SENTENZA
N. 215
ANNO
2018
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME
DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE
COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Giorgio LATTANZI
Presidente
- Aldo CAROSI
Giudice
- Marta CARTABIA ”
- Mario
Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Nicolò ZANON ”
- Franco MODUGNO ”
- Augusto
Antonio BARBERA ”
- Giulio PROSPERETTI ”
- Giovanni AMOROSO ”
- Francesco VIGANÒ ”
- Luca ANTONINI ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità
costituzionale degli artt. 13, 15, comma 4, e 23 della legge
della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia 20 ottobre 2017, n. 34 (Disciplina
organica della gestione dei rifiuti e principi di economia circolare),
promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso
notificato il 22 dicembre 2017, depositato in cancelleria il 29 dicembre 2017,
iscritto al n. 92 del registro ricorsi 2017 e pubblicato nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 4, prima serie speciale, dell’anno 2018.
Visto
l’atto di costituzione della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia;
udito nell’udienza pubblica del 9
ottobre 2018 il Giudice relatore Giovanni Amoroso;
uditi l’avvocato dello Stato
Francesca Morici per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato
Giandomenico Falcon per la Regione autonoma
Friuli-Venezia Giulia.
Ritenuto in fatto
1.− Il
Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura
generale dello Stato, ha promosso questioni di legittimità costituzionale, in
via principale, degli articoli 13, 15, comma 4, e 23 della legge della Regione
autonoma Friuli-Venezia Giulia 20 ottobre 2017, n. 34 (Disciplina organica
della gestione dei rifiuti e principi di economia circolare), per violazione
dell’art. 117,
secondo comma, lettera s), della Costituzione, in relazione agli articoli
13, 94 e 208, comma 13, del decreto
legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale) e dell’art.
4 della legge
costituzionale 31 gennaio 1963, n. 1 (Statuto speciale della Regione
Friuli-Venezia Giulia).
Nel ricorso si
afferma che con le disposizioni indicate la Regione autonoma avrebbe ecceduto
dalle proprie attribuzioni, invadendo la competenza legislativa statale in
materia di «tutela dell’ambiente e dell’ecosistema» di cui all’art. 117,
secondo comma, lettera s), Cost., in quanto, secondo la costante giurisprudenza
costituzionale, la disciplina della gestione dei rifiuti è riconducibile alla
suddetta competenza esclusiva, deponendo in tal senso numerose pronunce della
Corte costituzionale; inoltre, nel ricorso si afferma che le disposizioni
regionali impugnate violerebbero anche l’art. 4 dello statuto reg.
Friuli-Venezia Giulia, non essendo in esso rinvenibile alcuna competenza in
materia.
Ciò premesso, il
Presidente del Consiglio dei ministri impugna innanzi tutto l’art. 13 della
legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 34 del 2017, rubricato «Formazione e
approvazione del Piano regionale di gestione dei rifiuti».
Al riguardo, afferma
che il procedimento di approvazione del Piano non sarebbe coerente con le
disposizioni del Titolo II della Parte seconda del d.lgs. n. 152 del 2006 (da
ora, anche: cod. ambiente), in quanto non include, all’interno del
procedimento, tutte le necessarie e simultanee fasi della procedura di valutazione
ambientale strategica (d’ora in avanti: VAS) previste dalla normativa statale e
comunitaria in materia. In particolare, sebbene la disposizione censurata
faccia riferimento al d.lgs. n. 152 del 2006, essa però escluderebbe la fase di
valutazione e di consultazione preliminare di cui all’art. 13, comma 1, del
cod. ambiente. Tale mancata previsione determina che, nella fase istruttoria
preliminare all’adozione del provvedimento, non viene predisposto un documento
di Piano, in versione preliminare, né il corrispondente «rapporto preliminare»
di VAS, con la conseguenza che non vengono effettuate le necessarie valutazioni
cosiddette di scoping.
È poi impugnato
l’art. 15, comma 4, della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 34 del 2017,
rubricato «Criteri localizzativi regionali degli impianti di recupero e di
smaltimento dei rifiuti».
Il ricorrente
osserva che, in base a tale norma, l’insediamento di impianti di recupero e
smaltimento di rifiuti pericolosi e non pericolosi, in prossimità di un’opera
di captazione di acque destinate al consumo umano, è subordinato al solo
rispetto di una distanza superiore a tremila metri, applicabile in modo
uniforme in tutto il territorio regionale. Si tratterebbe di una norma non
coerente con le disposizioni sulle aree di salvaguardia di cui all’art. 94 cod.
ambiente che, invece, impone la regolamentazione della localizzazione in
ragione delle caratteristiche idrogeologiche dei siti interessati. In
particolare, secondo il ricorrente, la norma statale citata prevede che le aree
di salvaguardia debbano essere definite in maniera specifica e caso per caso,
in relazione cioè alle singole captazioni o derivazioni, sulla base delle
indicazioni riportate dall’art. 94 citato e alla luce dell’accordo tra Stato e
Regioni del 12 dicembre 2002 (Linee Guida per la tutela della qualità delle
acque destinate al consumo umano e criteri generali per l’individuazione delle
aree di salvaguardia delle risorse idriche di cui all’art. 21 del decreto
legislativo 11 maggio 1999, n. 152).
Pertanto, la prescrizione
dell’unico criterio consistente nella previsione di una distanza superiore a
tremila metri a monte delle captazioni, anche se sufficiente in alcuni casi a
garantire la sicurezza delle acque, escluderebbe, ad avviso della difesa
statale, una più articolata valutazione del sito di localizzazione che consenta
di apprezzare per ogni singolo insediamento il rispetto delle norme di
sicurezza.
Infine, è censurato
l’art. 23 della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 34 del 2017, rubricato
«Decadenza dall’autorizzazione unica», in materia di gestione dei rifiuti.
Il ricorrente, dopo
aver riportato il contenuto dell’art. 22 della citata legge regionale in tema
di sospensione dell’autorizzazione unica a seguito del verificarsi di alcune
situazioni, riferisce che il comma 3 – là dove prevede che, in caso di
inottemperanza alle prescrizioni contenute nell’atto di diffida, è disposta la
sospensione per un periodo massimo di dodici mesi e soltanto a seguito
dell’esito infruttuoso di questo periodo opera la decadenza dell’autorizzazione
unica − si porrebbe in contrasto con l’art. 208, comma 13, lettera c),
cod. ambiente; disposizione questa che prevede, in caso di non ottemperanza a
quanto prescritto nell’atto di diffida, la revoca dell’autorizzazione unica.
Pertanto, sarebbe violato l’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost.
2.− Si è costituita la Regione
autonoma Friuli-Venezia Giulia e ha successivamente depositato una memoria,
sostenendo l’inammissibilità della terza censura e l’infondatezza di tutte le
questioni di legittimità costituzionale.
La difesa regionale
premette, in primo luogo, che la competenza legislativa regionale in materia di
rifiuti è riconducibile ai titoli di potestà legislativa primaria in materia «urbanistica»
(art. 4, numero 12, dello statuto reg. Friuli-Venezia Giulia) e di potestà
concorrente in materia di «igiene e sanità» (art. 5, numero 16, dello statuto
reg. Friuli-Venezia Giulia), operando al riguardo la clausola di maggior favore
di cui all’art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche
al titolo V della parte seconda della Costituzione).
In particolare, con
riferimento alle questioni promosse in relazione agli artt. 13 e 15, comma 4,
della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 34 del 2017, la difesa della Regione
afferma che le disposizioni impugnate non escludono affatto l’applicazione,
rispettivamente, delle norme statali di cui agli artt. 13 e 94 del d.lgs. n.
152 del 2006.
Inoltre, in
relazione alla questione promossa in riferimento all’art. 23 della legge
regionale citata, la difesa della Regione eccepisce in via preliminare
l’inammissibilità della censura per non corretta individuazione della
disposizione impugnata. Si osserva, infatti, che nel contesto dell’impugnazione
dell’art. 23, il ricorso formula una sorta di premessa concernente l’art. 22,
comma 3, della stessa legge regionale, il quale prevede, quale conseguenza
dell’inottemperanza della diffida, la sospensione dell’autorizzazione per un
periodo massimo di dodici mesi, anziché, come stabilito dall’art. 208, comma
13, lettera c), del d.lgs. n. 152 del 2006, la revoca della autorizzazione,
venendo poi impugnato l’art. 23 e non già l’art. 22, comma 3, della legge reg.
Friuli-Venezia Giulia n. 34 del 2017. Sussisterebbe, quindi, incertezza e
ambiguità sull’effettivo oggetto dell’impugnazione.
Nel merito, la
Regione resistente sostiene che la disciplina regionale impugnata non determina
alcuna riduzione di tutela rispetto alla disciplina statale. Essa bilancia correttamente,
secondo il medesimo paradigma normativo, il principio di precauzione con quello
di proporzionalità, sicché deve escludersi la denunciata violazione, sia delle
regole della competenza legislativa assegnata dallo statuto reg. Friuli-Venezia
Giulia, sia dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost.
Considerato in diritto
1.− Il
Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura
generale dello Stato, ha promosso questioni di legittimità costituzionale, in
via principale, degli artt. 13, 15, comma 4, e 23 della legge della Regione
autonoma Friuli-Venezia Giulia 20 ottobre 2017, n. 34 (Disciplina organica
della gestione dei rifiuti e principi di economia circolare) per violazione
dell’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, in relazione agli
artt. 13, 94 e 208, comma 13, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152
(Norme in materia ambientale), e dell’art. 4 della legge costituzionale 31
gennaio 1963, n. 1 (Statuto speciale della Regione Friuli-Venezia Giulia).
Secondo la difesa
erariale, l’art. 13 della suddetta legge regionale violerebbe, in particolare,
l’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., in
relazione all’art. 13, comma 1, cod. ambiente, in quanto non prevede, nel
procedimento di formazione e approvazione del Piano regionale di gestione dei
rifiuti, la fase di valutazione e di consultazione preliminare al fine della
redazione del «rapporto ambientale».
Inoltre, l’art. 15,
comma 4, della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 34 del 2017, nel prevedere,
quale unico criterio per la localizzazione di discariche di rifiuti pericolosi
e non pericolosi in prossimità di opere di captazione di acque destinate al
consumo umano, solo quello della distanza superiore a tremila metri dai punti
di captazione posti a valle delle stesse, rispetto alla direzione dei flussi di
alimentazione della captazione, violerebbe, in particolare, l’art. 117, secondo
comma, lettera s), Cost., in relazione all’art. 94 del d.lgs
n. 152 del 2006. Infatti, richiamando un unico criterio spaziale, esclude una
più articolata valutazione del sito di localizzazione che consenta di
apprezzare, per ogni singolo insediamento, il rispetto delle norme di
sicurezza, in armonia con le disposizioni statali, e segnatamente con l’art. 94
citato, che impongono la regolamentazione della localizzazione in ragione delle
caratteristiche idrogeologiche dei siti interessati.
Infine, l’art. 23
della medesima legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 34 del 2017 violerebbe, in
particolare, l’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost.,
in relazione all’art. 208, comma 13, del d.lgs n. 152
del 2006, in quanto prevede procedure di intervento da parte dell’autorità
competente in caso di inosservanza delle prescrizioni autorizzative almeno in
parte differenti da quanto stabilito dalla citata disposizione statale.
In sintesi, il
ricorrente si duole che la disciplina regionale impugnata, in tema di gestione
dei rifiuti, alla luce del raffronto con le corrispondenti previsioni del
d.lgs. n. 152 del 2006, abbia comportato una riduzione del livello di tutela
rispetto a quello assicurato dal codice dell’ambiente.
2.− Va innanzi tutto premesso che,
secondo la costante giurisprudenza della Corte, la disciplina della gestione
dei rifiuti è riconducibile alla materia «tutela dell’ambiente» e
«dell’ecosistema», riservata dall’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. alla competenza esclusiva dello Stato, ferme restando per le
Regioni ad autonomia differenziata le previsioni statutarie. In tale materia,
lo Stato può dettare una disciplina di protezione uniforme valida per tutte le
Regioni e non derogabile da queste (ex multis, sentenze n. 244
e n. 154 del
2016). Ha affermato questa Corte che la disciplina statale «costituisce,
anche in attuazione degli obblighi comunitari, un livello di tutela uniforme e
si impone sull’intero territorio nazionale, come un limite alla disciplina che
le Regioni e le Province autonome dettano in altre materie di loro competenza,
per evitare che esse deroghino al livello di tutela ambientale stabilito dallo
Stato, ovvero lo peggiorino» (sentenza n. 58 del
2015).
La «tutela
dell’ambiente» e «dell’ecosistema» rappresenta una materia naturalmente
trasversale, nel senso che interseca materie di competenza concorrente o
residuale delle Regioni, innanzi tutto quella del «governo del territorio»,
essendo la tutela dell’ambiente anche in funzione di presidio dell’integrità di
quest’ultimo. Ma possono venire in rilievo profili che attengono alla tutela
della «salute» o alla «protezione civile» (di competenza concorrente) o
all’agricoltura e foreste (di competenza residuale).
Quindi, la
competenza esclusiva statale in materia di «tutela dell’ambiente» e
«dell’ecosistema» può incontrare altri interessi e competenze, con la
conseguenza che – ferma rimanendo la riserva allo Stato del potere di fissare
livelli di tutela uniforme sull’intero territorio nazionale – possono
dispiegarsi le competenze proprie delle Regioni per la cura di interessi
funzionalmente collegati con quelli propriamente ambientali. In particolare,
quanto alla Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia, la competenza esclusiva del
legislatore statale può intersecare quella primaria della Regione in materia di
«urbanistica» (art. 4, numero 12, dello statuto reg. Friuli-Venezia Giulia) o
quella concorrente in materia di «igiene e sanità» (art. 5, numero 16, dello
statuto reg. Friuli-Venezia Giulia); né, per ciò solo, può dirsi che vi sia
violazione di tali norme.
Nell’esercizio di
tali competenze regionali può anche esserci un’incidenza nella materia di
competenza esclusiva statale, ma solo in termini di maggiore e più rigorosa
tutela dell’ambiente: le Regioni possono stabilire, per il raggiungimento dei
fini propri delle loro competenze, livelli di tutela più elevati, pur sempre
con il limite del rispetto della normativa statale di tutela dell’ambiente (sentenza n. 61 del
2009). Nello stesso tempo – ha affermato questa Corte − il
legislatore regionale non può prevedere «sia pure in nome di una protezione più
rigorosa della salute degli abitanti della Regione medesima, interventi
preclusivi suscettibili […] di pregiudicare, insieme ad altri interessi di
rilievo nazionale, il medesimo interesse della salute in un ambito territoriale
più ampio» (sentenza
n. 54 del 2012).
Questo orientamento
della giurisprudenza della Corte, in tema di riparto delle competenze
legislative quanto alla disciplina dei rifiuti, è stato di recente confermato
dalla sentenza
n. 150 del 2018 che − sul presupposto secondo cui la «tutela
dell’ambiente» interseca inestricabilmente altri interessi e competenze −
ha ribadito che la disciplina dei rifiuti attiene alla materia «tutela
dell’ambiente» e «dell’ecosistema», riservata, in base all’art. 117, comma
secondo, lettera s), Cost., alla competenza esclusiva dello Stato. La
disciplina statale – e segnatamente il codice dell’ambiente − costituisce
un limite per gli interventi normativi delle Regioni e delle Province autonome
che, pur attenendo a materie di loro competenza, intersecano la tutela
dell’ambiente.
2.1.− Vi è poi, nella disciplina
ambientale, un ulteriore coinvolgimento delle Regioni in un’ottica cooperativa
di integrazione e attuazione della disciplina statale e nel rispetto del
principio di sussidiarietà e di leale collaborazione. È talora la stessa legge
statale a demandare alla legislazione regionale il completamento di aspetti
specifici della tutela dell’ambiente. Ed è ciò che fa in generale l’art. 3 quinquies del d.lgs. n. 152 del 2006, che demanda alle
Regioni (e alle Province autonome di Trento e di Bolzano) di adottare forme di
tutela giuridica dell’ambiente più restrittive, qualora lo richiedano
situazioni particolari del loro territorio, purché ciò non comporti
un’arbitraria discriminazione, anche attraverso ingiustificati aggravi
procedimentali e sempre tenendo conto che i principi contenuti nel decreto
legislativo indicato costituiscono le condizioni minime ed essenziali per
assicurare la tutela dell’ambiente su tutto il territorio nazionale.
Alle Regioni è
demandato, altresì, di individuare, quanto alla localizzazione degli impianti
di recupero e smaltimento dei rifiuti, le aree di salvaguardia distinte in zone
di tutela assoluta e zone di rispetto, nonché le zone di protezione (art. 94
cod. ambiente).
Altresì, ancora con
riferimento alla disciplina dei rifiuti contenuta nella parte quarta del
medesimo codice dell’ambiente, le Regioni e le Province autonome sono state
chiamate ad adeguare i rispettivi ordinamenti alle disposizioni di tutela
dell’ambiente e dell’ecosistema contenute in tale parte (art. 177, comma 7). Il
successivo art. 196 cataloga in dettaglio le competenze delle Regioni,
demandando ad esse, nel rispetto dei principi previsti dalla normativa vigente
e dalla parte quarta del medesimo decreto legislativo, tra l’altro, «la
predisposizione, l’adozione e l’aggiornamento, sentiti le province, i comuni e
le Autorità d’ambito, dei piani regionali di gestione dei rifiuti»; «la
regolamentazione delle attività di gestione dei rifiuti, ivi compresa la
raccolta differenziata dei rifiuti urbani»; «l’approvazione dei progetti di
nuovi impianti per la gestione di rifiuti, anche pericolosi, e l’autorizzazione
alle modifiche degli impianti esistenti»; «l’autorizzazione all’esercizio delle
operazioni di smaltimento e recupero di rifiuti, anche pericolosi»; «la
definizione dei criteri per l’individuazione dei luoghi o impianti idonei» al
loro smaltimento.
Nell’esercizio di
tale competenza delegata, le disposizioni legislative del citato codice
dell’ambiente operano quali limiti per la normativa delle Regioni, anche a
statuto speciale, le quali devono mantenere la propria legislazione negli
ambiti dei vincoli posti dal codice, non potendo esse derogare o peggiorare il
livello di tutela ambientale stabilito dallo Stato, né determinare un
affievolimento o una minore efficacia della tutela dell’ambiente e
dell’ecosistema.
3.− Fatta questa premessa, può
esaminarsi innanzi tutto la prima questione di costituzionalità, che ha ad
oggetto l’art. 13 della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 34 del 2017,
recante la disciplina della formazione ed approvazione del Piano regionale di
gestione dei rifiuti (di seguito: Piano). In particolare, tale disposizione,
pur rinviando genericamente alle norme relative alla procedura di verifica di
assoggettabilità a valutazione ambientale strategica (d’ora in avanti: VAS),
prevede che la struttura regionale competente in materia di gestione dei
rifiuti provvede alla predisposizione del Piano, considerando le indicazioni
elaborate dal Forum dell’economia circolare di cui al precedente art. 4, ma
senza che, in realtà, sia parallelamente prescritta – secondo il dato testuale
della disposizione – l’attivazione del procedimento di cui agli artt. 12 e 13
del d.lgs. n. 152 del 2006. La norma impugnata, infatti, prevede direttamente
l’adozione, da parte della Giunta regionale, del progetto del Piano, munito del
relativo «rapporto ambientale» e della sintesi non tecnica.
Il ricorrente deduce
la violazione della competenza esclusiva del legislatore statale in materia di
tutela dell’ambiente, perché la disposizione regionale, nel disciplinare il
procedimento di formazione e approvazione del Piano, non include, all’interno
del procedimento, la fase di valutazione e di consultazione preliminare ai fini
della redazione del «rapporto ambientale» di cui all’art. 13 del d.lgs. n. 152
del 2006. Tale omessa previsione determinerebbe il vulnus ai parametri
costituzionali indicati in ricorso, ma essenzialmente all’art. 117, secondo
comma, lettera s), Cost.
3.1.− La questione non è fondata,
essendo possibile un’interpretazione costituzionalmente orientata della
disposizione censurata.
3.2.− L’Avvocatura generale dello
Stato fonda la sua censura di violazione della competenza esclusiva del
legislatore statale in materia di «tutela dell’ambiente e dell’ecosistema» su
un’interpretazione della disposizione regionale impugnata che è strettamente
ancorata al suo dato testuale.
È vero che l’art.
199, comma 1, cod. ambiente, demanda alle Regioni, sentite le Province, i
Comuni e, per quanto riguarda i rifiuti urbani, le Autorità d’ambito di cui
all’art. 201, la predisposizione e adozione dei piani regionali di gestione dei
rifiuti, per la cui approvazione è richiamata espressamente l’applicazione
della procedura di cui alla Parte II dello stesso decreto legislativo in
materia di VAS. E ciò comporta anche una competenza legislativa delegata alle
Regioni per regolare l’adattamento dell’ordinario procedimento (amministrativo)
di verifica di assoggettamento a VAS alla fattispecie più specifica – in
rapporto di genere a specie – del piano regionale di gestione dei rifiuti.
Tuttavia, ciò che
dispone l’art. 13 della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 34 del 2017,
regolando – come recita del resto la stessa rubrica della disposizione – il
procedimento di formazione e approvazione del Piano, contrasterebbe con la
specifica disciplina del codice dell’ambiente.
Quella contenuta
nell’impugnato art. 13 costituisce una regolamentazione dettagliata, che parte
dalla predisposizione del Piano (comma 1) e si snoda in una sequenza di
distinti momenti del procedimento, fino all’approvazione del Piano stesso con
decreto del Presidente della Regione.
La criticità della
disposizione, su cui in sostanza si appuntano le censure di illegittimità costituzionale,
sta nel passaggio dalla predisposizione del Piano (comma 1), che segna l’avvio
del procedimento, all’adozione del progetto di Piano, «munito del relativo
rapporto ambientale», con delibera della Giunta regionale (comma 2).
Nell’ordinaria procedura
di assoggettamento a VAS il «rapporto ambientale» viene in rilievo – ed è
redatto – solo dopo la verifica di assoggettabilità a VAS regolata dagli artt.
12 e 13 del d.lgs. n. 152 del 2006, verifica che parte inizialmente con il
cosiddetto «rapporto preliminare».
In particolare,
l’art. 12 prevede che l’autorità procedente – che è quella proponente piani o
programmi potenzialmente assoggettabili a VAS, in quanto possono avere impatti
significativi sull’ambiente – predispone il «rapporto preliminare» che segna
l’avvio della procedura di verifica. Questo rapporto contiene i dati necessari
alla verifica degli impatti significativi sull’ambiente che possono essere
causati dall’attuazione del piano o programma.
Segue la fase di
indagine e confronto (cosiddetta di scoping), quale
prescritta dalla direttiva europea 2001/42/CE del Parlamento europeo e del
Consiglio del 27 giugno 2001, concernente la valutazione degli effetti di
determinati piani e programmi sull’ambiente, che connota tutta la procedura.
L’autorità proponente si relaziona con l’autorità competente e insieme, secondo
un principio di leale collaborazione, individuano «i soggetti competenti in
materia ambientale da consultare», a partire dagli stessi Comuni e Province e
dalle Autorità d’ambito di cui all’art. 201, poi soppresse, le cui funzioni
sono state variamente regolate dalle leggi regionali (nella Regione
Friuli-Venezia Giulia è stata istituita l’Autorità unica per i servizi idrici e
i rifiuti).
Quindi si attiva, in
questa preliminare fase procedimentale di verifica dell’assoggettabilità a VAS,
un contraddittorio con tutti i soggetti che hanno voce nella materia
ambientale. Ad essi è trasmesso il documento iniziale costituito dal «rapporto
preliminare», per acquisirne il parere.
Questa fase è
cadenzata da termini ben precisi. I soggetti, ai quali è stato trasmesso il
«rapporto preliminare», hanno il termine di trenta giorni per inviare il
proprio parere all’autorità procedente e a quella competente. La quale ultima,
tenuto conto delle osservazioni pervenute, verifica se il piano o il programma
possa avere impatti significativi sull’ambiente, e, sentita l’autorità
procedente, emette il provvedimento di verifica, assoggettando o escludendo il
Piano o il programma dalla VAS.
Nel complesso, la fase
preliminare di consultazione, esame e verifica, si deve concludere nel termine
di novanta giorni dall’invio del «rapporto preliminare».
Di tutto ciò è
assicurata la piena conoscibilità affinché chiunque abbia interesse possa avere
contezza del possibile impatto ambientale del Piano, essendo infatti prescritto
che il risultato della verifica di assoggettabilità, comprese le motivazioni, è
pubblicato integralmente nel sito web dell’autorità competente.
È solo dopo, nel
successivo iter procedimentale regolato dall’art. 13 cod. ambiente, che viene
in rilievo la redazione del «rapporto ambientale», il quale, muovendo dal
«rapporto preliminare», contiene tutti i dati emersi nell’attività di scoping (soprattutto dai pareri inviati dai soggetti aventi
competenze in materia ambientale), dando atto della consultazione dei soggetti
coinvolti nella fase preliminare di verifica di assoggettabilità a VAS, ed
evidenzia come siano stati presi in considerazione i contributi pervenuti.
Esaurita questa fase
preliminare, il «rapporto ambientale» viene a costituire parte integrante del
piano o del programma e ne accompagna il successivo processo di elaborazione e
approvazione.
L’art. 13 cod.
ambiente disciplina poi in dettaglio l’ulteriore iter procedimentale della
proposta di piano o di programma, così come fa in parallelo l’art. 13 della
legge regionale impugnata. Ma di ciò non è necessario dar conto, perché il
seguito del procedimento non è attinto da alcuna censura di incostituzionalità.
3.3.− Orbene,
il ricorrente ha facile gioco nel sostenere che la lettura testuale della
disposizione censurata disegna, in termini esaustivi, un procedimento di
formazione e approvazione del Piano regionale di gestione dei rifiuti, che,
rispetto all’ordinario procedimento di verifica di assoggettamento a VAS (art.
12 del d.lgs. n. 152 del 2006) e di successiva adozione o approvazione del
piano o programma (art. 13 e seguenti del d.lgs. n. 152 del 2006), costituisce
una versione, per così dire, "abbreviata”, perché priva della fase di verifica
di assoggettamento a VAS. Il procedimento previsto dalla disposizione censurata
parte dalla predisposizione e approvazione del progetto di Piano come momento
di avvio del procedimento e associa al progetto di Piano direttamente il
«rapporto ambientale».
Ciò potrebbe, in
ipotesi, perseguire una finalità di semplificazione e accelerazione, ma lo
sarebbe (illegittimamente) a scapito della previa consultazione dei soggetti
aventi competenza in materia ambientale, per i quali non è neppure previsto che
(successivamente) venga trasmesso il «rapporto ambientale», con sostanziale
detrimento della complessiva trasparenza della procedura. Residuerebbe,
infatti, solo la successiva pubblicazione del «rapporto ambientale» sul sito
istituzionale della Regione e sul Bollettino ufficiale, per consentire a
chiunque di prenderne visione e presentare alla Regione osservazioni nel
termine di sessanta giorni.
Neppure la difesa
della Regione ipotizza che il legislatore regionale abbia inteso disegnare un
procedimento speciale e più rapido, senza previa concertazione con i soggetti
aventi competenza in materia ambientale. Anzi, la difesa della Regione – con
indubbia lealtà processuale – riconosce nella sostanza che, se la disposizione
censurata esaurisse la disciplina del procedimento, come ritiene l’Avvocatura
dello Stato e come sembrerebbe essere sulla base di una lettura testuale della
stessa, la norma sarebbe effettivamente lesiva della competenza esclusiva del
legislatore statale in materia di tutela dell’ambiente e, come tale,
incostituzionale nella parte in cui non prevede il necessario previo
procedimento di verifica di assoggettamento a VAS. La difesa della Regione
chiede, invece, che di tale disposizione sia data un’interpretazione
costituzionalmente orientata nel senso che non è esclusa – e quindi trova
applicazione – l’ordinaria procedura di verifica di assoggettamento alla VAS,
quale regolata dal codice dell’ambiente.
3.4.− In effetti, soccorre in
proposito il generale canone dell’interpretazione adeguatrice
che consente di superare la censura di incostituzionalità.
Non solo nel
giudizio incidentale di costituzionalità, in cui vi è il giudice rimettente,
chiamato a interpretare la disposizione censurata, primo e diretto destinatario
dell’interpretazione adeguatrice in ipotesi accolta
da questa Corte, ma anche nel giudizio in via principale opera tale canone
interpretativo in quanto, come nella fattispecie in esame, è ben possibile che
la disposizione censurata venga all’esame di un giudice comune in una
controversia ordinaria.
Pertanto, se c’è una
possibilità di interpretazione conforme a Costituzione, la questione di
legittimità costituzionale è infondata nei termini di tale interpretazione.
3.5.− Nella fattispecie sussiste –
come giustamente deduce la difesa della Regione − la possibilità
dell’interpretazione adeguatrice della disposizione
censurata.
Innanzi tutto, nella
legge regionale impugnata c’è una disposizione chiave − l’art. 39 – che
prevede che «[p]er quanto non disposto dalla presente
legge si applica la normativa statale vigente in materia».
Non è una
disposizione di stile, priva di sostanziale portata normativa, ma una norma di
raccordo sistematico, con automatico rinvio alla legislazione statale, in piena
sintonia con i limiti di competenza del legislatore regionale, anche ad
autonomia differenziata, in una materia – quale quella della tutela
dell’ambiente − che appartiene alla competenza esclusiva del legislatore
statale.
Da tale norma di
rinvio discende, con riferimento alla disposizione censurata, un canone
generale interpretativo, per cui la mancata previsione di un adempimento o di
una prescrizione − quale il previo procedimento di verifica di
assoggettamento a VAS, secondo le disposizioni contenute negli artt. 12 e
seguenti del d.lgs. n. 152 del 2006 − non significa sua esclusione.
Inoltre, a conforto
di ciò, c’è da considerare che il riferimento al «rapporto ambientale»,
contenuto nel secondo comma della disposizione impugnata, può essere letto non
già in termini generici – come un documento contenente valutazioni sull’impatto
ambientale del Piano – ma in termini specifici e tecnici secondo la definizione
che ne dà l’art. 5 cod. ambiente – recante, appunto, le medesime definizioni
utilizzate nel codice dell’ambiente – che, al comma 1, lettera f), specifica
che il «rapporto ambientale» è «il documento del piano o del programma redatto
in conformità alle previsioni di cui all’articolo 13»; ossia è il documento
redatto all’esito del procedimento di verifica di assoggettamento a VAS.
Quindi, da una
parte, può ritenersi che le norme del codice dell’ambiente, la cui applicazione
non sia esclusa dalla legge regionale espressamente o per irriducibile
incompatibilità, trovino applicazione unitamente alle norme regionali. D’altra
parte, il riferimento testuale al «rapporto ambientale», contenuto nella
disposizione impugnata, al secondo comma, significa che è richiamato quello
specifico documento previsto dall’art. 13 cod. ambiente e con esso è richiamato
– e trova applicazione – il previo procedimento di verifica di assoggettamento
a VAS previsto dal codice dell’ambiente.
Così interpretata la
disposizione censurata, in termini costituzionalmente orientati, e anche
tenendo conto della necessaria conformità alla citata direttiva 2001/42/CE, si
ha che non solo la legittimità del Piano deve ritenersi condizionata dalla
sopra richiamata attività di scoping nella
preliminare fase di verifica dell’assoggettabilità a VAS, ma anche che il
«rapporto ambientale», previsto dal comma 2 dell’art. 13 impugnato, deve dare conto
di quanto sia emerso in tale fase, soprattutto attraverso i pareri dei soggetti
che hanno competenza in materia ambientale.
La disposizione
impugnata, così interpretata, si sottrae alle censure del ricorrente e la
questione di costituzionalità può essere dichiarata non fondata.
4.− La seconda questione di
costituzionalità ha ad oggetto l’art. 15, comma 4, della impugnata legge reg.
Friuli-Venezia Giulia n. 34 del 2017, che fissa i criteri localizzativi
regionali degli impianti di recupero e smaltimento dei rifiuti.
La disposizione
impugnata stabilisce che «ai fini della salvaguardia delle acque superficiali e
sotterranee destinate al consumo umano erogate a terzi mediante impianto di
acquedotto che riveste carattere di pubblico interesse, le discariche per
rifiuti pericolosi e per rifiuti non pericolosi sono localizzate a distanza
superiore a tremila metri dai punti di captazione posti a valle delle stesse,
rispetto alla direzione dei flussi di alimentazione della captazione».
Quindi, per le
discariche da collocarsi a monte dei punti di captazione delle acque in
questione deve essere osservata una distanza superiore a tremila metri.
Ad avviso del
ricorrente il legislatore regionale avrebbe previsto un unico criterio di localizzazione
che escluderebbe la possibilità di valutare caso per caso il sito di
localizzazione, con riferimento alle singole captazioni o derivazioni, tenendo
conto delle indicazioni contenute nello stesso art. 94 del cod. ambiente.
4.1.− La questione non è fondata.
L’art. 94 cod.
ambiente reca la disciplina delle aree di salvaguardia delle acque superficiali
e sotterranee destinate al consumo umano, prevedendo che, su proposta degli
enti di governo dell’ambito, le Regioni, per mantenere e migliorare le
caratteristiche qualitative di dette acque, individuano, tra le altre, le aree
di salvaguardia distinte in zone di tutela assoluta e zone di rispetto.
La citata norma
statale stabilisce che la zona di tutela assoluta è costituita dall’area
immediatamente circostante le captazioni o derivazioni e che essa, in caso di
acque sotterranee e, ove possibile, di acque superficiali, deve avere
un’estensione di almeno dieci metri di raggio dal punto di captazione, deve
essere adeguatamente protetta e deve essere adibita esclusivamente a opere di
captazione o presa e a infrastrutture di servizio. La zona di rispetto è
costituita, invece, dalla porzione di territorio circostante la zona di tutela
assoluta da sottoporre a vincoli e destinazioni d’uso tali da tutelare
qualitativamente e quantitativamente la risorsa idrica captata. In tale zona è
vietato l’esercizio di alcune attività, tra le quali sono ricomprese quelle
concernenti la gestione di rifiuti.
In particolare, e
per ciò che rileva in questo giudizio di costituzionalità, la disposizione
statale prevede che, in assenza dell’individuazione da parte delle Regioni o
delle Province autonome della zona di rispetto ai sensi del comma 1 dell’art.
94, la medesima ha un’estensione di duecento metri di raggio rispetto al punto
di captazione o di derivazione.
Ebbene, la
disposizione regionale, nel prevedere la localizzazione delle discariche a una
distanza superiore a tremila metri, nella specifica ipotesi di impianti
collocati a monte dei punti di captazione delle acque, ha dettato un criterio
più rigoroso rispetto a quello previsto dal codice dell’ambiente, non
riducendo, ma anzi innalzando i livelli di tutela.
Infatti, non si
tratta di un criterio unico ed esaustivo, che sostituisce la valutazione caso
per caso richiesta dall’art. 94 del d.lgs. n. 152 del 2006. La norma regionale
prevede uno specifico e molto particolare criterio di localizzazione che di per
sé non esclude l’applicazione degli altri criteri previsti dall’art. 94 del
decreto legislativo citato, integrati dalle Linee guida adottate in sede
dell’accordo tra Stato e Regioni del 12 dicembre 2002; criteri questi ultimi
che, quindi, trovano parimenti applicazione in ragione della già richiamata
clausola di salvezza dell’art. 39 della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 34
del 2017, per cui, in generale, si applicano le disposizioni del codice
dell’ambiente per quanto non espressamente disposto dalla normativa regionale.
L’art. 15, comma 4,
della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 34 del 2017, non apporta una deroga
ai criteri di cui alla disposizione statale (art. 94 cod. ambiente), ma
individua un criterio aggiuntivo per la localizzazione degli impianti di
recupero e smaltimento dei rifiuti a monte dei punti di captazione di acque
destinate al consumo umano, così elevando lo standard di tutela dell’ambiente
quando viene in rilievo il più specifico aspetto della tutela della salute in
relazione alla prevenzione del rischio di inquinamento delle falde acquifere.
5.− La terza questione ha ad
oggetto l’art. 23 della legge regionale suddetta, relativamente alla decadenza
dell’autorizzazione unica in caso di violazione delle sue prescrizioni cui non
sia seguito, da parte del gestore inadempiente, l’adeguamento prescritto dalla
relativa diffida.
Il ricorrente censura
la citata disposizione in quanto afferma che essa prevede «procedure di
intervento da parte dell’autorità competente in caso di inosservanza delle
prescrizioni autorizzative almeno in parte differenti da quanto stabilito
dall’art. 208, comma 13, del d.lgs. n. 152 del 2006».
5.1.− Vi è una preliminare eccezione
di inammissibilità della censura, sollevata dalla difesa della Regione, la
quale adduce la carenza delle ragioni addotte nel ricorso.
Il ricorso
introduttivo, seppur redatto con motivazione piuttosto succinta sul punto, è
nondimeno ammissibile perché, nel suo contenuto essenziale, è idoneo a
identificare la questione posta.
L’art. 23,
espressamente indicato quale norma impugnata nel ricorso e nella delibera di
autorizzazione a proporre lo stesso, si riempie di contenuto anche considerando
la disciplina recata dal precedente art. 22, comma 3, che il ricorso prende
espressamente in esame.
La stretta ed
evidente connessione intercorrente tra le due disposizioni consente di ritenere
che l’impugnazione riguardi, nella sostanza, il loro combinato disposto, pur
essendo il ricorso indirizzato solo nei confronti dell’art. 23.
La questione è
quindi ammissibile.
5.2.− Nel merito, la medesima
questione non è fondata.
L’art. 208 cod.
ambiente prevede che i soggetti che intendono realizzare e gestire nuovi
impianti di smaltimento o di recupero di rifiuti, anche pericolosi, devono
presentare apposita domanda alla Regione competente per territorio, allegando
il progetto definitivo dell’impianto e la documentazione tecnica prevista, per
la realizzazione del progetto stesso, dalle disposizioni vigenti in materia
urbanistica, di tutela ambientale, di salute, di sicurezza sul lavoro e di
igiene pubblica. A seguito dell’espletamento dell’analitica procedura descritta
ai commi 2, 3, 4, 5, 6 e 7, la Regione competente procede al rilascio
dell’autorizzazione unica o con il diniego motivato della stessa.
Nel caso di
rilascio, l’art. 208 del decreto legislativo citato, al comma 11, individua le
condizioni e le prescrizioni necessarie per garantire l’attuazione della tutela
dell’ambiente.
La medesima
disposizione stabilisce, poi, al comma 13 – norma interposta asseritamente violata dalla disposizione regionale
censurata – che, in caso di inosservanza delle prescrizioni dell’autorizzazione,
l’autorità competente procede, secondo la gravità dell’infrazione: a) alla
diffida, stabilendo un termine entro il quale devono essere eliminate le
inosservanze; b) alla diffida e contestuale sospensione dell’autorizzazione per
un tempo determinato, ove si manifestino situazioni di pericolo per la salute
pubblica e per l’ambiente; c) alla revoca dell’autorizzazione in caso di
mancato adeguamento alle prescrizioni imposte con la diffida e in caso di
reiterate violazioni che determinino situazioni di pericolo per la salute
pubblica e per l’ambiente.
Si tratta, dunque,
di una disposizione che sanziona le inosservanze meno gravi con la diffida
cosiddetta semplice, e le inosservanze che danno luogo a situazioni di pericolo
per la salute della collettività e per l’ambiente con la diffida e contestuale
sospensione, nonché con la revoca dell’autorizzazione nel caso di perdurante
inadempimento.
A fronte di questa
disciplina statale, le censure del ricorrente si appuntano sulla asserita
differente disciplina regionale in tema di conseguenze dell’inosservanza delle
prescrizioni contenute nell’atto di diffida rispetto a quelle previste a
livello statale.
La disposizione
regionale (art. 22) stabilisce che l’autorizzazione unica è sospesa in vari
casi, elencati distintamente, e, in particolare, in caso di situazione di
pericolo temporaneo per la salute pubblica causata dall’esercizio dell’attività
dell’impianto. In tali casi, la struttura regionale competente in materia di
gestione dei rifiuti diffida il soggetto titolare dell’autorizzazione unica a
far cessare la causa dell’inadempimento o della violazione, assegnandogli un
termine per provvedere.
In relazione ad
altre ipotesi di inadempimento, diverse da quelle di cui al comma 1, è prevista
(dal comma 3 dell’art. 22) la sanzione della diffida cosiddetta semplice, ossia
senza la contestuale sospensione dell’attività.
Qualora il soggetto
titolare dell’autorizzazione unica non ottemperi entro il termine assegnato
nell’atto di diffida, la disposizione da ultimo citata prevede che sia ordinata
la sospensione dell’attività autorizzata per un periodo massimo di dodici mesi.
Se, poi, entro tale periodo, non cessa la causa che ha determinato l’emanazione
del provvedimento di sospensione, la struttura regionale competente in materia
di gestione dei rifiuti provvede ai sensi dell’articolo 23, comma 1, lettera
c), disponendo la decadenza dell’autorizzazione unica.
5.3.− Così articolato il procedimento
sanzionatorio previsto dalla disposizione regionale impugnata, può ritenersi
che quest’ultima non esorbiti dal limite costituito, come parametro interposto,
dal citato art. 208, comma 13, del cod. ambiente.
Lo schema e la
sequenza del regime sanzionatorio della censurata disposizione regionale e di
quella simmetrica statale sono analoghi.
C’è l’iniziale
diffida ad opera della struttura regionale competente al rilascio
dell’autorizzazione unica, con cui è contestata una inadempienza al soggetto
titolare dell’autorizzazione. C’è la sospensione dell’attività autorizzata in
caso di mancata tempestiva ottemperanza alle prescrizioni contenute nell’atto
di diffida. C’è, infine, la decadenza/revoca dell’autorizzazione unica in caso
di perdurante inadempimento.
Vi è, invero, una
qualche asimmetria, denunciata dal ricorrente, che però non è tale da
compromettere il complessivo e sostanziale rispetto della citata disposizione
del codice dell’ambiente da parte della impugnata disposizione regionale.
5.4.− Innanzi tutto questa asimmetria
non c’è nel caso in cui l’inadempienza del gestore abbia determinato una
situazione di pericolo per la salute pubblica e per l’ambiente. Infatti, la
disposizione statale prevede la diffida con contestuale sospensione
dell’autorizzazione per un tempo determinato (art. 208, comma 13, lettera b). A
fronte di ciò, la disposizione regionale prevede, ove vi sia una situazione di
pericolo temporaneo per la salute pubblica causata dall’esercizio dell’attività
dell’impianto, la sospensione dell’autorizzazione unica (art. 22, comma 1) con
diffida al soggetto titolare dell’autorizzazione a far cessare la causa
dell’inadempimento o della violazione, e assegnazione di un termine per
provvedere (art. 22, comma 2).
Ove persista
l’inadempienza dopo la scadenza del termine per adempiere, la disposizione
statale prevede che l’autorità competente proceda, «secondo la gravità
dell’infrazione», alla «revoca dell’autorizzazione in caso di mancato
adeguamento alle prescrizioni imposte con la diffida e in caso di reiterate
violazioni che determinino situazione di pericolo per la salute pubblica e per
l’ambiente» (art. 208, comma 13, lettera c). La disposizione regionale,
parimenti, prevede la decadenza dell’autorizzazione unica in caso di
inosservanza delle prescrizioni o delle condizioni stabilite
dall’autorizzazione unica che abbiano cagionato pericolo o danno per l’ambiente
o per la salute pubblica (art. 23, comma 1, lettera b), e in caso di decorrenza
del periodo di sospensione senza che il titolare dell’autorizzazione abbia
rimosso la causa che ha determinato l’emanazione del provvedimento di
sospensione (art. 23, comma 1, lettera c).
Lo schema
sanzionatorio della disposizione regionale ripete, quindi, quello della
disposizione statale nell’ipotesi di maggiore rilevanza: quello della
situazione di pericolo per la salute pubblica causata dall’esercizio
dell’attività dell’impianto.
5.5.− Invece, l’allineamento non è
così puntuale nel caso di altre situazioni parimenti riconducibili a
inadempienze del gestore.
La disposizione
regionale (art. 22, comma 3) prevede che, qualora il soggetto titolare
dell’autorizzazione unica non ottemperi entro il termine assegnato nell’atto di
diffida, sia dapprima ordinata la sospensione dell’attività autorizzata per un
periodo massimo di dodici mesi. Qualora, entro tale periodo, non sia cessata la
causa che ha determinato l’emanazione del provvedimento di sospensione, solo
allora la struttura regionale competente in materia di gestione dei rifiuti
provvederà ad adottare decadenza, ai sensi del medesimo art. 23, comma 1,
lettera c).
Invece, la
disposizione statale (art. 208, comma 13, lettera c) fa conseguire la revoca
dell’autorizzazione direttamente allo spirare del termine previsto dalla
diffida in caso di mancato adeguamento alle prescrizioni imposte con
quest’ultima.
Nella sua
essenzialità lo schema è lo stesso: scadenza del termine previsto dalla diffida
e conseguente decadenza/revoca dell’autorizzazione.
È come se l’unico
termine per adempiere, previsto dalla diffida secondo la disposizione statale,
fosse articolato dalla disposizione regionale in due segmenti temporali che,
unitamente considerati, sono equivalenti al primo senza che la maggiore
flessibilità della disposizione regionale, insita nel doppio termine per adeguarsi,
possa ridondare in violazione della corrispondente disposizione del codice
dell’ambiente. La quale peraltro è, in realtà, solo apparentemente più
rigorosa, perché la revoca dell’autorizzazione è comunque adottata − come
prescrive testualmente l’art. 208, comma 13, citato – «secondo la gravità
dell’infrazione»; ciò che introduce parimenti un elemento di flessibilità.
Sicché, anche questa
terza disposizione (art. 23) della impugnata legge regionale non si pone in
contrasto con la disposizione del codice dell’ambiente, evocata dal ricorrente
a parametro interposto.
6.− In conclusione, la questione di
costituzionalità dell’art. 13 della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 34 del
2017 non è fondata, nei sensi di cui sopra, perché della stessa è possibile
dare un’interpretazione adeguatrice secondo cui
trovano applicazione le disposizioni del codice dell’ambiente indicate a
parametro interposto.
Le questioni di
legittimità costituzionale degli artt. 15, comma 4, e 23 della legge reg.
Friuli-Venezia Giulia n. 34 del 2017 non sono fondate perché non violano le
disposizioni del codice dell’ambiente indicate a parametro interposto.
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara non fondata, nei sensi di cui
in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 13 della
legge della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia 20 ottobre 2017, n. 34
(Disciplina organica della gestione dei rifiuti e principi di economia
circolare), promossa, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera s),
della Costituzione, in relazione all’art. 13 del decreto legislativo 3 aprile
2006, n. 152 (Norme in materia ambientale), e all’art. 4 della legge
costituzionale 31 gennaio 1963, n. 1 (Statuto speciale della Regione
Friuli-Venezia Giulia), dal Presidente del Consiglio dei Ministri con il
ricorso indicato in epigrafe;
2) dichiara non fondate le questioni di
legittimità costituzionale degli artt. 15, comma 4, e 23 della legge reg.
Friuli-Venezia Giulia n. 34 del 2017, promosse, in riferimento agli artt. 117,
secondo comma, lettera s), Cost., in relazione,
rispettivamente, agli artt. 94 e 208, comma 13, del d.lgs. n. 152 del 2006, e
all’art. 4 dello statuto reg. Friuli-Venezia Giulia, dal Presidente del
Consiglio dei ministri con il ricorso indicato in epigrafe.
Così deciso in Roma,
nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 ottobre
2018.
F.to:
Giorgio LATTANZI,
Presidente
Giovanni AMOROSO,
Redattore
Roberto MILANA,
Cancelliere
Depositata in
Cancelleria il 26 novembre 2018.