ORDINANZA N. 100
ANNO 2016
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Paolo GROSSI Presidente
- Giuseppe FRIGO Giudice
- Alessandro CRISCUOLO ”
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
- Franco MODUGNO ”
- Augusto Antonio BARBERA ”
- Giulio PROSPERETTI ”
ha pronunciato la seguente
ORDINANZAnel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 42-bis del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità – Testo A), introdotto dall’art. 34, comma 1, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 15 luglio 2011, n. 111, promosso dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sezione seconda, con ordinanza del 2 marzo 2015, iscritta al n. 131 del registro ordinanze 2015 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 27, prima serie speciale, dell’anno 2015.
Visti gli atti di intervento di SEP – Società Edilizia Pineto spa e del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 20 aprile 2016 il Giudice relatore Nicolò Zanon.
Ritenuto che il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sezione seconda, con ordinanza del 2 marzo 2015, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 42, 97 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 (d’ora in avanti «CEDU»), questioni di legittimità costituzionale dell’art. 42-bis del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità – Testo A), introdotto dall’art. 34, comma 1, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 15 luglio 2011, n. 111;
che la questione di legittimità costituzionale è sollevata nel corso di un giudizio avente ad oggetto una procedura espropriativa posta in essere dal Comune di Roma ed originata dall’intervenuta approvazione, con la delibera della Giunta municipale n. 6644 datata 8 agosto 1980, del progetto per la realizzazione di opere di viabilità, con contestuale dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità e urgenza dei lavori, su una porzione di terreni di proprietà dei ricorrenti;
che, effettuata l’occupazione delle aree, le opere risultano essere state realizzate senza che il Comune resistente abbia portato a termine la procedura espropriativa mediante adozione di legittimo decreto di esproprio;
che il giudice rimettente, in punto di rilevanza, osserva che la fattispecie concreta rientra «nell’ambito di applicazione del citato art. 42-bis» del d.P.R. n. 327 del 2001, che affida esclusivamente all’autorità amministrativa la scelta di determinarsi in ordine all’eventuale acquisizione delle aree irreversibilmente trasformate, con l’adozione del provvedimento disciplinato dalla norma censurata;
che, dunque, il giudice rimettente afferma che «dovrebbe limitarsi a ordinare alla resistente Amministrazione Comunale di procedere alla restituzione alla società ricorrente delle aree illegittimamente occupate, previa riduzione in pristino, e a risarcire il danno per l’occupazione illegittima»;
che, tuttavia, il giudice a quo ricorda che «l’Amministrazione può paralizzare tale pronuncia mediante l’adozione del provvedimento con cui disporre l’acquisto ex nunc del bene al suo patrimonio indisponibile, con corresponsione al proprietario di un indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale subito»;
che, quanto alla non manifesta infondatezza della questione, il giudice rimettente dubita, in primo luogo, della compatibilità della disposizione censurata con gli artt. 3 e 24 Cost., in quanto riserverebbe un trattamento privilegiato alla pubblica amministrazione che abbia commesso un fatto illecito, con l’attribuzione della facoltà di mutare – successivamente all’evento dannoso prodotto nella sfera giuridica altrui, e per effetto di una propria unilaterale manifestazione di volontà – il titolo e l’ambito della responsabilità, nonché il tipo di sanzione (da risarcimento in indennizzo) stabiliti in via generale dal precetto del neminem laedere, sottraendo così al proprietario l’intera gamma delle azioni di cui disponeva in precedenza a tutela del diritto di proprietà (con particolare riferimento all’azione restitutoria) e la stessa facoltà di scelta di avvalersene o meno;
che il giudice a quo dubita, inoltre, della compatibilità dell’art. 42-bis del T.U. sulle espropriazioni con gli artt. 42 e 97 Cost., in quanto il primo e fondamentale presupposto per procedere al trasferimento coattivo di un immobile mediante espropriazione, ai sensi dell’art. 42 Cost., è costituito dalla necessaria ricorrenza di «motivi d’interesse generale», consacrati nella previa dichiarazione di pubblica utilità dell’opera: tale garanzia sarebbe stata del tutto cancellata dalla norma in esame, la quale, peraltro, ometterebbe di fissare termini certi per l’inizio ed il completamento del procedimento, esponendo il diritto di proprietà al pericolo dell’emanazione del provvedimento acquisitivo senza limiti di tempo;
che il giudice rimettente ritiene, ancora, la norma censurata contrastante con l’art. 117, primo comma, Cost., in quanto non sarebbe conforme ai principi della CEDU, secondo l’interpretazione fornita dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (d’ora in avanti «Corte EDU») dell’art. 1 del Primo Protocollo addizionale alla medesima Convenzione;
che, ricorda il giudice a quo, la Corte EDU avrebbe in più occasioni considerato «in radicale contrasto» con la CEDU il principio dell’“espropriazione indiretta”, con la quale il trasferimento della proprietà del bene dal privato alla pubblica amministrazione avviene in virtù della constatazione della situazione di illegalità o illiceità commessa dalla stessa amministrazione, con l’effetto di convalidarla, consentendo a quest’ultima di trarne vantaggio, trascurando le regole fissate in materia di espropriazione, con il rischio di un risultato imprevedibile o arbitrario per gli interessati;
che, secondo il rimettente, non essendo consentita, dalla giurisprudenza della Corte EDU, la “legalizzazione dell’illegale” neppure ad una disposizione di legge, a fortiori essa non sarebbe permessa ad un provvedimento amministrativo di attuazione, quale è quello che disponga la cosiddetta acquisizione “sanante”;
che il TAR Lazio dubita, infine, della conformità della norma censurata all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6 della CEDU, secondo l’interpretazione fornita dalla Corte EDU, la quale – pur non escludendo che, in materia civile, una nuova normativa possa avere efficacia retroattiva – ha ripetutamente considerato lecita l’applicazione dello ius superveniens in cause già pendenti soltanto in presenza di «motivi imperativi d’interesse generale»;
che la disposizione censurata violerebbe questi principi, in quanto, malgrado la precisazione contenuta nel suo primo comma, secondo cui l’atto di acquisizione è destinato a non operare retroattivamente, il contenuto dell’ottavo comma della medesima disposizione confermerebbe la possibilità dell’amministrazione di utilizzare il provvedimento “sanante” ex tunc, per fatti anteriori alla sua entrata in vigore ed anche se vi sia già stato un provvedimento di acquisizione successivamente ritirato o annullato;
che nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, sostenendo la manifesta infondatezza delle sollevate questioni di legittimità costituzionale, in quanto già dichiarate non fondate con la sentenza n. 71 del 2015 della Corte costituzionale, depositata in cancelleria in data 30 aprile 2015;
che, secondo la difesa statale, il legislatore, con l’introduzione dell’art. 42-bis nell’ambito del T.U. sulle espropriazioni, avrebbe inteso assicurare un corretto bilanciamento degli interessi contrapposti in caso di occupazione senza titolo – «quello della Amministrazione a conservare l’opera pubblica e quello del privato ad un ristoro per l’illegittimità subita» – inserendo nell’ordinamento un istituto affine, ma non identico, a quello precedentemente disciplinato dall’art. 43 del medesimo T.U. sulle espropriazioni, dichiarato incostituzionale con la sentenza n. 293 del 2010;
che, a giudizio della difesa erariale, le differenze tra i due istituti renderebbero la disposizione censurata immune dai vizi prospettati dal giudice rimettente;
che nel giudizio ha depositato, in data 28 luglio 2015, atto di intervento SEP Società Edilizia Pineto spa, aderendo – seppure in via subordinata rispetto all’eccezione di irrilevanza delle questioni di legittimità costituzionale – alle censure prospettate dal giudice rimettente e specificando di non essere parte del giudizio a quo, ma di altro giudizio avente ad oggetto una diversa procedura espropriativa illegittima, in cui pure potrebbe trovare applicazione l’art. 42-bis del T.U. sulle espropriazioni.
Considerato che il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sezione seconda, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 42-bis del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità – Testo A), introdotto dall’art. 34, comma 1, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 15 luglio 2011, n. 111, in riferimento agli artt. 3, 24, 42, 97 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo per contrasto con l’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, e con l’art. 1 del Primo Protocollo addizionale alla medesima Convenzione;
che, in via preliminare, e conformemente alla giurisprudenza costante di questa Corte (sentenza n. 71 del 2015, nonché, da ultimo, sentenze n. 2 del 2016, n. 236, n. 221 e n. 210 del 2015), va dichiarato inammissibile l’intervento di SEP – Società Edilizia Pineto spa, che ha del resto esposto di non essere parte del giudizio a quo, ma di altro giudizio avente ad oggetto una diversa procedura espropriativa asseritamente illegittima, in cui pure potrebbe trovare applicazione l’art. 42-bis del T.U. sulle espropriazioni;
che il giudice a quo si trova a decidere sulla legittimità di una procedura espropriativa nella quale, effettuata l’occupazione dei terreni, le opere sono state realizzate senza che l’amministrazione procedente abbia portato a termine il procedimento mediante adozione di un legittimo decreto di esproprio;
che il giudice rimettente, in punto di rilevanza, osserva che la fattispecie concreta rientra «nell’ambito di applicazione del citato art. 42-bis»;
che, quanto alla non manifesta infondatezza delle sollevate questioni di legittimità costituzionale, il giudice rimettente ha ricalcato, adottandone l’identica formulazione testuale, lo stesso percorso argomentativo delle quattro ordinanze di rimessione – due delle quali (r.o., rispettivamente, n. 89 del 2014 e n. 90 del 2014) pronunciate dalla Corte di cassazione, sezioni unite civili, e le restanti (r.o., rispettivamente, n. 163 del 2014 e n. 219 del 2014) emesse dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, seconda sezione – già scrutinate da questa Corte nel giudizio definito con la sentenza n. 71 del 2015;
che con la citata sentenza n. 71 del 2015 questioni identiche a quelle ora prospettate, in riferimento agli artt. 3, 24, 42, 97 e 117, primo comma, Cost., sono state dichiarate in parte non fondate, e in parte non fondate nei sensi di cui in motivazione;
che, in ogni caso e in via preliminare, l’ordinanza di rimessione esibisce un evidente difetto di rilevanza, non essendo stato emanato, nel giudizio a quo, alcun provvedimento di acquisizione ex art. 42-bis del T.U. sulle espropriazioni;
che, infatti, il TAR rimettente ha affermato che dovrebbe limitarsi a ordinare alla resistente pubblica amministrazione di procedere alla restituzione alla parte ricorrente delle aree illegittimamente occupate, previa riduzione in pristino, e a risarcire il danno, e che, tuttavia, l’amministrazione potrebbe «paralizzare tale pronuncia mediante l’adozione del provvedimento con cui disporre l’acquisto ex nunc del bene al suo patrimonio indisponibile, con corresponsione al proprietario di un indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale subito»;
che, pertanto, dalla stessa descrizione della fattispecie concreta esposta dal giudice a quo, risulta che l’emanazione del provvedimento ex art. 42-bis del T.U. sulle espropriazioni costituisce circostanza solo eventuale, non realizzatasi al momento dell’emissione dell’ordinanza di rimessione, il che esclude la necessità di fare applicazione, nel caso in esame, della norma sospettata di incostituzionalità;
che, quindi, le sollevate questioni di costituzionalità devono essere dichiarate manifestamente inammissibili per difetto di rilevanza (in tal senso anche la già ricordata sentenza di questa Corte n. 71 del 2015, in relazione ad ordinanze pronunciate dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sezione seconda, dal tenore testuale analogo a quella ora decisa, e concernenti fattispecie del tutto sovrapponibili a quella in esame).
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi avanti alla Corte costituzionale.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara manifestamente inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 42-bis del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità – Testo A), introdotto dall’art. 34, comma 1, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 15 luglio 2011, n. 111, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24, 42, 97 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sezione seconda, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 aprile 2016.
F.to:
Paolo GROSSI, Presidente
Nicolò ZANON, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 6 maggio 2016.