi religiosi)». In primo luogo, il TAR rileva che il
provvedimento impugnato nel presente giudizio è precedente alla legge reg.
Lombardia n. 5 del 2018, sicché la norma regionale abrogatrice
sopravvenuta non potrebbe comunque far venire meno la rilevanza delle questioni
di legittimità costituzionale relative al testo della legge reg. Lombardia n.
12 del 2005, nella formulazione in vigore al tempo del rilascio del permesso di
costruire e della determinazione di autotutela censurata nel giudizio
amministrativo. In secondo luogo, il TAR ritiene che comunque l’art. 72 della
legge reg. Lombardia n. 12 del 2005 sia a tutt’oggi vigente nel tenore
risultante dalle modificazioni apportate dalla legge reg. Lombardia n. 2 del
2015. La legge reg. Lombardia n. 5 del 2018, infatti, avrebbe attuato un mero
riordino legislativo, come risulterebbe dall’art. 1 e in particolare dall’art.
4, ove si dispone che restano «confermate […] le variazioni testuali apportate
alla legislazione vigente dalle leggi abrogate dalla presente legge, ove non
superate da integrazioni, modificazioni o abrogazioni disposte da leggi
intervenute successivamente». Le leggi modificate, dunque, non sarebbero state
toccate dall’intervento di riordino.
Infine, il TAR precisa che nel giudizio a quo non è rilevante l’eventuale
illegittimità costituzionale dell’art. 72, comma 5, della legge reg. Lombardia
n. 12 del 2005, nella parte in cui «indica come meramente facoltativa
l’adozione del Piano delle attrezzature religiose entro il termine di diciotto
mesi dall’entrata in vigore della legge regionale n. 2 del 2015».
1.2.– Quanto alla non manifesta infondatezza, il TAR ritiene che l’art. 72,
commi 1 e 2, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, nel prevedere che in
assenza o comunque al di fuori delle previsioni del PAR i comuni non possano
consentire l’apertura di spazi destinati all’esercizio del culto, sia di dubbia
costituzionalità in quanto preordina «una completa e assoluta programmazione
pubblica della realizzazione di "attrezzature religiose”, in funzione delle
"esigenze locali” – rimesse all’apprezzamento discrezionale del Comune – a
prescindere dalle caratteristiche in concreto di tali opere, e persino della
loro destinazione alla fruizione da parte di un pubblico più o meno esteso,
introducendo così un controllo pubblico totale, esorbitante rispetto alle
esigenze proprie della disciplina urbanistica, in ordine all’apertura di
qualsivoglia spazio destinato all’esercizio del culto».
Secondo il rimettente, «l’equivoco di fondo» da cui muove il legislatore
regionale consisterebbe nell’individuazione di una «corrispondenza biunivoca»
tra le «attrezzature religiose di interesse comune», di cui all’art. 71, comma
1, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, costituenti opere di
urbanizzazione secondaria, e le «attrezzature religiose» di cui all’art. 72, di
modo che «tutte tali attrezzature sono trattate allo stesso modo, ossia quali
opere di urbanizzazione secondaria soggette alla necessaria previa
programmazione comunale», «prescindendo […] dalla circostanza che tali
attrezzature siano o non siano strettamente necessarie ad assicurare la
dotazione di standard urbanistici funzionale a un dato insediamento
residenziale».
Che sia così si evincerebbe, secondo il rimettente, dal combinato disposto
dell’art. 71, comma 1, e dell’art. 72, comma 2, della legge reg. Lombardia n.
12 del 2005; inoltre, tale interpretazione sarebbe accolta nella prassi
amministrativa fondata sulla circolare regionale 20 febbraio 2017, n. 3,
recante «Indirizzi per l’applicazione della legge regionale 3 febbraio 2015, n.
2 "Modifiche alla legge regionale 11 marzo 2005, n. 12 (legge per il governo
del territorio) – Principi per la pianificazione delle attrezzature per servizi
religiosi”».
1.3.– Tale impostazione contrasterebbe anzitutto con l’art. 19 Cost. Il TAR
Lombardia richiama le sentenze della
Corte costituzionale n. 59 del 1958 (secondo la quale la libertà religiosa
comprende «tutte le manifestazioni del culto, ivi indubbiamente incluse, in
quanto forma e condizione essenziale del suo pubblico esercizio, l’apertura di
templi ed oratori») e n. 63 del 2016,
che, giudicando proprio della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, ha ribadito
che l’apertura di luoghi di culto «ricade nella tutela garantita dall’art. 19
Cost.».
Il TAR non intende negare che la Regione, nell’esercizio della propria
potestà legislativa in materia di governo del territorio, attribuitale
dall’art. 117, terzo comma, Cost., possa dettare una disciplina legislativa
specificamente dedicata all’inserimento urbanistico delle attrezzature
religiose e degli edifici di culto. Tuttavia, in base alla sentenza n. 63 del
2016, la legislazione regionale in materia di edilizia del culto «trova la
sua ragione e giustificazione […] nell’esigenza di assicurare uno sviluppo
equilibrato ed armonico dei centri abitativi e nella realizzazione dei servizi
di interesse pubblico nella loro più ampia accezione, che comprende perciò
anche i servizi religiosi», mentre non sarebbe «consentito al legislatore
regionale, all’interno di una legge sul governo del territorio, introdurre
disposizioni che ostacolino o compromettano la libertà di religione». In virtù
delle norme impugnate, i luoghi di culto dovrebbero essere necessariamente
realizzati nelle aree stabilite dai comuni, ai quali spetterebbe «ogni
discrezionalità in ordine all’apertura di luoghi di culto, pubblici o privati,
sul proprio territorio».
Secondo il TAR, un conto è che il PAR si preoccupi di assicurare l’adeguata
dotazione di edifici di culto a servizio degli insediamenti residenziali, in
base alle esigenze locali, un altro è che, in assenza o comunque al di fuori
delle sue previsioni, non sia consentita l’apertura di alcun edificio di culto,
«a prescindere dal contesto e dal carico urbanistico generato dalla specifica
opera». Ciò determinerebbe «un ostacolo di fatto al libero esercizio del
culto», poiché la possibilità di esercitare collettivamente e in forma pubblica
i riti non contrari al buon costume, garantita dall’art. 19 Cost., verrebbe «a
essere subordinata alla pianificazione comunale e, quindi, al controllo
pubblico».
Si avrebbe un’indebita limitazione della libertà di religione perché la
pianificazione comunale interviene necessariamente con cadenze periodiche
pluriennali, con conseguente differimento nella possibilità di soddisfare le
esigenze di culto della collettività. Inoltre, il piano dei servizi non
garantirebbe la previsione di luoghi di culto per tutte le confessioni
religiose o per le singole comunità di fedeli.
La libertà di culto non potrebbe «risentire in termini così stringenti
della programmazione urbanistica»; la Costituzione garantirebbe l’esercizio
pubblico del culto, con il solo limite del rispetto del buon costume, anche a
una comunità composta da pochi fedeli, come nel caso oggetto del giudizio a
quo, riguardante la sede di un’associazione religiosa cui aderiscono circa
sessanta famiglie.
1.4.– Inoltre, le limitazioni all’apertura di luoghi di culto stabilite
dalla legge regionale eccederebbero lo scopo di assicurare il corretto
inserimento sul territorio delle attrezzature religiose, con conseguente
violazione «dei fondamentali canoni di ragionevolezza, proporzionalità e non
discriminazione posti dall’art. 3 della Costituzione».
Il TAR ricorda che l’art. 72, comma 7, della legge reg. Lombardia n. 12 del
2005 stabilisce quali caratteristiche costruttive debbano avere le attrezzature
religiose e quali dotazioni aggiuntive di parcheggi debbano essere assicurate.
Gli edifici religiosi sarebbero realizzabili, in linea di principio, nelle zone
residenziali, ferma restando la potestà comunale di porre limitazioni, in
relazione alle dimensioni della struttura e al contesto (viabilità, parcheggi
ecc.). Il rispetto di tutte le previsioni costruttive e di inserimento urbanistico
delle attrezzature religiose potrebbe essere assicurato mediante le ordinarie
prescrizioni degli strumenti urbanistici.
Il rimettente rileva che l’apertura di un luogo di culto non differisce
dalla realizzazione di altri luoghi di aggregazione sociale, quali scuole,
centri culturali, case di cura, palestre ecc.: per tali strutture, tuttavia,
non sarebbe prevista analoga rigida programmazione comunale. Il differente
trattamento previsto dalla legge regionale per le attrezzature religiose
sarebbe «del tutto ingiustificato e discriminatorio, rispetto a quello
riservato ad altre attrezzature comunque destinate alla fruizione pubblica,
potenzialmente idonee a generare un impatto analogo, o persino maggiore, nel
contesto urbanistico».
Secondo il rimettente, in definitiva, «l’avocazione al Comune
dell’integrale programmazione della localizzazione e del dimensionamento delle
attrezzature religiose» finirebbe «per eccedere gli scopi propri della
disciplina dell’assetto del territorio comunale, producendo, di fatto, effetti
simili all’autorizzazione governativa all’apertura dei luoghi di culto,
prevista dall’art. 1 del regio decreto 28 febbraio 1930, n. 289, già dichiarato
costituzionalmente illegittimo dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 59 del
1958».
1.5.– La violazione degli artt. 3 e 19 Cost. ridonderebbe anche nella
lesione dei diritti inviolabili della persona, tutelati dall’art. 2 Cost. (si
richiama la sentenza
n. 195 del 1993), «stante la centralità del credo religioso quale
espressione della personalità dell’uomo, tutelata nella sua affermazione
individuale e collettiva».
2.– È intervenuta in giudizio la Regione Lombardia, con atto depositato il
14 novembre 2018, eccependo l’inammissibilità e l’infondatezza delle questioni.
2.1.– Le questioni sarebbero inammissibili per irrilevanza perché, mentre
il TAR censura la sproporzione tra l’oggetto della norma in questione, che pone
l’obbligo di approvare il PAR prima di aprire un luogo di culto, e le ipotesi
«in cui un gruppo di fedeli intenda allestire una "piccola sala di preghiera”»,
il giudizio a quo riguarderebbe invece un luogo di preghiera frequentabile da un
numero non determinato di fedeli e destinato a incidere in modo rilevante e
permanente sul tessuto urbano, come rilevato dal Comune attraverso il rapporto
della Polizia locale.
2.2.– Nel merito, le questioni sarebbero non fondate.
La Regione rileva che i luoghi dedicati al culto concorrono a conformare
l’assetto urbanistico dei centri abitati e non possono prescindere da una
regolamentazione urbanistico-edilizia. Ricorda che il concetto urbanistico di
attrezzature religiose è stato introdotto per la prima volta dal decreto
ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444 (Limiti inderogabili di densità edilizia,
di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra spazi destinati
agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività
collettive, al verde pubblico o a parcheggi da osservare ai fini della
formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli
esistenti, ai sensi dell’art. 17 della legge 6 agosto 1967, n. 765), e osserva
che l’impostazione che lascia ampio spazio alla pianificazione comunale in
relazione agli edifici di culto come opere di urbanizzazione secondaria
deriverebbe dalla legislazione statale.
La Regione riferisce i contenuti della sentenza della
Corte costituzionale n. 63 del 2016 e, in relazione all’art. 72, comma 5,
della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, osserva che «la parola "intendono”
utilizzata dalla norma non può certo essere intesa come intenzione soggettiva,
ma come legata al nostro ordinamento giuridico»; «[o]ve i Comuni non dovessero
attivarsi immotivatamente a fronte di richieste di nuove attrezzature
religiose, tale comportamento potrà essere sanzionato nelle sedi competenti». I
comuni non avrebbero discrezionalità nel valutare le esigenze di tipo religioso
che il territorio esprime, ma dovrebbero sottoporre a valutazione tutte quelle
legittimamente emerse; qualunque confessione religiosa avrebbe il diritto di
vedere esaminata, da un punto di vista urbanistico-edilizio, la propria volontà
di installare attrezzature religiose.
La norma censurata realizzerebbe un «punto di equilibrio» tra il diritto ad
uno spazio per l’esercizio del proprio diritto fondamentale e il diritto della
Regione di governare il proprio territorio: punto di equilibrio che la
legislazione statale avrebbe lasciato alla pianificazione comunale.
Il TAR muoverebbe da un punto di vista erroneo: la norma regionale, lungi
dal lasciare alla discrezionalità dei comuni le scelte in questa materia,
compirebbe «una operazione di regolamentazione, obbligando i comuni a prendere
in considerazione questo aspetto e a pianificare il proprio territorio anche
con riferimento all’art. 19 Cost. e alla possibilità che tutte le confessioni
religiose possano richiedere un proprio luogo di culto». Prevedendo la
pianificazione comunale, la norma regionale censurata cercherebbe di rimediare
alla situazione degli ultimi anni, in cui sono frequenti le decisioni dei
giudici amministrativi su provvedimenti comunali di chiusura, per ragioni
urbanistiche, di luoghi di culto.
Secondo la Regione, gli edifici di culto avrebbero «un impatto, che è
spesso visivo, ma anche sul carico urbanistico», in quanto destinati «ad avere
un accesso massiccio in un determinato momento».
Quanto alla pretesa sproporzionalità della norma, la Regione precisa, fra
l’altro, che essa «non si applica alle opere temporanee».
Quanto alla asserita discriminazione rispetto ad altre strutture di
aggregazione sociale, come le scuole, la Regione rileva che le situazioni
sarebbero diverse, in particolare a causa della necessaria visibilità del luogo
di culto «per richiamare i fedeli», e ricorda di aver già adottato discipline
specifiche per alcune categorie di opere, come le grandi strutture di vendita.
La Regione avrebbe scelto di non distinguere le strutture religiose a seconda
delle loro dimensioni per non avvantaggiare le confessioni religiose con pochi
aderenti. Inoltre, una limitazione basata sul numero dei frequentatori sarebbe
contraria alla logica dell’edilizia di culto, che presuppone luoghi
utilizzabili da tutti i fedeli di una determinata religione.
Infine, il parametro dell’art. 2 Cost. sarebbe «del tutto inconferente».
2.3.– Il 15 marzo 2019 la Regione Lombardia ha chiesto che la causa
iscritta al reg. ord. n. 159 del 2018 fosse discussa
in udienza pubblica.
2.4.– Il 9 aprile 2019 la Regione Lombardia ha depositato una memoria
integrativa. In essa ribadisce l’irrilevanza della questione di legittimità
costituzionale sollevata dal TAR Lombardia. Nel merito, evidenzia che la norma
censurata rispetta l’art. 19 Cost. in quanto non distingue le confessioni
religiose a seconda della presenza o meno dell’intesa con lo Stato. Inoltre, il
PAR sarebbe «un mezzo proporzionato e congruo rispetto al fine», consistente
nella «razionale sistemazione urbanistica» di tali attrezzature. Infine, la
Regione ricorda che la Corte costituzionale ha considerato legittimo l’art.
31-bis della legge della Regione Veneto 23 aprile 2004, n. 11 (Norme per il
governo del territorio e in materia di paesaggio), inserito dall’art. 2 della
legge della Regione Veneto 12 aprile 2016, n. 12 (Modifica della legge
regionale 23 aprile 2004, n. 11 "Norme per il governo del territorio e in
materia di paesaggio” e successive modificazioni), riguardante la
pianificazione delle attrezzature religiose (è richiamata la sentenza n. 67 del
2017).
3.– Il 25 settembre 2019 l’Associazione culturale Assalam
di Cantù, parte di un giudizio amministrativo oggetto di sospensione cosiddetta
"impropria” (cioè, disposta in attesa della decisione della Corte sulle
presenti cause), ha depositato atto di intervento ad adiuvandum.
4.– Con sentenza dell’8 ottobre 2018, iscritta al reg. ord.
n. 172 del 2018, il TAR Lombardia ha sollevato questioni di legittimità
costituzionale dell’art. 72, comma 5, della legge reg. Lombardia n. 12 del
2005, come modificato dall’art. 1, comma 1, lettera c), della legge reg.
Lombardia n. 2 del 2015, per contrasto con gli artt. 2, 3, 5, 19, 97, 114, secondo comma, 117, secondo comma,
lettera m), e sesto comma, e 118, primo comma, Cost.
La disposizione censurata stabilisce che «[i] comuni che intendono
prevedere nuove attrezzature religiose sono tenuti ad adottare e approvare il
piano delle attrezzature religiose entro diciotto mesi dalla data di entrata in
vigore della legge regionale recante "Modifiche alla legge regionale 11 marzo
2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) - Principi per la
pianificazione delle attrezzature per servizi religiosi”. Decorso detto termine
il piano è approvato unitamente al nuovo PGT».
Il TAR riferisce che l’Associazione Comunità Islamica Ticinese (ora
Associazione Culturale Islamica Ticinese), ricorrente nel giudizio
amministrativo, formata da circa trecento persone di religione islamica
residenti prevalentemente a Sesto Calende e nei comuni limitrofi, aveva chiesto
al Comune di Sesto Calende fin dal 2011, nel corso della formazione del piano
di governo del territorio (di seguito PGT), di prevedere nel proprio strumento
urbanistico un’area per il culto islamico. Il Comune aveva rigettato la
richiesta e l’Associazione aveva impugnato il PGT nella parte in cui non
prevedeva alcuna area da destinare al culto islamico. Il ricorso era stato
accolto con sentenza del TAR Lombardia 8 novembre 2013, n. 2485. A fronte
dell’inerzia del Comune, l’Associazione aveva poi notificato un ricorso per ottemperanza,
a seguito del quale il TAR (con sentenza 15 gennaio 2015, n. 146, non
impugnata) aveva indicato le modalità per l’esecuzione della sua precedente
pronuncia. Il procedimento avviato per adeguarsi alla sentenza di ottemperanza,
tuttavia, era stato sospeso dal Comune per il sopraggiungere della legge reg.
Lombardia n. 2 del 2015 (che richiedeva il parere della Consulta regionale per
la valutazione delle istanze relative alle attrezzature religiose).
L’Associazione aveva quindi notificato un nuovo ricorso, ritenendo che la nuova
legge regionale non potesse costituire ostacolo all’esecuzione delle precedenti
statuizioni giurisdizionali, ma questo ricorso veniva respinto dal TAR
(sentenza 16 aprile 2015, n. 943, non impugnata). Dopo la dichiarazione di illegittimità
costituzionale della norma relativa al parere della Consulta regionale (sentenza n. 63 del
2016), al fine di non fare decorrere il termine di diciotto mesi previsto
dalla legge regionale per l’approvazione dei piani comunali delle attrezzature
religiose, l’Associazione aveva notificato al Comune un atto di diffida. Il
Comune respingeva la domanda con provvedimento del Responsabile dei servizi
dell’Area tecnica del Comune di Sesto Calende 25 ottobre 2016, n. prot. 24471,
rilevando l’assenza dei requisiti di ente di confessione religiosa richiesti
dalla legge 24 giugno 1929, n. 1159 (Disposizioni sull’esercizio dei culti
ammessi nello Stato e sul matrimonio celebrato davanti ai ministri dei culti
medesimi). Quest’ultimo diniego dava luogo al giudizio a quo e veniva sospeso
dal TAR con ordinanza cautelare 20 gennaio 2017, n. 112, (poi confermata dal
Consiglio di Stato con ordinanza 5 maggio 2017, n. 1885).
Il Comune adottava quindi la delibera consiliare 20 settembre 2017, n. 39,
con cui respingeva la domanda per una pluralità di motivi. Il nuovo diniego
veniva impugnato dall’Associazione con motivi aggiunti, sui quali il TAR deve
dunque pronunciarsi nel merito.
4.1.– Il TAR rileva che la delibera n. 39 del 2017 avrebbe «natura di
provvedimento di secondo grado» rispetto all’atto di diniego n. 24471 del 2016
e, dunque, avrebbe privato quest’ultimo di efficacia. Per questa ragione
dichiara improcedibile il ricorso principale.
Quanto ai motivi aggiunti, il TAR afferma di dubitare «della legittimità
costituzionale dell’art. 72 della L.R. Lombardia n. 12/2005 nella misura in cui
tale norma, avuto riguardo alla tutela costituzionale riservata alla libertà
religiosa, non detta alcun limite alla discrezionalità del Comune nel decidere
quando (comma 5) e in che senso (commi 1 e 2) determinarsi a fronte della
richiesta di individuazione di edifici o aree da destinare al culto».
Tuttavia, dopo avere ricordato di avere già rimesso la questione di
costituzionalità relativa all’art. 72, commi 1 e 2, con la sentenza non
definitiva iscritta al reg. ord. n. 159 del 2018, il
TAR «[s]otto questo profilo […] reputa opportuno sospendere il giudizio ai
sensi dell’art. 79 c.p.a. in attesa della decisione»
della Corte costituzionale, e quindi solleva soltanto la questione relativa
all’art. 72, comma 5, «per un ulteriore profilo di incostituzionalità della
norma regionale, non sollevato nella precedente decisione di rinvio».
4.2.– Sulla rilevanza, il TAR riferisce che con il primo motivo aggiunto
l’Associazione lamenta che «l’Amministrazione comunale non può legittimamente
negare la sussistenza dei presupposti ad una individuazione di area di culto da
assegnare a fedeli della religione islamica, né tanto meno [il che
particolarmente rileva ai fini della questione di legittimità costituzionale –
n.d.r.] può legittimamente differire ogni determinazione in tal senso ad una
successiva ed ulteriore verifica in sede di futuro aggiornamento del PGT».
La decisione su questa prima censura, secondo il rimettente, passerebbe
necessariamente attraverso l’applicazione dell’art. 72, comma 5, della legge
reg. Lombardia n. 12 del 2005, perché tale disposizione prevede che, decorsi
diciotto mesi dalla data di entrata in vigore della legge reg. Lombardia n. 2
del 2015, i comuni che intendono prevedere nuove attrezzature religiose devono
approvare il piano delle attrezzature religiose «unitamente al nuovo PGT». Il
termine di diciotto mesi è spirato il 6 agosto 2016 e il Comune di Sesto
Calende non ha approvato il piano delle attrezzature religiose e ha adottato
l’atto di diniego il 20 settembre 2017. Per questa ragione verrebbe in rilievo
l’applicazione del secondo periodo dell’art. 72, comma 5, giacché senza
l’approvazione del nuovo PGT rimarrebbe senza tutela la posizione
dell’Associazione e sarebbe dunque «innegabile» la rilevanza della questione.
4.3.– Quanto alla non manifesta infondatezza, l’art. 72, comma 5, secondo
periodo, della legge regionale n. 12 contrasterebbe innanzitutto con gli artt.
2, 3 e 19 Cost., per l’irragionevole compressione della libertà religiosa dei
fedeli, sotto il profilo del loro diritto di trovare spazi da dedicare
all’esercizio di tale libertà, in quanto, a seguito della inutile decorrenza
del termine di diciotto mesi per l’adozione del PAR, la norma non prevede la
possibilità di «alcun intervento sostitutivo», e assegna all’amministrazione
comunale la facoltà di introdurre il piano in sede di revisione o adozione del
PGT «senza alcun ulteriore termine» e senza «alcuna disposizione
"sanzionatoria”».
Resterebbe, secondo lo stesso rimettente, «fuori discussione il potere del
Comune di decidere, all’esito di un’istruttoria adeguata, se accogliere o
respingere la domanda degli interessati». Tuttavia, la perdurante situazione di
attesa e di incertezza nella quale versano i fedeli non sarebbe compatibile con
il rango costituzionale del diritto di libertà religiosa. La domanda di spazi
da dedicare all’esercizio di tale libertà, infatti, dovrebbe «trovare una risposta
– in un senso positivo o in senso negativo – in tempi certi, ed entro un
termine ragionevole» (si richiama la sentenza n. 63 del
2016).
4.4.– La norma regionale impugnata violerebbe anche l’art. 97 Cost. in
quanto la mancata previsione di tempi certi di risposta all’istanza dei fedeli,
da un lato, contrasterebbe con il principio di buon andamento dell’azione
amministrativa e, dall’altro lato, esprimerebbe «uno sfavore dell’Amministrazione
nei confronti del fenomeno religioso», con conseguente violazione del principio
di imparzialità dell’azione amministrativa.
Inoltre, la mancata previsione di tempi certi violerebbe l’art. 117,
secondo comma, lettera m), Cost., in quanto la predeterminazione della durata
massima dei procedimenti atterrebbe ai livelli essenziali delle prestazioni
concernenti i diritti civili, in base all’art. 29 della legge n. 241 del 1990.
4.5.– Sotto un ulteriore profilo, il rimettente denuncia la violazione, da
parte della norma regionale in questione, degli artt. 5, 114, secondo comma,
117, sesto comma, e 118, primo comma, Cost. Una volta decorsi i diciotto mesi
dall’entrata in vigore della legge reg. Lombardia n. 2 del 2015, «la norma
regionale condiziona l’adozione del Piano delle attrezzature religiose alla
revisione complessiva del piano di governo del territorio». Secondo il TAR, ciò
determinerebbe la ingiustificata compressione dell’autonomia dei comuni
nell’esercizio delle funzioni di loro competenza, non comprendendosi per quale
ragione sia vietato ai comuni lombardi di adottare il PAR in un momento
distinto rispetto alla revisione del PGT; inoltre, sarebbe compressa anche la
potestà regolamentare in ordine alle funzioni attribuite ai comuni (art. 117,
sesto comma, Cost.) e sarebbe violato il principio di sussidiarietà verticale
di cui all’art. 118, primo comma, Cost.
5.– È intervenuta in giudizio la Regione Lombardia, con atto depositato il
17 dicembre 2018, eccependo l’inammissibilità e l’infondatezza delle questioni.
5.1.– Le questioni sarebbero inammissibili per irrilevanza, perché la norma
della cui costituzionalità si dubita non influirebbe sulla decisione nel
giudizio a quo.
La Regione rileva che la delibera del Consiglio comunale n. 39 del 2017 ha
respinto la domanda dell’Associazione per diversi motivi, senza fare alcun
cenno all’art. 72, comma 5, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005 e alle
scadenze temporali per l’approvazione del PAR. La circostanza che il Comune di
Sesto Calende non si sia pronunciato nei diciotto mesi «non risulta essere
censurata nel giudizio, né il provvedimento risulta motivato in relazione al
suddetto art. 72 co. 5». Tale norma, pertanto, non troverebbe applicazione nel
giudizio a quo.
La Regione ricorda che la deliberazione del Comune consegue ad una
complessa vicenda giudiziale: in essa «si legge che, in considerazione delle
ordinanze cautelari emesse dal TAR per la Lombardia e dal Consiglio di Stato,
si determina ad analizzare l’osservazione al Piano di Governo del Territorio,
prot. 18509 del 04.07.2011 presentata dall’Associazione Islamica e tesa
all’identificazione nel P.G.T. di un’area destinata ad attrezzature per il
culto islamico». L’istanza sarebbe stata dunque esaminata dal Comune proprio in
sede di approvazione del PGT, cioè «nella sede propria, anche ai sensi
dell’art. 72 oggetto del presente giudizio».
Il ricorso metterebbe in evidenza l’impossibilità, per il Comune, di negare
un provvedimento positivo in presenza di una comunità di fedeli, per cui l’art.
72, comma 3 (recte: 5), della legge reg. Lombardia n.
12 del 2005 non sarebbe applicabile.
Inoltre, la norma censurata non sarebbe applicabile perché la vicenda
amministrativa e giudiziaria riguarda «un procedimento di approvazione di PGT
già in itinere».
5.2.– Quanto al merito delle questioni, la difesa regionale, dopo avere
richiamato gli argomenti già spesi in relazione all’ordinanza iscritta al reg. ord. n. 159 del 2018, afferma che la disposizione dell’art.
72, comma 5, non violerebbe l’art. 19 Cost. in quanto non distingue fra le
varie confessioni religiose, che siano di grandi, medie o piccole dimensioni.
Aggiunge che, essendo il PAR un nuovo elemento del più ampio PGT, la legge
regionale ha voluto che fosse inserito in un momento di revisione organica di
quest’ultimo. Successivamente alla prima variante generale del PGT, tuttavia,
qualsiasi altra richiesta accolta dal comune potrebbe essere approvata con una
semplice variante al PAR, e non ogni volta con una variante generale al PGT.
Quanto alla mancata previsione di un potere sostitutivo dopo la scadenza
dei diciotto mesi, la Regione osserva che «la parola "intendono” utilizzata
dalla norma non può certo essere ritenuta come intenzione soggettiva, ma come
legata al nostro ordinamento giuridico»: nell’ipotesi in cui vi fossero state
istanze pendenti nel lasso di tempo dal 5 febbraio 2015 al 5 agosto 2016, i
comuni sarebbero stati tenuti ad esaminarle (eventualmente respingendole, come
ha fatto il Comune di Sesto Calende). La mancanza di un potere sostitutivo regionale
non sarebbe incostituzionale perché il nostro ordinamento prevede rimedi contro
l’inerzia della pubblica amministrazione.
In virtù della previsione del termine di diciotto mesi, la certezza del
rapporto sarebbe insita nella norma, con conseguente insussistenza della
violazione degli artt. 97 e 117, secondo comma, lettera m), Cost.
La Regione rileva anche che, in ogni caso, i comuni possono ancora
approvare il PAR in tempi ragionevoli, con la procedura prevista per le
varianti generali al PGT, e, ove i comuni «non dovessero attivarsi,
immotivatamente, a fronte di richieste di nuove attrezzature religiose, tale
comportamento potrà essere sanzionato nelle sedi competenti».
La norma regionale avrebbe dato «la possibilità ai comuni di esaminare con
procedimento semplificato le istanze già pendenti proprio in considerazione
della necessità di una durata ragionevole del procedimento», e ciò
dimostrerebbe che la scansione temporale della norma de qua non contrasta con
gli artt. 2, 3, 19, 97 e 117, secondo comma, lettera m), Cost.
La previsione della variante generale del PGT non sarebbe eccentrica perché
la gestione del territorio deve tener conto di tutti gli interessi coinvolti e
la sede propria per questa attività è il PGT.
Il rispetto dell’autonomia comunale «deve armonizzarsi con la verifica e la
protezione di concorrenti interessi generali, collegati ad una valutazione
ampia delle esigenze diffuse sul territorio».
Dunque, la normativa regionale non violerebbe le norme costituzionali
relative all’autonomia comunale: «i Comuni ben possono esercitare le proprie
funzioni» ma «devono adottare un determinato procedimento». La discrezionalità
del legislatore regionale non potrebbe risultare compressa al punto che ad esso
non sarebbe consentito di «normare il procedimento attraverso cui si giunge
all’approvazione» del piano delle attrezzature religiose.
6.– Nel giudizio di legittimità costituzionale si è costituita – con atto
depositato il 21 dicembre 2018 – l’Associazione Culturale Islamica Ticinese,
ricorrente nel giudizio a quo, chiedendo che la disposizione censurata sia
dichiarata incostituzionale.
La parte ripercorre le vicende amministrative e giudiziarie all’origine del
giudizio di legittimità costituzionale, osservando, fra l’altro, che
all’Associazione aderiscono oltre 150 capifamiglia e che tale comunità islamica
non dispone di uno spazio per la preghiera, ragion per cui dal 2006 chiede al
Comune di Sesto Calende l’individuazione di uno spazio nel territorio comunale.
In occasione dell’approvazione del PGT, la richiesta dell’Associazione sarebbe
stata respinta per ragioni «elettorali», e il rigetto è stato poi annullato dal
TAR Lombardia. Nelle more del giudizio di ottemperanza per l’esecuzione di tale
sentenza, la Regione approvava la legge reg. Lombardia n. 2 del 2015, «meglio
nota in Lombardia come "legge antimoschee”».
L’Associazione ricorda di aver contestato la delibera del Consiglio
comunale n. 39 del 2017 in quanto «la disposizione regionale avrebbe consentito
di subordinare a valutazioni ampiamente discrezionali […] la previsione di aree
di culto»: invece si dovrebbe escludere che «in proposito l’amministrazione
comunale fruisca dell’ordinaria discrezionalità (sia quanto ai contenuti, sia
quanto ai tempi) di cui gode […] in materia di pianificazione urbanistica e cui
fa rinvio l’art. 72, quinto comma, della l. reg. 12/2005». Secondo
l’Associazione, l’amministrazione comunale, «alla stregua dei principi
costituzionali, può "modulare” l’esercizio della libertà di culto nell’ambito
del territorio comunale, per esempio attraverso l’individuazione delle aree più
idonee, alla integrazione architettonica, ecc.», ma una legge regionale non può
assegnare al comune «una potestà di pianificazione urbanistica come strumento
per decidere "se” e "quando” individuare un luogo di culto nel territorio
comunale sulla base di propri apprezzamenti ampiamente discrezionali». In altre
parole, «non può essere conferita al Comune la possibilità di consentire o meno
l’esercizio del culto nel territorio comunale (come invece si verifica nei
Paesi dove non è riconosciuta la libertà religiosa)»: ai comuni dovrebbe
spettare soltanto l’individuazione del luogo più adatto.
Con la deliberazione n. 39 del 2017, il Comune avrebbe esercitato l’ampia
discrezionalità attribuita dall’art. 72, comma 5, della legge reg. Lombardia n.
2 del 2015, ragion per cui la questione sarebbe rilevante.
Quanto alla non manifesta infondatezza, l’Associazione rileva che, secondo
la giurisprudenza costituzionale, i principi costituzionali della laicità
"positiva” dello Stato e della libertà religiosa condizionano l’esercizio delle
potestà urbanistiche. Per questo motivo i poteri di programmazione territoriale
non potrebbero «prevaricare rispetto ai principi costituzionali sulla garanzia
del culto» e la legislazione regionale non potrebbe penalizzare
surrettiziamente l’insediamento delle attrezzature religiose. La giurisprudenza
costituzionale imporrebbe di «differenziare con chiarezza l’individuazione di
luoghi di culto dalla discrezionalità (che attiene sia all’‘an’, che al ‘quomodo’, che al ‘quando’) di cui fruisce ordinariamente
l’amministrazione comunale nelle scelte in materia di pianificazione
urbanistica».
L’Associazione nega la possibilità di un’interpretazione adeguatrice: l’interpretazione dell’art. 72, comma 5,
seguita dal Comune di Sesto Calende, sulla cui base è stata sollevata la
questione, sarebbe costantemente riscontrabile nella prassi amministrativa
lombarda, tanto è vero che nella provincia di Varese sarebbe stato rilasciato
un solo permesso per costruire un luogo di culto islamico. Infatti, i membri
dell’Associazione, per celebrare il culto, si recano ogni settimana in
provincia di Novara.
7.– Il 9 aprile 2019 la Regione Lombardia ha depositato una memoria integrativa.
In essa ribadisce l’irrilevanza e l’infondatezza della questione sollevata dal
giudice a quo.
8.– Il 17 aprile 2019 la Associazione Culturale Islamica Ticinese ha
depositato a sua volta una memoria integrativa, in cui, in primo luogo, replica
all’eccezione di inammissibilità per irrilevanza, osservando che la norma
censurata assume rilievo nel giudizio a quo in quanto la sua applicazione
comporterebbe il rigetto dei motivi aggiunti per carenza d’interesse. Infatti,
il Comune ha respinto la richiesta dell’Associazione in una sede diversa dalla
formazione del nuovo PGT, per cui, visto il contenuto dell’art. 72, comma 5, e
il decorso del termine di diciotto mesi in esso previsto, la norma censurata
«precluderebbe qualsiasi possibilità di risultato utile per l’Associazione
ricorrente». Il TAR avrebbe espresso questo concetto osservando che la
rilevanza deriva dal fatto che, senza l’avvio del procedimento di approvazione
del nuovo PGT, «rimane senza tutela la posizione dell’Associazione».
Nel merito, l’Associazione rileva che la legislazione regionale sulla
pianificazione urbanistica non può rendere più difficoltoso l’esercizio del
diritto fondamentale di libertà religiosa: eppure questo sarebbe l’effetto
della norma censurata, che vincola l’individuazione di luoghi di culto (e non
delle altre opere di urbanizzazione secondaria) all’adozione del nuovo PGT. Nel
complesso, le norme della Regione Lombardia avrebbero determinato l’«esclusione
sistematica di luoghi di culto islamico».
9.– Il 25 settembre 2019 l’Associazione culturale Assalam
di Cantù, parte di un processo amministrativo oggetto di sospensione c.d.
"impropria” (in attesa della decisione della Corte sulle presenti cause), ha
depositato anche in questo giudizio atto di intervento ad adiuvandum.
10.– Il 30 settembre 2019 la Regione Lombardia ha depositato una ulteriore
memoria integrativa, in cui ribadisce gli argomenti svolti a sostegno
dell’inammissibilità e dell’infondatezza della questione. Inoltre, la Regione
osserva che, «non motivando sugli ulteriori profili di ricorso, nonostante la
loro priorità logico-giuridica, di fatto il Giudice a quo svincola la
proposizione del dubbio di costituzionalità dal nesso di pregiudizialità».
Considerato in diritto
1.– Nel giudizio iscritto al reg. ord. n. 159 del
2018 il Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia dubita della
legittimità costituzionale dell’art. 72, commi 1 e 2, della legge della Regione
Lombardia 11 marzo 2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio), nel testo
risultante dalle modifiche apportate dall’art. 1, comma 1, lettera c), della
legge della Regione Lombardia 3 febbraio 2015, n. 2, recante «Modifiche alla
legge regionale 11 marzo 2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) -
Principi per la pianificazione delle attrezzature per servizi religiosi», per
contrasto con gli artt. 2, 3 e 19 della Costituzione.
L’art. 72, comma 1, stabilisce che «[l]e aree che accolgono attrezzature
religiose o che sono destinate alle attrezzature stesse sono specificamente
individuate nel piano delle attrezzature religiose, atto separato facente parte
del piano dei servizi, dove vengono dimensionate e disciplinate sulla base
delle esigenze locali, valutate le istanze avanzate dagli enti delle
confessioni religiose di cui all’articolo 70». Il comma 2 dispone che
«[l]’installazione di nuove attrezzature religiose presuppone il piano di cui
al comma 1; senza il suddetto piano non può essere installata nessuna nuova
attrezzatura religiosa da confessioni di cui all’articolo 70». Le attrezzature
religiose sono identificate dall’art. 71 della stessa legge reg. Lombardia n.
12 del 2005.
Secondo il TAR, i citati commi 1 e 2 dell’art. 72, nel prevedere che, in
assenza o comunque al di fuori delle previsioni del piano delle attrezzature
religiose (di seguito, PAR), i comuni non possano consentire l’apertura di
spazi destinati all’esercizio del culto, a prescindere dal contesto e dal
carico urbanistico generato dalla specifica opera, violerebbero: a) l’art. 19
Cost., in quanto la possibilità di esercitare collettivamente e in forma
pubblica i riti non contrari al buon costume verrebbe a essere subordinata alla
discrezionale pianificazione comunale e, quindi, al controllo pubblico; b)
l’art. 3 Cost., in quanto le norme censurate eccederebbero lo scopo di assicurare
il corretto inserimento sul territorio delle attrezzature religiose e
assegnerebbero a queste un trattamento discriminatorio rispetto a quello
riservato ad altre attrezzature comunque destinate alla fruizione pubblica, con
conseguente violazione «dei fondamentali canoni di ragionevolezza,
proporzionalità e non discriminazione»; c) l’art. 2 Cost., «stante la
centralità del credo religioso quale espressione della personalità dell’uomo,
tutelata nella sua affermazione individuale e collettiva».
2.– Nel giudizio iscritto al reg. ord. n. 172 del
2018, lo stesso TAR Lombardia dubita della legittimità costituzionale del comma
5, secondo periodo, dell’art. 72 della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005,
come modificato dall’art. 1, comma 1, lettera c), della legge reg. Lombardia n.
2 del 2015, per contrasto con gli artt. 2, 3, 5, 19, 97, 114, secondo comma,
117, secondo comma, lettera m), e sesto comma, e 118, primo comma, Cost.
La disposizione censurata stabilisce che «[i] comuni che intendono
prevedere nuove attrezzature religiose sono tenuti ad adottare e approvare il
piano delle attrezzature religiose entro diciotto mesi dalla data di entrata in
vigore della legge regionale […]. Decorso detto termine il piano è approvato
unitamente al nuovo PGT».
Secondo il TAR, l’art. 72, comma 5, secondo periodo, in base al quale, una
volta decorsi diciotto mesi dalla data di entrata in vigore della legge reg.
Lombardia n. 2 del 2015, il PAR è approvato unitamente al nuovo piano per il
governo del territorio (di seguito, PGT), senza «alcun limite alla
discrezionalità del Comune nel decidere quando […] determinarsi a fronte della
richiesta di individuazione di edifici o aree da destinare al culto»,
violerebbe: a) gli artt. 2, 3 e 19 Cost., per l’irragionevole compressione
della libertà religiosa dei fedeli, sotto il profilo del loro diritto di
trovare spazi da dedicare all’esercizio di tale libertà, in quanto, a seguito
della inutile decorrenza del termine di diciotto mesi per l’adozione del PAR,
la norma non prevede «alcun intervento sostitutivo», e demanda
all’amministrazione comunale la facoltà di introdurre il piano in sede di
revisione o adozione del PGT «senza alcun ulteriore termine» e senza «alcuna
disposizione "sanzionatoria”»; b) l’art. 97 Cost., in quanto la mancata previsione
di tempi certi di risposta all’istanza dei fedeli, da un lato, contrasterebbe
con il principio di buon andamento dell’azione amministrativa e, dall’altro
lato, esprimerebbe «uno sfavore dell’Amministrazione nei confronti del fenomeno
religioso», con conseguente violazione del principio di imparzialità
dell’azione amministrativa; c) l’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., in
quanto la predeterminazione della durata massima dei procedimenti atterrebbe ai
livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili, in base
all’art. 29 della legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di
procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti
amministrativi); d) gli artt. 5, 114, secondo comma, 117, sesto comma, e 118,
primo comma, Cost., in quanto, una volta decorsi i diciotto mesi dall’entrata
in vigore della legge reg. Lombardia n. 2 del 2015, «la norma regionale
condiziona l’adozione del Piano delle attrezzature religiose alla revisione
complessiva del piano di governo del territorio», con conseguente
ingiustificata compressione dell’autonomia dei comuni.
3.– I due giudizi, riguardando norme sotto più profili connesse e
sollevando questioni in parte sovrapponibili, vanno riuniti per essere definiti
con un’unica pronuncia.
4.– L’intervento dell’associazione Assalam di
Cantù è avvenuto in entrambi i giudizi oltre il termine previsto dall’art. 4,
comma 4, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte
costituzionale, in quanto l’atto di intervento è stato depositato il 25
settembre 2019, ben dopo i venti giorni dalla pubblicazione nella Gazzetta
Ufficiale dell’atto introduttivo del giudizio, avvenuta il 14 novembre 2018 per
la causa di cui al reg. ord. n. 159 del 2018 e il 5
dicembre 2018 per la causa di cui al reg. ord. n. 172
del 2018. L’intervento è dunque inammissibile in quanto, secondo il costante
orientamento di questa Corte, il termine per l’intervento nei giudizi dinanzi a
essa è perentorio (tra le molte, sentenze n. 106,
n. 90 e n. 78 del 2019).
5.– Venendo all’esame delle questioni sollevate nella prima causa (reg. ord. n. 159 del 2018), occorre innanzitutto precisare il thema decidendum sottoposto a
questa Corte e affrontare i profili processuali.
Il TAR Lombardia censura i primi due commi dell’art. 72 della legge reg.
Lombardia n. 12 del 2005: il comma 2 perché subordina in modo assoluto
l’apertura di luoghi di culto alla previa adozione del PAR; il comma 1 perché,
«anche dopo l’approvazione del Piano, nessuna attrezzatura è realizzabile al di
fuori delle aree a ciò specificamente destinate».
A sostegno delle sue censure il giudice a quo sviluppa per le due
disposizioni un’argomentazione unica, articolata in riferimento ai tre
parametri invocati. In realtà, le due norme censurate presentano un contenuto
differenziato e sono in effetti oggetto di distinte doglianze da parte del TAR,
che contesta per un verso la subordinazione dei luoghi di culto alla previa
approvazione del PAR (prevista al comma 2) e per altro verso il necessario
rispetto della zonizzazione operata nel PAR stesso (prescritto al comma 1). Le
censure devono dunque essere distinte anche in relazione all’oggetto, e non
solo in relazione al parametro.
5.1.– Precisato ciò, le questioni relative all’art. 72, comma 1, sono
inammissibili per irrilevanza. Il TAR censura infatti il carattere vincolante
delle previsioni localizzative del PAR per l’insediamento di qualsivoglia nuova
attrezzatura religiosa, ma, nel caso oggetto del giudizio a quo, il PAR non
risulta adottato, con la conseguenza che al giudizio stesso è estraneo il tema
– anche logicamente, oltre che fattualmente, subordinato al tema della previa
esistenza del PAR – della necessaria conformità alla zonizzazione del piano e
dunque in esso non viene in rilievo la questione di costituzionalità della
norma che la prescrive (art. 72, comma 1).
5.2.– Passando alle questioni proposte con riferimento all’art. 72, comma
2, occorre esaminare, in primo luogo, l’eccezione di irrilevanza sollevata
dalla Regione, secondo la quale, mentre il TAR censura la sproporzione tra
l’obbligo generalizzato previsto dalla norma, che impone l’esistenza del PAR
come condizione per l’installazione di qualsiasi attrezzatura religiosa, e le
ipotesi in cui questa consista per esempio in una piccola sala di preghiera, il
giudizio a quo riguarderebbe invece un luogo di culto potenzialmente
frequentabile da un numero non determinato di fedeli e destinato a incidere in
modo rilevante e permanente sul tessuto urbano.
L’eccezione non è fondata.
Anche senza entrare nel merito del presupposto di fatto dell’eccezione
(cioè, l’asserita rilevante consistenza della dimensione dell’immobile oggetto
del giudizio a quo), si deve osservare che il TAR non censura l’art. 72, comma
2, solo nella parte in cui si applica ai luoghi di culto di dimensioni modeste,
ma chiede una pronuncia ablativa dell’intera disposizione. Il riferimento
all’applicazione della norma anche alle «modeste sale di preghiera» è diretto a
mettere in evidenza gli effetti irragionevoli della norma stessa, non a
limitare il petitum. L’effettiva consistenza della
struttura oggetto del giudizio a quo non è dunque significativa ai fini della
rilevanza delle questioni.
Complessivamente, la motivazione del TAR sulla rilevanza risulta adeguata.
Il giudice a quo censura l’art. 72, comma 2, cioè esattamente la norma posta
alla base del provvedimento di annullamento d’ufficio, impugnato nel giudizio a
quo. Si sofferma inoltre espressamente sugli effetti della sopravvenuta legge
della Regione Lombardia 25 gennaio 2018, n. 5 (Razionalizzazione
dell’ordinamento regionale. Abrogazione di disposizioni di legge), che ha
abrogato la legge reg. Lombardia n. 2 del 2015, argomentando in modo plausibile
sulla permanenza della rilevanza delle questioni.
Si può osservare, infine, che la parte dell’atto di rimessione in cui si
sollevano le questioni di legittimità costituzionale ha una propria autonomia e
delinea in modo chiaro le questioni stesse, mettendone in evidenza la rilevanza
ai fini della decisione del quinto motivo di ricorso (l’unico non deciso dal
rimettente). Non rilevano dunque in questa sede eventuali profili di non
coerenza fra la parte dell’atto di rimessione che solleva le questioni e altri
capi della pronuncia in cui vengono respinti gli altri motivi di ricorso, in
alcuni casi applicando le disposizioni che il TAR ha poi sottoposto al giudizio
di questa Corte.
6.– Nel merito, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 72,
comma 2, proposta in relazione agli artt. 2, 3, primo comma, e 19 Cost., è
fondata.
È opportuno, innanzitutto, ricordare la cornice costituzionale in cui si
inserisce l’oggetto dei presenti giudizi.
La libertà religiosa garantita dall’art. 19 Cost. è un diritto inviolabile
(sentenze n. 334
del 1996, n.
195 del 1993 e n. 203 del 1989),
tutelato «al massimo grado» (sentenza n. 52 del
2016) dalla Costituzione. La garanzia costituzionale ha valenza anche
"positiva”, giacché il principio di laicità che contraddistingue l’ordinamento
repubblicano è «da intendersi, secondo l’accezione che la giurisprudenza
costituzionale ne ha dato (sentenze n. 63 del
2016, n. 508
del 2000, n.
329 del 1997, n.
440 del 1995, n.
203 del 1989), non come indifferenza dello Stato di fronte all’esperienza
religiosa, bensì come tutela del pluralismo, a sostegno della massima
espansione della libertà di tutti, secondo criteri di imparzialità» (sentenza n. 67 del
2017).
Della libertà di religione il libero esercizio del culto è un aspetto
essenziale, che lo stesso art. 19 Cost. garantisce specificamente disponendo
che «[t]utti hanno diritto di professare liberamente
la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne
propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si
tratti di riti contrari al buon costume». L’esercizio pubblico e comunitario
del culto, come questa Corte ha più volte precisato, va dunque tutelato, e va assicurato
ugualmente a tutte le confessioni religiose, a prescindere dall’avvenuta
stipulazione o meno dell’intesa con lo Stato e dalla loro condizione di
minoranza (sentenze
n. 63 del 2016, n. 195 del 1993
e n. 59 del 1958).
La libertà di culto si traduce anche nel diritto di disporre di spazi
adeguati per poterla concretamente esercitare (sentenza n. 67 del
2017) e comporta perciò più precisamente un duplice dovere a carico delle
autorità pubbliche cui spetta di regolare e gestire l’uso del territorio
(essenzialmente le regioni e i comuni): in positivo – in applicazione del
citato principio di laicità – esso implica che le amministrazioni competenti
prevedano e mettano a disposizione spazi pubblici per le attività religiose; in
negativo, impone che non si frappongano ostacoli ingiustificati all’esercizio
del culto nei luoghi privati e che non si discriminino le confessioni
nell’accesso agli spazi pubblici (sentenze n. 63 del
2016, n.
346 del 2002 e n. 195 del 1993).
Naturalmente, nel destinare spazi pubblici alle sedi di attività di culto
delle diverse confessioni, regioni e comuni devono tener conto della loro
presenza nel territorio di riferimento, dal momento che, in questo contesto, il
divieto di discriminazione «non vuol dire […] che a tutte le confessioni debba
assicurarsi un’eguale porzione dei contributi o degli spazi disponibili: come è
naturale allorché si distribuiscano utilità limitate, quali le sovvenzioni
pubbliche o la facoltà di consumare suolo, si dovranno valutare tutti i
pertinenti interessi pubblici e si dovrà dare adeguato rilievo all’entità della
presenza sul territorio dell’una o dell’altra confessione, alla rispettiva
consistenza e incidenza sociale e alle esigenze di culto riscontrate nella
popolazione» (sentenza
n. 63 del 2016).
6.1.– Il quadro costituzionale descritto ha trovato attuazione nella
normativa, sia statale che di molte regioni, che garantisce la previsione di
adeguati spazi per i luoghi di culto per l’esercizio della libertà religiosa.
Quanto alla disciplina statale, è sufficiente ricordare che, in base
all’art. 3 del decreto ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444 (Limiti inderogabili
di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti
massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi
pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi
da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della
revisione di quelli esistenti, ai sensi dell’art. 17 della legge 6 agosto 1967,
n. 765), i luoghi di culto rientrano tra le «attrezzature di interesse comune»
che devono essere previste dagli strumenti urbanistici al fine di soddisfare
gli standard fissati dallo stesso decreto. Inoltre, l’art. 16, comma 8, del
decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico
delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), ha
confermato che gli oneri di urbanizzazione secondaria riguardano anche «chiese
e altri edifici religiosi».
A livello regionale, negli anni Ottanta e Novanta molte regioni hanno
dettato norme dirette a riservare alle attrezzature religiose un trattamento
differenziato rispetto alle altre opere di urbanizzazione secondaria, al fine
di agevolarne la realizzazione, in particolare con la previsione di contributi
finanziari (regionali e comunali) e con l’innalzamento della dotazione minima
richiesta dalla disciplina statale (così, fra le altre: legge della Regione
Liguria 24 gennaio 1985, n. 4, recante «Disciplina urbanistica dei servizi
religiosi»; legge della Regione Piemonte 7 marzo 1989, n. 15, recante
«Individuazione negli strumenti urbanistici generali di aree destinate ad
attrezzature religiose. Utilizzo da parte dei Comuni del fondo derivante dagli
oneri di urbanizzazione»; legge della Regione Campania 5 marzo 1990, n. 9,
recante «Riserva di standard urbanistici per attrezzature religiose»).
6.2.– In questo filone si inseriva anche la legge della Regione Lombardia 9
maggio 1992, n. 20 (Norme per la realizzazione di edifici di culto e di
attrezzature destinate a servizi religiosi), che riservava alle attrezzature
religiose il 25% della dotazione complessiva di attrezzature per interesse
comune e prevedeva, fra l’altro, che in ciascun comune almeno l’8% delle somme
riscosse per oneri di urbanizzazione secondaria fosse destinato alla loro
realizzazione e manutenzione. Poiché tuttavia tali contributi erano riservati
alla Chiesa cattolica e alle altre confessioni religiose dotate di intesa,
questa Corte ha dichiarato costituzionalmente illegittima la disposizione che
li prevedeva, nella parte in cui prescriveva il requisito dell’intesa (sentenza n. 346
del 2002).
La successiva legge della Regione Lombardia 11 marzo 2005, n. 12 (Legge per
il governo del territorio), disciplinava poi, agli artt. da 70 a 73, la
realizzazione di attrezzature religiose, stabilendo che esse sarebbero state
regolate, insieme alle altre attrezzature di interesse pubblico, dal piano dei
servizi. Tale normativa è stata oggetto, a partire dal 2006, di varie
modifiche, che hanno progressivamente sottoposto l’apertura di luoghi di culto
a controlli e limiti sempre più penetranti.
La prima modifica è stata apportata con la legge della Regione Lombardia 14
luglio 2006, n. 12 (Modifiche e integrazioni alla legge regionale 11 marzo
2005, n. 12 «legge per il governo del territorio»), che ha assoggettato a
permesso edilizio i mutamenti di destinazione d’uso di immobili, anche senza opere,
«finalizzati alla creazione di luoghi di culto e luoghi destinati a centri
sociali» (art. 52, comma 3-bis, aggiunto alla legge reg. Lombardia n. 12 del
2005).
Una nuova restrizione è stata introdotta dalla legge regionale 14 marzo
2008, n. 4, recante «Ulteriori modifiche e integrazioni alla legge regionale 11
marzo 2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio)», che, aggiungendo il
comma 4-bis nell’art. 72 della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, ha limitato
le zone in cui potevano essere realizzate le attrezzature religiose fino
all’approvazione del piano dei servizi.
La successiva legge regionale 21 febbraio 2011, n. 3 (Interventi normativi
per l’attuazione della programmazione regionale e di modifica e integrazione di
disposizioni legislative - Collegato ordinamentale 2011), ha poi allargato la
nozione di attrezzature religiose, comprendendovi «gli immobili destinati a
sedi di associazioni, società o comunità di persone in qualsiasi forma
costituite, le cui finalità statutarie o aggregative siano da ricondurre alla
religione, all’esercizio del culto o alla professione religiosa quali sale di
preghiera, scuole di religione o centri culturali» (art. 71, comma 1, lettera
c-bis, aggiunta alla legge reg. Lombardia n. 12 del 2005).
È infine intervenuta la legge reg. Lombardia n. 2 del 2015, oggetto del
presente giudizio, che ha dettato una complessa disciplina in materia di
attrezzature religiose, modificando l’art. 70 e sostituendo l’art. 72 della
legge reg. Lombardia n. 12 del 2005.
La disciplina del 2015 è stata impugnata, in alcune sue parti, dal Governo,
e questa Corte ha deciso il ricorso con la sentenza n. 63 del
2016, fra l’altro dichiarando costituzionalmente illegittimi l’art. 70,
commi 2-bis (nella parte in cui fissava alcuni requisiti solo per le
confessioni non cattoliche senza intesa) e 2-quater (che istituiva la consulta
regionale), e l’art. 72, comma 4, primo periodo (che prevedeva i pareri
relativi ai profili di sicurezza pubblica, nel corso del procedimento di
formazione del PAR), e comma 7, lettera e) (che richiedeva un impianto di
videosorveglianza negli edifici di culto), della legge reg. Lombardia n. 12 del
2005.
La sentenza
n. 63 del 2016 non si è pronunciata nel merito sulle norme qui in esame,
poiché i commi 1 e 2 dell’art. 72 non erano stati impugnati dal Governo e
l’art. 72, comma 5, è stato oggetto di una pronuncia di manifesta
inammissibilità.
6.3.– Così illustrato il contesto di riferimento, si possono ora esaminare
le questioni sollevate dal giudice rimettente.
La disposizione censurata (art. 72, comma 2, della legge reg. Lombardia n.
12 del 2005, introdotto dalla legge reg. Lombardia n. 2 del 2015) subordina
l’installazione di tutte le nuove attrezzature religiose al PAR (atto separato
facente parte del piano dei servizi), che rappresenta a sua volta una novità
introdotta dalla stessa legge reg. Lombardia n. 2 del 2015.
Occupandosi della potestà legislativa regionale in tema di edilizia di
culto, questa Corte ne ha già chiarito finalità e limiti, affermando che «[l]a
legislazione regionale in materia di edilizia di culto "trova la sua ragione e
giustificazione – propria della materia urbanistica – nell’esigenza di
assicurare uno sviluppo equilibrato ed armonico dei centri abitativi e nella
realizzazione dei servizi di interesse pubblico nella loro più ampia accezione,
che comprende perciò anche i servizi religiosi” (sentenza n. 195 del
1993)» (sentenza
n. 63 del 2016). In questo contesto «la Regione è titolata, nel regolare la
coesistenza dei diversi interessi che insistono sul proprio territorio, a
dedicare specifiche disposizioni per la programmazione e la realizzazione dei
luoghi di culto e, nell’esercizio di tali competenze, può imporre quelle
condizioni e quelle limitazioni, che siano strettamente necessarie a garantire
le finalità di governo del territorio affidate alle sue cure» (sentenza n. 67 del
2017). Nell’esercizio delle sue competenze, tuttavia, il legislatore
regionale «non può mai perseguire finalità che esorbitano dai compiti della
Regione», non essendogli consentito in particolare di introdurre «all’interno
di una legge sul governo del territorio […] disposizioni che ostacolino o
compromettano la libertà di religione» (sentenza n. 63 del
2016).
In sintesi dunque, nel regolare, in sede di disciplina del governo del
territorio, l’edilizia di culto, le regioni possono perseguire esclusivamente
finalità urbanistiche, nell’ambito delle quali deve essere ricondotta anche la
necessaria specifica considerazione delle esigenze di allocazione delle
attrezzature religiose. In ragione del peculiare rango costituzionale della
libertà di culto, inoltre, la stessa disciplina urbanistico-edilizia deve far
fronte, con riferimento alle attrezzature religiose, all’ulteriore esigenza
della necessaria previsione di luoghi per il loro insediamento, con la
conseguenza che essa non può comportare l’esclusione o l’eccessiva compressione
della possibilità di realizzare strutture di questo tipo.
In questo quadro, la previsione – ad opera della legislazione regionale in
materia di governo del territorio – di uno speciale piano dedicato alle
attrezzature religiose, riconducibile al modello della pianificazione
urbanistica di settore, non è di per sé illegittima. Non lo è, tuttavia, alla
duplice condizione che essa persegua lo scopo del corretto insediamento nel
territorio comunale delle attrezzature religiose aventi impatto urbanistico, e
che, in questo orizzonte, tenga adeguatamente conto della necessità di favorire
l’apertura di luoghi di culto destinati alle diverse comunità religiose
(corrispondendo così anche agli standard urbanistici, cioè alla dotazione
minima di spazi pubblici).
A tali condizioni non risponde l’art. 72, comma 2, della legge reg.
Lombardia n. 12 del 2005, che subordina l’installazione di qualsiasi
attrezzatura religiosa all’esistenza del PAR. Questa Corte non può non rilevare
infatti che tale soluzione legislativa per un verso non consente un equilibrato
e armonico sviluppo del territorio e per altro verso finisce con l’ostacolare
l’apertura di nuovi luoghi di culto.
A questo riguardo viene in evidenza innanzitutto il carattere assoluto
della previsione, che riguarda indistintamente (ed esclusivamente) tutte le
nuove attrezzature religiose, a prescindere dal loro carattere pubblico o
privato, dalla loro dimensione, dalla specifica funzione cui sono adibite,
dalla loro attitudine a ospitare un numero più o meno consistente di fedeli, e
dunque dal loro impatto urbanistico, che può essere molto variabile e
potenzialmente irrilevante. L’effetto di tale assolutezza è che anche
attrezzature del tutto prive di rilevanza urbanistica, solo per il fatto di
avere destinazione religiosa (si pensi a una piccola sala di preghiera privata
di una comunità religiosa), devono essere preventivamente localizzate nel PAR,
e che, per esempio, i membri di un’associazione avente finalità religiosa non
possono riunirsi nella sede privata dell’associazione per svolgere l’attività
di culto, senza una specifica previsione del PAR. Al contrario, qualsiasi altra
attività associativa, purché non religiosa, può essere svolta senz’altro nella
sede sua propria, liberamente localizzabile sul territorio comunale nel solo
rispetto delle generali previsioni urbanistiche. In questa prospettiva, la
potenziale irrilevanza urbanistica di una parte almeno delle strutture
investite dalla previsione contestata rende evidente l’esistenza di un
obiettivo ostacolo all’insediamento di nuove strutture religiose.
Va sottolineato inoltre il regime differenziato che, a dispetto dello
specifico riconoscimento costituzionale – sopra ricordato – del diritto di
disporre di un luogo di esercizio del culto, colpisce solo le attrezzature
religiose e non le altre opere di urbanizzazione secondaria, quali per esempio
scuole, ospedali, palestre, centri culturali. Si tratta in tutti i casi di
impianti di interesse generale a servizio degli insediamenti abitativi che, in
maniera non diversa dalle attrezzature religiose, possono presentare maggiore o
minore impatto urbanistico in ragione delle loro dimensioni, della funzione e
dei potenziali utenti. Il fatto che il legislatore regionale subordini solo le
attrezzature religiose al vincolo di una specifica e preventiva pianificazione
indica che la finalità perseguita è solo apparentemente di tipo
urbanistico-edilizio, e che l’obiettivo della disciplina è invece in realtà
quello di limitare e controllare l’insediamento di (nuovi) luoghi di culto. E
ciò qualsiasi sia la loro consistenza, dalla semplice sala di preghiera per
pochi fedeli al grande tempio, chiesa, sinagoga o moschea che sia.
In conclusione, la compressione della libertà di culto che la norma
censurata determina, senza che sussista alcuna ragionevole giustificazione dal
punto di vista del perseguimento delle finalità urbanistiche che le sono
proprie, si risolve nella violazione degli artt. 2, 3, primo comma, e 19 Cost.
7.– Passando a esaminare la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 72, comma 5, secondo periodo, della legge reg. Lombardia n. 12 del
2005, occorre soffermarsi in primo luogo sulle eccezioni di inammissibilità
sollevate dalla Regione Lombardia.
7.1.– Secondo la Regione Lombardia, la questione è irrilevante innanzitutto
perché l’atto impugnato davanti al giudice rimettente non farebbe riferimento
alla previsione censurata (art. 72, comma 5), che non troverebbe dunque
applicazione nel giudizio a quo.
Sebbene sia vero che l’atto impugnato non menziona l’art. 72, comma 5, e
che esso si pronuncia su un’osservazione presentata nel procedimento di
approvazione del PGT, l’eccezione di irrilevanza non è fondata. Il TAR infatti
non si limita a contestare la discrezionalità delle scelte urbanistiche
affidate ai comuni in relazione al quando deliberare sulle istanze di
individuazione di un luogo di culto, ma precisa espressamente che, nel caso di
specie, viene in rilievo il secondo periodo dell’art. 72, comma 5, e la
necessità, in esso prevista, che il PAR venga approvato «unitamente al nuovo
PGT», con la conseguenza che resterebbero incerti e aleatori i tempi di
risposta sull’istanza degli interessati, dato che, secondo il TAR,
«l’Amministrazione non ha alcun obbligo di avviare il procedimento di revisione
del PGT, per individuare le aree destinate a luogo di culto». E, in effetti, il
baricentro delle questioni sollevate è proprio quello della necessaria
approvazione del PAR contestualmente al nuovo PGT.
Ciò precisato, la motivazione offerta dal rimettente sulla rilevanza delle
questioni investe due distinti profili.
Innanzitutto, è valorizzato il fatto che nel primo dei motivi aggiunti la
ricorrente in due punti lamenta l’illegittimità del diniego perché, nella sua
parte finale, la delibera impugnata afferma che «ogni determinazione in tal
senso sarà oggetto di successiva ed ulteriore verifica in sede di futuro
aggiornamento del PGT», come prescritto proprio all’art. 72, comma 5, secondo
periodo. In secondo luogo, dopo aver affermato che l’art. 72, comma 5, vigente
dal 2015, trova applicazione nel procedimento oggetto del giudizio a quo
(iniziato con un’osservazione al PGT presentata nel 2011), il TAR osserva che,
in base all’art. 72, comma 5, secondo periodo, «senza l’avvio del nuovo Piano
del Governo del Territorio rimane senza tutela la posizione dell’Associazione:
in tal senso è quindi innegabile la rilevanza della questione nel caso di
specie».
Secondo il rimettente, pertanto, da un lato la legittimità dell’art. 72,
comma 5, secondo periodo, condiziona la legittimità del rinvio, operato dal
provvedimento impugnato, al futuro aggiornamento del PGT, dall’altro la
questione è comunque rilevante perché il Comune non avrebbe potuto accogliere
l’istanza senza avviare il procedimento per il nuovo PGT, a causa del vincolo
discendente dall’art. 72, comma 5, secondo periodo.
La motivazione fornita sulla rilevanza è dunque sufficiente e plausibile.
7.2.– La seconda eccezione di inammissibilità è sviluppata dalla Regione
Lombardia nella memoria depositata il 30 settembre 2019, nella quale lamenta
che, «non motivando sugli ulteriori profili di ricorso, nonostante la loro
priorità logico-giuridica, di fatto il Giudice a quo svincola la proposizione
del dubbio di costituzionalità dal nesso di pregiudizialità».
In realtà il TAR rimettente afferma espressamente, basandosi sull’ordine
dei motivi aggiunti fissato dalla stessa ricorrente, che la seconda censura può
essere esaminata solo dopo aver deciso sulla prima, e poi argomenta (come
appena visto) sulla rilevanza della questione di costituzionalità relativa
all’art. 72, comma 5, ai fini della decisione del primo dei motivi aggiunti.
È comunque il caso di ricordare che, secondo la giurisprudenza di questa
Corte, non è sindacabile l’ordine di esame delle questioni seguito dal
rimettente, qualora esso si sviluppi in modo non implausibile (ad esempio, sentenze n. 120 del
2019 e n.
125 del 2018).
Nemmeno questa eccezione, dunque, è fondata.
8.– Nel merito, anche la questione di legittimità costituzionale relativa
all’art. 72, comma 5, secondo periodo, della legge reg. Lombardia n. 12 del
2005, sollevata in riferimento agli artt. 2, 3 e 19 Cost., è fondata.
Come visto, la norma censurata stabilisce che, decorso il termine di
diciotto mesi dall’entrata in vigore della legge reg. Lombardia n. 2 del 2015,
il PAR «è approvato unitamente al nuovo PGT», il che significa che – come del
resto precisato, con riferimento alla previsione in esame, anche nella
circolare n. 3 del 20 febbraio 2017, recante gli indirizzi per l’applicazione
della suddetta legge regionale – il PAR non può essere approvato «separatamente
da un nuovo strumento di pianificazione urbanistica (PGT o variante generale)».
Seguendo un modello diffuso nella legislazione urbanistica regionale più
recente, anche il legislatore regionale lombardo ha previsto un piano
urbanistico comunale, denominato PGT, che si articola in tre atti: documento di
piano, piano dei servizi e piano delle regole (art. 7 della legge reg.
Lombardia n. 12 del 2005). Il documento di piano ha un contenuto
ricognitivo-conoscitivo e determina gli obiettivi e le politiche di sviluppo
del territorio. Esso ha validità quinquennale ed è sempre modificabile (art. 8
della citata legge regionale). Il piano dei servizi serve ad assicurare una
dotazione globale di aree per attrezzature pubbliche e di interesse pubblico e
generale, non ha termini di validità ed è sempre modificabile (art. 9 della
stessa legge regionale). Infine, il piano delle regole ha i diversi contenuti
indicati nell’art. 10 della legge regionale in questione, e anch’esso non ha
termini di validità ed è sempre modificabile (art. 10, comma 6). Il complesso
procedimento di approvazione degli atti costituenti il PGT è regolato dall’art.
13 della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005; la stessa disciplina si applica
«anche alle varianti agli atti costituenti il PGT» (art. 13, comma 13).
La contestualità di approvazione del PAR e del nuovo PGT (o di una sua
variante generale), imposta dall’art. 72, comma 5, secondo periodo, fa sì che
le istanze di insediamento di attrezzature religiose siano destinate a essere
decise in tempi del tutto incerti e aleatori, in considerazione del fatto che
il potere del comune di procedere alla formazione del PGT o di una sua variante
generale, condizione necessaria per poter adottare il PAR (a sua volta
condizione perché la struttura possa essere autorizzata), ha per sua natura
carattere assolutamente discrezionale per quanto riguarda l’an
e il quando dell’intervento.
La norma censurata, ostacolando la programmazione delle attrezzature
religiose da parte dei comuni (a loro volta condizionati nell’esercizio della
loro autonomia amministrativa in materia urbanistica, su cui, da ultimo,
sentenza n. 179 del 2019), determina una forte compressione della libertà
religiosa (che può addirittura spingersi fino a negare la libertà di culto),
senza che a ciò corrisponda alcun reale interesse di buon governo del
territorio. Secondo le regole generali, infatti, la realizzazione di un
impianto di interesse pubblico che richieda la modifica delle previsioni di
piano si può tradurre in una semplice variante parziale. E comunque,
quand’anche la previsione del nuovo impianto possa richiedere una
riconsiderazione dell’intero ambito interessato, la valutazione in concreto
dell’impatto della nuova struttura sul contesto circostante spetterebbe in via
esclusiva al comune. La previsione ad opera della legge regionale della
necessaria e inderogabile approvazione del PAR unitamente all’approvazione del
piano che investe l’intero territorio comunale (il PGT o la sua variante
generale) è dunque ingiustificata e irragionevole, e tanto più lo è in quanto
riguarda l’installazione di attrezzature religiose, alle quali, come visto, in
ragione della loro strumentalità alla garanzia di un diritto costituzionalmente
tutelato, dovrebbe piuttosto essere riservato un trattamento di speciale
considerazione.
È significativo che per gli altri impianti di interesse pubblico la legge
reg. Lombardia n. 12 del 2005 non solo non esiga la variante generale del PGT
ma non richieda neppure sempre la procedura di variante parziale, visto che
«[l]a realizzazione di attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o
generale, diverse da quelle specificamente previste dal piano dei servizi, non
comporta l’applicazione della procedura di variante al piano stesso ed e` autorizzata previa deliberazione motivata del consiglio
comunale» (art. 9, comma 15, della citata legge regionale).
Anche nel caso dell’art. 72, comma 5, secondo periodo, si deve concludere
che la disposizione censurata determina una limitazione dell’insediamento di
nuove attrezzature religiose non giustificata da reali esigenze di buon governo
del territorio e che essa, dunque, comprimendo in modo irragionevole la libertà
di culto, viola gli artt. 2, 3 e 19 Cost.
9.– A seguito dell’accoglimento delle censure esaminate, le questioni
riferite all’art. 97, all’art. 117, secondo comma, lettera m), e agli artt. 5,
114, secondo comma, 117, sesto comma, e 118, primo comma, Cost. restano
assorbite.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
1) dichiara inammissibili gli
interventi spiegati dall’Associazione culturale Assalam
di Cantù nei giudizi indicati in epigrafe;
2) dichiara l’illegittimità
costituzionale dell’art. 72, comma 2, della legge della Regione Lombardia 11
marzo 2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio), come modificato
dall’art. 1, comma 1, lettera c), della legge della Regione Lombardia 3
febbraio 2015, n. 2, recante «Modifiche alla legge regionale 11 marzo 2005, n.
12 (Legge per il governo del territorio) - Principi per la pianificazione delle
attrezzature per servizi religiosi»;
3) dichiara l’illegittimità
costituzionale dell’art. 72, comma 5, secondo periodo, della legge reg.
Lombardia n. 12 del 2005, come modificato dall’art. 1, comma 1, lettera c),
della legge reg. Lombardia n. 2 del 2015;
4) dichiara inammissibili le
questioni di legittimità costituzionale dell’art. 72, comma 1, della legge reg.
Lombardia n. 12 del 2005, come modificato dall’art. 1, comma 1, lettera c),
della legge reg. Lombardia n. 2 del 2015, sollevate dal Tribunale
amministrativo regionale per la Lombardia, in riferimento agli artt. 2, 3 e 19
della Costituzione, con l’ordinanza iscritta al reg. ord.
n. 159 del 2018.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della
Consulta, il 22 ottobre 2019.
F.to:
Giorgio LATTANZI, Presidente
Daria de PRETIS, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 5 dicembre 2019.