Ordinanza n. 87 del 2016

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ORDINANZA N. 87

ANNO 2016

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-           Paolo                           GROSSI                                           Presidente

-           Giuseppe                     FRIGO                                               Giudice

-           Alessandro                  CRISCUOLO                                          ”

-           Giorgio                        LATTANZI                                              ”

-           Aldo                            CAROSI                                                   ”

-           Marta                           CARTABIA                                             ”

-           Mario Rosario              MORELLI                                                ”

-           Giancarlo                     CORAGGIO                                            ”

-           Giuliano                       AMATO                                                   ”

-           Silvana                         SCIARRA                                                ”

-           Daria                            de PRETIS                                               ”

-           Nicolò                          ZANON                                                   ”

-           Franco                         MODUGNO                                            ”

-           Augusto Antonio       BARBERA                                              ”

-           Giulio                          PROSPERETTI                                        ”

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 291 del codice di procedura penale, promosso dal Tribunale ordinario di Grosseto nel procedimento penale a carico di F.A. con ordinanza del 12 gennaio 2015, iscritta al n. 58 del registro ordinanze 2015 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 16, prima serie speciale, dell’anno 2015.

Visti l’atto di costituzione di N.R., nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 22 marzo 2016 il Giudice relatore Giuseppe Frigo;

uditi l’avvocato Alessandro Diddi per N.R. e l’avvocato dello Stato Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto che, con ordinanza del 12 gennaio 2015, il Tribunale ordinario di Grosseto, in composizione monocratica, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 27, secondo comma, e 111, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 291 del codice di procedura penale, nella parte in cui – secondo l’orientamento espresso da due pronunce della Corte di cassazione, assunto quale “diritto vivente” – «consente al pubblico ministero di presentare a fondamento della richiesta cautelare elementi diversi da quelli utilizzabili dal giudice che procede secondo le disposizioni regolative del procedimento o della fase del procedimento penale di cognizione in corso di svolgimento, e comunque nella parte in cui consente al giudice dibattimentale di utilizzare in funzione decisoria sulla richiesta cautelare elementi diversi da quelli legittimamente acquisiti nel dibattimento»;

che il rimettente riferisce di essere investito, quale giudice del dibattimento, del processo penale nei confronti di una persona imputata dei delitti di sottrazione e trattenimento di minore all’estero (art. 574-bis del codice penale) e di mancata esecuzione dolosa continuata di provvedimenti del giudice civile concernenti l’affidamento dei figli minori (artt. 81, secondo comma, e 388, secondo comma, cod. pen.);

che, dopo lo svolgimento di un’«udienza introduttiva» e prima che fosse iniziata l’istruzione dibattimentale, il pubblico ministero aveva chiesto al giudice a quo, tramite deposito di apposita istanza, che la misura cautelare del divieto di espatrio, precedentemente applicata all’imputato per il primo dei due delitti, fosse sostituita con quella, più grave, degli arresti domiciliari;

che la sussistenza dei presupposti del provvedimento richiesto dovrebbe essere desunta dalle risultanze degli atti di indagine contenuti nel fascicolo del pubblico ministero, allegato a tal fine all’istanza;

che, al riguardo, il rimettente osserva come, alla luce di due concordi sentenze della Corte di cassazione (Corte di cassazione, sezione seconda, 14 febbraio-5 marzo 2001, n. 9395; Corte di cassazione, sezione seconda, 26 novembre 2008-13 gennaio 2009, n. 1179), debba ritenersi «solidamente accreditato», nella giurisprudenza di legittimità, il principio per cui gli elementi utilizzabili dal giudice penale ai fini della decisione in materia cautelare – indipendentemente dalla fase o dal grado in cui versa il procedimento principale di cognizione – sarebbero quelli risultanti dagli atti delle indagini preliminari del pubblico ministero;

che a tale principio si farebbe eccezione – come precisato da una successiva decisione (Corte di cassazione, sezione prima, 20 dicembre 2011-21 marzo 2012, n. 10923) – solo quando gli atti di indagine abbiano già condotto alla formazione in contraddittorio della prova con essi individuata: ipotesi nella quale l’elemento utilizzabile nel giudizio cautelare sarebbe quello assurto alla dignità di prova;

che, in questa prospettiva, il giudice del dibattimento, investito della richiesta di applicazione di una misura cautelare, potrebbe dunque conoscere e utilizzare gli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero, così come sostenuto dal rappresentante della pubblica accusa nel giudizio a quo;

che il Tribunale rimettente sottopone a diffusa critica tale indirizzo, contestandone la «congruenza logica e sistematica rispetto al vigente assetto legale della funzione giurisdizionale cautelare»;

che, a suo sostegno, non gioverebbe, in particolare, far leva sull’inapplicabilità ai procedimenti incidentali cautelari delle regole in tema di «separazione delle fasi» e di formazione del cosiddetto «doppio fascicolo», la quale dipenderebbe semplicemente dal fatto che detti procedimenti non contemplano alcuna suddivisione in fasi, e non già dal fatto che la relativa disciplina costituisca «espressione di ritualità inquisitorie piuttosto che accusatorie»;

che parimenti non persuasivo sarebbe l’altro argomento addotto a supporto dell’indirizzo in esame, basato sul rilievo che, ai fini dell’adozione di misure cautelari, il giudice del dibattimento deve applicare la disciplina propria del subprocedimento incidentale cautelare, e non quella del processo principale di cognizione;

che l’argomento si risolverebbe, infatti, in una petizione di principio, dando per scontato quanto occorrerebbe dimostrare: ossia che gli atti utilizzabili in sede di giurisdizione cautelare siano necessariamente quelli delle indagini preliminari;

che, sul piano letterale, d’altro canto, l’enunciato dell’art. 291 cod. proc. pen. – in base al quale «le misure sono disposte su richiesta del pubblico ministero, che presenta al giudice competente gli elementi su cui la richiesta si fonda» – non avvalorerebbe affatto l’orientamento avversato;

che le espressioni linguistiche «presenta» ed «elementi» risultano, in effetti, del tutto generiche e, dunque, suscettibili di assumere una valenza differenziata a seconda del contesto procedimentale di riferimento;

che le predette espressioni andrebbero lette alla luce del disposto dell’art. 279 cod. proc. pen., in forza del quale sull’applicazione e sulla revoca delle misure cautelari provvede «il giudice che procede»: locuzione che individuerebbe non solo il giudice competente, ma anche le modalità di esercizio di tale competenza, di modo che la disciplina degli elementi di prova utilizzabili per la decisione si identificherebbe in quella operante nella fase del procedimento principale in corso davanti al predetto giudice;

che neppure varrebbe osservare che, se non fosse consentito al pubblico ministero di presentare (e al giudice del dibattimento di utilizzare) gli elementi a carico scaturiti dalle indagini preliminari, la stessa applicazione della misura risulterebbe di fatto impossibile prima dell’inizio dell’istruzione dibattimentale;

che un simile esito non avrebbe, infatti, nulla di anomalo, posto che l’applicabilità delle misure cautelari dipende non soltanto dalla presenza delle relative esigenze fattuali, ma anche dall’esistenza delle altre condizioni «di rito e di merito» alle quali il legislatore, nella sua discrezionalità, ha subordinato la tutela giudiziaria delle predette esigenze;

che ancor più gravi sarebbero, peraltro, le perplessità generate dall’orientamento interpretativo in discussione sul piano del rispetto dei principi costituzionali;

che la possibilità che il giudice del dibattimento si avvalga degli atti di indagine raccolti dal pubblico ministero ai fini della decisione cautelare implicherebbe, anzitutto, una violazione dei principi di imparzialità del giudice e del contraddittorio processuale, sanciti dall’art. 111, secondo comma, Cost.;

che il giudice del dibattimento si troverebbe, infatti, ad operare una pregnante valutazione di merito sullo stesso oggetto sostanziale del processo basata su atti strutturalmente e funzionalmente estranei alla fase dibattimentale in corso;

che la conoscenza di tali atti porrebbe, d’altra parte, il giudice del dibattimento in uno «stato psicologico naturalisticamente diverso» da quello del giudice immune da tale conoscenza, con conseguente alterazione degli equilibri del contraddittorio dibattimentale;

che l’interpretazione avversata si porrebbe, altresì, in contrasto con la presunzione di non colpevolezza dell’imputato, enunciata dall’art. 27, secondo comma, Cost., non potendosi ritenere coerente con quest’ultima la possibilità che il giudice del dibattimento anticipi il giudizio di colpevolezza, anziché sulla base degli elementi cognitivi da lui stesso acquisiti nel contraddittorio tra le parti, sulla base di atti assunti da organi inquirenti in altra fase del procedimento;

che la predetta interpretazione violerebbe, altresì, «il principio di eguaglianza, proporzionalità e ragionevolezza dei trattamenti giuridici», stabilito dall’art. 3 Cost., determinando una ingiustificata disparità di trattamento dell’ipotesi considerata rispetto a fattispecie analoghe, nelle quali – in forza di disposizioni di legge (quale l’art. 34, comma 2-bis, cod. proc. pen.) o di pronunce della Corte costituzionale (quali le sentenze n. 131 del 1996, n. 439 del 1993 e n. 399 del 1992) – trova applicazione l’istituto dell’incompatibilità del giudice;

che il rimettente ritiene, dunque, di dover sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 291 cod. proc. pen., nei termini indicati in principio: questione che apparirebbe rilevante nel giudizio a quo, giacché in caso di inutilizzabilità delle risultanze investigative a sostegno della richiesta di aggravamento della misura cautelare proposta dal pubblico ministero, la stessa andrebbe senz’altro respinta, in quanto sfornita di qualsiasi elemento di supporto;

che quanto, poi, alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo rileva che, «sul piano concettuologico», la «solidità» della questione apparirebbe «compromessa» dalla possibilità di evitare i vulnera denunciati tramite una interpretazione diversa e costituzionalmente orientata della norma censurata: interpretazione che – per quanto in precedenza evidenziato – risulterebbe ampiamente consentita «dal dato linguistico legislativo di riferimento»;

che il Tribunale toscano non ritiene, tuttavia, di poter adottare una simile interpretazione, in contrasto con la funzione nomofilattica della Corte di cassazione: giacché, se così facesse, assumerebbe una decisione destinata, con «somma probabilità», ad essere «riforma[ta] nei susseguenti gradi di giurisdizione cautelare», e come tale «fallimentare in relazione al prioritario scopo di scongiurare la perpetuazione della applicazione […] della legge costituente espressione della norma interpretativa di diritto vivente della cui costituzionalità si dubita»;

che è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile in ragione della sua intrinseca contraddittorietà, avendo lo stesso giudice rimettente prospettato una interpretazione alternativa della norma, ritenuta conforme ai principi costituzionali, o che, comunque, sia dichiarata manifestamente infondata nel merito;

che si è costituita, altresì, la parte civile nel giudizio a quo, chiedendo, in via principale, che la questione venga dichiarata manifestamente inammissibile sia perché irrilevante, potendo, nella specie, il Tribunale decidere sulla richiesta cautelare in base ai soli atti già contenuti nel fascicolo per il dibattimento, sia perché volta a censurare una scelta discrezionale del legislatore, operata nella logica del bilanciamento dei valori; in subordine, che la questione sia rigettata in quanto infondata.

Considerato che il Tribunale ordinario di Grosseto dubita, in riferimento agli artt. 3, 27, secondo comma, e 111, secondo comma, della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 291 del codice di procedura penale, nella parte in cui – alla luce dell’orientamento espresso da due pronunce della Corte di cassazione, assunto quale “diritto vivente” – «consente al pubblico ministero di presentare a fondamento della richiesta cautelare elementi diversi da quelli utilizzabili dal giudice che procede secondo le disposizioni regolative del procedimento o della fase del procedimento penale di cognizione in corso di svolgimento, e comunque nella parte in cui consente al giudice dibattimentale di utilizzare in funzione decisoria sulla richiesta cautelare elementi diversi da quelli legittimamente acquisiti nel dibattimento»;

che – conformemente a quanto eccepito dall’Avvocatura generale dello Stato – la questione risulta prospettata in termini intrinsecamente contraddittori;

che il giudice a quo sottopone, infatti, a diffusa e insistita critica l’indirizzo interpretativo della Corte di cassazione che forma oggetto del quesito di costituzionalità, concludendo che è ampiamente praticabile, alla luce tanto del dato letterale che di argomenti di ordine logico e sistematico, una diversa interpretazione della norma censurata, ritenuta conforme ai principi costituzionali: interpretazione che viene, anzi, chiaramente prospettata come l’unica corretta;

che il rimettente dichiara, tuttavia, di non poter adottare la predetta interpretazione alternativa in ragione della «somma probabilità» che il provvedimento su di essa basato venga riformato nei successivi gradi di giurisdizione cautelare;

che risulta quindi evidente come il giudizio incidentale di legittimità costituzionale sia stato, nella specie, utilizzato all’improprio scopo di ottenere da questa Corte un avallo dell’interpretazione ritenuta dal rimettente corretta e costituzionalmente adeguata, nella prospettiva di preservare l’emanando provvedimento da censure in sede di impugnazione;

che, per costante giurisprudenza di questa Corte, un simile uso improprio dell’incidente di costituzionalità rende la questione manifestamente inammissibile (ex plurimis, ordinanze n. 161 del 2015, n. 205 del 2014 e n. 363 del 2010): e ciò a prescindere dal rilievo che la soluzione prospettata dal giudice a quo conduce a risultati palesemente disfunzionali, rendendo, di fatto, quasi sempre impossibile, o fortemente problematica, non solo l’applicazione delle misure cautelari, ma anche, di riflesso, la loro revoca o sostituzione a vantaggio dell’imputato, nella fase che precede l’inizio dell’istruzione dibattimentale (o, amplius, la compiuta acquisizione della prova);

che, per la ragione indicata, la questione va dichiarata, dunque, manifestamente inammissibile, rimanendo assorbite le ulteriori eccezioni di inammissibilità formulate dalla parte privata costituita.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 291 del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 27, secondo comma, e 111, secondo comma, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Grosseto con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 marzo 2016.

F.to:

Paolo GROSSI, Presidente

Giuseppe FRIGO, Redattore

Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 13 aprile 2016.