SENTENZA N. 63
ANNO 2019
Commenti
alla decisione di
I. Marco Scoletta, Retroattività
favorevole e sanzioni amministrative punitive:la
svolta, finalmente, della Corte Costituzionale, per g.c. di Diritto Penale Contemporaneo
II. Grazia Vitale, I
recenti approdi della Consulta sui rapporti tra Carte e Corti. Brevi
considerazioni sulle sentenze nn. 20 e 63 del 2019 della Corte costituzionale,
per g.c. di Federalismi.it
III. Stefano Catalano, Doppia
pregiudizialità una svolta ‘opportuna’ della Corte costituzionale, per g.c.
di Federalismi.it
IV. Gino Scaccia, Corte
costituzionale e doppia pregiudizialità: la priorità del giudizio incidentale
oltre la Carta dei diritti? per g.c. del Forum di Quaderni Costituzionali
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Giorgio
LATTANZI;
Giudici: Aldo CAROSI, Marta
CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana
SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio
BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità
costituzionale dell’art. 6, comma 2, del decreto
legislativo 12 maggio 2015, n. 72 (Attuazione della direttiva 2013/36/UE, che
modifica la direttiva 2002/87/CE e abroga le direttive 2006/48/CE e 2006/49/CE,
per quanto concerne l’accesso all’attività degli enti creditizi e la vigilanza
prudenziale sugli enti creditizi e sulle imprese di investimento. Modifiche al
decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385 e al decreto legislativo 24
febbraio 1998, n. 58), promosso dalla Corte di appello di Milano, sezione
prima civile, nel procedimento vertente tra G. P. e la Commissione nazionale
per le società e la borsa (CONSOB), con ordinanza
del 19 marzo 2017, iscritta al n. 87 del registro ordinanze 2017 e pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 25, prima serie speciale,
dell’anno 2017.
Visti gli atti di
costituzione di G. P. e della CONSOB, nonché l’atto di intervento del
Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica
del 5 febbraio 2019 il Giudice relatore Francesco Viganò;
uditi gli avvocati Andrea
Giussani per G. P., Paolo Palmisano e Salvatore Providenti per la CONSOB e
l’avvocato dello Stato Paolo Gentili per il Presidente del Consiglio dei
ministri.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 19
marzo 2017, la Corte d’appello di Milano, sezione prima civile, ha sollevato, in
riferimento all’art. 77 (recte: 76) della Costituzione,
questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 2, del decreto
legislativo 12 maggio 2015, n. 72 (Attuazione della direttiva 2013/36/UE, che
modifica la direttiva 2002/87/CE e abroga le direttive 2006/48/CE e 2006/49/CE,
per quanto concerne l’accesso all’attività degli enti creditizi e la vigilanza
prudenziale sugli enti creditizi e sulle imprese di investimento. Modifiche al
decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385 e al decreto legislativo 24
febbraio 1998, n. 58), «nella parte in cui ha modificato le sanzioni di cui
all’art. 187 bis» del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico
delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli
articoli 8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52) «in attuazione dell’art. 3,
comma 1, letter[e] i) e l), della legge 7 ottobre 2014, n. 154» (Delega al
Governo per il recepimento delle direttive europee e l’attuazione di altri atti
dell’Unione europea – Legge di delegazione europea 2013 – secondo semestre).
Con la medesima ordinanza,
ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 117, primo comma, Cost.,
quest’ultimo in relazione all’art.
7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa
esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, questioni di legittimità
costituzionale dell’art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 72 del 2015, «nella parte in
cui ha modificato le sanzioni di cui all’art. 187 bis» del d.lgs. n. 58 del
1998, «nella parte in cui ha modificato le sanzioni di cui all’art. 187 bis»
del medesimo decreto legislativo «in attuazione dell’art. 3 della legge delega
n. 154/2014, escludendo la retroattività in mitius della normativa più
favorevole prevista dall’art. 6, comma 3» del d.lgs. n. 72 del 2015.
1.1.– Il Collegio
rimettente espone anzitutto di essere investito della opposizione proposta da
G. P. avverso la delibera della Commissione nazionale per le società e la borsa
(CONSOB) n. 19659 del 6 luglio 2016, che aveva irrogato nei suoi confronti una
sanzione amministrativa pecuniaria pari a 100.000 euro, unitamente alla misura
interdittiva accessoria di due mesi di sospensione dall’esercizio dell’attività
e alla pubblicazione, per estratto, della delibera nel Bollettino della CONSOB,
per l’illecito amministrativo di abuso di informazioni privilegiate di cui
all’allora vigente art. 187-bis, comma 1, lettera b), del d.lgs. n. 58 del
1998, integrato – secondo la prospettazione della CONSOB – dall’invio di una
e-mail da parte di G. P. alla propria consorte, in calce alla quale era
illustrato un piano di rafforzamento patrimoniale della società presso la quale
lo stesso G. P. lavorava, reso pubblico al mercato soltanto un mese più tardi.
Accanto ad altre doglianze,
il ricorrente G. P. aveva dedotto la violazione, da parte della CONSOB,
dell’art. 6, comma 3, del d.lgs. n. 72 del 2015, che esclude l’applicazione
della quintuplicazione delle sanzioni amministrative pecuniarie previste dal
d.lgs. n. 58 del 1998, stabilita dall’art. 39, comma 3, della legge 28 dicembre
2005, n. 262 (Disposizioni per la tutela del risparmio e la disciplina dei
mercati finanziari). Conseguentemente, la sanzione minima a lui applicabile
avrebbe dovuto essere pari a 20.000 euro, in luogo dei 100.000 euro
effettivamente irrogatigli.
La CONSOB aveva, tuttavia,
eccepito che all’applicazione dell’art. 6, comma 3, del d.lgs. n. 72 del 2015,
invocato dal ricorrente, ostava il disposto del comma 2 del medesimo articolo,
che espressamente esclude l’applicazione retroattiva in mitius delle modifiche
al trattamento sanzionatorio degli illeciti previsti dal d.lgs. n. 58 del 1998,
introdotte dallo stesso d.lgs. n. 72 del 2015. Alla medesima conclusione si
sarebbe dovuti d’altra parte pervenire, secondo la CONSOB, in forza della
disciplina generale delle sanzioni amministrative stabilita dalla legge 24
novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), che non prevede
l’applicazione retroattiva delle modifiche sanzionatorie più favorevoli.
1.2.– La Corte d’appello
rimettente dubita, in primo luogo, della legittimità costituzionale, in
riferimento all’art. 77 (recte: 76) Cost., dell’art. 6, comma 2, del d.lgs. n.
72 del 2015, «nella parte in cui ha modificato le sanzioni di cui all’art. 187
bis TUF in attuazione dell’art. 3, comma 1, lettere i) e l) della legge delega
n. 154/2014».
Secondo il giudice a quo,
la disposizione censurata costituirebbe l’attuazione del criterio indicato
nell’art. 3, comma 1, lettera m), numero 1), della legge n. 154 del 2014, che
delegava il Governo, «con riferimento alla disciplina sanzionatoria adottata in
attuazione delle lettere i) e l)», a «valutare l’estensione del principio del
favor rei ai casi di modifica della disciplina vigente al momento in cui è
stata commessa la violazione». Le lettere i) e l), peraltro, non
menzionerebbero l’art. 187-bis tra le «norme da riformulare sotto il profilo
delle sanzioni»; ciò che profilerebbe un possibile eccesso di delega.
In ogni caso, a parere
della Corte rimettente «il Governo, dando attuazione alla legge delega sopra
citata, avrebbe dovuto meglio valutare l’opportunità di estendere il principio
del favor rei con riguardo alla disciplina sanzionatoria della fattispecie di
"abuso di informazioni privilegiate” in questione, esercitando
discrezionalmente un potere che gli era stato conferito dal legislatore
delegante».
1.3.– Il giudice a quo
dubita, inoltre, della legittimità costituzionale dello stesso art. 6, comma 2,
del d.lgs. n. 72 del 2015, «nella parte in cui ha modificato le sanzioni di cui
all’art. 187 bis TUF […] escludendo la retroattività in mitius della normativa
più favorevole prevista dall’art. 6, comma 3», dello stesso d.lgs. n. 72 del
2015, in riferimento agli artt. 3 e 117, primo comma Cost., quest’ultimo in
relazione all’art. 7 CEDU.
1.3.1.– Tali questioni
sarebbero, anzitutto, rilevanti dal momento che l’invocata declaratoria di
illegittimità costituzionale comporterebbe la possibilità di irrogare nei confronti
del ricorrente G. P., ove ritenuto responsabile dell’illecito ascrittogli, la
sanzione più mite di 20.000 euro, in luogo di quella di 100.000 determinata
dalla CONSOB.
1.3.2.– Sotto il profilo
della non manifesta infondatezza delle questioni in riferimento all’art. 117,
primo comma, Cost., la Corte rimettente osserva che, secondo un consolidato
orientamento della Corte europea dei diritti dell’uomo, le garanzie stabilite
dalla CEDU «si applicano a tutti i precetti di carattere afflittivo a prescindere
dalla loro qualificazione come sanzioni penali nell’ordinamento di provenienza»
(sono richiamate le sentenze della Corte EDU 8 giugno 1976, Engel e altri contro Paesi
Bassi; 27 settembre 2011, Menarini Diagnostics srl
contro Italia; e 4 marzo 2014, Grande Stevens e altri contro
Italia).
Anche la sanzione di cui si
controverte nel giudizio a quo, secondo la Corte rimettente, avrebbe natura
"punitiva”, essendo posta a tutela dei mercati finanziari e perseguendo
prevalentemente scopi deterrenti e punitivi mediante la comminatoria di una sanzione
severa, in particolare ove si consideri il massimo applicabile.
Dall’affermata natura
"punitiva” della sanzione discenderebbe, a parere del giudice a quo, la sua necessaria
soggezione al principio di legalità dei reati e delle pene ai sensi dell’art. 7
CEDU; principio che contempla tra i propri corollari, secondo l’interpretazione
offertane dalla Corte EDU, anche la necessaria retroattività della legge penale
più favorevole entrata in vigore successivamente alla commissione del fatto. Di
qui, secondo il rimettente, la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in
relazione, appunto, all’art. 7 CEDU.
1.3.3.– D’altra parte, la
«scelta di non ricorrere al principio della retroattività del trattamento
sanzionatorio più favorevole con riferimento alle sanzioni previste dall’art.
187-bis del TUF, di natura sostanzialmente penale» porrebbe altresì «un
consistente dubbio sulla compatibilità di detto regime con l’art. 3 Cost. e con
i principi di uguaglianza e di ragionevolezza».
Rammentata la
giurisprudenza di questa Corte in materia di retroattività in mitius della
legge penale, e in particolare il criterio secondo cui solo gravi motivi di
interesse generale potrebbero giustificare, al metro dell’art. 3 Cost.,
eventuali deroghe a tale principio, il Collegio rimettente osserva che «nel
caso in esame, non sarebbe ravvisabile alcuna giustificazione, men che meno di
rango costituzionale, tale da legittimare il sacrificio del trattamento più
favorevole previsto dall’art. 6, comma 3 del D. Lgs. 72/2015. Difatti,
nonostante nella legge delega fosse indicata detta possibilità nella materia de
qua, risulta alquanto difficile ravvisare una ratio alla scelta fatta in senso
opposto dal legislatore delegato».
La Corte di appello
evidenzia, in proposito, come il legislatore, in plurime disposizioni relative
a sanzioni amministrative in materia tributaria e valutaria e di responsabilità
degli enti, abbia più volte in passato contemplato la retroattività della lex
mitior: ad esempio nell’art. 23-bis aggiunto al d.P.R. 31 marzo 1988, n. 148
(Approvazione del testo unico delle norme di legge in materia valutaria)
dall’art. l, comma 2, della legge 7 novembre 2000, n. 326 (Modifiche al testo unico
approvato con decreto del Presidente della Repubblica 31 marzo 1988, n. 148, in
materia di sanzioni per le violazioni valutarie); nell’art. 3 del decreto
legislativo 18 dicembre 1997, n. 472 (Disposizioni generali in materia di
sanzioni amministrative per le violazioni di norme tributarie, a norma
dell’articolo 3. comma 133, della legge 23 dicembre 1996, n. 662); nell’art. 46
del decreto legislativo 13 aprile 1999, n. 112 (Riordino del servizio nazionale
della riscossione, in attuazione della delega prevista dalla legge 28 settembre
1998, n. 337); nell’art. 3 del decreto legislativo 8 giugno 200l, n. 231
(Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle
società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, a norma
dell’articolo 11 della legge 29 settembre 2000, n. 300).
In mancanza tuttavia di una
espressa disposizione che conferisca effetto retroattivo alla nuova disciplina
sanzionatoria più favorevole – e anzi in presenza di una esplicita disposizione
che condiziona la sua applicazione all’adozione di specifiche disposizioni di
attuazione da parte della CONSOB – la Corte rimettente ritiene, in conformità a
quanto stabilito dalla Corte di cassazione, sezione prima civile, nella
sentenza 2 marzo 2016, n. 4114, di non potere essa stessa procedere
all’applicazione retroattiva del nuovo quadro sanzionatorio discendente
dall’art. 6, comma 3, del d.lgs. n. 72 del 2015.
Il giudice a quo richiama,
altresì, la sentenza
n. 193 del 2016 di questa Corte, che ha ritenuto infondata una questione di
legittimità costituzionale, parimenti sollevata in riferimento agli artt. 3 e
117, primo comma, Cost., dell’art. 1 della legge n. 689 del 1981, nella parte
in cui non prevede la retroattività in mitius nella generale disciplina
dell’illecito amministrativo. Osserva il rimettente che, in quell’occasione,
questa Corte ha escluso che dalla giurisprudenza della Corte EDU sia ricavabile
l’affermazione di un vincolo di matrice convenzionale in ordine alla previsione
negli ordinamenti dei singoli Stati del principio di retroattività con
riferimento alla generalità delle sanzioni amministrative, dovendosi piuttosto
procedere a una preventiva valutazione della singola sanzione come
«convenzionalmente penale» alla luce dei cosiddetti criteri Engel. La questione
ora prospettata, tuttavia, si riferirebbe «unicamente a una previsione
normativa di carattere certamente afflittivo», la cui mancata applicazione
retroattiva «non appare ragionevole»; e ciò anche alla luce della
considerazione che «l’insider trading è un illecito civile che ha anche rilievo
penale», di talché non vi sarebbero «ragioni per escludere l’applicazione della
legge più favorevole in tale specifico campo, come è avvenuto per le violazioni
tributarie».
1.3.4.– Il contrasto con i
parametri costituzionali e convenzionali invocati, peraltro, «non potrebbe
essere risolto ricorrendo a un’interpretazione conforme alla Convenzione EDU e
ai parametri costituzionali, in quanto è riscontrabile una consolidata
giurisprudenza di legittimità che in più occasioni ha ribadito la non
applicabilità del principio della retroattività della lex mitior al settore
degli illeciti amministrativi»; giurisprudenza fondata «sul rifiuto generalizzato
di un’applicazione analogica dell’art. 2, secondo comma, cod. pen., anche alla
luce dell’art. 14» delle Preleggi.
1.3.5.– Osserva infine la
Corte rimettente che la disposizione censurata, una volta riconosciutene la
natura sostanzialmente penale, parrebbe «in netto contrasto anche con il
principio di cui all’art. 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
europea», il quale stabilisce che «[s]e, successivamente alla commissione del
reato, la legge prevede l’applicazione di una pena più lieve, occorre applicare
quest’ultima».
2.– È intervenuto in
giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura generale dello Stato.
2.1.– Ad avviso
dell’interveniente, la questione sollevata in relazione all’art. 77 (recte: 76)
Cost. sarebbe inammissibile e, comunque, infondata.
2.1.1.– Anzitutto, la
questione sarebbe irrilevante, in quanto la disposizione oggetto del dubbio di
legittimità costituzionale non sarebbe applicabile al caso oggetto del processo
a quo.
Ciò in quanto il regime
intertemporale dettato dall’art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 72 del 2015
riguarderebbe soltanto le modifiche direttamente apportate dal medesimo decreto
legislativo alle disposizioni del d.lgs. n. 58 del 1998, e non già la previsione
– contenuta nell’art. 6, comma 3, del d.lgs. n. 72 del 2015 –
dell’inapplicabilità della quintuplicazione delle sanzioni amministrative
pecuniarie, disposta dall’art. 39, comma 3, della legge n. 262 del 2005. Tale
quintuplicazione – rileva l’Avvocatura generale dello Stato – non si sarebbe
mai tradotta in una diretta modifica delle sanzioni stabilite dal d.lgs. n. 58
del 1998, dal momento che il suo ambito applicativo si estende anche alle
sanzioni previste dal decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385 (Testo
unico delle leggi in materia bancaria e creditizia) e dalla legge 12 agosto
1982, n. 576 (Riforma della vigilanza sulle assicurazioni). L’inapplicabilità
della quintuplicazione delle sanzioni previste dal d.lgs. n. 58 del 1998,
stabilita dal comma 3 dell’art. 6 del d.lgs. n. 72 del 2015, non potrebbe,
pertanto, essere qualificata come una delle «modifiche apportate alla parte V
del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58» cui si riferisce il comma 2,
in questa sede censurato.
Il regime intertemporale
della disciplina di cui al comma 3 si fonderebbe, pertanto, non già sul
precedente comma 2, bensì sul «generale principio di irretroattività della
legge di cui all’art. 11 disp. prel. cod. civ.», che comunque osterebbe
all’applicazione retroattiva del più favorevole regime sanzionatorio derivante
dall’inapplicabilità della quintuplicazione delle sanzioni.
Di qui l’irrilevanza della
questione.
2.1.2.– La questione
sarebbe, comunque, infondata nel merito. La previsione dell’inapplicabilità, in
via generale, della quintuplicazione delle sanzioni previste dal d.lgs. n. 58
del 1998 costituirebbe, infatti, una coerente attuazione del principio di
delega fissato dall’art. 3, comma 1, lettera i), numero 1.2), della legge n.
154 del 2014, che dava mandato al Governo di rivedere i minimi e i massimi
delle sanzioni in modo tale che «la sanzione applicabile alle persone fisiche
sia compresa tra un minimo di 5.000 euro e un massimo di 5 milioni di euro»
(lettera i, numero 1.2.2).
La disposizione censurata,
pertanto, non solo non avrebbe ecceduto i confini della legge di delegazione,
ma anzi ne avrebbe costituito puntuale attuazione.
2.2.– Parimenti
inammissibili, e comunque infondate, sarebbero, ad avviso dell’Avvocatura
generale dello Stato, le questioni di legittimità costituzionale formulate in
riferimento agli artt. 3 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 7
CEDU.
2.2.1.– Le questioni
sarebbero anzitutto inammissibili dal momento che la disposizione che rende non
retroattiva la nuova disciplina sanzionatoria risultante dall’inapplicabilità
della quintuplicazione delle sanzioni amministrative in forza dell’art. 6,
comma 3, del d.lgs. n. 72 del 2015 non sarebbe il censurato art. 6, comma 2,
del medesimo decreto legislativo, bensì il principio generale sancito dall’art.
11 delle Preleggi.
2.2.2.– Le questioni
sarebbero, comunque, infondate nel merito.
Ad avviso dell’Avvocatura
generale dello Stato, il Collegio rimettente intenderebbe applicare il
principio del favor rei all’intero ambito delle sanzioni amministrative dal
t.u. finanza, travalicando in tal modo l’obbligo discendente dall’art. 7 CEDU,
che riguarderebbe invece – come sottolineato da questa Corte nella sentenza n. 193 del
2016 – «singole e specifiche discipline sanzionatorie, ed in particolare
quelle che, pur qualificandosi come amministrative ai sensi dell’ordinamento
interno, siano idonee ad acquisire caratteristiche "punitive” alla luce
dell’ordinamento convenzionale».
La questione sarebbe,
d’altra parte, infondata anche in riferimento all’art. 3 Cost. La legge di
delega aveva, infatti, prescritto al legislatore delegato di «valutare
l’estensione del principio del favor rei ai casi di modifica della disciplina
vigente al momento in cui è stata commessa la violazione» (art. 3, comma 1,
lettera m, numero 1, della legge n. 154 del 2014): il legislatore delegato
disponeva dunque di ampia discrezionalità nell’orientarsi in un senso o
nell’altro. Sarebbe stato, allora, onere del giudice a quo dimostrare in modo
concreto e specifico, al metro dell’art. 3 Cost., la manifesta irragionevolezza
della scelta, operata dal legislatore, di non estendere tale principio alle
nuove più miti sanzioni introdotte con il d.lgs. n. 72 del 2015. L’inosservanza
di tale onere renderebbe la questione anche inammissibile, per difetto di
motivazione.
2.3.– Inammissibile
sarebbe, infine, la questione relativa al possibile contrasto con l’art. 49,
paragrafo 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE),
proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre
2007, contrasto che avrebbe potuto semmai formare oggetto di rinvio
pregiudiziale alla Corte di giustizia UE.
Nel merito, tale questione
sarebbe comunque infondata, dal momento che anche alla stregua del diritto
dell’Unione, come interpretato dalla Corte di Lussemburgo, le sanzioni in
esame, introdotte in adempimento di obblighi comunitari, conserverebbero valore
amministrativo e non penale.
In ogni caso, secondo i
principi affermati nella giurisprudenza della Corte di giustizia UE, l’apparato
sanzionatorio amministrativo per gli abusi di mercato dovrebbe pur sempre
essere caratterizzato da adeguatezza, dissuasività, effettività e
proporzionalità. Conseguentemente, il principio della retroattività della lex
mitior sancito dall’art. 49, paragrafo 1, CDFUE non potrebbe comunque «condurre
a soluzioni che siano tali da privare di effetto utile le norme dell’Unione
applicate nei procedimenti che vengono in considerazione; o a soluzioni
manifestamente sproporzionate (per eccesso o per difetto) rispetto agli
interessi che le norme dell’Unione applicate in quei procedimenti mirano a
tutelare». Di talché, ad avviso dell’Avvocatura generale dello Stato, «in linea
di principio, l’articolo 49 CDFUE non osta alla previsione della
irretroattività della lex mitior in materia di sanzioni amministrative quando
ciò sia necessario [ad] assicurare una risposta effettiva, proporzionata e
dissuasiva per le violazioni di rilevanti interessi dell’Unione»; e ciò in
quanto il principio di cui all’art. 49 della Carta sarebbe «indubbiamente
riservato alle sole sanzioni qualificabili come penali».
3.– Si è costituita la
CONSOB, deducendo l’inammissibilità e, comunque, l’infondatezza delle questioni
di legittimità prospettate dalla Corte di appello di Milano.
3.1.– La prima questione di
legittimità costituzionale sarebbe, sotto più profili, inammissibile, in quanto
formulata in termini dubitativi e perplessi, tanto da determinare ambiguità ed
indeterminatezza del petitum.
Inconferente nella specie
si rivelerebbe, in effetti, il censurato art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 72 del
2015 che, contrariamente a quanto opinato dalla Corte rimettente, non
recherebbe alcuna disposizione in materia sanzionatoria, non modificando – in
particolare – il trattamento sanzionatorio per gli abusi di mercato. La norma denunciata
non si porrebbe comunque in contrasto con alcun criterio di delega, limitandosi
a prevedere – in conformità ai principi generali vigenti in materia di illeciti
amministrativi, e al principio generale posto dall’art. 11 delle Preleggi –
l’efficacia soltanto per il futuro della nuova disciplina, che il legislatore
avrebbe oltre tutto ragionevolmente posposto all’entrata in vigore della
disciplina regolamentare di attuazione da parte della CONSOB e della Banca
d’Italia.
La questione sarebbe,
infine, inammissibile anche per «carenza assoluta di motivazione sulla
rilevanza».
3.2.– Quanto alla seconda
questione di legittimità costituzionale sollevata dal Collegio rimettente, essa
sarebbe inammissibile e, comunque, infondata.
3.2.1.– Anzitutto, si
tratterebbe di questione irrilevante ai fini della decisione. L’art. 6, comma
2, del d.lgs. n. 72 del 2015 non sarebbe, infatti, una norma che regola il
quantum sanzionatorio, ma solo una disposizione transitoria che, tenuto conto
della necessità di interventi attuativi di matrice secondaria, ha differito
l’entrata in vigore della novella fino al momento dell’emanazione degli stessi.
L’irretroattività – e,
dunque, l’inapplicabilità al caso di specie – della regola della
"dequintuplicazione” delle sanzioni amministrative pecuniarie, stabilita
dall’art. 6, comma 3, del d.lgs. n. 72 del 2015, non dipenderebbe dalla
disposizione censurata, bensì da principi generali, che non abbisognano di
espressa specificazione normativa e che derivano dall’art. 11 delle Preleggi e
dall’art. 1 della legge n. 689 del 1981.
3.2.2.– Nel merito, la
questione sarebbe comunque infondata, dal momento che – come ripetutamente
affermato dalla giurisprudenza di legittimità e da quella amministrativa,
nonché dalla giurisprudenza della stessa Sezione di Corte d’appello rimettente
– non sarebbe ravvisabile, in tema di sanzioni amministrative, un vincolo di
natura costituzionale che comporti, in modo generalizzato, la retroattività
delle disposizioni più favorevoli entrate in vigore successivamente alla
commissione del fatto. Né un tale vincolo potrebbe dedursi dalla giurisprudenza
della Corte EDU, la cui qualificazione in termini "punitivi” di taluni illeciti
in materia di abusi di mercato resterebbe pur sempre circoscritta ai casi
specifici di volta in volta esaminati, e sarebbe in ogni caso da intendere –
come precisato dalla giurisprudenza di legittimità (Corte di cassazione,
sezione seconda civile, sentenza 5 ottobre 2015, n. 19865) – ai soli fini della
garanzia del processo equo di cui all’art. 6 CEDU, senza potersi estendere
automaticamente al principio del favor rei.
L’infondatezza della
questione discenderebbe, inoltre, dall’inesistenza di idonei tertia
comparationis atti a dimostrare l’illegittimità della mancata estensione del
principio del favor rei alla disciplina dell’illecito amministrativo di cui è
causa, quelli menzionati dal rimettente essendo costituiti da norme esse stesse
derogatorie rispetto ai principi generali, e del tutto disomogenee rispetto a
quella di cui è causa: come tali, dunque, inidonee a supportare la tesi di un
esercizio «palesemente irragionevole» della discrezionalità legislativa nel
determinare se stabilire o meno l’applicazione retroattiva delle modifiche
sanzionatorie più favorevoli in materia di illeciti amministrativi.
4.– Si è costituito,
altresì, l’opponente G. P., a parere del quale l’art. 6, comma 3, del d.lgs. n.
72 del 2015 costituirebbe una disposizione transitoria speciale derogatoria
alla regola generale di cui all’art. 1 della legge n. 689 del 1981.
Conseguentemente, G. P. ha
chiesto, in via alternativa, alla Corte costituzionale: a) di «dichiarare, con
sentenza interpretativa di accoglimento, l’illegittimità costituzionale della
interpretazione dell’art. 6, comma 2 e/o comma 3, del D.Lgs. 72/2015, che non
preveda l’estensione del principio del favor rei ai casi di modifica della
disciplina vigente al momento in cui è stata commessa la violazione ogni
qualvolta non vi osti uno specifico valore costituzionale almeno equivalente
chiaramente individuato», per contrasto con gli artt. 3 e 117 Cost., in
relazione agli artt. 7 CEDU e 49 CDFUE; ovvero, b) di «dichiarare
l’illegittimità costituzionale dell’art. 6, comma 2 e/o comma 3, del D.Lgs.
72/2015, […] nella parte in cui, nell’attuare il disposto dell’art. 3, comma 1,
lett. m), n. 1) della L. 7 ottobre 2014, n. 154, non prevede l’estensione del
principio del favor rei ai casi di modifica della disciplina vigente al momento
in cui è stata commessa la violazione ogni qualvolta non vi osti uno specifico
valore costituzionale almeno equivalente chiaramente individuato», per «eccesso
di delega in violazione dell’art. 77 Cost.»; ovvero, ancora, c) di «dichiarare
l’illegittimità costituzionale dell’art. 6, comma 2 e/o comma 3, del D.Lgs.
72/2015, nella parte in cui non prevede l’estensione del principio del favor
rei ai casi di modifica della disciplina vigente al momento in cui è stata
commessa la violazione ogni qualvolta non vi osti uno specifico valore
costituzionale almeno equivalente chiaramente individuato», per contrasto con
gli artt. 3 e 117 Cost., in relazione agli artt. 7 CEDU e 49 CDFUE.
5.– In prossimità
dell’udienza, lo stesso G. P. ha depositato memoria, nella quale ha
analiticamente confutato gli argomenti spiegati dall’Avvocatura generale dello
Stato e dalla CONSOB, reiterando poi le conclusioni già formulate nel proprio
atto di costituzione.
6.– Anche l’Avvocatura
generale dello Stato ha depositato memoria nella quale, ribadite le eccezioni
svolte nell’atto di intervento, ha in particolare rilevato che, nelle more del
presente giudizio, è entrato in vigore il decreto legislativo 10 agosto 2018,
n. 107, recante «Norme di adeguamento della normativa nazionale alle
disposizioni del regolamento (UE) n. 596/2014, relativo agli abusi di mercato e
che abroga la direttiva 2003/6/CE e le direttive 2003/124/UE, 2003/125/CE e
2004/72/CE», che ha ulteriormente modificato le sanzioni edittali previste per
l’illecito amministrativo di cui all’art. 187-bis del d.lgs. n. 58 del 1998.
Ciò comporterebbe, ad avviso dell’Avvocatura generale dello Stato, che la
portata della pronuncia sulla questione sollevata dalla Corte di appello di
Milano sarà limitata all’arco temporale nel quale sono state applicabili le
disposizioni del d.lgs. n. 72 del 2015.
7.– Infine, anche la CONSOB
ha depositato memoria in prossimità dell’udienza, nella quale ha essa pure
posto l’accento sulla novella rappresentata dal d.lgs. n. 107 del 2018; novella
che peraltro, ad avviso della CONSOB, non muterebbe sul piano sostanziale i
termini delle questioni poste dal giudice rimettente, e in particolare della
seconda questione. Ciò in quanto il nuovo limite edittale minimo della sanzione
pecuniaria prevista per l’illecito amministrativo di cui all’art. 187-bis del
d.lgs. n. 58 del 1998, pari a 20.000 euro, coincide con quello risultante dalla
"dequintuplicazione” operata dall’art. 6, comma 3, del d.lgs. n. 72 del 2015;
di talché, anche nell’ipotesi di una restituzione degli atti al giudice a quo
per esame dello ius superveniens, sarebbe del tutto agevole ipotizzare che il
giudice a quo sollevi identica questione con riferimento alla nuova disciplina,
nella parte in cui non è prevista l’applicazione retroattiva in favore di chi
abbia commesso il fatto sotto il vigore della disciplina vigente prima dell’entrata
in vigore del d.lgs. n. 72 del 2015.
Considerato in diritto
1.– Con l’ordinanza
indicata in epigrafe, la Corte d’appello di Milano ha sollevato, in riferimento
all’art. 77 (recte: 76) della Costituzione, questione di legittimità
costituzionale dell’art. 6, comma 2, del decreto legislativo 12 maggio 2015, n.
72 (Attuazione della direttiva 2013/36/UE, che modifica la direttiva 2002/87/CE
e abroga le direttive 2006/48/CE e 2006/49/CE, per quanto concerne l’accesso
all’attività degli enti creditizi e la vigilanza prudenziale sugli enti
creditizi e sulle imprese di investimento. Modifiche al decreto legislativo 1°
settembre 1993, n. 385 e al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58), nella
parte in cui ha modificato le sanzioni di cui all’art. 187-bis del decreto
legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia
di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della legge 6
febbraio 1996, n. 52) in attuazione dell’art. 3, comma 1, lettere i) e l),
della legge delega 7 ottobre 2014, n. 154 (Delega al Governo per il recepimento
delle direttive europee e l’attuazione di altri atti dell’Unione europea -
Legge di delegazione europea 2013 - secondo semestre).
Con la stessa ordinanza, la
Corte d’appello di Milano ha sollevato altresì – in riferimento agli artt. 3 e
117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 7 della Convenzione
per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU),
firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4
agosto 1955, n. 848 – questioni di legittimità costituzionale del medesimo art.
6, comma 2, del d.lgs. n. 72 del 2015, nella parte in cui tale disposizione «ha
modificato le sanzioni di cui all’art. 187 bis» del d.lgs. n. 58 del 1998 «in
attuazione dell’art. 3 della legge delega n. 154/2014, escludendo la
retroattività in mitius della normativa più favorevole prevista dall’art. 6,
comma 3» del d.lgs. n. 72 del 2015.
2.– Ai fini della
valutazione dell’ammissibilità e della fondatezza delle questioni prospettate,
è opportuna una sintetica ricapitolazione delle vicende normative che ne
costituiscono lo sfondo.
2.1.– L’abuso di
informazioni privilegiate fu per la prima volta previsto quale delitto
nell’ordinamento italiano con l’art. 2, comma 1, della legge 17 maggio 1991, n.
157 (Norme relative all’uso di informazioni riservate nelle operazioni in
valori mobiliari e alla Commissione nazionale per le società e la borsa), in
attuazione di obblighi imposti, a livello comunitario, dalla direttiva
89/592/CEE del Consiglio, del 13 novembre 1989, sul coordinamento delle
normative concernenti le operazioni effettuate da persone in possesso di
informazioni privilegiate (insider trading). Tale delitto confluì poi, con
importanti modificazioni, nell’art. 180 del t.u. finanza, di cui al d.lgs. n.
58 del 1998.
In sede di trasposizione
della direttiva 2003/6/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 28
gennaio 2003, relativa all’abuso di informazioni privilegiate e alla
manipolazione del mercato (abusi di mercato) – attuata mediante la legge 18
aprile 2005, n. 62 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti
dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee. Legge comunitaria 2004),
con la quale fu tra l’altro modificato il t.u. finanza del 1998 – all’abuso di
informazioni privilegiate furono dedicate due nuove disposizioni del novellato
testo unico: l’art. 184, che continuò a configurare la condotta come delitto,
sia pure in una versione modificata rispetto alla disciplina previgente; e
l’art. 187-bis, che introdusse una sino ad allora inedita figura di illecito
amministrativo di abuso di informazioni privilegiate, dai confini più ampi
rispetto alla corrispondente fattispecie delittuosa, e punita con sanzioni
amministrative pecuniarie da ventimila a tre milioni di euro, aumentabili – ai
sensi del comma 5 dello stesso articolo – fino al triplo o fino al maggiore
importo di dieci volte il prodotto o il profitto conseguito dall’illecito,
quando esse apparissero inadeguate anche se applicate nel massimo, avuto
riguardo alle qualità personali del colpevole ovvero all’entità del prodotto o
del profitto conseguito.
2.2.– Pochi mesi dopo,
sull’onda di noti scandali finanziari medio tempore verificatisi, l’art. 39
della legge 28 dicembre 2005, n. 262 (Disposizioni per la tutela del risparmio
e la disciplina dei mercati finanziari) stabilì in via generale, al comma 1, il
raddoppio delle pene stabilite per i reati previsti dal decreto legislativo 1°
settembre 1993, n. 385 (Testo unico delle leggi in materia bancaria e
creditizia), dal t.u. finanza e dalla legge 12 agosto 1982, n. 576 (Riforma
della vigilanza sulle assicurazioni), e al comma 5 – per quanto in questa sede
direttamente rileva – la quintuplicazione di tutte le sanzioni amministrative pecuniarie
previste in tali corpora normativi.
Per effetto di tale
riforma, dunque, la sanzione amministrativa pecuniaria prevista per l’illecito
amministrativo di abuso di informazioni privilegiate, di cui all’art. 187-bis
del d.lgs. n. 58 del 1998, fu innalzata a centomila euro nel minimo e a
quindici milioni di euro nel massimo.
2.3.– Nove anni più tardi,
la legge n. 154 del 2014 delegò il Governo a rivedere le cornici edittali delle
sanzioni pecuniarie amministrative previste dal t.u. bancario e dal t.u.
finanza (art. 3, comma 1, lettere i e m), con il compito, tra gli altri, di
«valutare l’estensione del principio del favor rei ai casi di modifica della
disciplina vigente al momento in cui è stata commessa la violazione» (art. 3,
comma 1, lettera m, numero 1).
In sede di attuazione della
delega, l’art. 6, comma 3, del d.lgs. n. 72 del 2015 dispose che «[a]lle
sanzioni amministrative previste dal decreto legislativo 24 febbraio 1998, n.
58, non si applica l’articolo 39, comma 3, della legge 28 dicembre 2005, n.
262»: con un effetto, dunque, di ripristino della cornice edittale
originariamente stabilita dalla legge n. 62 del 2005 per gli illeciti
amministrativi da essa previsti, al netto della quintuplicazione introdotta,
appunto, dalla legge n. 262 del 2005.
Per effetto dunque
dell’art. 6, comma 3, del d.lgs. n. 72 del 2015, l’illecito amministrativo
previsto dall’art. 187-bis del d.lgs. n. 58 del 1998 tornava a essere punito
con una sanzione amministrativa pecuniaria da ventimila a tre milioni di euro,
salva la possibilità di procedere agli aumenti di cui al comma 5 dello stesso
art. 6.
L’art. 6, comma 2, del
d.lgs. n. 72 del 2015 – in questa sede censurato – stabilì, tuttavia, che «[l]e
modifiche apportate alla parte V del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n.
58, si applicano alle violazioni commesse dopo l’entrata in vigore delle
disposizioni adottate dalla Consob e dalla Banca d’Italia secondo le rispettive
competenze […]. Alle violazioni commesse prima della data di entrata in vigore
delle disposizioni adottate dalla Consob e dalla Banca d’Italia continuano ad
applicarsi le norme della parte V del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n.
58 vigenti prima della data di entrata in vigore del presente decreto
legislativo».
In tal modo, il legislatore
delegato non soltanto escluse implicitamente che alle modifiche apportate alla
Parte V (relativa alle disposizioni sanzionatorie) del t.u. finanza potesse
essere attribuita efficacia retroattiva rispetto ai fatti commessi prima
dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 72 del 2015, ma addirittura rinviò
l’applicabilità delle nuove disposizioni al momento dell’entrata in vigore dei
regolamenti che la Banca d’Italia e la Commissione nazionale per le società e
la borsa (CONSOB) avrebbero dovuto adottare in forza del decreto legislativo
medesimo.
Tali regolamenti furono, in
effetti, adottati dalla CONSOB con la delibera 24 febbraio 2016, n. 19521
(Modifiche al regolamento sul procedimento sanzionatorio della Consob ai sensi
dell’articolo 24 della legge 28 dicembre 2005, n. 262, adottato con delibera n.
18750 del 19 dicembre 2013 e successive modificazioni), che modificò il vigente
regolamento sul procedimento sanzionatorio della stessa CONSOB, e poi dalla
Banca d’Italia con provvedimento del 3 maggio 2016, che parimenti modificò il
proprio procedimento sanzionatorio.
2.4.– Successivamente alla
proposizione dell’odierna questione di legittimità costituzionale, la
disciplina dell’illecito amministrativo in parola è stata nuovamente modificata
dall’art. 4, comma 9, del decreto legislativo 10 agosto 2018, n. 107, recante
«Norme di adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del regolamento
(UE) n. 596/2014, relativo agli abusi di mercato e che abroga la direttiva
2003/6/CE e le direttive 2003/124/UE, 2003/125/CE e 2004/72/CE», che – in
attuazione della legge 25 ottobre 2017, n. 163 (Delega al Governo per il
recepimento delle direttive europee e l’attuazione di altri atti dell’Unione
europea - Legge di delegazione europea 2016 - 2017) – ha adeguato la
legislazione nazionale al regolamento (UE) n. 596/2014, modificando
ulteriormente, per quanto in questa sede rileva, l’art. 187-bis del d.lgs. n.
58 del 1998.
In particolare, la
disposizione novellata descrive le condotte costitutive dell’illecito
(ridenominato «Abuso e comunicazione illecita di informazioni privilegiate»)
attraverso un mero rinvio alle ipotesi indicate nell’art. 14 del predetto
regolamento UE, disponendo poi che tali condotte siano punite con la sanzione
amministrativa pecuniaria da ventimila a cinque milioni di euro, aumentabili
fino al triplo o fino al maggiore importo di dieci volte il profitto conseguito
ovvero le perdite evitate per effetto dell’illecito, nei casi previsti dal
comma 5 dello stesso art. 187-bis del d.lgs. n. 58 del 1998.
A seguito di tali ultime
modifiche, dunque, l’illecito amministrativo in parola resta punibile con la
sanzione amministrativa pecuniaria minima di ventimila euro, mentre il massimo
edittale è ora innalzato a cinque milioni di euro (salvi gli aumenti nei casi
previsti dal comma 5).
3.– La Corte d’appello di
Milano dubita, anzitutto, della compatibilità dell’art. 6, comma 2, del d.lgs.
n. 72 del 2015 con l’art. 77 Cost., con riferimento alla disciplina della legge
n. 154 del 2014. All’evidenza, la Corte rimettente intende in realtà riferirsi
al parametro costituzionale rappresentato dall’art. 76 Cost., e denunciare
dunque un possibile eccesso di delega da parte del Governo.
Come correttamente eccepito
dalla CONSOB, la questione è però inammissibile, in ragione dell’oscurità del
petitum e della contraddittorietà della motivazione: vizi da ritenere
assorbenti rispetto a quelli ulteriori eccepiti dall’Avvocatura generale dello
Stato.
Il giudice a quo censura
infatti – nel dispositivo dell’ordinanza di rimessione – l’art. 6, comma 2, del
d.lgs. n. 72 del 2015 «nella parte in cui ha modificato le sanzioni di cui
all’art. 187 bis TUF in attuazione dell’art. 3, comma 1, lettera i) e l) della
legge delega n. 154/2014».
Tuttavia, l’art. 6, comma
2, censurato non modifica affatto le sanzioni di cui all’art. 187-bis del
d.lgs. n. 58 del 1998, ma si limita, come già si è rammentato (supra, punto 2.3.),
a disciplinare il regime intertemporale delle modifiche introdotte dal d.lgs.
n. 72 del 2015 all’intera Parte V del d.lgs. n. 58 del 1998. Inconferenti sono,
pertanto, i criteri di delega menzionati, che concernono la revisione della
disciplina sanzionatoria degli illeciti previsti dal d.lgs. n. 58 del 1998.
L’unico significato
plausibile della censura potrebbe, allora, riferirsi alla scelta compiuta dal
legislatore di modificare – attraverso l’art. 6, comma 3, del d.lgs. n. 72 del
2015 – la disciplina sanzionatoria dell’art. 187-bis del d.lgs. n. 58 del 1998;
e ciò al di fuori – in ipotesi – del mandato contenuto nelle precedenti lettere
i) e l). Tuttavia, da un lato una simile lettura della censura si porrebbe in
aperta distonia rispetto al senso complessivo dell’ordinanza di rimessione, che
mira ad assicurare l’applicabilità, nel caso oggetto del procedimento a quo,
del più mite quadro sanzionatorio introdotto dall’art. 6, comma 3, la cui
legittimità sotto il profilo della compatibilità con la legge delega verrebbe
così – contraddittoriamente – a essere posta in discussione; dall’altro lato,
ove fosse così intesa, la questione apparirebbe comunque viziata da aberratio
ictus, in ragione dell’espressa indicazione da parte del rimettente, quale
oggetto della censura, del comma 2 (anziché del comma 3) dell’art. 6 del d.lgs.
n. 72 del 2015.
4.– Le altre questioni
sollevate della Corte d’appello di Milano concernono la legittimità
costituzionale dell’art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 72 del 2015, in riferimento
agli artt. 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 7
CEDU.
4.1.– Anche in questo caso,
il giudice rimettente incorre in un errore nella formulazione del petitum,
censurando il comma 2 dell’art. 6 del d.lgs. n. 72 del 2015, «nella parte in
cui ha modificato le sanzioni di cui all’art. 187 bis» del t.u. finanza, quando
invece la modificazione del quadro sanzionatorio in parola è stata operata –
come appena osservato – dal comma 3 del medesimo art. 6.
Dal tenore complessivo
dell’ordinanza di rimessione risulta, peraltro, evidente che il giudice a quo
intende in realtà sollevare questioni di legittimità costituzionale della
disposizione transitoria contenuta nel censurato art. 6, comma 2, del d.lgs. n.
72 del 2015, che differisce l’entrata in vigore delle modifiche apportate al
regime sanzionatorio degli illeciti previsti dalla Parte V del t.u. finanza al
momento dell’emanazione dei regolamenti della Banca d’Italia e della CONSOB,
delimitando peraltro tali questioni alle sole modifiche che hanno avuto ad
oggetto le sanzioni previste dall’art. 187-bis del medesimo testo unico (le
uniche, del resto, su cui il rimettente è chiamato a pronunciarsi).
Il petitum dell’ordinanza
di rimessione deve, dunque, rettamente intendersi come mirante alla
dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione transitoria di
cui all’art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 72 del 2015, nella sola parte in cui si
riferisce alle modifiche apportate alle sanzioni previste dall’art. 187-bis del
d.lgs. n. 58 del 1998; modifiche che il giudice a quo vorrebbe, invece, si
applicassero anche alle violazioni pregresse ancora sub iudice, in forza del
principio di retroattività della lex mitior in materia penale sotteso ai
parametri costituzionali e convenzionali evocati.
4.2.– Tanto l’Avvocatura
generale dello Stato quanto la CONSOB hanno eccepito l’inammissibilità anche di
questo secondo gruppo di questioni in quanto, a loro avviso, il particolare
regime transitorio introdotto dal censurato comma 2 dell’art. 6 del d.lgs. n.
72 del 2015 non si applicherebbe alla regola della "dequintuplicazione” delle
sanzioni disposta dal comma 3 del medesimo articolo, e cioè alla regola che
neutralizza gli effetti della quintuplicazione delle sanzioni, operata a suo
tempo dall’art. 39, comma 3, della legge n. 262 del 2005, per gli illeciti
amministrativi previsti dal t.u. finanza (supra, punti 2.2. e 2.3.). Da ciò
discenderebbe l’irrilevanza della questione nel giudizio a quo, in cui si
discute – appunto – della possibilità di sanzionare l’opponente sulla base
delle sanzioni previste dall’art. 187-bis del d.lgs. n. 58 del 1998 al netto
della quintuplicazione operata dalla legge n. 262 del 2005.
L’eccezione è, tuttavia,
infondata.
Il rimettente muove
evidentemente dalla premessa interpretativa, del tutto plausibile, che il comma
2 dell’art. 6 del d.lgs. n. 72 del 2015, dettando una disciplina transitoria
per «[l]e modifiche apportate alla parte V del decreto legislativo 24 febbraio
1998, n. 58» dalle altre disposizioni dello stesso d.lgs. n. 72 del 2015, abbia
inteso abbracciare anche la modifica, apportata dal successivo comma 3, alla
disciplina sanzionatoria degli illeciti previsti dalla Parte V del t.u.
finanza: e cioè la modifica consistente nella "dequintuplicazione” delle sanzioni
amministrative previste, appunto, nella Parte V del testo unico, nella quale è
collocata anche la disciplina sanzionatoria dell’abuso di informazioni
privilegiate (art. 187-bis) che in questa sede viene in considerazione.
Nella prospettiva
interpretativa del rimettente, dunque, anche la regola della
"dequintuplicazione” prevista dal comma 3 soggiace alla disciplina transitoria
stabilita dal censurato comma 2 dell’art. 6 del d.lgs. n. 72 del 2015,
risultando così applicabile soltanto alle violazioni commesse dopo l’entrata in
vigore delle disposizioni adottate dalla CONSOB e dalla Banca d’Italia sulla
base dello stesso d.lgs. n. 72 del 2015, e inapplicabile invece ai fatti
pregressi, come quello contestato all’opponente nel giudizio a quo.
Tanto basta a considerare
rilevanti, e pertanto ammissibili sotto questo profilo, le questioni aventi ad
oggetto l’art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 72 del 2015, prospettate in
riferimento agli artt. 3 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 7
CEDU.
4.3. – Una seconda
eccezione di inammissibilità di tali questioni, sollevata dall’Avvocatura
generale dello Stato, concerne i poteri di questa Corte di sindacare eventuali
profili di contrasto della disciplina censurata con le disposizioni della Carta
dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7
dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007: profili evocati
nella parte motiva dell’ordinanza, ove si sottolinea tra l’altro
l’incompatibilità della disciplina transitoria dettata dall’art. 6, comma 2,
del d.lgs. n 72 del 2015 con il principio di necessaria retroattività delle
norme penali più favorevoli sancito dall’art. 49, paragrafo 1, terzo periodo,
CDFUE.
Nemmeno questa eccezione,
tuttavia, coglie nel segno.
Anche a prescindere dal
rilievo che l’art. 49, paragrafo 1, CDFUE non è richiamato nel dispositivo
dell’ordinanza di rimessione, ove il giudice a quo ha inteso formulare in
termini chiari e definitivi le questioni sottoposte all’esame di questa Corte,
occorre in questa sede ribadire – sulla scorta dei principi già affermati nelle
sentenze n. 269
del 2017 e n.
20 del 2019 – che a questa Corte non può ritenersi precluso l’esame nel
merito delle questioni di legittimità costituzionale sollevate con riferimento
sia a parametri interni, anche mediati dalla normativa interposta
convenzionale, sia – per il tramite degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost. –
alle norme corrispondenti della Carta che tutelano, nella sostanza, i medesimi
diritti; e ciò fermo restando il potere del giudice comune di procedere egli
stesso al rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, anche dopo il
giudizio incidentale di legittimità costituzionale, e – ricorrendone i
presupposti – di non applicare, nella fattispecie concreta sottoposta al suo
esame, la disposizione nazionale in contrasto con i diritti sanciti dalla
Carta.
Laddove però sia stato lo
stesso giudice comune a sollevare una questione di legittimità costituzionale
che coinvolga anche le norme della Carta, questa Corte non potrà esimersi,
eventualmente previo rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, dal
fornire una risposta a tale questione con gli strumenti che le sono propri:
strumenti tra i quali si annovera anche la dichiarazione di illegittimità
costituzionale della disposizione ritenuta in contrasto con la Carta (e
pertanto con gli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.), con conseguente
eliminazione dall’ordinamento, con effetti erga omnes, di tale disposizione.
Da ciò consegue
l’ammissibilità, anche sotto questo profilo, delle questioni prospettate.
5.– Prima di esaminare il
merito di tali questioni, è peraltro necessario vagliare la possibile rilevanza
nel giudizio a quo dello ius superveniens rappresentato dal d.lgs. n. 107 del
2018, su cui si sono soffermate le parti nelle memorie depositate in prossimità
dell’udienza e nella discussione orale.
Come già rammentato (supra,
punto 2.4.), l’art. 4, comma 9, del d.lgs. n. 107 del 2018 ha nuovamente
modificato il quadro sanzionatorio previsto dall’art. 187-bis del d.lgs. n. 58
del 1998, in particolare tenendo fermo il minimo edittale di ventimila euro, ma
innalzando il massimo da tre a cinque milioni di euro, salva la possibilità di
ulteriori aumenti nei casi previsti dal comma 5 dello stesso art. 187-bis.
Nulla ha disposto, però, il
legislatore del 2018 in merito all’applicazione nel tempo della nuova
disciplina, facendo così ritenere che abbia inteso assegnarle efficacia
soltanto per il futuro. Ciò esclude che sia necessario restituire gli atti al
giudice a quo.
6.– Nel merito, le
questioni sono fondate, in relazione a entrambi i parametri invocati dal
rimettente.
Il principio della
retroattività della lex mitior in materia penale è infatti fondato, secondo la
giurisprudenza di questa Corte, tanto sull’art. 3 Cost., quanto sull’art. 117,
primo comma, Cost., eventuali deroghe a tale principio dovendo superare un
vaglio positivo di ragionevolezza in relazione alla necessità di tutelare
controinteressi di rango costituzionale (infra, punto 6.1.). Il principio in
questione deve ritenersi applicabile anche alle sanzioni amministrative che
abbiano natura "punitiva” (infra, punto 6.2.). Le sanzioni amministrative
previste per l’abuso di informazioni privilegiate di cui all’art. 187-bis del
d.lgs. n. 58 del 1998 hanno natura "punitiva”, e rientrano come tali
nell’ambito di applicazione del principio della retroattività in mitius (infra,
punto 6.3.). La deroga alla retroattività in mitius stabilita dall’art. 6,
comma 2, del d.lgs. n. 72 del 2015, qui censurato, non supera il "vaglio
positivo di ragionevolezza” ed è, pertanto, costituzionalmente illegittima,
nella parte in cui esclude l’applicazione retroattiva delle modifiche in mitius
apportate alle sanzioni amministrative previste per l’illecito di abuso di
informazioni privilegiate di cui all’art. 187-bis del d.lgs. n. 58 del 1998
(infra, punto 6.4.).
6.1.– Secondo la costante
giurisprudenza di questa Corte (sentenze n. 236 del
2011, n. 215
del 2008 e n.
393 del 2006), la regola della retroattività della lex mitior in materia
penale non è riconducibile alla sfera di tutela dell’art. 25, secondo comma,
Cost., che sancisce piuttosto il principio – apparentemente antinomico –
secondo cui «[n]essuno può essere punito se non in forza di una legge che sia
entrata in vigore prima del fatto commesso».
Tale principio deve,
invero, essere interpretato nel senso di vietare l’applicazione retroattiva
delle sole leggi penali che stabiliscano nuove incriminazioni, ovvero che
aggravino il trattamento sanzionatorio già previsto per un reato, non ostando
così a una possibile applicazione retroattiva di leggi che, all’opposto,
aboliscano precedenti incriminazioni ovvero attenuino il trattamento sanzionatorio
già previsto per un reato. L’applicazione retroattiva della lex mitior non può,
però, ritenersi imposta dall’art. 25, secondo comma, Cost., la cui ratio
immediata è – in parte qua – quella di tutelare la libertà di
autodeterminazione individuale, garantendo al singolo di non essere sorpreso
dall’inflizione di una sanzione penale per lui non prevedibile al momento della
commissione del fatto. Una simile garanzia non è posta in discussione
dall’applicazione di una norma penale, pur più gravosa di quelle entrate in
vigore successivamente, che era comunque in vigore al momento del fatto: e ciò
«per l’ovvia ragione che, nel caso considerato, la lex mitior sopravviene alla
commissione del fatto, al quale l’autore si era liberamente autodeterminato
sulla base del pregresso (e per lui meno favorevole) panorama normativo» (sentenza n. 394 del
2006).
Cionondimeno, la regola
dell’applicazione retroattiva della lex mitior in materia penale – sancita, a
livello di legislazione ordinaria, dall’art. 2, secondo, terzo e quarto comma,
del codice penale – non è sprovvista di fondamento costituzionale: fondamento
che la costante giurisprudenza di questa Corte ravvisa anzitutto nel principio
di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost., «che impone, in linea di massima, di
equiparare il trattamento sanzionatorio dei medesimi fatti, a prescindere dalla
circostanza che essi siano stati commessi prima o dopo l’entrata in vigore
della norma che ha disposto l’abolitio criminis o la modifica mitigatrice» (sentenza n. 394 del
2006). Ciò in quanto, in via generale, «[n]on sarebbe ragionevole punire (o
continuare a punire più gravemente) una persona per un fatto che, secondo la
legge posteriore, chiunque altro può impunemente commettere (o per il quale è
prevista una pena più lieve)» (sentenza n. 236 del
2011).
La riconduzione della
retroattività della lex mitior in materia penale all’alveo dell’art. 3 Cost.
anziché a quello dell’art. 25, secondo comma, Cost., segna però anche il limite
della garanzia costituzionale della quale la regola in parola costituisce
espressione. Mentre, infatti, l’irretroattività in peius della legge penale
costituisce un «valore assoluto e inderogabile», la regola della retroattività
in mitius della legge penale medesima «è suscettibile di limitazioni e deroghe
legittime sul piano costituzionale, ove sorrette da giustificazioni
oggettivamente ragionevoli» (sentenza n. 236 del
2011).
Il criterio di valutazione
della legittimità costituzionale di eventuali deroghe legislative alla
retroattività della lex mitior in materia penale, alla stregua dell’art. 3
Cost., è stato oggetto di approfondita analisi da parte di questa Corte nella sentenza n. 393 del
2006. In quell’occasione, la Corte osservò che la retroattività in mitius
della legge penale è ormai affermata non solo, a livello di legislazione
ordinaria, dall’art. 2 cod. pen., ma trova ampi riconoscimenti nel diritto
internazionale e nel diritto dell’Unione europea. La retroattività della lex
mitior in materia penale è in particolare enunciata tanto dall’art. 15, comma
1, terzo periodo, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e
politici, concluso a New York il 16 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo
con legge 25 ottobre 1977, n. 881; quanto dall’art. 49, paragrafo 1, terzo
periodo, CDFUE. Ciò ha indotto questa Corte a concludere che il valore tutelato
dal principio in parola «può essere sacrificato da una legge ordinaria solo in
favore di interessi di analogo rilievo […]. Con la conseguenza che lo scrutinio
di costituzionalità ex art. 3 Cost., sulla scelta di derogare alla
retroattività di una norma più favorevole al reo deve superare un vaglio
positivo di ragionevolezza, non essendo a tal fine sufficiente che la norma
derogatoria non sia manifestamente irragionevole» (sentenza n. 393 del
2006).
In applicazione di tale
criterio, la stessa sentenza n. 393 del
2006 giudicò non ragionevole, e pertanto costituzionalmente illegittima, la
deroga alla retroattività delle modifiche più favorevoli, introdotte dalla
legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio
1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di
comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di
prescrizione), alla disciplina della prescrizione del reato, con riferimento ai
processi pendenti in primo grado in cui fosse stata già dichiarata l’apertura
del dibattimento. La successiva sentenza n. 72 del
2008 escluse invece l’incostituzionalità di tale deroga rispetto ai
processi già pendenti in grado di appello, in ragione dell’esigenza di tutelare
gli interessi di rango costituzionale dell’efficienza e della salvaguardia dei
diritti dei destinatari della funzione giurisdizionale, potenzialmente
pregiudicati dalla dispersione delle attività processuali già svolte che
sarebbe conseguita all’applicazione generalizzata dei nuovi e più brevi termini
di prescrizione a processi già conclusi in primo grado.
La questione della
legittimità costituzionale della deroga alla retroattività, per i processi
pendenti in grado di appello, delle più favorevoli disposizioni in materia di
prescrizione introdotte dalla legge n. 251 del 2005 tornò qualche anno più
tardi all’esame di questa Corte, in ragione del fatto nuovo rappresentato dalla
sentenza della Grande Camera della Corte EDU, 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia.
Tale pronuncia aveva, per la prima volta, dedotto dall’art. 7 CEDU il principio
secondo cui «se la legge penale in vigore al momento della commissione del
reato e le leggi penali posteriori adottate prima della pronuncia sono diverse,
il giudice deve applicare quella le cui disposizioni sono più favorevoli
all’imputato»; il che aveva indotto la Corte di cassazione a sollevare
questione di legittimità costituzionale della medesima disciplina transitoria
già giudicata legittima, quanto ai parametri allora dedotti, dalla sentenza n. 72 del
2008, sotto il profilo – questa volta – di un suo possibile contrasto con
l’art. 117, primo comma, Cost. in relazione all’art. 7 CEDU, come interpretato
dalla sentenza Scoppola.
Con la già menzionata
sentenza n. 236
del 2011, questa Corte affermò che – proprio in seguito alla sentenza Scoppola – il
«principio di retroattività in mitius» ha, «attraverso l’art. 117, primo comma,
Cost, acquistato un nuovo fondamento con l’interposizione dell’art. 7 della
CEDU, come interpretato dalla Corte di Strasburgo»; aggiungendo, peraltro, che
– anche nel prisma del diritto convenzionale – a tale principio non può
riconoscersi carattere assoluto, ben potendo il legislatore «introdurre deroghe
o limitazioni alla sua operatività, quando siano sorrette da una valida
giustificazione». La sentenza n. 236 del
2011 ritenne, per l’appunto, sussistere una simile valida giustificazione
per la deroga legislativa alla retroattività in mitius sottoposta nuovamente al
suo esame; e ciò per le medesime ragioni che avevano condotto la sentenza n. 72 del 2008
a risolvere in senso positivo la questione della sua compatibilità con l’art. 3
Cost.
La giurisprudenza
costituzionale è, in tal modo, giunta ad assegnare al principio della
retroattività della lex mitior in materia penale un duplice, e concorrente,
fondamento. L’uno – di matrice domestica – riconducibile allo spettro di tutela
del principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost., nel cui alveo peraltro la
sentenza n. 393
del 2006, in epoca immediatamente precedente alle sentenze "gemelle”
n. 348 e n.
349 del 2007, aveva già fatto confluire gli obblighi internazionali
derivanti dall’art. 15, comma 1, del Patto internazionale relativo ai diritti
civili e politici e dall’art. 49, paragrafo 1, CDFUE, considerati in
quell’occasione come criteri interpretativi (sentenza n. 15 del
1996) delle stesse garanzie costituzionali. L’altro – di origine
internazionale, ma avente ora ingresso nel nostro ordinamento attraverso l’art.
117, primo comma, Cost. – riconducibile all’art. 7 CEDU, nella lettura
offertane dalla giurisprudenza di Strasburgo (oltre alla sentenza Scoppola, Corte
europea dei diritti dell’uomo, decisione 27 aprile 2010, Morabito contro Italia;
sentenza 24 gennaio 2012, Mihai
Toma contro Romania; sentenza 12 gennaio 2016, Gouarré Patte contro Andorra;
sentenza 12 luglio 2016, Ruban
contro Ucraina), nonché alle altre norme del diritto internazionale dei
diritti umani vincolanti per l’Italia che enunciano il medesimo principio, tra
cui gli stessi artt. 15, comma 1, del Patto internazionale relativo ai diritti
civili e politici e 49, paragrafo 1, CDFUE, quest’ultimo rilevante nel nostro ordinamento
anche ai sensi dell’art. 11 Cost.
A tale pluralità di basi
normative nel testo costituzionale fa, peraltro, da contraltare la comune ratio
della garanzia in questione, identificabile in sostanza nel diritto dell’autore
del reato a essere giudicato, e se del caso punito, in base all’apprezzamento
attuale dell’ordinamento relativo al disvalore del fatto da lui realizzato,
anziché in base all’apprezzamento sotteso alla legge in vigore al momento della
sua commissione.
Comune è altresì il limite
della tutela assicurata, assieme, dalla Costituzione e dalle carte
internazionali a tale garanzia: tutela che la giurisprudenza di questa Corte
ritiene non assoluta, ma aperta a possibili deroghe, purché giustificabili al
metro di quel «vaglio positivo di ragionevolezza» richiesto dalla sentenza n. 393 del
2006, in relazione alla necessità di tutelare interessi di rango
costituzionale prevalenti rispetto all’interesse individuale in gioco.
6.2.– Se poi, ed
eventualmente in che misura, il principio della retroattività della lex mitior
sia applicabile anche alle sanzioni amministrative, è questione recentemente
esaminata funditus dalla sentenza n. 193 del
2016.
In quell’occasione, questa
Corte ha rilevato come la giurisprudenza di Strasburgo non abbia «mai avuto ad oggetto
il sistema delle sanzioni amministrative complessivamente considerato, bensì
singole e specifiche discipline sanzionatorie, ed in particolare quelle che,
pur qualificandosi come amministrative ai sensi dell’ordinamento interno, siano
idonee ad acquisire caratteristiche "punitive” alla luce dell’ordinamento
convenzionale». In difetto, pertanto, di alcun «vincolo di matrice
convenzionale in ordine alla previsione generalizzata, da parte degli
ordinamenti interni dei singoli Stati aderenti, del principio della
retroattività della legge più favorevole, da trasporre nel sistema delle
sanzioni amministrative», la sentenza n. 193 del
2016 ha giudicato non fondata una questione di legittimità costituzionale
dell’art. 1 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale),
del quale il giudice a quo sospettava il contrasto con gli artt. 3 e 117, primo
comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 6 e 7 CEDU, nella parte in cui
non prevede una regola generale di applicazione della legge successiva più
favorevole agli autori degli illeciti amministrativi: regola generale la cui
introduzione, secondo la valutazione di questa Corte, avrebbe finito «per
disattendere la necessità della preventiva valutazione della singola sanzione
(qualificata "amministrativa” dal diritto interno) come "convenzionalmente
penale”, alla luce dei cosiddetti criteri Engel».
Rispetto, però, a singole
sanzioni amministrative che abbiano natura e finalità "punitiva”, il complesso
dei principi enucleati dalla Corte di Strasburgo a proposito della "materia
penale” – ivi compreso, dunque, il principio di retroattività della lex mitior,
nei limiti appena precisati (supra, punto 6.1.) – non potrà che estendersi
anche a tali sanzioni.
A tale conclusione non osta
l’assenza, sino a questo momento, di precedenti specifici nella giurisprudenza
della Corte di Strasburgo. Come questa Corte ha avuto recentemente occasione di
affermare, infatti, «è da respingere l’idea che l’interprete non possa
applicare la CEDU, se non con riferimento ai casi che siano già stati oggetto
di puntuali pronunce da parte della Corte di Strasburgo» (sentenza n. 68 del
2017).
L’estensione del principio
di retroattività della lex mitior in materia di sanzioni amministrative aventi
natura e funzione "punitiva” è, del resto, conforme alla logica sottesa alla
giurisprudenza costituzionale sviluppatasi, sulla base dell’art. 3 Cost., in
ordine alle sanzioni propriamente penali. Laddove, infatti, la sanzione
amministrativa abbia natura "punitiva”, di regola non vi sarà ragione per
continuare ad applicare nei confronti di costui tale sanzione, qualora il fatto
sia successivamente considerato non più illecito; né per continuare ad
applicarla in una misura considerata ormai eccessiva (e per ciò stesso
sproporzionata) rispetto al mutato apprezzamento della gravità dell’illecito da
parte dell’ordinamento. E ciò salvo che sussistano ragioni cogenti di tutela di
controinteressi di rango costituzionale, tali da resistere al medesimo «vaglio
positivo di ragionevolezza», al cui metro debbono essere in linea generale
valutate le deroghe al principio di retroattività in mitius nella materia penale.
6.3.– Non v’è dubbio che la
sanzione amministrativa prevista dall’art. 187-bis del d.lgs. n. 58 del 1998
abbia natura punitiva, e soggiaccia pertanto alle garanzie che la Costituzione
e il diritto internazionale dei diritti umani assicurano alla materia penale,
ivi compresa la garanzia della retroattività della lex mitior.
Questa Corte ha già avuto
occasione di affermare, in due distinte occasioni, la natura sostanzialmente punitiva
della confisca per equivalente prevista per l’illecito amministrativo di abuso
di informazioni privilegiate (sentenze n. 223 del
2018 e n. 68
del 2017); ma tale qualificazione deve necessariamente estendersi anche
alla sanzione amministrativa pecuniaria prevista per il medesimo illecito, che
qui viene immediatamente in considerazione. Tale sanzione non può essere
considerata come una misura meramente ripristinatoria dello status quo ante, né
semplicemente mirante alla prevenzione di nuovi illeciti. Si tratta, infatti,
di sanzione dall’elevatissima carica afflittiva, che può giungere, oggi, sino a
cinque milioni di euro (a loro volta elevabili sino al triplo ovvero al maggior
importo di dieci volte il profitto conseguito o le perdite evitate), e che è
comunque sempre destinata, nelle intenzioni del legislatore, a eccedere il
valore del profitto in concreto conseguito dall’autore, a sua volta oggetto, di
separata confisca. Una simile carica afflittiva si spiega soltanto in chiave di
punizione dell’autore dell’illecito in questione, in funzione di una finalità
di deterrenza, o prevenzione generale negativa, che è certamente comune anche
alle pene in senso stretto.
Del resto, proprio in
considerazione della «finalità repressiva» di questa sanzione amministrativa e
del suo «elevato carico di severità», la Corte di giustizia UE ha recentemente
affermato la sua natura «penale» ai sensi dell’art. 50 CDFUE (Corte di
giustizia dell’Unione europea, sentenza 20 marzo 2018, Di Puma e altri, in
cause C-596/16
e C-596/16,
paragrafo 38).
6.4.– Resta, dunque, da
verificare se la deroga, stabilita dalla disposizione in questa sede censurata,
alla retroattività in mitius del più favorevole regime sanzionatorio introdotto
dal d.lgs. n. 72 del 2015 (il cui principale effetto pratico, come più sopra
evidenziato, consiste nella "dequintuplicazione” delle sanzioni amministrative
previste dal d.lgs. n. 58 del 1998) possa ritenersi legittima al metro del
vaglio positivo di ragionevolezza di cui si è detto.
A tale quesito non può che
rispondersi negativamente.
Nella relazione
illustrativa allo schema di decreto legislativo, in attuazione della legge n.
154 del 2014, il Governo dichiarò la propria intenzione di non introdurre nel
decreto il principio del favor rei «sia per la sospetta irragionevolezza
dell’introduzione di detto principio con riferimento solo ad alcune
disposizioni, sia per evitarne l’applicazione a tutti i procedimenti ancora sub
iudice», con conseguente «rischio di ripercussioni negative su procedimenti
sanzionatori in corso».
La prima ragione è ictu
oculi infondata: è semmai la mancata generalizzata previsione della
retroattività delle modifiche sanzionatorie in melius a essere sospetta di
irragionevolezza, e bisognosa pertanto di una specifica giustificazione in
termini di necessità di tutela di controinteressi costituzionalmente rilevanti.
Tali controinteressi non possono, d’altra parte, identificarsi semplicemente
nell’esigenza di evitare «ripercussioni negative su procedimenti sanzionatori
in corso», posto che l’influenza della lex mitior sui procedimenti sanzionatori
non ancora conclusi al momento della sua entrata in vigore è la conseguenza
necessaria del principio di retroattività della lex mitior stessa.
Né la scelta del
legislatore di posporre l’entrata in vigore delle modifiche al regime
sanzionatorio degli illeciti previsti dalla Parte V del d.lgs. n. 58 del 1998
al momento dell’entrata in vigore delle nuove disposizioni regolamentari della
Banca d’Italia e della CONSOB appare essa stessa sorretta dalla finalità di
tutelare cogenti controinteressi di rango costituzionale, di importanza
assimilabile a quella che legittimò, nella valutazione delle citate sentenze n. 72 del
2008 e n.
236 del 2011, la deroga alla retroattività delle disposizioni più
favorevoli in materia di prescrizione del reato introdotte dalla legge n. 251
del 2005 con riferimento ai giudizi pendenti in grado di appello (ove si
trattava di evitare, per effetto della maturazione dei più brevi termini di
prescrizione introdotti dalla nuova disciplina, la dispersione di tutte le
attività processuali svolte nei giudizi già conclusi in primo grado, rispetto a
fatti che continuavano a essere considerati come reato e a essere puniti con la
medesima pena in vigore al momento della loro commissione). I menzionati
regolamenti della Banca d’Italia e della CONSOB, infatti, concernono pressoché
esclusivamente la procedura di accertamento della sanzione, e non influiscono
sulla configurazione degli illeciti, né – se non in misura marginalissima –
sulla modalità di determinazione delle sanzioni amministrative pecuniarie, che
qui viene direttamente in considerazione.
Conseguentemente, la scelta
del legislatore del 2015 di derogare alla retroattività dei nuovi e più
favorevoli quadri sanzionatori risultanti dal d.lgs. n. 72 del 2015 sacrifica
irragionevolmente il diritto degli autori dell’illecito di abuso di
informazioni privilegiate a vedersi applicare una sanzione proporzionata al
disvalore del fatto, secondo il mutato apprezzamento del legislatore. Mutato
apprezzamento che riflette, evidentemente, la consapevolezza del carattere non
proporzionato di un minimo edittale di centomila euro.
Da ciò consegue
l’illegittimità costituzionale dell’art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 72 del 2015,
nella parte in cui esclude l’applicazione retroattiva delle modifiche apportate
dal comma 3 dello stesso art. 6 alle sanzioni amministrative previste per
l’illecito disciplinato dall’art. 187-bis del d.lgs. n. 58 del 1998.
7.– La dichiarazione di
illegittimità costituzionale deve essere estesa in via consequenziale, ai sensi
dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul
funzionamento della Corte costituzionale), alla mancata previsione – da parte
del censurato art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 72 del 2015 – della retroattività
delle modifiche apportate dal comma 3 dello stesso art. 6 alle corrispondenti
sanzioni amministrative previste per l’illecito di cui all’art. 187-ter
(Manipolazione del mercato) del d.lgs. n. 58 del 1998.
Tale illecito è, infatti,
corredato da un quadro sanzionatorio identico a quello previsto dall’art.
187-bis, rispondente esso pure a un’evidente logica punitiva, già riconosciuta
come tale dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (sentenza 4 marzo 2014, Grande Stevens e altri contro
Italia, paragrafi 94-101), dalla Corte di giustizia UE (Grande sezione,
sentenza 20 marzo 2018, Garlsson e altri, in causa C-537/16,
paragrafi 34-35) e dalla stessa Corte di cassazione (sezione quinta civile,
sentenza 30 ottobre 2018, n. 27564).
Anche rispetto alla
disciplina sanzionatoria dell’illecito amministrativo previsto dall’art.
187-ter, d’altra parte, la deroga al principio della retroattività della lex
mitior apportata dal legislatore delegato non supera il vaglio positivo di
ragionevolezza, per le medesime ragioni già evidenziate a proposito del
parallelo illecito di cui all’art. 187-bis.
Dal che, per l’appunto, la
necessità di dichiarare la illegittimità costituzionale della disciplina
transitoria dettata dalla disposizione censurata anche nella parte in cui essa
esclude l’applicazione retroattiva delle modifiche in melius apportate alle
sanzioni previste per l’illecito di cui all’art. 187-ter.
per
questi motivi
LA
CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 6, comma 2, del
decreto legislativo 12 maggio 2015, n. 72 (Attuazione della direttiva
2013/36/UE, che modifica la direttiva 2002/87/CE e abroga le direttive
2006/48/CE e 2006/49/CE, per quanto concerne l’accesso all’attività degli enti
creditizi e la vigilanza prudenziale sugli enti creditizi e sulle imprese di
investimento. Modifiche al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385 e al
decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58), nella parte in cui esclude
l’applicazione retroattiva delle modifiche apportate dal comma 3 dello stesso
art. 6 alle sanzioni amministrative previste per l’illecito disciplinato
dall’art. 187-bis del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico
delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli
articoli 8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52);
2) dichiara, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge
11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte
costituzionale), l’illegittimità costituzionale dell’art. 6, comma 2, del
d.lgs. n. 72 del 2015, nella parte in cui esclude l’applicazione retroattiva
delle modifiche apportate dal comma 3 dello stesso art. 6 alle sanzioni amministrative
previste per l’illecito di cui all’art. 187-ter del d.lgs. n. 58 del 1998;
3) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 72 del 2015, sollevata, in riferimento
all’art. 76 della Costituzione, dalla Corte d’appello di Milano, con
l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella
sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 febbraio 2019.
F.to:
Giorgio LATTANZI,
Presidente
Francesco VIGANÒ, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria
il 21 marzo 2019.