SENTENZA N. 7
ANNO 2014
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Gaetano SILVESTRI Presidente
- Luigi MAZZELLA Giudice
- Sabino CASSESE ”
- Giuseppe TESAURO ”
- Paolo Maria NAPOLITANO ”
- Giuseppe FRIGO ”
- Alessandro CRISCUOLO ”
- Paolo GROSSI ”
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Sergio MATTARELLA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 9, commi 1, 2 e 21, e 12, commi 7 e 10, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, promossi dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio con ordinanze del 10, del 9 e dell’8 maggio 2012, rispettivamente iscritte ai nn. 184, 185 e 194 del registro ordinanze 2012 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 37 e 38, prima serie speciale, dell’anno 2012.
Visti gli atti di costituzione di Abbonato Rosa ed altri, di Falvella Lina ed altro, di Liberatore Benedetta Alessia ed altri, nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 5 novembre 2013 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano;
uditi
gli avvocati Aristide Police per Abbonato Rosa ed altri e per Falvella Lina ed altro, Mario Sanino per Liberatore
Benedetta Alessia ed altri e l’avvocato dello Stato Maria Letizia Guida per il
Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.− Il Tribunale amministrativo regionale del Lazio,
con tre ordinanze di identico tenore (reg. ord. n. 184, n. 185 e n. 194 del 2012), ha
sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, 36, 42, 53, 97 e 117 della Costituzione
questione di legittimità costituzionale degli artt. 9, commi 1, 2 e 21, e 12,
commi 7 e 10, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in
materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica),
convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122.
1.1.− Il rimettente premette che i giudizi a quibus hanno
ad oggetto la richiesta di annullamento: 1) della delibera dell’Autorità per le
Garanzie nelle Comunicazioni n. 114/11/CONS del 2 marzo 2011, pubblicata il 23 marzo
2011, con la quale sono state individuate le modalità di attuazione delle
disposizioni previste dal d.l. n. 78 del 2010, nonché
di ogni altro atto presupposto, ivi compresi: a) il Parere del Dipartimento
della Ragioneria Generale dello Stato in data 11 gennaio 2011, reso su apposita
richiesta dell’Autorità Garante per la Concorrenza ed il Mercato prot. n. 0068665 del 17 dicembre 2010 in merito
all’applicabilità delle disposizioni di cui al d.l.
n. 78 del 2010; b) l’elenco delle Amministrazioni pubbliche inserite nel conto
economico consolidato redatto dall’ISTAT ai sensi dell’articolo 1, comma 3,
della legge 31 dicembre 2009, n. 196; c) i singoli provvedimenti individuali
adottati in esecuzione della predetta delibera n. 114/11/CONS del 2011 nei confronti
dei singoli ricorrenti; 2) il nuovo elenco delle Amministrazioni pubbliche
inserite nel conto economico consolidato redatto dall’ISTAT ai sensi dell’art.
1, comma 3, della legge n. 196 del 2009 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, serie generale, n. 228, del 30
settembre 2011; 3) la delibera dell’Autorità per le Garanzie nelle
Comunicazioni n. 498/11/CONS del 13 settembre 2011, pubblicata in data 11
novembre 2011, con la quale, in attuazione dell’art. 12, commi 7, 8, 9 e 10 del
d.l. n. 78 del 2010 e dell’art. 7 della suddetta
delibera n. 114/11/CONS del 2 marzo 2011, è stata ridefinita la disciplina del
trattamento di fine rapporto del personale dell’Autorità.
Il rimettente riferisce che gli atti impugnati sono tutti diretti a dare attuazione alle norme censurate.
1.2.− Il TAR del
Lazio evidenzia, in primo luogo, l’infondatezza dei motivi di ricorso sollevati
dai ricorrenti nei giudizi a quibus per l’annullamento degli atti impugnati e il cui
accoglimento priverebbe di rilevanza le questioni.
Il TAR del Lazio afferma la sussistenza della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo sulle controversie in materia di impiego alle dipendenze dell’Autorità garante delle comunicazioni richiamando la pronuncia della Corte di cassazione sezioni unite, ordinanza 23 giugno 2005, n. 13446, e la successiva evoluzione legislativa e giurisprudenziale.
Sempre in via preliminare, il TAR ritiene che, ai
fini dell’interesse ad agire dei ricorrenti e della rilevanza delle questioni
di legittimità costituzionale, non assuma rilievo assorbente − a
differenza di quanto affermato dai ricorrenti nella memoria depositata in data
18 febbraio 2012 − la circostanza che la sezione III-quater del medesimo Tribunale amministrativo regionale con la
sentenza 11 gennaio 2012, n. 226, abbia annullato l’elenco ISTAT pubblicato
nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 228 del 30 settembre 2011, nella parte in cui inserisce anche
l’AGCOM fra le predette Amministrazioni.
Secondo il rimettente, tale annullamento non sarebbe rilevante perché il legislatore ha operato un rinvio recettizio al provvedimento dell’ISTAT e da ciò deriverebbe che il suddetto annullamento non può dispiegare effetti sul provvedimento legificato
Il TAR, sempre
motivando in punto di rilevanza, ritiene infondato il motivo di ricorso che
attiene alla presunta non applicabilità all’Autorità delle comunicazioni della
disciplina del d.l. n. 78 del 2010. Il Collegio
ritiene che la prova della volontà del legislatore di includere anche l’AGCOM
nel campo di applicazione degli artt. 9, commi 1, 2 e 21, e 12, commi 7 e 10,
del d.l. n. 78 del 2010 si rinvenga: a) nel fatto che
il legislatore quando ha menzionato espressamente le autorità indipendenti
(come, per l’appunto, nell’art. 6, commi 8, 9, 12, 13 e 14 del d.l. n. 78 del 2010) ha utilizzato la formula «incluse le
autorità indipendenti», così limitandosi a specificare un dato − quale
l’inclusione di tali enti nell’elenco ISTAT − chiaramente evincibile da
una semplice lettura del predetto elenco; b) nel fatto che lo stesso
legislatore, laddove ha inteso garantire la specialità di determinati soggetti
pubblici, ha introdotto una disciplina speciale in materia di contenimento
della spesa, come ha fatto, ad esempio, con l’art. 3, comma 3, del medesimo
decreto-legge, che riguarda soltanto la Banca d’Italia e non le altre autorità
indipendenti.
Infine, a differenza di quanto affermato
dai ricorrenti, non assumerebbe rilievo decisivo il parere del Consiglio di
Stato, commissione speciale, 26 gennaio 2012, n. 385. In tale sede, infatti, il
Consiglio di Stato − chiamato a chiarire l’applicabilità dell’art. 6,
comma 21, del d.l. n. 78 del 2010 all’AGCOM, sul
presupposto che il sistema di finanziamento dell’Autorità è quasi interamente
autonomo, essendo affidato al contributo versato dai soggetti regolati, mentre
solo una minima ed irrilevante parte delle entrate è a carico del bilancio
dello Stato − dopo aver ribadito «il principio di corrispondenza tra gli
oneri imposti agli operatori e i costi amministrativi sostenuti per l’esercizio
dei compiti svolti dall’Autorità», ha affermato che le somme ricavate da
economie di gestione dall’Autorità possono essere destinate al bilancio statale
solo relativamente alla parte imputabile ai contributi ricevuti dallo Stato,
ossia nella misura corrispondente al valore percentuale di tali contributi sul
complesso delle entrate finanziarie dell’Autorità. Secondo il rimettente, il
parere citato confermerebbe ulteriormente l’applicabilità delle norme di cui al
d.l. n. 78 del 2010 all’AGCOM.
1.3.− Dopo aver
evidenziato, ai fini della rilevanza, l’infondatezza dei motivi di ricorso
proposti nell’ambito dei giudizi a quibus, il
TAR motiva in ordine alla non manifesta infondatezza delle singole questioni di
costituzionalità.
La prima,
sollevata dal rimettente d’ufficio, è relativa all’art. 9, comma 2, del d.l. n. 78 del 2010, nella parte in cui introduce un
contributo di solidarietà per i dipendenti pubblici pari alla decurtazione del
5% dei trattamenti economici complessivi superiori a € 90.000 e del 10% per i
trattamenti economici complessivi superiori a € 150.000. Secondo il rimettente
la norma violerebbe gli artt. 3 e 53, Cost., poiché, colpendo la sola categoria
dei dipendenti pubblici, si porrebbe in contrasto con il principio di
universalità dell’imposizione a parità di reddito, creando un effetto
discriminatorio, reso evidente dalla diversa disciplina riservata al contributo
di solidarietà, oltre i 300.000 euro di reddito, previsto per gli altri cittadini,
il quale, sebbene giustificato dalla medesima ratio, prevedrebbe una soglia superiore, un’aliquota inferiore e la
deducibilità dal reddito complessivo.
In via
subordinata, il rimettente solleva questione di costituzionalità anche con
riferimento agli artt. 2 e 3 Cost. in quanto, rideterminando «in senso ablativo
un trattamento economico già acquisito alla sfera del pubblico dipendente sub specie di diritto soggettivo»,
inciderebbe in pejus
sullo status economico dei
lavoratori, alterando quel sinallagma che è il fondamento dei rapporti di
durata ed, in particolare, proprio dei rapporti di lavoro, trasmodando in un
regolamento irrazionale con riguardo a situazioni fondate su leggi precedenti e
così frustrando il principio del legittimo affidamento, da intendersi quale
elemento costitutivo dello Stato di diritto.
Il TAR del Lazio ritiene violato anche l’art. 42 Cost. perché, una volta che fosse esclusa la natura tributaria del prelievo dovrebbe necessariamente riconoscersi la sua natura sostanzialmente espropriativa, dal momento che verrebbe a costituire una vera e propria ablazione di redditi formanti oggetto di diritti quesiti, senza alcuna indennità, attraverso una norma-provvedimento priva della fase del procedimento e senza neanche la partecipazione degli interessati, cui è negato il diritto di interloquire sulla legittimità ed opportunità delle scelte cui sono chiamati a contribuire con il loro sacrificio.
Inoltre il rimettente evoca la violazione dell’art. 97, Cost., perché sarebbe completamente svuotata la capacità autorganizzativa delle pubbliche amministrazioni, che dovrebbe normalmente potersi esprimere anche in riferimento allo stato economico del personale.
1.4.− Il rimettente ritiene di dover sollevare, d’ufficio
– con riferimento agli articoli 2, 3, 42, 53 e 97 Cost. − anche la
questione di legittimità costituzionale dell’art. 12, comma 7, del d.l. n. 78 del 2010, secondo il quale: a «titolo di
concorso al consolidamento dei conti pubblici attraverso il contenimento della
dinamica della spesa corrente nel rispetto degli obiettivi di finanza pubblica
previsti dall’Aggiornamento del programma di stabilità e crescita, dalla data
di entrata in vigore del presente provvedimento, con riferimento ai dipendenti
delle amministrazioni pubbliche come individuate dall’Istituto Nazionale di
Statistica (ISTAT) ai sensi del comma 3 dell’articolo 1 della legge 31 dicembre
2009, n. 196 il riconoscimento dell’indennità di buonuscita, dell’indennità
premio di servizio, del trattamento di fine rapporto e di ogni altra indennità
equipollente corrisposta una tantum
comunque denominata spettante a seguito di cessazione a vario titolo
dall’impiego è effettuato: a) in un unico importo annuale se l’ammontare
complessivo della prestazione, al lordo delle relative trattenute fiscali, è
complessivamente pari o inferiore a 90.000 euro; b) in due importi annuali se
l’ammontare complessivo della prestazione, al lordo delle relative trattenute
fiscali, è complessivamente superiore a 90.000 euro ma inferiore a 150.000
euro. In tal caso il primo importo annuale è pari a 90.000 curo e il secondo
importo annuale è pari all’ammontare residuo; c) in tre importi annuali se
l’ammontare complessivo della prestazione, al lordo delle relative trattenute
fiscali, è complessivamente uguale o superiore a 150.000 euro, in tal caso il
primo importo annuale è pari a 90.000 curo, il secondo importo annuale è pari a
60.000 euro e il terzo importo annuale è pari all’ammontare residuo».
Il rimettente, nel motivare la non manifesta
infondatezza della questione, fa riferimento ad altra questione di
costituzionalità dell’art. 12, comma 7, del predetto decreto-legge sollevata
dal TAR Calabria (ordinanza n. 89 del 1° febbraio 2012). In tale ordinanza si
evidenzia che la disposizione in esame comporta lo scaglionamento − in
favore del solo datore di lavoro pubblico − dell’onere di corresponsione
delle indennità, comunque denominate, di fine rapporto con differenti modalità
a seconda dell’ammontare complessivo delle prestazioni. Ciò comporta una
diminuzione patrimoniale certa, che si identifica nella mancata corresponsione
di interessi per la dilazione del pagamento. La misura determinerebbe anche una
più profonda compromissione del rapporto sinallagmatico tra datore di lavoro e
dipendente pubblico, giacché le somme di cui trattasi hanno pacificamente
natura retributiva, sia pure differita, e si tratterebbe di una misura
strutturale, non limitata − nella sua vigenza − ad un periodo di
tempo predefinito.
Inoltre, il TAR osserva che «il mero differimento
della retribuzione non risponde ad alcuna logica di riduzione di spesa, né può
essere apprezzato in sede comunitaria, atteso che non si tratta di una misura
strutturale ma di un mero rinvio della spesa, di talché la razionalità del
"prelievo” mascherato cede innanzi alle esigenze di trasparenza dello Stato con
il cittadino, oltre che di lealtà dello Stato-datore di lavoro con il
dipendente che esige la giusta remunerazione di una vita di lavoro; analogo
rilievo vale per la nuova e diversa incisione del computo dei trattamenti di
fine servizio».
In tal modo, verrebbe leso − senza che lo
richieda il soddisfacimento di altri e più pregnanti principi costituzionali,
nell’ottica di un ragionevole bilanciamento − il principio di affidamento
del pubblico dipendente nell’ordinario sviluppo economico della carriera,
comprensivo del trattamento collegato alla cessazione del rapporto di impiego.
Si lamenta anche la discriminazione che subirebbero in peius i
pubblici dipendenti rispetto a tutti gli altri lavoratori, con palese
violazione dell’art. 3 Cost., posto che il datore di
lavoro privato non è legittimato ad effettuare alcuna rateizzazione del
trattamento di fine rapporto.
Sarebbe palese anche «la violazione dell’art. 36 Cost., tenuto conto che il trattamento di fine rapporto, e
gli istituti equivalenti, altro non sono se non una retribuzione differita, i
cui importi devono pertanto essere restituiti al lavoratore al momento della
cessazione del rapporto.
Infine, anche in questo caso verrebbe completamente
svuotata la capacità autorganizzativa delle pubbliche
amministrazioni, che dovrebbero normalmente potersi esprimere pur in
riferimento allo stato economico del personale, secondo i generali principi
espressi dall’art. 97 Cost.
1.5.− Il Tribunale rimettente considera rilevante
e non manifestamente infondata anche la questione di legittimità costituzionale
sollevata con il secondo motivo del ricorso introduttivo, ove viene denunciata
l’incostituzionalità degli artt. 9, commi 1, 2 e 21, e 12, commi 7 e 10, del d.l. n. 78 del 2010, per violazione degli artt. 3, 97 e
117, primo comma, Cost., sul presupposto della ritenuta inapplicabilità
all’AGCOM dello speciale regime previsto per la Banca d’Italia dall’art. 3,
comma 3, del d.l. n. 78 del 2010.
In punto di rilevanza di quest’ultima questione, il
Collegio osserva che la tesi secondo la quale l’art. 3, comma 3, del d.l. n. 78 del 2010 sarebbe implicitamente applicabile
anche all’AGCOM,
sostenuta dai ricorrenti, sulla scorta del combinato disposto
dell’art. 2, comma 28, della legge 14 novembre 1995, n. 481 (Norme per la
concorrenza e per la regolazione dei servizi di pubblica utilità. Istituzione
delle Autorità di regolazione dei servizi di pubblica utilità), e dell’art. 11,
comma 2, della legge 10 ottobre 1990, n. 287 (Norme per la tutela della
concorrenza e del mercato), non può essere condivisa perché, a fronte della già
evidenziata inclusione delle autorità indipendenti (ivi compresa 1’AGCOM)
nell’elenco ISTAT, la disposizione dell’art. 3, comma 3, del d.l. n. 78 del 2010 si presenta come una norma eccezionale
e, come tale, non suscettibile di essere applicata in ambiti diversi da quelli
espressamente indicati dal legislatore.
In punto di non manifesta infondatezza, in aggiunta alle
considerazioni svolte dai ricorrenti nel primo motivo sulla autonomia ed
indipendenza organizzativa e finanziaria (considerazioni che il rimettente
richiama integralmente), il Collegio ritiene sufficiente evidenziare che la
mancata applicazione all’AGCOM del regime speciale previsto dall’art. 3, comma
3, del d.l. n. 78 del 2010 per la Banca d’Italia,
oltre a comportare un’ingiustificata disparità di trattamento tra enti
appartenenti alla medesima categoria (quella delle autorità indipendenti),
finisce per pregiudicare gravemente l’autonomia e l’indipendenza organizzativa
e finanziaria riconosciuta all’AGCOM dall’ordinamento comunitario e da quello
nazionale, in contrasto con gli articoli 3, 97 e 117, primo comma, Cost.
2.− Si è costituito
nei giudizi il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata
non fondata.
L’Avvocatura
dello Stato premette che le disposizioni censurate si inseriscono nell’ambito
dell’articolata ed organica manovra di contenimento delle spese nel settore del
pubblico impiego effettuata nell’anno 2010. Tale manovra economica è stata
determinata dall’eccezionalità della situazione economica internazionale e
dall’esigenza prioritaria del raggiungimento degli obiettivi di finanza
pubblica concordati in sede europea. In tale contesto, uno dei settori di
intervento per il contenimento della spesa, è stato, necessariamente, quello
dell’impiego pubblico.
In tal modo si è
fornita una risposta anticipata a quanto è stato espressamente richiesto,
successivamente, con lettera della Banca centrale europea (BCE).
Il legislatore
ha ritenuto che anche il personale dell’AGCOM dovesse concorrere al
conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica, in termini non dissimili da
quanto avvenuto per tutti i pubblici dipendenti con l’art. 7 del decreto-legge
19 settembre 1992, n. 384 (Misure urgenti in materia di previdenza, di sanità e
di pubblico impiego, nonché disposizioni fiscali), convertito, con modificazioni,
dalla legge 14 novembre 1992, n. 438.
L’Avvocatura
dello Stato ricorda che le questioni di legittimità costituzionale sollevate
con riferimento a quest’ultima disposizione legislativa sono state dichiarate
manifestamente infondate (ordinanza n. 299
del 1999). Peraltro, quando s’impone l’esigenza di effettuare manovre
correttive di finanza pubblica incisive e si deve intervenire con misure che
attengono direttamente al rapporto di impiego, anche il personale dell’AGCOM è
tenuto a contribuirvi. Sarebbe non ragionevole chiedere sacrifici ai dipendenti
di tutti i settori della pubblica amministrazione (sia in regime privatistico
che pubblicistico) esentandone alcuni.
Secondo la
difesa dello Stato, l’intervento legislativo non avrebbe natura tributaria,
perché altrimenti avrebbe dovuto riguardare tutti i cittadini, si tratterebbe
invece di un intervento adottato al fine di ridurre la spesa di quel
determinato settore (la pubblica amministrazione) che è stato individuato anche
in sede europea quale elemento distorsivo in eccesso del debito pubblico. In
materia fiscale, d’altronde, il legislatore non si è mai fatto carico di
salvaguardare gli effetti previdenziali dell’emolumento oggetto di imposizione,
come, invece, è previsto dalla norma oggetto di censura, nella quale si è
precisato che «tale riduzione non opera ai fini previdenziali». Pertanto,
dovrebbe ritenersi infondata la prospettata violazione dell’art. 53 Cost.
L’intervento
normativo in questione dunque sarebbe, secondo l’Avvocatura, ragionevole e
sostanzialmente equo, e non violerebbe né l’art. 2 né l’art. 3 Cost. Esso non
violerebbe nemmeno l’artt. 97 Cost., pure richiamato
dal giudice rimettente, perché il predetto «precetto costituzionale non può essere
invocato al fine di giustificare la pretesa al conseguimento di miglioramenti economici» (Corte
costituzionale, ordinanza
n. 290 del 2006).
Non sembrerebbe
fondata neanche la questione relativa alla violazione dell’art. 36 Cost.,
giacché, per valutare se una riduzione del trattamento economico incida sul
principio dell’adeguatezza del trattamento economico, bisogna avere riguardo al
trattamento economico complessivo del dipendente e non alle singole componenti
di esso: e la misura della riduzione prevista, nel caso di specie, non può
dirsi che comprometta l’adeguatezza della retribuzione (sentenza n. 287 del
2006).
Secondo la
difesa dello Stato, le considerazioni svolte in relazione alla prima questione
sono riferibili anche alle censure formulate, per ragioni sostanzialmente
analoghe, nei riguardi dell’art. 12, comma 7, del d.l.
n. 78 del 2010, che ha previsto uno scaglionamento del pagamento della
indennità di buonuscita e delle indennità analoghe spettanti ai dipendenti
pubblici per importi superiori ad euro 90.000,00.
In particolare,
si osserva che non sussiste la violazione dell’art. 36 Cost.,
perché le indennità dovute non sono negate o decurtate, ma solo in parte
differite. Non sussiste violazione dei principi di solidarietà, di uguaglianza,
di legalità e di buona amministrazione, perché la misura adottata si applica in
egual modo per tutti i dipendenti pubblici e risponde ad esigenze di
solidarietà sociale, essendo finalizzata a fronteggiare la grave situazione di
crisi della finanza pubblica insorta nella recente fase di integrazione
europea. Né può dirsi che sussista disparità di trattamento tra dipendenti
pubblici e privati, che sono soggetti a diverso trattamento giuridico ed
economico.
Neppure
sarebbero fondate le censure di illegittimità costituzionale formulate dai
ricorrenti e recepite dal TAR, secondo cui l’art. 9, commi l, 2 e 21, e l’art. 12,
commi 7 e 10, del d.l. in esame, sarebbero
illegittimi per violazione degli artt. 3, 97 e 117 Cost.,
in quanto determinerebbero una disparità di trattamento dei dipendenti
dell’AGCOM rispetto a quelli della Banca d’Italia.
Sebbene si possa
riconoscere che la Banca d’Italia e l’AGCOM costituiscano autorità indipendenti
e godano, pertanto, di una speciale autonomia organizzativa e funzionale,
occorre tuttavia evidenziare che la Banca d’Italia presenta caratteri del tutto
peculiari, che la differenziano da ogni altra autorità. Ne consegue che, con
riferimento alla Banca d’Italia, non è possibile configurare una identità di
situazioni che costituisca presupposto dell’eccepita violazione del principio
di uguaglianza.
Invero, osserva
l’Avvocatura dello Stato, mentre le autorità indipendenti di regolazione sono
enti nazionali, preposti a dare concreta attuazione alle direttive europee nei
mercati di riferimento, le banche centrali − come la Banca d’Italia −
costituiscono ormai organi del Sistema europeo di banche centrali (SEBC)
previsto dagli artt. 127 e seguenti del Trattato sul funzionamento dell’Unione
europea. Esse, pertanto, non possono essere considerate come autorità
indipendenti nazionali, bensì come enti federati di un ente federale europeo.
Per queste ragioni, si è reso necessario adottare una normativa di carattere
speciale per i dipendenti della Banca d’Italia, sottoposta al parere
obbligatorio della Banca centrale europea ai sensi della decisione del
Consiglio 98/15/CE del 29 giugno 1998, allo scopo di salvaguardare la
particolare autonomia delle istituzioni comunitarie. Dunque, la previsione di
un regime specifico per la Banca d’Italia concerne la sua veste di Banca
centrale nazionale, che è propria solo della Banca d’Italia e non certamente
dell’AGCOM.
Neppure
sussisterebbe violazione degli artt. 97 e 117 Cost. Invero, l’indipendenza
delle autorità di regolazione − qual è l’AGCOM − non implica che
esse siano dotate di un’assoluta autonomia patrimoniale e finanziaria e di una
totale autarchia nel governo del personale. Viceversa, esse costituiscono parte
della pubblica amministrazione e sono soggette al principio di legalità
stabilito dall’art. 97 Cost., con la conseguenza che
giustamente il trattamento economico e retributivo del proprio personale viene
regolato per legge, così come avviene per tutte le altre categorie del pubblico
impiego, e non è invece riservato agli autonomi poteri delle singole autorità.
3.− Con riferimento
alle ordinanze di rimessione n. 184 e n. 185 del 2012 si sono costituiti nel
giudizio costituzionale i ricorrenti nei giudizi a quibus riservandosi di illustrare in un
secondo momento le proprie difese.
4.− Con riferimento
all’ordinanza di rimessione n. 194 del 2012 si sono costituiti i ricorrenti nel
giudizio a quo chiedendo che la
Corte, in accoglimento delle questioni sollevate dal TAR del Lazio, dichiari
l’illegittimità costituzionale degli artt. 9, commi 1, 2 e 21, e 12, commi 7 e
10, del d.l. n. 78 del 2010.
In particolare,
le parti private compiono una ricostruzione completa del quadro normativo
nazionale e comunitario in materia di autorità indipendenti al fine di
evidenziare che tali autorità devono godere di piena autonomia, anche con
riferimento al potere di autoregolamentarsi in relazione al personale
dipendente.
Quanto alle
singole censure, vengono sviluppate argomentazioni analoghe a quelle
dell’ordinanza di rimessione.
5.− Con memorie
depositate in prossimità dell’udienza tutti i ricorrenti nei giudizi a quibus
ribadiscono le proprie richieste, insistendo nell’accoglimento delle questioni
e, in particolare, sostenendo l’equiparabilità della disciplina delle autorità
indipendenti a quella prevista per la Banca d’Italia a tutela dell’autonomia e
dell’indipendenza.
6.− Con memoria
depositata in prossimità dell’udienza, l’Avvocatura dello Stato insiste nella
proprie richieste. In particolare, l’Avvocatura sottolinea che, successivamente
alla proposizione dell’ordinanza, è intervenuta la sentenza n. 223 del
2012 con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale degli
artt. 9, comma 2, e 12, comma 10, del d.l. n. 78 del
2010. Pertanto, in relazione a tali norme, le questioni di costituzionalità
sono divenute inammissibili per mancanza di oggetto.
Con riferimento
alla questione relativa all’art. 12, comma 7, del d.l.
n. 78 del 2010, l’Avvocatura dello Stato eccepisce l’inammissibilità della
questione in conformità con quanto deciso da questa Corte nella citata sentenza n. 223 del
2012. Nel merito tale questione sarebbe comunque infondata per le ragioni
già esposte nell’atto di costituzione.
Infine, con
riferimento alla questione relativa agli artt. 9, commi 1, 2 e 21, e 12, commi
7 e 10, del d.l. n. 78 del 2010, nella parte in cui
non estendono anche ai dipendenti dell’AGCOM la disciplina prevista per la
Banca d’Italia per l’adeguamento ai principi contenuti nel medesimo
decreto-legge, l’Avvocatura dello Stato eccepisce l’inammissibilità delle
censure relative alla violazione degli artt. 97 e 117, primo comma, Cost. per difetto di motivazione.
L’ordinanza di
rimessione omette, infatti, di esplicitare i motivi per i quali, a suo avviso,
sarebbe violato il principio di buon andamento della pubblica amministrazione,
ed omette altresì di indicare le norme comunitarie che costituirebbero
parametro di riferimento interposto e che sarebbero state violate nel caso di
specie.
Quanto alla
violazione dell’art. 3 per disparità di trattamento con la Banca d’Italia,
l’Avvocatura ribadisce i motivi di infondatezza già evidenziati nell’atto di
costituzione.
Considerato in
diritto
1.− Con tre ordinanze di identico tenore (reg. ord. n. 184, n. 185 e n. 194 del 2012) il Tribunale amministrativo
regionale del Lazio ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli
artt. 9, commi 1, 2 e 21, e 12, commi 7 e 10, del decreto-legge 31 maggio 2010,
n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di
competitività economica), convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio
2010, n. 122, per violazione degli artt. 2, 3, 36, 42, 53, 97 e 117 della
Costituzione.
1.1.− In considerazione dell’identità delle questioni,
deve essere disposta la riunione dei giudizi, al fine di definirli con un’unica
pronuncia.
Va, preliminarmente, affermato che è da condividere
l’argomentazione con cui il TAR ritiene di respingere la tesi, che priverebbe
di rilevanza la questione di costituzionalità, con cui i ricorrenti nel
giudizio principale sostengono che sussisterebbe un limite non superabile delle
somme da destinare al bilancio dello Stato, rappresentato dai soli importi
corrispondenti ai contributi da quest’ultimo direttamente versati all’AGCOM. Lo
Stato non potrebbe, con un atto di normazione primaria avente ad oggetto le
retribuzioni di coloro che vi lavorano, eccedere rispetto a tale importo, che,
per gli esercizi finanziari rientranti nel periodo di vigenza delle misure in
oggetto, sarebbe di entità irrilevante e non potrebbe, quindi, estendere il
prelievo alla parte relativa ai contributi versati dai soggetti regolati, anche
se tale contribuzione deriva da scelte di finanziamento coattivo operate dalla
legislazione statale. Poiché a fondamento di tale tesi viene invocato un parere
emesso nell’Adunanza della commissione speciale del Consiglio di Stato (n. 385
del 26 gennaio 2012), deve rilevarsi che, anche prescindendo dalla condivisibilità delle conclusioni cui perviene, esso
riguardava un aspetto diverso, vale a dire la destinazione al bilancio dello
Stato delle somme provenienti dalle riduzioni di spesa conseguenti
all’applicazione dell’art. 6, comma 21, del d.l. n.
78 del 2010, e che, quindi, esso si riferiva ad una fase successiva che
presupponeva proprio l’applicazione della normativa contestata.
1.2.− La prima questione posta dal rimettente
riguarda l’art. 9, comma 2, del d.l. n. 78 del 2010
nella parte in cui dispone che «a decorrere dal 1° gennaio 2011 e sino al 31
dicembre 2013 i trattamenti economici complessivi dei singoli dipendenti, anche
di qualifica dirigenziale, previsti dai rispettivi ordinamenti, delle
amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della
pubblica amministrazione, come individuate dall’Istituto nazionale di
statistica (ISTAT), ai sensi del comma 3, dell’art. 1, della legge 31 dicembre
2009, n. 196, superiori a 90.000 euro lordi annui sono ridotti del 5 per cento
per la parte eccedente il predetto importo fino a 150.000 euro, nonchè del 10 per cento per la parte eccedente 150.000
euro».
La citata disposizione violerebbe gli artt. 3 e 53
Cost., poiché, colpendo la sola categoria dei dipendenti pubblici, si porrebbe
in contrasto con il principio di universalità dell’imposizione a parità di
reddito, creando un effetto discriminatorio, reso evidente dalla diversa
disciplina relativa al contributo di solidarietà previsto per gli altri
cittadini, che fa riferimento ai redditi oltre i 300.000 euro, il quale,
sebbene giustificato dalla medesima ratio,
prevederebbe una soglia superiore, un’aliquota
inferiore e la deducibilità dal reddito complessivo.
Inoltre, in via subordinata, il Tribunale rimettente
ritiene violati gli artt. 2 e 3 Cost. in quanto la norma rideterminerebbe, «in
senso ablativo, un trattamento economico già acquisito alla sfera del pubblico
dipendente sub specie di diritto
soggettivo» e, in tal modo, verrebbe ad incidere in pejus sullo status economico
dei lavoratori, alterando quel sinallagma che è il proprium dei rapporti di durata
ed, in particolare, caratteristica non eliminabile dei rapporti di lavoro,
trasmodando in un regolamento irrazionale con riguardo a situazioni fondate su
leggi precedenti e così frustrando il principio del legittimo affidamento, da
intendersi quale elemento fondamentale dello Stato di diritto.
Infine, il TAR del Lazio ritiene che, qualora si
escludesse la natura tributaria dell’art. 9, comma 2, del d.l.
n. 78 del 2010, in questo caso la norma si porrebbe in contrasto in primo luogo
con l’art. 42 Cost., avendo natura sostanzialmente espropriativa, dal momento
che determinerebbe una vera e propria ablazione di redditi formanti oggetto di
diritti quesiti, senza alcuna indennità, e, in secondo luogo, con l’art. 97,
Cost., perché verrebbe ad essere completamente svuotata la capacità autorganizzativa delle pubbliche amministrazioni, che
dovrebbe normalmente potersi esprimere anche in riferimento allo stato
economico del personale.
1.3.– La seconda questione di costituzionalità riguarda
l’art. 12, comma 7, del d.l. n. 78 del 2010, nella
parte in cui dispone lo scaglionamento della corresponsione del trattamento di
fine rapporto fino a tre importi annuali, a seconda dell’ammontare complessivo
della prestazione.
Secondo il rimettente, la citata disposizione
violerebbe gli artt. 3 e 36 Cost., in quanto sarebbe
irragionevole imporre ai soli dipendenti pubblici lo scaglionamento
dell’indennità di buonuscita e, una tale previsione costituirebbe anche una
violazione del principio di adeguatezza della retribuzione, caratterizzandosi
la buonuscita come «retribuzione differita».
Il TAR del Lazio ritiene sussistere anche la
violazione dell’art. 97 Cost. perché risulta svuotata
la capacità auto organizzativa della pubblica amministrazione, che dovrebbe
normalmente potersi esprimere anche in riferimento allo stato economico del
personale.
1.4.– La terza e ultima questione ha ad oggetto gli artt.
9, commi 1, 2 e 21, e 12, commi 7 e 10, del d.l. n.
78 del 2010, nella parte in cui non estendono anche ai dipendenti dell’AGCOM la
disciplina prevista dall’art. 3, comma 3, del medesimo decreto-legge per la
Banca d’Italia.
Secondo il Tribunale rimettente, la mancata
applicazione all’AGCOM del regime speciale previsto per la Banca d’Italia
violerebbe gli articoli 3, 97 e 117, primo comma, Cost. in
quanto, oltre a comportare una ingiustificata disparità di trattamento tra enti
appartenenti alla medesima categoria delle autorità indipendenti,
pregiudicherebbe gravemente l’autonomia e l’indipendenza organizzativa e
finanziaria riconosciuta all’AGCOM dall’ordinamento comunitario e da quello
nazionale.
2.− Le questioni relative agli artt. 9, comma 2, e 12,
comma 10, del d.l. n. 78 del 2010 sono inammissibili.
Questa Corte, con sentenza n. 223 del
2012, successiva alla proposizione delle ordinanze in esame, ha ritenuto
costituzionalmente illegittimo l’art. 9, comma 2, del decreto-legge n. 78 del
2010, in quanto, integrando una decurtazione patrimoniale con i caratteri del
tributo, si pone in evidente contrasto con gli articoli 3 e 53 Cost.
In tale occasione si è anche affermato che
l’introduzione di una imposta speciale, sia pure transitoria ed eccezionale, in
relazione soltanto ai redditi di lavoro dei dipendenti delle pubbliche
amministrazioni inserite nel conto economico consolidato della pubblica
amministrazione víola il principio della parità di
prelievo a parità di presupposto d’imposta economicamente rilevante. Tale
violazione si manifesta sotto due diversi profili: da un lato, a parità di
reddito lavorativo, il prelievo è ingiustificatamente limitato ai soli
dipendenti pubblici; d’altro lato, il legislatore, pur avendo richiesto (con
l’art. 2 del d.l. n. 138 del 2011) il contributo di
solidarietà (di indubbia natura tributaria) del 3% sui redditi annui superiori
a 300.000,00 euro, al fine di reperire risorse per la stabilizzazione
finanziaria, ha inopinatamente scelto di imporre ai soli dipendenti pubblici,
per la medesima finalità, l’ulteriore speciale prelievo tributario oggetto di
censura.
L’irragionevolezza non risiede nell’entità del
prelievo denunciato, ma nella ingiustificata limitazione della platea dei
soggetti passivi. La sostanziale identità di ratio dei differenti interventi "di solidarietà”, poi, prelude essa
stessa ad un giudizio di irragionevolezza ed arbitrarietà del diverso
trattamento riservato ai pubblici dipendenti, foriero peraltro di un risultato
di bilancio che avrebbe potuto essere ben diverso e più favorevole per lo
Stato, laddove il legislatore avesse rispettato i principi di eguaglianza dei cittadini
e di solidarietà economica, anche modulando diversamente un "universale”
intervento impositivo.
Con la medesima sentenza n. 223 del
2012 è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 12, comma
10, del d.l. n. 78 del 2010 con la seguente
motivazione «a fronte dell’estensione del regime di cui all’art. 2120 del
codice civile (ai fini del computo dei trattamenti di fine rapporto) sulle
anzianità contributive maturate a fare tempo dal 1º gennaio 2011, determina
irragionevolmente l’applicazione dell’aliquota del 6,91% sull’intera
retribuzione, senza escludere nel contempo la vigenza della trattenuta a carico
del dipendente pari al 2,50% della base contributiva della buonuscita, operata
a titolo di rivalsa sull’accantonamento per l’indennità di buonuscita, in
combinato con l’art. 37 del d.P.R. 29 dicembre 1973,
n. 1032.
Nel consentire allo Stato una riduzione
dell’accantonamento, irragionevole perché non collegata con la qualità e
quantità del lavoro prestato e perché – a parità di retribuzione – determina un
ingiustificato trattamento deteriore dei dipendenti pubblici rispetto a quelli
privati, non sottoposti a rivalsa da parte del datore di lavoro, la
disposizione impugnata viola per ciò stesso gli articoli 3 e 36 della
Costituzione».
Da quanto detto consegue che le questioni di
legittimità costituzionale degli artt. 9, comma 2, e 12, comma 10, del d.l. n. 78 del 2010, dopo la sentenza n. 223 del
2012, sono divenute prive di oggetto e vanno, quindi, dichiarate
inammissibili in relazione ai profili prospettati con le ordinanze di
rimessione.
3.− Le questioni relative all’art. 12, comma 7, del d.l. n. 78 del 2010 sono pur esse, anche se per diverso
motivo, inammissibili.
Deve nuovamente richiamarsi la sentenza n. 223 del
2012 con la quale le medesime questioni di costituzionalità sono state
dichiarate inammissibili perché non risulta «individuato alcun immediato
pregiudizio subito dai dipendenti in servizio, diverso dalla rateizzazione, che
essi subiranno nel momento del collocamento a riposo per raggiunti limiti di
età, il giorno successivo a quello del compimento del settantesimo anno di età
o a quello fissato nel provvedimento di trattenimento in servizio, ovvero per
anzianità di servizio, ovvero per dimissioni» (sentenza n. 223 del
2012).
Anche nel caso in esame deve evidenziarsi che in
nessuna delle ordinanze il Tribunale rimettente riferisce di essere investito
di una domanda da parte di un dipendente in quiescenza che, per qualunque
causa, in epoca successiva al 30 novembre 2010, abbia subito gli effetti della
norma. L’assenza di un pregiudizio e di un interesse attuale a ricorrere rende
evidente che il rimettente non deve fare applicazione della norma impugnata.
4.− Anche la questione relativa all’art. 9, commi 1 e
21, del d.l. n. 78 del 2010 sollevata con riferimento
ai parametri di cui agli artt. 97 e 117, primo comma, Cost. è
inammissibile.
L’ordinanza di rimessione, infatti, è del tutto
carente sulle ragioni della non manifesta infondatezza della violazione dei
suddetti parametri costituzionali. Sul punto la motivazione si è limitata ad un
mero richiamo alle argomentazioni dei ricorrenti, senza riprodurle.
Secondo la consolidata giurisprudenza di questa
Corte, nei giudizi incidentali di costituzionalità delle leggi non è ammessa la
cosiddetta motivazione per relationem. Il rimettente deve rendere espliciti,
facendoli propri, i motivi della non manifesta infondatezza e non può limitarsi
ad un mero richiamo di quelli evidenziati dalle parti nel corso del giudizio (ex plurimis,
sentenze n. 234
del 2011 e n.
143 del 2010, ordinanze n. 175 del 2013,
n. 239 e n. 65 del 2012).
Inoltre, poiché tali argomenti, prospettati dalle
parti private, riguardano i motivi dell’invocata illegittimità amministrativa
dei provvedimenti impugnati, gli stessi non possono essere utilizzati, con un
mero richiamo, per sostenere la violazione dei parametri di costituzionalità
che si pretendono violati.
5.− La questione relativa all’art. 9, commi 1 e 21, del
d.l. n. 78 del 2010, per violazione dell’art. 3 Cost.
non è fondata.
Il TAR del Lazio ritiene che l’art. 9, commi 1 e 21,
del d.l. n. 78 del 2010, nella parte in cui non
estendono anche ai dipendenti dell’AGCOM la disciplina prevista dall’art. 3,
comma 3, del medesimo decreto-legge per la Banca d’Italia, determinino
un’ingiustificata disparità di trattamento, trattandosi in entrambi i casi di
autorità amministrative indipendenti, e sussistendo le medesime esigenze di
salvaguardia dell’autonomia delle stesse.
5.1.− L’art. 3, comma 3, ora richiamato dispone che «La
Banca d’Italia tiene conto, nell’ambito del proprio ordinamento, dei principi
di contenimento della spesa per il triennio 2011-2013 contenuti nel presente
titolo. A tal fine, qualora non si raggiunga un accordo con le organizzazioni
sindacali sulle materie oggetto di contrattazione in tempo utile per dare
attuazione ai suddetti princìpi, la Banca d’Italia provvede sulle materie
oggetto del mancato accordo, fino alla successiva eventuale sottoscrizione
dell’accordo».
La scelta del legislatore di prevedere un meccanismo
di adeguamento della Banca d’Italia alla normativa introdotta dal d.l. n. 78 del 2010 corrisponde all’esigenza, imposta dai
Trattati relativi alle modalità di funzionamento dell’Unione europea, di
consultare preventivamente la Banca centrale europea per ogni modifica che
riguardi una banca centrale nazionale.
La Banca d’Italia, infatti, è parte integrante del
Sistema europeo di banche centrali (SEBC). L’art. 130 del Trattato sul
funzionamento dell’Unione prevede che: «Nell’esercizio dei poteri e
nell’assolvimento dei compiti e dei doveri loro attribuiti dai trattati e dallo
statuto del SEBC e della BCE, né la Banca centrale europea né una banca
centrale nazionale né un membro dei rispettivi organi decisionali possono
sollecitare o accettare istruzioni dalle istituzioni, dagli organi o dagli
organismi dell’Unione, dai governi degli Stati membri né da qualsiasi altro
organismo. Le istituzioni, gli organi e gli organismi dell’Unione nonché i
governi degli Stati membri si impegnano a rispettare questo principio e a non
cercare di influenzare i membri degli organi decisionali della Banca centrale
europea o delle banche centrali nazionali nell’assolvimento dei loro compiti»,
principio ribadito ed esplicitato anche dall’art. 7 dello statuto del SEBC e
della BCE.
Inoltre, ai sensi dell’art. 2, paragrafo 1, terzo
alinea, della decisione del Consiglio 98/15/CE del 29 giugno 1998 «Le autorità
degli Stati membri consultano la BCE su ogni progetto di disposizioni
legislative che rientri nelle sue competenze ai sensi del trattato e, in
particolare, per quanto riguarda […] le banche centrali nazionali».
Deve riconoscersi che la normativa comunitaria tende
ad un rafforzamento dell’indipendenza anche delle autorità nazionali di
regolazione. A tal fine, tuttavia, si ritiene sufficiente che sia garantito
mediante una previsione esplicita che l’autorità nazionale responsabile della
regolazione ex ante del mercato o
della risoluzione di controversie tra imprese sia al riparo, nell’esercizio
delle sue funzioni, da qualsiasi intervento esterno o pressione politica che
possa compromettere la sua imparzialità di giudizio nelle questioni che è
chiamata a dirimere.
In particolare, per il settore in esame, la
direttiva 2002/21/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 7 marzo 2002,
che istituisce un quadro normativo comune per le reti ed i servizi di
comunicazione elettronica (cosiddetta direttiva quadro), prevede all’undicesimo
"considerando” che: «In conformità al
principio della separazione delle funzioni di regolamentazione dalle funzioni
operative, gli Stati membri sono tenuti a garantire l’indipendenza delle
autorità nazionali di regolamentazione in modo da assicurare l’imparzialità
delle loro decisioni. Il requisito dell’indipendenza lascia impregiudicata
l’autonomia istituzionale e gli obblighi costituzionali degli Stati membri,
come pure il principio della neutralità rispetto alla normativa sul regime di
proprietà esistente negli Stati membri sancito nell’articolo 295 del trattato.
Le autorità nazionali di regolamentazione dovrebbero essere dotate di tutte le
risorse necessarie, sul piano del personale, delle competenze e dei mezzi
finanziari, per l’assolvimento dei compiti loro assegnati». Si richiede,
inoltre, in base al tredicesimo considerando della direttiva n. 2009/140/CE del
Parlamento europeo e del Consiglio del 25 novembre 2009, che siano stabilite
preventivamente le norme riguardanti i motivi di licenziamento del responsabile
dell’Autorità nazionale di regolazione in modo da dissipare ogni dubbio circa
la neutralità di tale ente e la sua impermeabilità ai fattori esterni e che le
autorità dispongano di un bilancio proprio che permetta loro di assumere
sufficiente personale qualificato.
Dall’esame della disciplina europea risulta evidente
la differenza che esiste tra le banche centrali nazionali e le autorità di
regolazione dei mercati ex ante e di
risoluzione delle controversie tra imprese.
Pertanto, pur godendo tanto la Banca d’Italia che
l’AGCOM di una speciale autonomia organizzativa e funzionale a tutela della
loro indipendenza, occorre tuttavia affermare che la Banca d’Italia presenta
caratteri del tutto peculiari che la differenziano da ogni altra autorità
amministrativa indipendente.
In conclusione, il diverso trattamento riservato
dall’art. 3, comma 3, del d.l. n. 78 del 2010 alla
Banca d’Italia rispetto all’AGCOM è giustificato dall’esigenza imposta dalla
disciplina dell’Unione di previa consultazione della Banca centrale europea da
parte delle autorità nazionali sui progetti di disposizioni legislative
concernenti, tra l’altro, le banche centrali nazionali. Poiché analoga esigenza
non viene in rilievo con riferimento alle altre autorità amministrative
indipendenti, la disciplina riservata alla Banca d’Italia non può costituire,
sotto questo profilo, un utile tertium comparationis per una pretesa disparità di trattamento
e la prospettata questione di legittimità costituzionale è priva di fondamento
in riferimento all’art. 3 Cost.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 9, comma 2, e 12, commi 7 e 10, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 36, 42, 53, 97 e 117, primo comma, della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio con le ordinanze indicate in epigrafe;
2) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9, commi 1 e 21, del d.l. n. 78 del 2010, sollevate, in riferimento agli artt. 97 e 117, primo comma, Cost., dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio con le ordinanze indicate in epigrafe;
3) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9, commi 1 e 21, del d.l. n. 78 del 2010, sollevate, in riferimento all’art. 3 Cost., dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio con le ordinanze indicate in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della
Consulta, il 15 gennaio 2014.
F.to:
Gaetano SILVESTRI, Presidente
Paolo Maria NAPOLITANO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 23 gennaio 2014.