ORDINANZA N. 141
ANNO 2011
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Ugo DE SIERVO Presidente
- Paolo MADDALENA Giudice
- Alfio FINOCCHIARO “
- Alfonso QUARANTA “
- Franco GALLO “
- Luigi MAZZELLA “
- Gaetano SILVESTRI “
- Sabino CASSESE “
- Giuseppe TESAURO “
- Paolo Maria NAPOLITANO “
- Giuseppe FRIGO “
- Alessandro CRISCUOLO “
- Paolo GROSSI “
- Giorgio LATTANZI “
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’articolo 53, comma 2, secondo periodo, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’articolo 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), periodo introdotto dal comma 7 dell’art. 3-bis del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203 (Misure di contrasto all’evasione fiscale e disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 2 dicembre 2005, n. 248, promossi dalla Commissione tributaria regionale dell’Umbria con ordinanze del 2 aprile e del 13 luglio 2009 e dalla Commissione tributaria regionale della Toscana – Sezione distaccata di Livorno – con ordinanza del 6 ottobre 2009, rispettivamente iscritte ai nn. 311, 312 e 350 del registro ordinanze 2010 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 42 e 46, prima serie speciale, dell’anno 2010.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 23 marzo 2011 il Giudice relatore Alessandro Criscuolo.
Ritenuto che, con ordinanza depositata il 2 aprile 2009 (r.o. n. 311 del 2010), la Commissione tributaria regionale dell’Umbria ha sollevato, in riferimento agli articoli 3 e 24 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 53, comma 2, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’articolo 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), come modificato dall’articolo 3-bis, comma 7, del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203 (Misure di contrasto all’evasione fiscale e disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’articolo 1, comma 1, della legge 2 dicembre 2005, n. 248, limitatamente all’inciso «a pena d’inammissibilità»;
che, come la rimettente riferisce, una società cooperativa a responsabilità limitata, con ricorso depositato il 5 marzo 2008, ha adito la Commissione tributaria provinciale di Terni, al fine di vedersi riconosciuto un credito d’imposta dichiarato nel modello unico 2005 per l’anno 2004, portato in compensazione;
che l’Agenzia delle entrate, ufficio di Terni, si è costituita per resistere al ricorso, respinto dalla Commissione adita con sentenza del 19 giugno 2008;
che la società ha proposto appello avverso la detta sentenza, provvedendo direttamente alla notificazione del ricorso alla Agenzia delle entrate, la quale si è costituita chiedendo la conferma della sentenza impugnata;
che, in udienza, la Commissione ha invitato il difensore della ricorrente a produrre la prova dell’avvenuto deposito di copia dell’appello presso la segreteria della Commissione provinciale di Terni, ma il detto difensore non è stato in grado di ottemperare;
che, ai sensi della norma censurata, «Ove il ricorso non sia notificato a mezzo di ufficiale giudiziario, l’appellante deve, a pena d’inammissibilità, depositare copia dell’appello presso l’ufficio di segreteria della commissione tributaria che ha pronunciato la sentenza impugnata»;
che il dettato della norma («a pena d’inammissibilità») impone di dichiarare l’appello inammissibile, anche d’ufficio, se al momento della decisione non risulta provato il deposito di copia dell’atto di gravame presso la segreteria della Commissione tributaria provinciale, qualora la parte abbia provveduto direttamente alla notificazione del ricorso, non anche quando vi abbia provveduto a mezzo di ufficiale giudiziario;
che la tesi secondo cui, ad onta del tenore letterale della norma, si tratterebbe di mera improcedibilità, non può essere condivisa, sia per il chiaro dato letterale, sia in quanto nella grande maggioranza dei casi non varrebbe a risolvere il problema, perché in genere l’omissione dell’adempimento è rilevata soltanto al momento della decisione, quando ormai sono scaduti i termini per produrre documenti;
che, pertanto, nel caso in esame, mancando la prova del deposito dell’atto di appello presso la Commissione tributaria provinciale ed avendo la contribuente provveduto alla notifica diretta del gravame, questo andrebbe dichiarato inammissibile;
che, tuttavia, ad avviso della Commissione regionale, la norma censurata, nella parte in cui prevede l’inammissibilità dell’appello, sarebbe in contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost.;
che, infatti, quanto all’art. 3 Cost., la censurata disposizione sarebbe irragionevole, perché una sanzione grave e definitiva come l’inammissibilità dell’impugnazione potrebbe trovare ragione nella tutela d’interessi pubblici di particolare rilevanza, e soprattutto nell’esigenza di certezza delle situazioni giuridiche, non anche nello scopo di mera agevolazione dell’attività degli uffici giudiziari;
che, nel processo civile, spetta all’ufficiale giudiziario e non alla parte dare avviso del gravame alla cancelleria del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata (art. 123 disposizioni per l’attuazione del codice di procedura civile), ma dall’eventuale omissione di tale adempimento non deriva l’inammissibilità dell’impugnazione;
che, anche nell’ambito del processo tributario, il deposito di copia dell’atto di appello presso la segreteria della Commissione tributaria provinciale è diretto esclusivamente ad agevolare la conoscenza, da parte di detta segreteria, della pendenza del gravame, al solo fine di non rilasciare copie esecutive del provvedimento impugnato;
che si tratta, per l’appunto, di mera agevolazione, perché la pendenza del giudizio può essere conosciuta anche in altro modo, per esempio tramite informazione diretta o comunque nel momento in cui la segreteria della Commissione tributaria regionale, essendo stato depositato l’atto di appello, richiede alla segreteria della Commissione tributaria provinciale la trasmissione del fascicolo del processo (art. 53, ultimo comma, d.lgs. n. 546 del 1992);
che sembra, dunque, irragionevole, per agevolare una conoscenza acquisibile anche in modo diverso, imporre alla parte un onere ulteriore e, soprattutto, sanzionarne l’inosservanza con l’inammissibilità dell’impugnazione;
che il carattere irragionevole sarebbe ancor più manifesto ove si consideri che, nell’ambito del medesimo processo tributario, non è comminata l’inammissibilità qualora, essendo stata richiesta la notificazione per mezzo dell’ufficiale giudiziario, quest’ultimo non abbia dato avviso della presentazione dell’atto di appello alla segreteria della Commissione tributaria provinciale, benché anche in tal caso sia leso in egual misura l’interesse all’immediata conoscenza della presentazione dell’atto di appello da parte della segreteria della Commissione tributaria provinciale;
che non varrebbe richiamare la responsabilità disciplinare dell’ufficiale giudiziario in caso di omissione dell’adempimento che gli compete, e neppure l’eventuale obbligazione risarcitoria, trattandosi di sanzioni operanti su piani diversi e, comunque, non rilevanti per la parte interessata;
che anche tale disparità di conseguenze sarebbe sintomatica dell’irragionevolezza della disposizione;
che la norma censurata si porrebbe anche in contrasto con l’art. 24 Cost., perché in un processo nel quale, al fine di agevolare l’accesso alla giustizia tributaria, specialmente nelle controversie di valore inferiore a cinque milioni, è prevista una notevole agilità di forme, mal si inserirebbe l’onere ulteriore di depositare una copia dell’atto di appello presso la segreteria della Commissione tributaria provinciale e soprattutto l’inammissibilità dell’impugnazione per l’inosservanza di tale onere, con conseguente maggiore onerosità del ricorso alla giustizia tributaria;
che la Commissione tributaria regionale dell’Umbria, con ordinanza depositata il 13 luglio 2009 (r.o. n. 312 del 2010), emessa in controversia relativa a fattispecie analoga a quella sopra esposta, ha sollevato questione di legittimità costituzionale del medesimo art. 53, comma 2, d.lgs. n. 546 del 1992, come modificato dall’art. 3-bis, comma 7, d.l. n. 203 del 2005, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 248 del 2005, limitatamente all’inciso «a pena d’inammissibilità», in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., adducendo argomentazioni identiche a quelle esposte nella prima ordinanza;
che la Commissione tributaria regionale della Toscana – Sezione staccata di Livorno – con ordinanza depositata il 6 ottobre 2009 (r.o. n. 350 del 2010), ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., questione di legittimità costituzionale della norma già censurata dalle ordinanze precedenti;
che, come la rimettente riferisce, una società ha impugnato un avviso di accertamento della dogana di Livorno, relativo ad un’importazione dalla Tunisia di capi di abbigliamento, ad essa notificato in quanto il certificato EUR 1, che accompagnava la merce, era privo della sottoscrizione dell’esportatore, attestante l’origine dei prodotti;
che la Commissione provinciale di Livorno ha respinto il ricorso;
che la società ha proposto appello, ma l’ufficio ha eccepito l’inammissibilità del gravame per il mancato deposito della copia dell’atto di appello presso la segreteria della Commissione tributaria provinciale, ai sensi dell’art. 53, comma 2, d.lgs. n. 546 del 1992, in quanto la notifica dell’impugnazione non è stata effettuata a mezzo di ufficiale giudiziario;
che, ad avviso della Commissione tributaria regionale, la norma da ultimo citata farebbe sorgere dubbi di legittimità costituzionale, meritevoli di essere sottoposti all’esame di questa Corte;
che la rilevanza della questione sarebbe evidente, perché, se la norma censurata fosse legittima, il gravame andrebbe dichiarato inammissibile;
che il contrasto di detta norma con il diritto di difesa, di cui all’art. 24 Cost., sussisterebbe, in quanto l’esigenza d’informare il giudice di primo grado dell’appello proposto, al fine di evitare che possa essere dichiarato erroneamente il passaggio in giudicato della sentenza impugnata, sarebbe soddisfatta dall’obbligo della segreteria del giudice del gravame di richiedere la trasmissione del fascicolo processuale con la copia autentica della sentenza di primo grado;
che, inoltre, l’effetto preclusivo dell’impugnazione, fissato con l’inammissibilità, sarebbe irragionevole per un’attività estranea al giudizio di appello;
che, ancora, qualora la notifica avvenga a mezzo posta, verrebbe ad essere sanzionato con l’inammissibilità un adempimento che deve essere posto in essere dall’agente postale, onde sarebbe punita una inadempienza da parte di un soggetto diverso dall’appellante;
che, infine, sussisterebbe disparità di trattamento, in riferimento all’art. 3 Cost., perché l’analogo obbligo, posto a carico dell’ufficiale giudiziario dall’art. 123 disp. att. cod. proc. civ., non sarebbe sanzionato in alcun modo;
che del pari irragionevole, e quindi in contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., sarebbe la mancanza di un termine perentorio entro cui effettuare un’attività dalla cui mancanza scaturisce un effetto paralizzante come l’inammissibilità;
che la tesi, sostenuta in altra controversia dall’Avvocatura dello Stato, secondo cui una lettura costituzionalmente orientata condurrebbe a leggere la sanzione come improcedibilità, consentendo quindi il deposito dell’atto di appello fino all’esito del giudizio, non potrebbe essere condivisa;
che, infatti, la tesi suddetta verrebbe a porsi in contrasto con il dettato letterale della norma e, peraltro, resterebbe inspiegabile la necessità d’introdurre un motivo d’improcedibilità sanabile fino al termine del giudizio, mentre lo scopo di simile previsione (rendere edotto il giudice di primo grado del mancato passaggio in giudicato della sua sentenza) sarebbe già stato raggiunto con l’acquisizione degli atti del giudizio di primo grado;
che, alla stregua delle considerazioni esposte, non si potrebbe prescindere da una valutazione di non manifesta infondatezza della questione;
che il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha spiegato intervento nel giudizio di legittimità costituzionale promosso dalla Commissione tributaria regionale della Toscana (Sezione staccata di Livorno), chiedendo che la questione sia dichiarata manifestamente infondata;
che, al riguardo, la difesa dello Stato richiama una pronuncia di questa Corte (ordinanza n. 43 del 2010), relativa a fattispecie analoga e recante declaratoria di manifesta infondatezza, i cui argomenti richiama e trascrive.
Considerato che le tre ordinanze di rimessione indicate in epigrafe sollevano questioni identiche o analoghe, onde i relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti con unica decisione;
che i giudici a quibus dubitano, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’articolo 53, comma 2, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’articolo 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), come modificato dall’articolo 3-bis, comma 7, del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203 (Misure di contrasto all’evasione fiscale e disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 2 dicembre 2005, n. 248, limitatamente all’inciso «a pena d’inammissibilità»;
che, ad avviso della Commissione tributaria regionale dell’Umbria, la disposizione censurata: a) sarebbe in contrasto con l’art. 3 Cost., essendo irragionevole applicare una sanzione grave, come l’inammissibilità dell’impugnazione (la quale potrebbe trovare ragione nella tutela d’interessi pubblici di particolare rilevanza e nell’esigenza di certezza delle situazioni giuridiche), per uno scopo di mera agevolazione dell’attività degli uffici giudiziari (peraltro, l’adempimento previsto per il processo tributario non sarebbe contemplato nel processo civile, nel cui ambito spetterebbe all’ufficiale giudiziario, e non alla parte, dare alla cancelleria l’avviso di cui all’art. 123 disposizioni per l’attuazione del codice di procedura civile dalla cui omissione non deriva l’inammissibilità dell’impugnazione); b) la conoscenza dell’avvenuta proposizione dell’appello potrebbe essere acquisita nel momento in cui la Commissione tributaria regionale, dopo il deposito dell’atto di impugnazione, richiede alla segreteria della Commissione tributaria provinciale la trasmissione del fascicolo del processo; c) il carattere irragionevole della previsione d’inammissibilità sarebbe ancora più manifesto ove si consideri che, qualora la notificazione dell’atto di appello sia stata effettuata a mezzo di ufficiale giudiziario, e quest’ultimo abbia omesso di dare avviso alla segreteria della Commissione tributaria provinciale, non sia prevista l’inammissibilità del gravame, ancorché anche in tal caso sia stato leso l’interesse all’immediata conoscenza della proposizione dell’appello da parte della segreteria della Commissione tributaria provinciale;
che le sollevate questioni sono manifestamente infondate;
che questa Corte ha già trattato questioni analoghe (sentenze n. 17 del 2011 e n. 321 del 2009; ordinanza n. 43 del 2010) pervenendo a dichiararne la non fondatezza;
che, come questa Corte ha più volte affermato, in tema di disciplina del processo e di conformazione degli istituti processuali il legislatore dispone di un’ampia discrezionalità, con il solo limite della manifesta irragionevolezza o arbitrarietà delle scelte compiute (ex plurimis: sentenze n. 17 del 2011; n. 229 e n. 50 del 2010; n. 221 del 2008; ordinanze n. 43 del 2010, n. 134 del 2009, n. 67 del 2007);
che, nella specie, tale limite non può dirsi superato, in quanto la scelta operata dal legislatore risponde all’esigenza, certamente meritevole di tutela, diretta ad impedire, o almeno ridurre, il rischio del rilascio di erronee attestazioni di passaggio in giudicato delle sentenze delle Commissioni tributarie provinciali (ordinanza n. 43 del 2010; sentenza n. 321 del 2009);
che una diversa disciplina legislativa sul punto, pur essendo astrattamente possibile, non sarebbe necessariamente più razionale di quella censurata né, comunque, sarebbe costituzionalmente obbligata (ordinanza n. 43 del 2010);
che il fine della norma, ora indicato, non è realizzato dall’obbligo, posto a carico della segreteria del giudice di appello dall’art. 53, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992, di richiedere alla segreteria presso il giudice di primo grado la trasmissione del fascicolo processuale con la copia autentica della sentenza impugnata, subito dopo il ricorso in appello;
che, infatti, come questa Corte ha già chiarito (sentenze n. 17 del 2011 e n. 321 del 2009), la richiesta di trasmissione del fascicolo, prevista dalla disposizione ora citata, è avanzata dalla segreteria del giudice di appello soltanto dopo la costituzione in giudizio dell’appellante, sicché non consente alla segreteria del giudice di primo grado di avere tempestiva notizia della proposizione del gravame;
che, come questa Corte ha pure precisato (ordinanza n. 43 del 2010), l’applicabilità della disposizione censurata ai soli casi in cui la notificazione dell’appello non avvenga per il tramite dell’ufficiale giudiziario (peraltro, in forza di una scelta dell’appellante, non subordinata ad alcuna condizione: sentenza n. 17 del 2011 punto 4 del Considerato in diritto), trova adeguata giustificazione nel fatto che, qualora la notificazione sia invece eseguita mediante ufficiale giudiziario, la tempestiva notizia della proposizione dell’appello è fornita alla segreteria del giudice di primo grado dallo stesso ufficiale giudiziario (art. 123 disp. att. cod. proc. civ., applicabile al processo tributario in virtù del generale richiamo alle norme del detto codice, effettuato dall’art. 1, comma 2, d.lgs. n. 546 del 1992);
che non è ravvisabile disparità di trattamento tra chi utilizza lo strumento della notifica dell’appello per mezzo dell’ufficiale giudiziario e chi, anche per ragioni di convenienza (celerità della procedura), adotta la notifica diretta, di cui all’art. 16, comma 3, d.lgs. n. 546 del 1992;
che la facoltà di notificare l’appello “direttamente”, ai sensi della disposizione ora citata, costituisce una caratteristica propria del processo tributario, introdotta dal legislatore in tale settore per ragioni di speditezza e di semplificazione processuale, la quale non ha corrispondenza nel processo civile ordinario e, pertanto, giustifica una specifica disciplina, anche all’indicato fine di soddisfare l’esigenza di rendere la segreteria del giudice di primo grado tempestivamente informata della proposizione dell’impugnazione notificata con tali modalità (sentenza n. 321 del 2009, punto 6.2 del Considerato in diritto);
che l’asserita violazione dell’art. 24 Cost. è motivata nell’ordinanza di rimessione con l’assunto che l’adempimento prescritto e la sanzione d’inammissibilità per l’ipotesi della sua inosservanza renderebbero «più oneroso senza ragione il ricorso alla giustizia tributaria»;
che tale assunto è manifestamente infondato, perché l’adempimento richiesto dalla norma censurata ben può essere eseguito dalla parte senza andare incontro a particolari difficoltà (sentenza n. 17 del 2011; ordinanza n. 43 del 2010);
che, ad avviso della Commissione tributaria regionale della Toscana (Sezione staccata di Livorno), «Il contrasto con il diritto di difesa in giudizio di cui all’art. 24 Cost. si configura dal momento che l’esigenza di informare il giudice di primo grado dell’intervenuto appello (al fine di evitare che possa essere dichiarato erroneamente il passaggio in giudicato della sentenza) è soddisfatto dall’esistenza dell’obbligo a carico della segreteria del giudice di appello di richiedere la trasmissione del fascicolo processuale con la copia autentica della sentenza di primo grado»;
che sul punto è sufficiente rinviare a quanto osservato in precedenza in ordine all’analogo rilievo della Commissione tributaria regionale dell’Umbria;
che, secondo la rimettente, sarebbe eccessivo ed irragionevole «l’effetto preclusivo dell’impugnazione fissato con l’inammissibilità per un’attività che appare estranea al giudizio di appello»;
che, anche a tal proposito, si deve rinviare a quanto esposto in precedenza, aggiungendo che: «Nell’ipotesi, invece, in cui la parte abbia scelto di proporre appello senza avvalersi dell’ufficiale giudiziario, l’unico deterrente per indurre l’appellante a fornire tempestivamente alla segreteria del giudice di primo grado la documentata notizia della proposizione dell’appello stesso è rappresentato dalla sanzione d’inammissibilità prevista dalla norma denunciata. Al fine di ottenere un ordinato e spedito svolgimento del processo, appare, perciò, non irragionevole che il legislatore – con la norma censurata – abbia posto a carico dell’appellante l’onere di depositare copia dell’atto d’impugnazione a pena d’inammissibilità» (sentenza n. 321 del 2009, punto 6.2 del Considerato in diritto);
che, sempre secondo la rimettente, quando la notifica avvenga a mezzo posta, «si sanziona con l’inammissibilità un’attività che deve essere posta in essere dall’agente postale e, pertanto, viene punita un’inadempienza da parte di un soggetto diverso dall’appellante»;
che anche al riguardo questa Corte si è già pronunciata, osservando che «il presupposto interpretativo da cui muove il rimettente è errato. Infatti, nell’ipotesi di notificazione dell’appello a mezzo posta, nessuna disposizione pone a carico dell’agente postale né l’obbligo di depositare presso la segreteria del giudice di primo grado la copia dell’appello notificato, né l’obbligo di effettuare un avviso analogo a quello previsto per l’ufficiale giudiziario dall’art. 123 disp. att. cod. proc. civ. Al contrario, la norma denunciata pone a carico del solo appellante l’onere di depositare la copia dell’appello notificato a mezzo posta» (sentenza n. 321 del 2009, punto 6.3 del Considerato in diritto);
che, ad avviso del giudice a quo, sarebbe riscontrabile una disparità di trattamento, con conseguente contrasto con l’art. 3 Cost., in quanto l’analogo obbligo posto a carico dell’ufficiale giudiziario dall’art. 123 disp. att. cod. proc. civ. non sarebbe sanzionato in alcun modo;
che, richiamate le considerazioni in precedenza svolte, si deve ribadire che nessuna ingiustificata disparità di trattamento è ravvisabile, trattandosi di modalità diverse di notificazione, conformate in modo diverso dal legislatore nel ragionevole esercizio della discrezionalità che gli appartiene (sentenza n. 17 del 2011, punto 4 del Considerato in diritto);
che, infine, «irragionevole, e quindi contrario ai canoni degli artt. 3 e 24 Cost. è la mancanza di un termine perentorio entro cui effettuare un’attività dalla cui mancanza scaturisce un effetto paralizzante come l’inammissibilità»;
che, in realtà, come questa Corte ha già chiarito (sentenza n. 321 del 2009, punto 6.4 del Considerato in diritto), «un termine perentorio per il deposito della copia dell’appello nella segreteria della Commissione tributaria provinciale è sicuramente ricavabile, in via interpretativa, dal complesso delle norme in materia di impugnazione davanti alle commissioni tributarie. Tale termine (come si è visto ai punti 6.1 e 6.2) non può che identificarsi con quello stabilito per la costituzione in giudizio dell’appellante; costituzione che avviene mediante il deposito del ricorso in appello presso la segreteria della Commissione tributaria regionale entro trenta giorni dalla proposizione dell’appello (artt. 53, comma 2, e 22, commi 1 e 3, del d.lgs. n. 546 del 1992);
che, conclusivamente, sulla base delle considerazioni che precedono, le questioni di legittimità costituzionale sollevate con le ordinanze indicate in epigrafe devono essere dichiarate manifestamente infondate.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, commi 1 e 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi;
dichiara la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 53, comma 2, secondo periodo, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’articolo 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), periodo introdotto dall’art. 3-bis, comma 7, del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203 (Misure di contrasto all’evasione fiscale e disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 2 dicembre 2005, n. 248, sollevate, in riferimento agli articoli 3 e 24 della Costituzione, dalla Commissione tributaria regionale dell’Umbria e dalla Commissione tributaria regionale della Toscana, Sezione distaccata di Livorno, con le ordinanze indicate in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 6 aprile 2011.
F.to:
Ugo DE SIERVO, Presidente
Alessandro CRISCUOLO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 15 aprile 2011.