ORDINANZA N. 67
ANNO 2007
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Franco BILE Presidente
- Giovanni Maria FLICK Giudice
- Francesco AMIRANTE "
- Ugo DE SIERVO "
- Romano VACCARELLA "
- Paolo MADDALENA "
- Alfio FINOCCHIARO "
- Alfonso QUARANTA "
- Franco GALLO "
- Luigi MAZZELLA "
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Maria Rita SAULLE "
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo Maria NAPOLITANO "
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 511, 514, 525 del codice di procedura penale, promossi con ordinanze del 15 novembre 2001 dal Tribunale di Sala Consilina, del 3 febbraio 2005 dal Tribunale di Latina, del 23 e del 30 novembre 2005 dal Tribunale di Genova, rispettivamente iscritte al n. 232 del registro ordinanze 2005 e ai nn. 209, 299 e 300 del registro ordinanze 2006, pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 18, prima serie speciale, dell’anno 2005 e numeri 28 e 37 prima serie speciale, dell’anno 2006.
Visto l’atto di costituzione di Z.L. nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 10 gennaio 2007 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.
Ritenuto che, con l’ordinanza indicata in epigrafe, il Tribunale di Sala Consilina ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 25, 101 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 511, 514 e 525, comma 2, del codice di procedura penale, nella parte in cui ― secondo l’interpretazione delle sezioni unite della Corte di Cassazione ― «non prevedono che nel caso di mutamento totale o parziale dell’organo giudicante, le dichiarazioni assunte innanzi a giudice, totalmente o parzialmente diverso, siano utilizzabili per la decisione mediante lettura, dopo l’applicazione degli artt. 190 e 190-bis cod. proc. pen., a prescindere dal consenso o dal dissenso delle parti»;
che il rimettente riferisce che nel giudizio a quo era stata disposta la rinnovazione del dibattimento, a fronte del mutamento di uno dei componenti del collegio giudicante, trasferito presso altro ufficio giudiziario; e che la difesa degli imputati aveva chiesto il riesame dei testi già escussi, opponendosi alla lettura dei verbali delle dichiarazioni rese davanti al collegio in diversa composizione;
che – secondo quanto affermato dalle sezioni unite della Corte di cassazione con la sentenza 15 gennaio 1999, n. 1 (recte: n. 2) – alla luce del disposto degli artt. 511, 514 e 525, comma 2, cod. proc. pen., nel caso di rinnovazione del dibattimento a causa del mutamento della persona del giudice monocratico o della composizione del giudice collegiale, la testimonianza precedentemente raccolta non è utilizzabile ai fini della decisione mediante semplice lettura, senza ripetere l’esame del dichiarante, qualora questo possa avere luogo e sia stato richiesto da una delle parti;
che, ad avviso del giudice a quo, l’imposizione del riesame dei testi, anche quando la relativa richiesta non risulti sorretta da «specifiche e valutabili giustificazioni», porrebbe le norme censurate in contrasto con l’art. 3 Cost., facendo irrazionalmente dipendere l’acquisizione di prove, assunte nella pienezza del contraddittorio, dal mero arbitrio di una delle parti;
che ne deriverebbe, altresì, una ingiustificata disparità di trattamento rispetto ad ipotesi similari, la cui disciplina privilegerebbe, per contro, il principio di conservazione degli atti processuali;
che fra tali ipotesi rientrerebbe, anzitutto, quella prevista dall’art. 1, comma 2, del decreto-legge 23 ottobre 1996, n. 553 (Disposizioni in tema di incompatibilità dei magistrati e di proroga dell’utilizzazione per finalità di detenzione degli istituti penitenziari di Pianosa e dell’Asinara), convertito, con modificazioni, nella legge 23 dicembre 1996, n. 652, in forza del quale ― ove occorra rinnovare il dibattimento a causa della sopravvenuta incompatibilità di taluno dei componenti del collegio giudicante ― il nuovo giudice può utilizzare gli atti anteriormente compiuti «mediante la sola lettura», salvo che «ritenga necessario rinnovarli in tutto o in parte»;
che, nella medesima ottica, verrebbero altresì in rilievo l’art. 26 cod. proc. pen., secondo cui le prove assunte davanti al giudice incompetente restano efficaci; e l’art. 33-nonies cod. proc. pen., aggiunto dall’art. 170 del decreto legislativo 19 febbraio 1998, n. 51 (Norme in materia di istituzione del giudice unico di primo grado), il quale stabilisce che l’inosservanza delle disposizioni sulla composizione collegiale o monocratica del tribunale non determina l’inutilizzabilità delle prove già acquisite;
che risulterebbe compromesso, per altro verso, il bene dell’efficienza del processo — enucleabile dalle norme costituzionali che regolano l’esercizio della funzione giurisdizionale (artt. 25 e 101 Cost.) — avuto riguardo, in specie, al principio di «non dispersione dei mezzi di prova», che permea il processo penale in quanto finalizzato all’accertamento della verità;
che, nell’interpretazione dianzi ricordata, le norme denunciate contrasterebbero, infine, con il principio di ragionevole durata del processo (art. 111, secondo comma, Cost.), in quanto consentirebbero a ciascuna delle parti di provocare, tramite richieste del tutto pretestuose, la rinnovazione di attività già espletate, con conseguente dilatazione dei tempi processuali;
che nel giudizio di costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che la questione sia dichiarata manifestamente infondata;
che, con l’ordinanza indicata in epigrafe, il Tribunale di Latina in composizione monocratica ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 25, 27 e 111 Cost., questione di legittimità costituzionale degli artt. 511, comma 2, e 514, comma 1, cod. proc. pen., nella parte in cui non consentono al giudice ― il quale debba rinnovare il dibattimento ai sensi dell’art. 525, comma 2, cod. proc. pen. ― di dare lettura delle dichiarazioni precedentemente rese nel medesimo dibattimento, nelle forme previste dagli artt. 498 e 499 cod. proc. pen. e alla presenza dell’imputato o del suo difensore, davanti a magistrato o collegio in tutto o in parte diverso;
che l’ordinanza premette, in punto di fatto, che ― essendo stata disposta la rinnovazione del dibattimento a causa del mutamento della persona fisica del giudice ― il difensore della parte civile aveva chiesto di esaminare due testi già sentiti dal giudice poi sostituito, la cui deposizione risultava rilevante ai fini della decisione;
che tale richiesta impedirebbe di utilizzare direttamente i verbali delle dichiarazioni rese dai testi in questione, giacché, ai sensi dell’art. 511, comma 2, e 514, comma 1, cod. proc. pen. ― come interpretati dalla giurisprudenza di legittimità ― nel caso di rinnovazione del dibattimento a seguito del mutamento della persona del giudice, non può essere data diretta lettura delle dichiarazioni testimoniali rese nel medesimo dibattimento davanti al diverso giudice, ove la parte che ha indicato i testi ne chieda nuovamente l’esame;
che tale divieto di lettura risulterebbe, tuttavia, privo di razionale giustificazione e lesivo del principio di eguaglianza;
che l’art. 514, comma 1, cod. proc. pen. prevede, infatti, che il giudice del dibattimento possa dare lettura dei verbali delle dichiarazioni rese al giudice dell’udienza preliminare nelle forme previste dagli artt. 498 e 499 cod. proc. pen. (ossia nelle forme previste per il dibattimento), alla presenza dell’imputato o del suo difensore;
che se è consentito, dunque, dare direttamente lettura dei verbali di dichiarazioni assunte in contraddittorio, da altro magistrato, in una diversa fase processuale (l’udienza preliminare); a maggior ragione dovrebbe essere permesso farlo quando si tratti di dichiarazioni assunte in contraddittorio, da altro magistrato, nella medesima fase (il dibattimento);
che tale facoltà di lettura, d’altro canto, sarebbe prevista tanto dall’art. 26 cod. proc. pen., ove il processo si sia svolto davanti a diverso giudice, dichiaratosi incompetente; quanto dall’art. 33-nonies cod. proc. pen., allorché si sia proceduto all’istruzione dibattimentale in violazione delle norme sulla composizione collegiale o monocratica del tribunale;
che le disposizioni censurate violerebbero, per altro verso, gli artt. 24, 25, 27 e 111 Cost., determinando una dilatazione dei tempi processuali che potrebbe potenzialmente protrarsi, a seguito degli avvicendamenti dei magistrati negli uffici giudiziari, sino alla scadenza dei termini di prescrizione del reato: con conseguente pregiudizio del diritto di difesa delle parti, della possibilità per il giudice di conoscere con immediatezza del processo, dell’efficace esercizio dell’azione penale e della ragionevole durata del processo medesimo;
che nel giudizio di costituzionalità si è costituito L. Z., imputato nel processo principale, il quale ha chiesto che la questione sia dichiarata non fondata;
che, con le due ordinanze indicate in epigrafe, di analogo tenore, il Tribunale di Genova ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 25, 101 e 111 Cost., questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 511, 514 e 525, comma 2, cod. proc. pen., nella parte in cui ― secondo l’interpretazione della giurisprudenza di legittimità ― non prevedono che, nel caso di mutamento totale o parziale dell’organo giudicante, le dichiarazioni assunte nella precedente istruzione dibattimentale siano utilizzabili per la decisione mediante semplice lettura, dopo l’applicazione degli artt. 190 e 190-bis cod. proc. pen., anche quando l’esame del dichiarante possa avere luogo e sia stato richiesto da una delle parti;
che le ordinanze riferiscono che — disposta la rinnovazione del dibattimento a seguito del parziale mutamento della composizione del collegio — i difensori degli imputati avevano negato il consenso alla lettura delle dichiarazioni testimoniali assunte dal collegio diversamente composto;
che, al riguardo, il rimettente osserva come — alla luce dell’interpretazione offerta dalle sezioni unite della Corte di cassazione al combinato disposto degli artt. 511, 514 e 525 cod. proc. pen. ― la richiesta di una delle parti, ancorché immotivata, di nuovo esame del dichiarante renderebbe non utilizzabili per la decisione, mediante semplice lettura, le dichiarazioni rese al diverso collegio;
che, in simile prospettiva, le norme censurate verrebbero a porsi peraltro in contrasto con plurimi parametri costituzionali;
che ne deriverebbe, anzitutto, una evidente disparità di trattamento di fattispecie identiche: giacché il riesame del teste già escusso ― che pure non sarebbe imposto in situazioni di maggiore rischio per la genuinità e la terzietà dell’acquisizione delle prove, quali quelle contemplate dagli artt. 26, 33-nonies, 190-bis cod. proc. pen. e dall’art. 1 del d.l. n. 553 del 1996 (in tema, rispettivamente, di incompetenza, di inosservanza delle disposizioni sulla composizione collegiale o monocratica del tribunale, di procedimenti penali per reati di criminalità organizzata e di incompatibilità del giudice) ― verrebbe reso viceversa obbligatorio in situazioni «fisiologiche», quali quelle connesse all’occasionale mutamento del giudice per ragioni del tutto estranee alle «vicende endoprocessuali»;
che, nell’anzidetta interpretazione, le norme denunciate contrasterebbero, inoltre, tanto con il bene dell’efficienza del processo, enucleabile dagli artt. 25 e 101 Cost.; quanto con il principio di ragionevole durata del processo medesimo, sancito dall’art. 111, secondo comma, Cost., posto che l’obbligatoria ripetizione di prove assunte nella pienezza del contraddittorio — senza altro scopo che quello di assicurare l’oralità, quale mezzo di conoscenza del giudice — si risolverebbe in una «gratuita inefficienza» e in un irrazionale allungamento dei tempi processuali;
che nel giudizio di costituzionalità relativo all’ordinanza r.o. n. 300 del 2006 è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che la questione sia dichiarata manifestamente infondata.
Considerato che le ordinanze di rimessione sollevano questioni identiche o analoghe, onde i relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti con unica decisione;
che tutti i giudici rimettenti si dolgono, nella sostanza, del fatto che ― alla luce dell’interpretazione delle norme denunciate accolta dalla giurisprudenza di legittimità ― nel caso di rinnovazione del dibattimento a causa del mutamento della persona del giudice monocratico o della composizione del giudice collegiale, la richiesta di riesame del dichiarante — ancorché immotivata — formulata da una delle parti, impedisca di utilizzare ai fini della decisione la prova dichiarativa assunta dal diverso giudice, a mezzo di semplice lettura del relativo verbale;
che, in proposito, va osservato come le sezioni unite della Corte di cassazione ― nella sentenza n. 2 del 1999, richiamata dai giudici a quibus ed alla quale si è conformata la successiva giurisprudenza di legittimità ― abbiano preliminarmente ribadito che il principio di immutabilità del giudice, sancito dall’art. 525, comma 2, del codice di procedura penale («alla deliberazione concorrono, a pena di nullità assoluta, gli stessi giudici che hanno partecipato al dibattimento»), impone di procedere alla integrale rinnovazione del dibattimento medesimo ogni qualvolta intervengano cambiamenti della persona del giudice monocratico o della composizione del collegio;
che la citata pronuncia ha ribadito, altresì, che in tale ipotesi ― conformemente a quanto in precedenza affermato da questa Corte (sentenza n. 17 del 1994; ordinanza n. 99 del 1996) ― i verbali delle prove, assunte nella fase dibattimentale svoltasi davanti al giudice poi sostituito, confluiscono (trattandosi di documentazione di attività comunque «legittimamente compiuta») nel fascicolo per il dibattimento a disposizione del nuovo organo giudicante: con la conseguenza che le prove in parola ben possono essere utilizzate ai fini della decisione ― successivamente alla rinnovazione dell’istruzione dibattimentale ― attraverso lo strumento della lettura;
che le sezioni unite della Corte di cassazione hanno soggiunto, tuttavia, che le enunciazioni ora ricordate debbono essere coordinate con la previsione del comma 2 dell’art. 511 cod. proc. pen., in forza della quale «la lettura dei verbali di dichiarazioni è disposta solo dopo l’esame della persona che le ha rese, a meno che l’esame non abbia luogo»: da ciò traendo la conclusione che il nuovo giudice può utilizzare le prove dichiarative precedentemente assunte, a mezzo di semplice lettura, solo qualora il predetto esame non si compia, o per volontà delle parti ― manifestata espressamente, o implicita nella mancata richiesta di nuova audizione del dichiarante ― ovvero per sopravvenuta impossibilità dell’audizione stessa;
che ― ciò puntualizzato ― costituisce affermazione consolidata, nella giurisprudenza di questa Corte, quella secondo cui il legislatore, nel definire la disciplina del processo e la conformazione dei relativi istituti, gode di ampia discrezionalità, il cui esercizio è censurabile, sul piano della legittimità costituzionale, solo ove le scelte operate trasmodino nella manifesta irragionevolezza e nell’arbitrio (ex plurimis, sentenze n. 379 del 2005 e n. 180 del 2004; ordinanze n. 389 e n. 215 del 2005, n. 265 del 2004);
che, con specifico riferimento all’odierno thema decidendum, questa Corte ha già avuto modo di rilevare, d’altro canto ― vagliando analoghi quesiti ― come la disciplina ricavabile, giusta l’interpretazione de qua, dalle disposizioni sottoposte a scrutinio venga a correlarsi al principio di immediatezza, che ispira l’impianto del codice di rito e di cui la tradizionale regola dell’immutabilità del giudice rappresenta strumento attuativo; principio il quale postula — salve le deroghe espressamente previste dalla legge — l’identità tra il giudice che acquisisce le prove e quello che decide (ordinanze n. 431 e n. 399 del 2001);
che, in tale prospettiva, la regola censurata non può dunque qualificarsi, di per sé, come manifestamente irrazionale ed arbitraria: la parte che chiede la rinnovazione dell’esame del dichiarante esercita difatti ― nella cornice della soluzione ermeneutica in discorso ― il proprio diritto, garantito dal principio di immediatezza, «all’assunzione della prova davanti al giudice chiamato a decidere» (ordinanza n. 418 del 2004); rimanendo affidata alle scelte discrezionali del legislatore l’eventuale individuazione di presidi normativi volti a prevenire il possibile uso strumentale e dilatorio di siffatto diritto, che i rimettenti lamentano;
che questa Corte ha reiteratamente escluso, inoltre, che la disciplina in parola possa determinare ― contrariamente a quanto ventilato dal Tribunale di Sala Consilina ― una lesione del principio di «non dispersione dei mezzi di prova», quale aspetto del bene dell’«efficienza del processo», riconducibile all’area di tutela degli artt. 25 e 101 Cost. (ordinanze n. 431 e n. 399 del 2001); giacché in nessun caso la prova dichiarativa precedentemente assunta va “dispersa”, essendo sempre possibile acquisirla tramite lettura del relativo verbale: con l’unica differenza che, nel caso in cui il riesame del dichiarante sia possibile e la parte ne abbia fatto richiesta, la lettura dovrà seguire tale riesame; mentre, in caso contrario, la prova verrà recuperata a mezzo della sola lettura;
che questa Corte ha rimarcato, ancora, come il principio di ragionevole durata del processo (art. 111, secondo comma, Cost.) — che ad avviso dei rimettenti sarebbe compromesso dalla necessità di rinnovare prove già assunte nella pienezza del contraddittorio — debba essere contemperato, al lume dello stesso richiamo al connotato di «ragionevolezza» che compare nella formula normativa, con il complesso delle altre garanzie costituzionali, rilevanti nel processo penale: garanzie la cui attuazione positiva ― che il legislatore avrebbe inteso operare, nella specie, tramite la previsione di un regime allineato al principio di immediatezza ― non è sindacabile sul terreno costituzionale, ove frutto di scelte non prive di una valida ratio giustificativa (ordinanze n. 418 del 2004 e n. 399 del 2001);
che, di conseguenza, deve escludersi anche la lesione degli ulteriori valori costituzionali — in particolare, quelli espressi dagli artt. 24 e 27 Cost. (parametro, il secondo, peraltro evocato senza specifica motivazione) — che il Tribunale di Genova fa discendere dall’ingiustificato prolungamento dei tempi di definizione del processo, in assunto indotto dalle norme denunciate;
che neppure, da ultimo, è ravvisabile l’allegata violazione del principio di eguaglianza, avuto riguardo al diverso trattamento che — a parere dei rimettenti — la legge processuale riserverebbe a fattispecie identiche o similari;
che per quanto attiene, infatti, alla previsione dell’art. 190-bis cod. proc. pen. — evocata dal Tribunale di Genova — questa Corte ha già rilevato come le limitazioni alla ripetizione delle prove assunte da diverso giudice, stabilite da detta disposizione in deroga alle regole ordinarie allorché si tratti di procedimenti concernenti reati di criminalità organizzata, non possano essere utilmente evocate quale tertium comparationis, stante il loro carattere di eccezionalità (ordinanze n. 418 del 2004 e n. 73 del 2003);
che analoga considerazione vale, peraltro, anche in relazione al disposto dell’art. 1, comma 2, del decreto-legge 23 ottobre 1996, n. 553, convertito, con modificazioni, nella legge 23 dicembre 1996, n. 652 — richiamato tanto dal Tribunale di Sala Consilina che dal Tribunale di Genova — in forza del quale, nel caso di accoglimento della dichiarazione di astensione o di ricusazione del giudice per la sussistenza delle situazioni di incompatibilità stabilite dall’art. 34, comma 2, cod. proc. pen., il nuovo giudice può utilizzare ai fini della decisione gli atti anteriormente compiuti mediante sola lettura (o indicazione a norma dell’art. 511, comma 5, cod. proc. pen.), a meno che «ritenga necessario rinnovarli in tutto o in parte»;
che la disciplina in parola era destinata difatti a far fronte, in via contingente e transitoria — come chiaramente attesta il limite temporale di applicabilità enunciato dal comma 1 del citato art. 1 del d.l. n. 553 del 1996 — alla particolare situazione venutasi a creare per effetto delle sentenze di questa Corte, che avevano sensibilmente esteso le ipotesi di incompatibilità del giudice;
che, sotto diverso profilo, non è neppure probante il riferimento ― operato da tutti i giudici a quibus ― agli artt. 26 e 33-nonies cod. proc. pen.: i quali stabiliscono, rispettivamente, che «l’inosservanza delle norme sulla competenza non produce l’inefficacia delle prove già acquisite» (salvo, tuttavia, quanto previsto dal comma 2 dell’art. 26 in rapporto alle dichiarazioni rese al giudice incompetente per materia); e che «l’inosservanza delle disposizioni sulla composizione collegiale o monocratica del tribunale non determina […] l’inutilizzabilità delle prove già acquisite»;
che, a prescindere, infatti, da ogni altra possibile considerazione, i rimettenti non spiegano per quale ragione — assistendosi, nelle ipotesi considerate, ad un cambiamento delle persone fisiche dei giudicanti — l’utilizzazione, se pur ammissibile, delle prove assunte dal giudice incompetente o dal tribunale non correttamente composto si sottrarrebbe ― in assenza di specifiche indicazioni normative in tal senso ― alle regole valevoli, in via generale, per i casi di mutamento del giudice: tra cui, in primis, quella dell’impossibilità di utilizzare le dichiarazioni precedentemente raccolte mediante sola lettura, allorché le parti chiedano un nuovo esame del dichiarante e questo risulti possibile;
che inconferente risulta, infine, il riferimento del Tribunale di Latina alla disposizione dell’art. 514, comma 1, cod. proc. pen., in base alla quale è consentita la lettura dibattimentale delle dichiarazioni assunte nel corso dell’udienza preliminare, qualora si tratti di dichiarazioni rese nelle forme previste dagli artt. 498 e 499 cod. proc. pen. alla presenza dell’imputato o del suo difensore: e ciò per l’assorbente ragione che il rimettente non tiene conto del diritto delle parti di chiedere comunque un nuovo esame, in dibattimento, delle persone già sentite nell’anzidetta udienza, con conseguente applicabilità della regola di cui all’art. 511, comma 2, cod. proc. pen.;
che le questioni debbono essere dichiarate, pertanto, manifestamente infondate.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 511, 514 e 525, comma 2, del codice di procedura penale, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24, 25, 27, 101 e 111 della Costituzione, dal Tribunale di Sala Consilina, dal Tribunale di Latina e dal Tribunale di Genova con le ordinanze indicate in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 febbraio 2007.
F.to:
Franco BILE, Presidente
Giovanni Maria FLICK, Redattore
Depositata in Cancelleria il 9 marzo 2007.