Ordinanza n. 215 del 2005

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ORDINANZA N. 215

ANNO 2005

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai Signori:

-   Piero Alberto                      CAPOTOSTI                               Presidente

-   Guido                                 NEPPI MODONA                        Giudice

-   Annibale                             MARINI                                              "

-   Franco                                BILE                                                    "

-   Giovanni  Maria                 FLICK                                                 "

-   Francesco                           AMIRANTE                                       "

-   Ugo                                    DE SIERVO                                       "

-   Romano                              VACCARELLA                                 "

-   Paolo                                  MADDALENA                                  "

-   Alfio                                   FINOCCHIARO                                "

-   Alfonso                              QUARANTA                                      "

-   Franco                                GALLO                                               "        

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 268, secondo comma, del codice di procedura civile, promosso con ordinanza del 14 febbraio 2003 dal Tribunale di Lodi nel procedimento civile vertente tra Cinzia Bernardelli ed altri contro Anna Bernardelli ed altri, iscritta al n. 390 del registro ordinanze 2003 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 26, prima serie speciale, dell’anno 2003.

Visti gli atti di costituzione di Cinzia Bernardelli ed altri, di Carlo Giovanni Telli e di Carlo Barbiano di Belgiojoso, nonché l’atto d’intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 19 aprile 2005 il Giudice relatore Franco Bile;

uditi l’avvocato Barbara Piccini per Carlo Giovanni Telli e l’avvocato dello Stato Giorgio D’Amato per il Presidente del consiglio dei ministri.

Ritenuto che il Tribunale di Lodi, con ordinanza emessa il 14 febbraio 2003, ha sollevato – in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione – tre questioni di legittimità costituzionale dell’art. 268, secondo comma, del codice di procedura civile, ai sensi del quale il terzo che interviene in giudizio (salvo che comparisca volontariamente per l’integrazione necessaria del contraddittorio) non può compiere atti che al momento dell’intervento non sono più consentiti ad alcuna parte;

che l’ordinanza è stata resa in un giudizio civile di accertamento dell’acquisto della proprietà di un bene immobile per usucapione ultraventennale, promosso dagli attori nei confronti degli intestatari del bene nel quale – successivamente all’ammissione della prova per testi e dell’interrogatorio formale dei convenuti e prima dell’udienza fissata per l’assunzione – un terzo era intervenuto volontariamente, chiedendo, previo rigetto della domanda, l’accertamento del suo diritto di proprietà esclusiva sul bene;

che il rimettente rileva che, in base alla lettera del primo comma dell’art. 268 cod. proc. civ., l’intervento principale o litisconsortile (e non solo quello adesivo dipendente) è ammissibile fino al momento della precisazione delle conclusioni; che tuttavia, ai sensi dell’impugnato secondo comma, «il terzo non può compiere atti che al momento dell’intervento non sono più consentiti ad alcuna parte», per cui deve accettare il processo nello stato in cui si trova, subendo le preclusioni connesse funzionalmente alle fasi di sviluppo del procedimento; che tale interpretazione è accolta anche dalla Corte di cassazione, secondo la quale, ove l’intervento abbia luogo dopo il maturare delle preclusioni probatorie, il terzo può proporre le sue domande, ma non può provare i fatti posti a fondamento di esse;

che, per il rimettente, questa interpretazione è lesiva dell’art. 24 della Costituzione, che consente il diritto di agire in giudizio avvalendosi del diritto alla prova, e dell’art. 111 Cost., secondo cui il «processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità»; che tale orientamento giurisprudenziale, mortificando il favore per il processo cumulativo da cui il sistema processuale è permeato, violerebbe altresì l’art. 3 Cost., per irragionevolezza rispetto agli artt. 274, 344 e 404 cod. proc. civ. che consentono al terzo di proporre (anche in appello o con opposizione di terzo, e senza limiti probatori) la medesima domanda che potrebbe proporre con l’intervento in primo grado;

che peraltro siffatta lesione del diritto di difesa non riguarderebbe soltanto l’interventore ma anche le parti originarie del processo, che assumono rispetto alla domanda svolta dal terzo la condizione sostanziale di convenuti ai quali, quindi, dovrebbero essere riconosciuti adeguati strumenti processuali per contrastare, almeno sotto il profilo probatorio, la domanda proposta nei loro confronti;

che quindi il rimettente solleva – in riferimento ai parametri indicati – una prima questione di legittimità costituzionale dell’art. 268, secondo comma, cod. proc. civ., «nella parte in cui non consente alle parti [tutte], in caso di intervento di terzo principale o litisconsortile, successivo allo scadere dei termini di cui all’articolo 184 cod. proc. civ., di depositare documenti e indicare nuovi mezzi di prova rispetto alla domanda formulata con l’atto di intervento»;

che il rimettente solleva poi una seconda questione, notando che – se il terzo interviene dopo la scadenza del termine per la costituzione del convenuto – le parti originarie non possono proporre domande ed eccezioni conseguenti all’intervento, o precisare o modificare domande, eccezioni e conclusioni già proposte, con conseguente alterazione del principio della parità delle parti nel processo, a tutto vantaggio del terzo medesimo;

che pertanto la norma in esame è censurata – in riferimento agli stessi parametri – anche «nella parte in cui in caso di intervento volontario principale o litisconsortile non attribuisce al giudice il potere dovere di fissare, con il rispetto del termine di cui all’art. 163-bis cod. proc. civ., una nuova udienza, non meno di venti giorni prima della quale le parti originarie potranno depositare memoria e di disporre che sia notificato a queste ultime il provvedimento di fissazione»;

che infine – in via formalmente qualificata come subordinata – il giudice rimettente, al fine di ovviare agli indicati vizi di incostituzionalità, chiede alla Corte una pronuncia che estenda all’ipotesi in esame la disciplina posta dall’art. 269, quinto comma, cod. proc. civ., per la fattispecie sostanzialmente analoga della chiamata in causa del terzo chiesta al giudice dall’attore a seguito delle difese svolte dal convenuto; e pertanto solleva – sempre in riferimento agli evocati parametri – questione di legittimità costituzionale dell’art. 268, secondo comma, cod. proc. civ., «nella parte in cui non prevede che, ferme per le parti le preclusioni ricollegate alla prima udienza di trattazione, il termine eventuale di cui all’ultimo comma dell’art. 183 è fissato dal giudice istruttore nella udienza di comparizione del terzo, e i termini di cui all’art. 184 decorrono con riferimento alla udienza successiva a quella di comparizione»;

che gli attori del giudizio a quo si sono costituiti chiedendo che le questioni siano dichiarate manifestamente infondate;

che si sono costituiti altresì uno dei convenuti nel giudizio a quo ed il terzo interventore, rimettendosi entrambi al giudizio della Corte, pur se, in una memoria depositata nell’imminenza dell’udienza, l’interventore ha sostenuto la fondatezza della questione ove la norma sia interpretata come fa il rimettente;

che è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, concludendo per l’inammissibilità o la manifesta infondatezza delle sollevate questioni.

Considerato che il rimettente – sul rilievo che il sistema processuale civile è permeato dal favore per il processo cumulativo – ritiene che l’applicazione all’interventore della disciplina delle preclusioni sancita dal secondo comma della norma impugnata determinerebbe il pericolo di una sostanziale “abrogazione” dell’intervento principale, che pure il primo comma dello stesso art. 268 del codice di procedura civile dispone possa «avere luogo sino a che non vengano precisate le conclusioni»;

che, a fondamento dei denunciati dubbi di costituzionalità, il rimettente pone le conseguenze (asseritamente limitative dei rispettivi poteri processuali delle diverse parti in causa) che deriverebbero dalla interpretazione della norma impugnata, accolta anche dalla Corte di cassazione (nella sentenza n. 4771 del 1999), secondo cui il terzo può ben intervenire dopo il termine di costituzione del convenuto e proporre le sue domande, ma – ove si siano verificate le preclusioni probatorie – non può provare i fatti posti a fondamento di esse;

che siffatta premessa ermeneutica – in sé non implausibile, seppure nel contesto di un ancora non risolto dibattito giurisprudenziale e dottrinario in materia – non solo trascura la costante affermazione dell’ampia discrezionalità spettante al legislatore nella conformazione degli istituti processuali, col solo limite della non irrazionale predisposizione degli strumenti di tutela della parte (da ultimo, sentenza n. 180 del 2004 e ordinanza n. 265 del 2004), ma non tiene in debito conto il costante orientamento di questa Corte, secondo cui il simultaneus processus non è oggetto di garanzia costituzionale, trattandosi di mero espediente processuale finalizzato (ove possibile) all’economia dei giudizi ed alla prevenzione del pericolo di giudicati contraddittori (ordinanze n. 124 del 2005, n. 90 del 2002 e n. 398 del 2000); sicché la sua inattuabilità non lede né il diritto di azione né quello di difesa, se la pretesa sostanziale del soggetto interessato possa essere fatta valere nella competente, pur se distinta, sede giudiziaria con pienezza di contraddittorio e di difesa (sentenze n. 451 del 1997 e n. 295 del 1995);

che, viceversa, il sistema delle preclusioni nel giudizio civile (che costituisce cardine e tratto fondante della riforma del 1990) si configura come regola funzionale alla concreta attuazione del principio costituzionale della ragionevole durata del processo, che ha trovato espressa e puntuale affermazione nella sopravvenuta nuova formulazione dell’art. 111 della Costituzione;

che, con riferimento alla prima questione, tali considerazioni consentono di superare le censure riferite alla dedotta violazione dell’art. 24 Cost., giacché il terzo che ritenga che da un giudizio inter alios possano derivare pregiudizi alla propria posizione sostanziale ha, in alternativa all’intervento, la piena facoltà di proporre un autonomo giudizio, oltre che di avvalersi (ove ne sussistano le condizioni) anche dei rimedi di cui agli artt. 274, 344 e 404 cod. proc. civ. evocati dallo stesso rimettente;

che, in questo contesto, gli eventuali condizionamenti di ordine temporale alla proposizione dell’intervento (cfr. art. 419 cod. proc. civ.) ovvero le preclusioni all’apporto probatorio a sostegno della relativa domanda, si rivelano strumenti certamente razionali utilizzabili dal legislatore, nella sua discrezionalità, per conseguire l’obiettivo di un ordinato svolgimento del giudizio, fermo che la scelta del secondo tipo di strumento lascia integra la volontaria e consapevole accettazione, da parte dell’interventore, delle limitazioni derivanti dallo specifico stato di avanzamento del giudizio;

che – riguardo all’asserita lesione dell’art. 111 Cost. – l’applicazione senza eccezioni del sistema delle preclusioni, lungi dal causare lesione all’evocato principio della parità delle parti (rispetto al quale la tutela della regolarità del contraddittorio è funzionalmente servente), ne costituisce coerente attuazione, proprio al fine di evitare che il terzo possa trarre vantaggio dalla scelta di intervenire tardivamente;

che infine – circa la dedotta irragionevolezza della norma impugnata rispetto ai rimedi approntati dagli artt. 274, 344 e 404 cod. proc. civ., che non precludono al terzo il diritto di proporre (autonomamente, anche in appello, o con opposizione di terzo, e senza limitazione del diritto alla prova) la medesima domanda che potrebbe proporre con l’atto di intervento in primo grado – è sufficiente ribadire che siffatti rimedi non si sostituiscono ma si aggiungono alla facoltà del terzo di tutelare il diritto in via ordinaria e rilevare che la radicale eterogeneità di presupposti e di effetti di essi (strutturalmente diversi tra loro e rispetto all’intervento volontario) rende non irragionevole la differenziazione delle relative discipline;

che, pertanto, la prima questione è manifestamente infondata;

che, quanto alla seconda e terza questione – anche a prescindere dalla portata fortemente creativa e di sistema delle pronunce richieste a questa Corte, per porre rimedio alle asserite limitazioni che le parti originarie del processo subirebbero in ragione dell’intervento tardivo, non potendo proporre domande ed eccezioni conseguenti alla domanda svolta dal terzo, né precisare o modificare eccezioni o conclusioni già spiegate – l’irrisolta formulazione alternativa (e non già subordinata) delle due diverse auspicate soluzioni ad identici dubbi di costituzionalità, riguardanti la medesima norma, si pone quale insuperabile profilo di manifesta inammissibilità delle questioni stesse.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 268, secondo comma, del codice di procedura civile, «nella parte in cui non consente alle parti [tutte], in caso di intervento di terzo principale o litisconsortile, successivo allo scadere dei termini di cui all’articolo 184, cod. proc. civ., di depositare documenti e indicare nuovi mezzi di prova rispetto alla domanda formulata con l’atto di intervento», sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, dal Tribunale di Lodi, con l’ordinanza in epigrafe;

dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 268, secondo comma, del codice di procedura civile, «nella parte in cui in caso di intervento volontario principale o litisconsortile non attribuisce al giudice il potere dovere di fissare – con il rispetto del termine di cui all’art. 163-bis, cod. proc. civ. – una nuova udienza, non meno di venti giorni prima della quale le parti originarie potranno depositare memoria e di disporre che sia notificato a queste ultime il provvedimento di fissazione», ovvero «nella parte in cui non prevede che, ferme per le parti le preclusioni ricollegate alla prima udienza di trattazione, il termine eventuale di cui all’ultimo comma dell’art. 183 è fissato dal giudice istruttore nella udienza di comparizione del terzo, e i termini di cui all’art. 184 decorrono con riferimento alla udienza successiva a quella di comparizione», sollevata, in riferimento ai predetti parametri, dal medesimo Tribunale, con la stessa ordinanza.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 maggio 2005.

F.to:

Piero Alberto CAPOTOSTI, Presidente

Franco BILE, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 31 maggio 2005.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA