Sentenza n. 281 del 2010

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SENTENZA N. 281

ANNO 2010

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-           Francesco                    AMIRANTE                                    Presidente

-           Ugo                             DE SIERVO                                      Giudice

-           Paolo                           MADDALENA                                       “

-           Alfio                            FINOCCHIARO                                     “

-           Alfonso                       QUARANTA                                           “

-           Franco                         GALLO                                                    “

-           Luigi                            MAZZELLA                                            “

-           Gaetano                       SILVESTRI                                             “

-           Sabino                         CASSESE                                                “

-           Maria Rita                   SAULLE                                                  “

-           Giuseppe                     TESAURO                                               “

-           Paolo Maria                 NAPOLITANO                                       “

-           Giuseppe                     FRIGO                                                     “

-           Alessandro                  CRISCUOLO                                          “

-           Paolo                           GROSSI                                                   “

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 3 e 6, del decreto-legge 8 aprile 2008, n. 59 (Disposizioni urgenti per l’attuazione di obblighi comunitari e l’esecuzione di sentenze della Corte di giustizia delle Comunità europee), convertito, con modificazioni, dalla legge 6 giugno 2008, n. 101, promosso dal Tribunale di Roma, nei procedimenti riuniti vertenti tra la C. S. C. Computer Sciences Corporation Italia s.r.l. e l’INPS ed altra, con ordinanza del 9 ottobre 2008, iscritta al n. 271 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 45, prima serie speciale, dell’anno 2009.

Visti gli atti di costituzione della C. S. C. Computer Sciences Corporation Italia s.r.l., dell’INPS. ed altra nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 6 luglio 2010 il Giudice relatore Alessandro Criscuolo;

uditi gli avvocati Michel Martone per la C. S. C. Computer Sciences Corporation Italia s.r.l., Antonino Sgroi per l’I.N.P.S. ed altra e l’avvocato dello Stato Gianni De Bellis per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. — Il Tribunale di  Roma, in funzione di giudice del lavoro, con ordinanza del 9 ottobre 2008, ha sollevato, in riferimento agli articoli 24, secondo comma, 111, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 1, comma 3, del decreto-legge 8 aprile 2008, n. 59 (Disposizioni urgenti per l’attuazione di obblighi comunitari e l’esecuzione di sentenze della Corte di giustizia delle Comunità europee), convertito, con modificazioni, dalla legge 6 giugno 2008, n. 101; nonché, in riferimento agli artt. 101, secondo comma, e 104, primo comma, Cost., questione di legittimità costituzionale del combinato disposto dei commi 3 e 6 del medesimo art. 1, come risultante dopo la citata legge di conversione.

2. — Il rimettente premette di essere chiamato a pronunciare sulla tempestiva opposizione proposta da C. S. C. Italia s.r.l. avverso una cartella di pagamento, notificatale da Equitalia Esatri s.p.a., in qualità di agente per la riscossione dei tributi, con la quale le era stato intimato il versamento della complessiva somma di euro 938.836,32 – iscritta a ruolo dall’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) – a titolo di restituzione di sgravi contributivi, dei quali la stessa società aveva beneficiato per n. 121 contratti di formazione e lavoro stipulati nel periodo compreso tra il gennaio del 1997 e il maggio del 2001.

La restituzione era stata chiesta sulla base di una decisione adottata dalla Commissione delle Comunità europee l’11 maggio 1999, con la quale i menzionati benefici contributivi erano stati considerati aiuti di Stato non compatibili con il mercato comune, in assenza delle condizioni stabilite nella medesima pronuncia.

3. — L’opponente, nel quadro di una serie di eccezioni e difese, aveva sostenuto la legittimità delle agevolazioni contributive godute sulla base della normativa al tempo vigente in materia di contratti di formazione e lavoro, ed aveva chiesto la sospensione dell’efficacia esecutiva del ruolo.

4. — L’INPS, in proprio e per conto della società di cartolarizzazione S. C. C. I., si era costituita tempestivamente, ponendo in evidenza la legittimità della pretesa azionata, stante l’accertata incompatibilità con il mercato comune delle agevolazioni contributive; la sussistenza, in capo all’opponente, dell’onere di provare che i contratti di formazione e lavoro stipulati rispondessero ai requisiti individuati dalla menzionata decisione della Commissione come necessari per riconoscerne la compatibilità con il detto mercato comune; l’infondatezza delle altre eccezioni sollevate e dell’istanza di sospensione, peraltro in contrasto con l’efficacia diretta e vincolante degli ordini della Comunità.

Si era altresì costituita tardivamente in  giudizio Equitalia Esatri s.p.a., in qualità di agente per la riscossione dei tributi, eccependo la tardività dell’opposizione ai sensi dell’art. 617 codice di procedura civile, nonché la propria carenza di legittimazione passiva sulle questioni relative al merito dell’opposizione e l’infondatezza delle domande proposte nei propri confronti.

5. — Il giudice a quo prosegue, esponendo che in udienza l’opponente aveva insistito per la sospensione dell’efficacia esecutiva del ruolo, segnalando l’esistenza di pericoli irreparabili per la vita della società qualora la pretesa azionata fosse stata posta in esecuzione, avuto riguardo alle condizioni economiche della società stessa.

Pertanto egli, con ordinanza del 28 dicembre 2007, aveva sospeso l’efficacia esecutiva della cartella di pagamento, ravvisando i gravi motivi di cui all’art. 24, comma 6, del decreto legislativo 26 febbraio 1999, n. 46 (Riordino della disciplina della riscossione mediante ruolo, a norma dell’articolo 1 della L. 28 settembre 1998, n. 337).

6. — Il rimettente aggiunge che il 9 aprile 2008 è stato pubblicato il d.l. n. 59, poi convertito, a seguito del quale egli ha anticipato l’udienza al 17 giugno 2008, «al fine di assicurare il rispetto dei termini di cui al comma 3° della norma sopra citata». In tale udienza egli ha sospeso nuovamente l’efficacia esecutiva della cartella, avendo ravvisato «i presupposti di cui all’art. 1, comma 1°, del sopra citato d. l. 59/2008», nel frattempo convertito e, in particolare, un evidente errore nel calcolo dell’intera somma da recuperare e la sussistenza del «pericolo di un pregiudizio imminente e irreparabile», per l’ingente ammontare della somma richiesta, per le costanti perdite di bilancio registrate dalla società negli ultimi anni, per l’impossibilità di ottenere il documento unico di regolarità contributiva (DURC) e di pretendere il pagamento di crediti scaduti nei confronti di pubbliche amministrazioni.

Il giudicante rileva ancora che, in corso di causa, l’INPS, pur ribadendo le proprie eccezioni e difese, ha dato atto di aver provveduto allo sgravio parziale dell’importo azionato con la cartella e, pertanto, di voler ridurre la propria domanda al pagamento della somma residua di euro 285.271,00, relativa ai benefici contributivi goduti dalla società per 41 lavoratori assunti con contratto di formazione e lavoro. L’opponente, dal canto suo, ha dato atto di aver ricevuto il parziale provvedimento di sgravio, insistendo per il totale annullamento della cartella esattoriale.

7. — In questo quadro il giudice a quo, richiamata la normativa sui contratti di formazione e lavoro, nonché il contenuto della decisione adottata l’11 maggio 1999 dalla Commissione delle Comunità europee, riferisce che tale decisione era stata impugnata dallo Stato italiano, il cui ricorso, però, è stato rigettato dalla Corte di giustizia delle Comunità europee con sentenza del 7 marzo 2002.

La stessa Corte, adita dalla Commissione, ha dichiarato che l’Italia, non avendo assunto nei termini assegnati tutte le misure necessarie per recuperare le somme presso i beneficiari, è venuta meno agli obblighi che le incombevano per effetto della medesima pronuncia. Pertanto «lo Stato italiano – e per esso l’INPS – avrebbe dovuto procedere a richiedere ai soggetti beneficiari delle agevolazioni contributive sopra citate il pagamento dei contributi dovuti in relazione a quei contratti di formazione e lavoro stipulati in assenza delle condizioni legittimanti indicate dalla decisione della Commissione europea dell’11.5.1999».

Ciò posto, il rimettente osserva che, nella materia oggetto del giudizio, l’onere di provare la sussistenza dei requisiti per poter beneficiare degli sgravi contributivi ricade, per costante giurisprudenza, sulla parte che ha ottenuto tali sgravi. Nel caso di specie, dunque, l’onere probatorio spetta all’opponente, che, al fine di fornire la detta prova, «ha prodotto copiosa documentazione di natura contabile (tra cui il libro matricola e diversi prospetti dell’incremento occupazionale realizzato nel periodo di riferimento) ed ha invocato l’ammissione di prova per testi su molte delle circostanze indicate in ricorso».

Il rimettente, al fine di verificare la fondatezza di quanto sostiene la società C. S. C., ritiene indispensabile disporre di ufficio una consulenza contabile che, in applicazione dei criteri stabiliti dalla Commissione europea con la menzionata decisione, e previo esame della documentazione esibita e di quella ritenuta necessaria per un corretto espletamento dell’incarico: 1) verifichi la sussistenza delle condizioni per procedere al recupero dei contributi in relazione a ciascuno dei 41 contratti di formazione e lavoro, oggetto di (residua) contestazione tra le parti; 2) in caso di risposta negativa (anche solo in parte) a tale quesito, determini l’ammontare dei contributi eventualmente da recuperare, anche in relazione alla regola cosiddetta de minimis; 3) determini l’ammontare delle spese sostenute dall’opponente per la formazione del personale assunto con i contratti di formazione e lavoro, per i quali risultassero illegittime le esenzioni contributive godute, dei relativi oneri fiscali e delle spese per le cosiddette marche settimanali.

Il giudice a quo richiama il dettato dell’art. 1 del d.l. n. 59 del 2008 (nel testo risultante dalla legge di conversione) e rileva che la sospensione dell’efficacia esecutiva della cartella di pagamento è stata concessa, nel mutato contesto normativo, con ordinanza depositata l’11 luglio 2008. Pertanto, in applicazione del comma 3 della norma ora citata, il giudice deve decidere la causa nel termine complessivo di 90 giorni dalla data della sospensione. In difetto, la legge prevede le seguenti conseguenze: 1) l’ordinanza di sospensione «perde efficacia»; 2) il presidente di sezione riferisce al presidente del tribunale circa il mancato rispetto del suddetto termine da parte del giudice, «per le determinazioni di competenza».

Ad avviso del giudicante, la sospensione a tempo dell’efficacia esecutiva della cartella di pagamento sarebbe in contrasto, in primo luogo, con l’art. 24, secondo comma, Cost.

Infatti, tale sospensione sarebbe essenziale per un concreto e pieno esercizio del diritto di difesa, «nella misura in cui consente alla medesima parte – nella specie gravata del relativo onere probatorio – di richiedere l’espletamento di ogni attività istruttoria necessaria al fine di provare la fondatezza dei propri assunti, senza dover temere che la fisiologica durata del processo conseguente allo svolgimento di tale attività si ripercuota negativamente sulla propria situazione patrimoniale (anche in forza della quale la stessa ha ottenuto, come premesso, la sospensione dell’esecutività della cartella di pagamento opposta)». In altre parole, in forza del meccanismo in esame, il diritto di difesa della parte, che ha ottenuto la sospensione dell’esecutività della cartella, risulta di fatto tutelato al massimo per novanta giorni, decorsi i quali, a prescindere dalla (ovvia) persistenza dei requisiti richiesti, il provvedimento di sospensione perde comunque effetto, consentendo all’Istituto di agire in via esecutiva.

Né si potrebbe giungere a diversa conclusione valorizzando la circostanza che la norma censurata consente al giudice, «sulla base dei presupposti di cui ai commi 1 e 2», di confermare anche parzialmente la sospensione già concessa, fissando un termine di efficacia non superiore a sessanta giorni.

Invero, a prescindere dal rilievo che questo ulteriore termine non sarebbe idoneo a consentire la conclusione dell’istruttoria richiesta né il completamento della consulenza, è la previsione di un termine finale di efficacia entro il quale il processo deve essere concluso (pena la ripresa dell’esecutività provvisoria della cartella) a porsi in contrasto con il diritto costituzionale ad una piena ed effettiva difesa.

8. — Secondo il giudice a quo, la sospensione a tempo contrasterebbe anche con il disposto dell’art. 111, secondo comma, Cost., in quanto attribuisce all’INPS una posizione di indubbio quanto ingiustificato vantaggio nei confronti della controparte.

Infatti l’Istituto, trascorso un breve lasso di tempo a decorrere dall’emissione della sospensiva, può agire esecutivamente in forza di un titolo in relazione al quale il giudice ha già posto in luce sia un evidente errore nel calcolo di una parte rilevante della somma da recuperare, sia un concreto pericolo di un pregiudizio imminente e irreparabile derivante alla parte opponente dalla minacciata esecuzione forzata. Nel caso di specie, il concreto pericolo di tale pregiudizio imminente e irreparabile – che non è, per sua natura, un pericolo a tempo – rende palese lo squilibrio tra le posizioni processuali assunte dalle parti in causa: mentre l’INPS. si è limitato a richiedere alla società opponente il pagamento di tutti i contributi non versati in relazione ai 121 contratti di formazione e lavoro – salvo poi procedere, su invito del giudice ed all’interno del giudizio di opposizione, ad effettuare una verifica circa la fondatezza di tale pretesa e a procedere allo sgravio parziale – la società opponente ha dovuto proporre opposizione avverso una cartella di pagamento contenente una pretesa vistosamente errata in eccesso e dovrebbe anche riuscire, dopo aver ottenuto la sospensione dell’efficacia esecutiva della stessa, a provare la fondatezza delle proprie difese in relazione alla residua somma in contestazione nel termine massimo di 90 giorni, come se il periculum in mora, già riconosciuto dal giudice, avesse perduto ogni rilevanza una volta scaduto il termine sopra indicato.

Ad avviso del rimettente, la disposizione in esame, nella parte in cui introduce la suddetta sospensione a tempo, contrasterebbe, inoltre, con l’art. 117, primo comma, Cost., per violazione dell’obbligo internazionale assunto dall’Italia con la sottoscrizione della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, il cui art. 6, primo comma, nel prescrivere il diritto di ogni persona ad un giusto processo dinanzi ad  un tribunale indipendente ed imparziale, imporrebbe al potere legislativo di non intromettersi nell’amministrazione della giustizia allo scopo d’influire sulla singola causa o su di una determinata categoria di controversie; tale disposizione della CEDU, infatti, costituirebbe fonte interposta, secondo l’interpretazione fornita dalla Corte europea di Strasburgo sul punto, nel senso che la parità delle parti dinanzi al giudice implica la necessità che il potere legislativo non si intrometta nell’amministrazione della giustizia allo scopo d’influire sulla risoluzione della controversia o di una determinata categoria di controversie. Al riguardo, l’ordinanza di rimessione richiama la giurisprudenza della Corte di cassazione e della stessa Corte europea.

Il giudice a quo ritiene che le esigenze manifestate dal legislatore nell’emanare la disposizione censurata, dirette a consentire all’INPS un sollecito recupero degli aiuti di Stato non dovuti, non possano integrare le «imperiose ragioni d’interesse generale» richieste dalla Corte europea come condizione per superare il generale divieto di ingerenza. Lo Stato italiano – e per esso l’INPS – avrebbe dovuto celermente richiedere ai soggetti beneficiari delle agevolazioni sopra citate il pagamento dei contributi dovuti in relazione non a tutti i contratti di formazione e lavoro stipulati, bensì soltanto a quei contratti posti in essere in assenza delle condizioni legittimanti indicate dalla medesima decisione; né la dichiarazione di inadempienza dell’Italia, contenuta nella sentenza della Corte di giustizia del 1° aprile 2004, potrebbe costituire un’imperiosa ragione di interesse generale per procedere esecutivamente nei confronti dei predetti beneficiari: il ritardo accumulato dallo Stato nel procedere ai recuperi dovuti non potrebbe incidere negativamente sul diritto di difesa di una delle parti e sul principio della loro parità davanti al giudice, e ciò sarebbe ancor più valido quando, come nel caso in esame, la norma introdotta sia a favore della parte che tale ritardo ha accumulato.

9. — Quanto alla disposizione dettata dal comma 6 della norma censurata, che prevede il dovere per il presidente di sezione di vigilare «sul rispetto dei termini di cui al comma 3» e di riferire «con relazione trimestrale, rispettivamente, al presidente del tribunale o della Corte d’appello per le determinazioni di competenza», il rimettente ritiene che essa sia lesiva dei princìpi di cui agli artt. 101, secondo comma, e 104, primo comma Cost.

Infatti, il legislatore avrebbe così introdotto «un inammissibile strumento di pressione sul giudice che, avendo riscontrato la sussistenza dei requisiti di cui al comma 1° della stessa norma, abbia disposto la sospensione dell’efficacia esecutiva della cartella opposta, e ciò al solo fine di ottenere una più celere definizione di una determinata categoria di processi in cui è direttamente (per il tramite dell’INPS) parte in causa ed all’interno dei quali – lo si è detto più volte ma giova ricordarlo – l’onere della prova grava sulla controparte».

Risulterebbe lesiva dei menzionati parametri costituzionali anche l’assoluta genericità del riferimento alle «determinazioni di competenza», che il capo dell’ufficio dovrebbe adottare in caso di mancato rispetto dei termini in questione, in quanto sarebbe adombrato il “fantasma” dell’attivazione di un non meglio precisato procedimento disciplinare, a carico del magistrato giudicante che abbia concesso la sospensione dell’esecutività della cartella di pagamento opposta e che non sia stato poi in grado di definire il processo nei successivi 90 giorni, senza tuttavia alcun esplicito riferimento alla  vigente normativa sugli illeciti disciplinari.

Il decreto legislativo 23 febbraio 2006, n. 109 (Disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati, delle relative sanzioni e della procedura per la loro applicabilità, nonché modifica della disciplina in tema di incompatibilità, dispensa dal servizio e trasferimento di ufficio dei magistrati, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera f) della legge 25 giugno 2005, n. 150), nell’art. 2, prevede tra gli illeciti commessi nell’esercizio delle funzioni  «[...]il reiterato, grave e ingiustificato ritardo nel compimento degli atti relativi all’esercizio delle funzioni[...]», quale, ad esempio, il mancato rispetto dei termini previsti dalla legge per il deposito della motivazione delle sentenze o delle ordinanze, mentre il termine introdotto con la norma impugnata, più che riferirsi al compimento di un atto, andrebbe piuttosto ad incidere sulla gestione ordinaria dei tempi del processo e sulla facoltà del giudice, fino ad ora insindacabile, di valutare in quale momento la causa sia effettivamente matura per la decisione. Tra l’altro, tale controllo risulterebbe formale soltanto in apparenza, essendo invece idoneo a sconfinare nel merito delle scelte del giudice in ordine sia alla valutazione delle istanze istruttorie che alla fondatezza, o meno, delle opposte istanze ed eccezioni.

Pertanto, a parere del tribunale rimettente, in un ipotetico procedimento disciplinare, il giudice cui sia stato contestato di  non aver rispettato il suddetto termine si dovrebbe difendere allegando i contenuti delle proprie ordinanze, con ciò sottoponendosi a valutazione l’esercizio dell’attività giurisdizionale.

10. — La società opponente nel giudizio a quo si è costituita nel giudizio costituzionale e, dopo aver riassunto lo svolgimento della causa innanzi al Tribunale di Roma, ha chiesto che la questione sia dichiarata fondata, sottolineando la violazione del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost. e segnalando come, nel caso di specie, il limite temporale di sospensione dell’esecutività di novanta giorni risulti insufficiente, in quanto è decisivo verificare la condizione dell’incremento netto dell’occupazione, richiamata dall’art. 3, lettera a), della decisione della Commissione europea in data 11 maggio 1999 quale requisito di legittimità delle agevolazioni contributive fruite, per il cui accertamento è in corso la consulenza tecnica. La parte privata sottolinea l’inadeguatezza dei termini imposti dalla norma impugnata ed il fatto che, nonostante una verifica giurisdizionale dei presupposti della sospensione del ruolo, decorso il termine di legge, l’istituto previdenziale potrebbe procedere immediatamente al recupero delle agevolazioni, a prescindere dalla durata del giudizio.

11. — Anche l’INPS si è costituito nel giudizio di legittimità costituzionale ed ha richiamato alcuni aspetti del procedimento davanti al Tribunale di Roma, segnalando come il giudice rimettente avesse già sospeso una prima volta la provvisoria esecutività della cartella e ritenuto la causa matura per la decisione. Soltanto dopo la promulgazione della normativa ora censurata, il giudice rimettente aveva ritenuto di dovere esperire un’istruzione probatoria, concedendo, nelle more, una seconda sospensione dell’efficacia esecutiva della cartella, con decreto dell’8 luglio 2008.

Pertanto, il giudice non avrebbe rispettato i termini di legge fissati per il celere andamento processuale delle cause di lavoro e previdenza. Per quello che concerne l’altra disposizione sottoposta a censura, la stessa non riguarda né il giudice rimettente, né il processo di cui lo stesso è assegnatario, ma vede come destinatario il presidente della sezione, al quale sono demandati compiti organizzativi in relazione alla scansione temporale prescritta per la procedura del recupero degli aiuti di stato.

12. — Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel giudizio di legittimità costituzionale ed ha posto in evidenza le analogie che, a suo avviso, sussisterebbero tra la questione qui in esame ed altra questione, già sottoposta alla Corte, e decisa con sentenza n. 8 del 1982, relativa alla disposizione di cui all’art. 5, quarto comma, della legge 3 gennaio 1978, n. 1 (Accelerazione delle procedure per la esecuzione di opere pubbliche e di impianti e costruzioni industriali), norma ora abrogata dall’art. 256 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE).

Secondo la difesa dello Stato, la Corte avrebbe già ritenuto conforme alla Costituzione la previsione di un termine finale di efficacia della sospensiva disposta, a tutela delle particolari ragioni di pubblico interesse. Anche nel caso in esame, le motivazioni di interesse pubblico, ben evidenziate nella relazione governativa al disegno di legge di conversione del decreto, sarebbero da individuare nel fatto che la Commissione europea ha già annunciato l’imminente ricorso alla Corte di giustizia delle Comunità europee, ai sensi dell’art. 228 del Trattato istitutivo della Comunità europea, e successive modificazioni. «Senza un immediato intervento legislativo che eviti tale ricorso, l’Italia rischia, per ciascuna delle tre procedure di infrazione indicate, la condanna al pagamento di una somma forfettaria minima di 9.920.000 euro, oltre ad una penalità di mora compresa tra 22.000 e 700.000 euro per ogni giorno di ritardo nell'attuazione della seconda sentenza». Nell’atto di intervento è richiamato, inoltre, quanto la Corte ha già affermato in ordine alla necessità per lo Stato di procedere tempestivamente al recupero di aiuti dichiarati illegittimi (ordinanza n. 36 del 2009) e si insiste per la dichiarazione di infondatezza della questione di legittimità del comma 3, in riferimento a tutti i parametri evocati.

In particolare, del tutto incoerente sarebbe il richiamo all’art. 111, secondo comma, Cost., relativamente al principio di parità delle parti nel processo: la previsione legislativa non esclude affatto che si possa procedere con una c.t.u., la quale può essere espletata in tempi brevi (e del resto, nel caso di specie, la causa era pendente dal 2007); inoltre, anche dopo la ripresa di esecutività della cartella per il decorso del termine, l’emanazione del dispositivo di una sentenza di merito che accolga il ricorso sarebbe idonea a ripristinare immediatamente l’effetto sospensivo dell’atto di riscossione.

Anche la questione sollevata in riferimento alla disposizione di cui al comma 6 sarebbe manifestamente infondata, in quanto essa si limita a stabilire un monitoraggio in ordine al rispetto dei termini previsti dalla norma, affidandolo alla responsabilità del presidente del tribunale.

13. — La società opponente nel giudizio principale, in prossimità dell’udienza di discussione, ha depositato una memoria che, però, risulta fuori termine (art. 10, primo comma, delle vigenti norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale).

Considerato in diritto

1. — Il Tribunale di Roma, in funzione di giudice del lavoro, dubita, in riferimento agli articoli 24, secondo comma, 111, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’articolo 1, comma 3, del decreto-legge 8 aprile 2008, n. 59 (Disposizioni urgenti per l’attuazione di obblighi comunitari e l’esecuzione di sentenze della Corte di giustizia delle Comunità europee), convertito, con modificazioni, dalla legge 6 giugno 2008, n. 101; nonché della legittimità costituzionale del combinato disposto dei commi 3 e 6 del medesimo art. 1, in riferimento agli artt. 101, secondo comma, e 104, primo comma, Cost.

Il rimettente espone di essere chiamato a decidere sull’opposizione proposta dalla società C. S. C. – Computer Sciences Corporation – Italia s.r.l. avverso una cartella di pagamento, ad essa notificata da Equitalia Esatri s.p.a., in qualità di agente per la riscossione, su iscrizione a ruolo operata dall’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), in proprio e quale mandatario della Società di cartolarizzazione dei Crediti Inps (S. C. C. I.), s.p.a., per il recupero della somma complessiva di euro 938.836,62, a titolo di restituzione degli sgravi contributivi dei quali la società aveva beneficiato per 121 contratti di formazione e lavoro, stipulati tra il gennaio 1997 e il maggio 2001.

L’azione di recupero era stata intrapresa in forza di decisione della Commissione delle Comunità europee in data 11 maggio 1999, confermata, a seguito di ricorso dello Stato italiano, dalla Corte di giustizia delle Comunità europee, con sentenza del 7 marzo 2002, cui era seguita altra sentenza della medesima Corte di giustizia (in data 1° aprile 2004), la quale aveva dichiarato che l’Italia, non avendo adottato nei termini assegnati tutte le misure necessarie per recuperare le somme presso i beneficiari, era «venuta meno agli obblighi ad essa incombenti ai sensi…della detta decisione».

In effetti, con la citata pronuncia la Commissione delle Comunità europee aveva affermato l’illegittimità delle agevolazioni contributive previste dalla normativa italiana, in quanto configuranti “aiuti di Stato” incompatibili con le regole del mercato comune, qualora non fossero state conformi alle condizioni nella pronuncia stessa indicate.

2. — Il giudice a quo riferisce, per quanto qui rileva (e rinviando, per il resto, alle circostanze esposte in narrativa), che l’opponente, tra l’altro, aveva dedotto, e chiesto di provare, la conformità delle agevolazioni ottenute alle prescrizioni della citata decisione; che egli aveva sospeso l’efficacia esecutiva della cartella; che in corso di causa l’INPS aveva provveduto allo sgravio parziale delle pretese azionate con la detta cartella, riducendo l’importo richiesto ad euro 285.271,00; che, nelle more della controversia, è sopravvenuto il d.l. n. 59 del 2008 (convertito, con modificazioni, dalla legge n. 101 del 2008), il cui art. 1, comma 3, ha previsto un termine di novanta giorni, eventualmente prorogabile per altri sessanta, alla cui scadenza il provvedimento di sospensione (rinnovato dal giudicante in base alle nuove disposizioni) perde efficacia; che tale sospensione “a tempo” sarebbe in contrasto sia con l’art. 24, secondo comma, sia con l’art. 111, secondo comma, sia con l’art. 117, primo comma, Cost., in quanto del tutto inadeguata rispetto ai tempi necessari per l’espletamento di una completa attività istruttoria, tanto più considerando che l’onere di provare la sussistenza dei requisiti per beneficiare degli sgravi contributivi in questione ricade sulla parte che in concreto ne abbia goduto.

Il rimettente censura poi il comma 6, in combinato disposto con il comma 3 della menzionata disposizione, richiamandosi agli artt. 101, secondo comma, e 104, primo comma, Cost. e ravvisando nella norma stessa una violazione del principio d’indipendenza del giudice.

3. — La questione relativa all’art. 1, comma 3, terzo periodo, del d.l. n. 59 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 101 del 2008, è fondata.

4. — Si deve premettere che la decisione della Commissione europea adottata l’11 maggio 1999, relativa al regime di aiuti concessi dall’Italia per interventi a favore dell’occupazione, non statuì l’assoluta incompatibilità di tali aiuti con il mercato e con l’accordo SEE. Come risulta dalla parte dispositiva essa, con l’art. 1, stabilì che gli aiuti medesimi, concessi a decorrere dal novembre 1975, per l’assunzione di lavoratori mediante i contratti di formazione e lavoro previsti dall’apposita normativa, sono compatibili con l’ordinamento comunitario a condizione che riguardino: a) la creazione di nuovi posti di lavoro nell’impresa beneficiaria a favore di lavoratori che non hanno ancora trovato un impiego o che hanno perso l’impiego precedente, nel senso definito dagli orientamenti in materia di aiuti all’occupazione; b) l’assunzione di lavoratori che incontrano difficoltà specifiche ad inserirsi o a reinserirsi nel mercato di lavoro, chiarendo che, ai fini della citata decisione, per tali «s’intendono i giovani con meno di 25 anni, i lavoratori fino a 29 anni compresi, i disoccupati di lunga durata, vale a dire le persone disoccupate da almeno un anno». Con l’art. 2, poi, dispose che gli aiuti «concessi dall’Italia in virtù dell’art. 15 della legge n. 197/97 per la trasformazione di contratti di formazione e lavoro in contratti a tempo indeterminato sono compatibili col mercato comune e con l’accordo SEE purché rispettino la condizione della creazione netta di posti di lavoro come definita dagli orientamenti comunitari in materia di aiuti all’occupazione», con la precisazione che «il numero dei dipendenti delle imprese è calcolato al netto dei posti che beneficiano della trasformazione e dei posti creati per mezzo di contratti a tempo determinato o che non garantiscono una certa stabilità dell’impiego».

Pertanto, come la decisione rende palese, soltanto gli aiuti che non si conformano alle dette condizioni sono incompatibili con il mercato comune e, perciò, impongono l’adozione dei provvedimenti necessari per recuperare presso i beneficiari gli aiuti medesimi. Il recupero, la cui finalità consiste nel ripristinare la situazione esistente sul mercato prima della concessione dell’aiuto, deve aver luogo in base alle procedure di diritto interno (decisione citata, parte dispositiva, art. 3, comma 2). La relativa azione postula la verifica dei singoli contratti e, qualora insorgano contrasti circa la rispondenza di essi alle condizioni ora indicate, nasce una controversia che deve essere risolta nelle competenti sedi giurisdizionali.

In Italia la norma applicabile è l’art. 24 del decreto legislativo 26 febbraio 1999, n. 46 (Riordino della disciplina della riscossione mediante ruolo, a norma dell’articolo 1 della L. 28 settembre 1998, n. 337), e successive modificazioni, il cui comma 5 prevede che contro l’iscrizione a ruolo operata dall’ente previdenziale il contribuente può proporre opposizione al giudice del lavoro entro il termine di quaranta giorni dalla notifica della cartella di pagamento, mentre il comma 6 aggiunge che «il giudizio di opposizione contro il ruolo per motivi inerenti il merito della pretesa contributiva è regolato dagli articoli 442 e seguenti del codice di procedura civile. Nel corso del giudizio di primo grado il giudice del lavoro può sospendere l’esecuzione del ruolo per gravi motivi».

Con riguardo al citato art. 24 questa Corte, con ordinanza n. 111 del 2007, nel dichiarare la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale relativa a tale norma, sollevata in riferimento all’art. 111, secondo comma, Cost., ha chiarito che «da un lato, non è irragionevole la scelta del legislatore di consentire ad un creditore, attesa la sua natura pubblicistica e l’affidabilità derivante dal procedimento che ne governa l’attività, di formare unilateralmente un titolo esecutivo, e, dall’altro lato, è rispettosa dei diritti di difesa e dei principi del giusto processo la possibilità, concessa al preteso debitore di promuovere, entro un termine perentorio ma adeguato, un giudizio ordinario di cognizione nel quale far efficacemente valere le proprie ragioni, sia grazie alla possibilità di ottenere la sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo e/o dell’esecuzione, sia grazie alla ripartizione dell’onere della prova in base alla posizione sostanziale (e non già formale) assunta dalle parti nel giudizio di opposizione».

In proposito, è il caso di sottolineare fin d’ora che soltanto nel giudizio di opposizione alla cartella esattoriale il destinatario di questa ha la possibilità di far accertare l’inesistenza, o la minore entità, del proprio debito. Di qui la centralità di tale momento processuale, del quale la tutela cautelare esperibile con la sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo costituisce profilo essenziale.

5. — In questo quadro è sopravvenuto il d.l. n. 59 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 101 del 2008. Si tratta di una normativa a carattere speciale, e quindi derogatoria rispetto a quella generale contemplata dal menzionato art. 24. Essa (come si legge nel preambolo del decreto) è stata dettata dalla «straordinaria necessità ed urgenza di emanare disposizioni al fine di adempiere ad obblighi comunitari derivanti da sentenze della Corte di giustizia delle Comunità europee e da procedure di infrazione pendenti nei confronti dello Stato italiano».

In particolare, l’art. 1, sotto la rubrica «Disposizioni in materia di recupero di aiuti di Stato innanzi agli organi di giustizia civile», condiziona la possibilità per il giudice di concedere la sospensione dell’efficacia del titolo di pagamento alle seguenti specifiche condizioni, che devono ricorrere cumulativamente: a) la sussistenza di gravi motivi d’illegittimità della decisione di recupero, ovvero un evidente errore nella individuazione del soggetto tenuto alla restituzione dell’aiuto di Stato o un evidente errore nel calcolo della somma da recuperare e nei limiti di tale errore; b) pericolo di un pregiudizio imminente e irreparabile.

Il comma 2 disciplina l’ipotesi, estranea alla fattispecie in esame, in cui la sospensione dell’efficacia del titolo si fondi su motivi attinenti alla illegittimità della decisione di recupero.

Il comma 3, qui censurato, così dispone:«Fuori dei casi in cui è stato disposto il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, con il provvedimento che accoglie l’istanza di sospensione, il giudice fissa la data dell’udienza di trattazione nel termine di trenta giorni. La causa è decisa nei successivi sessanta giorni. Allo scadere del termine di novanta giorni dalla data di emanazione del provvedimento di sospensione, il provvedimento perde efficacia salvo che il giudice, su istanza di parte, riesamini lo stesso e ne disponga la conferma, anche parziale, sulla base dei presupposti di cui ai commi 1 e 2, fissando un termine di efficacia non superiore a sessanta giorni».

Il termine di trenta giorni per fissare l’udienza di trattazione, e quello successivo di sessanta giorni per la decisione, hanno carattere ordinatorio (art. 152, secondo comma, cod. proc. civ.) e finalità accelerativa. Il legislatore, in sostanza, intende garantire alla categoria di controversie in esame una sorta di corsia preferenziale, in guisa da consentire l’esecuzione immediata ed effettiva della decisione della Commissione.

Si tratta di un’esigenza reale e meritevole di tutela, che però deve essere bilanciata con il diritto inviolabile di difesa assicurato alla parte in ogni stato e grado del procedimento (art. 24, secondo comma, Cost.).

La norma censurata non realizza tale bilanciamento e, dunque, si pone in contrasto con il citato parametro costituzionale.

Essa, infatti, prevede la perdita di efficacia del provvedimento che ha sospeso l’efficacia del titolo di pagamento, allo scadere del termine di novanta giorni dalla data di emanazione del provvedimento stesso, con possibilità di conferma, ad istanza di parte, per ulteriori sessanta giorni, col decorso dei quali la perdita di efficacia comunque si realizza. Si è in presenza, dunque, di un effetto legale che consegue al mero decorso del tempo, prescindendo da ogni verifica sulla persistenza (o magari l’aggravamento) delle circostanze che avevano condotto al provvedimento di sospensione, rispetto alle quali il giudice resta privato di ogni potere valutativo. E ciò con la previsione di un termine che, pur se prorogato, è in ogni caso contenuto nella durata massima di centocinquanta giorni.

Al riguardo si deve osservare che il potere di sospensione dell’efficacia del titolo di pagamento, attribuito al giudice dall’art. 1, comma 1, del d.l. n. 59 del 2008, rientra nell’ambito della tutela cautelare, della quale condivide la ratio ispiratrice, ravvisabile nell’esigenza di evitare che la durata del processo si risolva in un pregiudizio per la parte che dovrebbe vedere riconosciute le proprie ragioni (sentenze n. 26 del 2010, n. 144 del 2008 e n. 253 del 1994). La detta sospensione, come le altre misure cautelari a contenuto anticipatorio o conservativo, ha funzione strumentale all’effettività della stessa tutela giurisdizionale, sicché il vulnus prodotto dalla sua efficacia contenuta nei ristretti termini sopra indicati incide inevitabilmente sulla detta effettività e, quindi, sul diritto fondamentale garantito dall’art. 24, secondo comma, Cost. «in ogni stato  e grado del procedimento».

Infatti, se è fuor di dubbio che il legislatore gode di ampia discrezionalità nella conformazione degli istituti processuali (giurisprudenza costante di questa Corte), è pur vero che il diritto di difesa, al pari di ogni altro diritto garantito dalla Costituzione, deve essere regolato dalla legge ordinaria in modo da assicurarne il carattere effettivo.

Pertanto, qualora per l’esercizio di esso, anche e tanto più sotto il profilo della tutela cautelare, siano stabiliti termini così ristretti da non realizzare tale risultato, il precetto costituzionale è violato. La congruità di un termine in materia processuale, se da un lato va valutata in relazione alle esigenze di celerità cui il processo stesso deve ispirarsi, dall’altro deve tener conto anche dell’interesse del soggetto che ha l’onere di compiere un certo atto per salvaguardare i propri diritti.

In casi come quello in esame, in cui adempiere all’onere probatorio, ricadente sulla parte che ha promosso il giudizio, richiede di regola l’espletamento di un’attività istruttoria anche complessa, il termine di soli centocinquanta giorni (complessivi) per la conservazione dell’efficacia del provvedimento di sospensione si rivela non congruo, sulla base delle considerazioni dianzi svolte.

Il richiamo, compiuto dalla difesa dello Stato, alla sentenza di questa Corte n. 8 del 1982 non è pertinente.

La Corte, con tale sentenza, dichiarò non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, penultimo comma, della legge 3 gennaio 1978, n. 1 (Accelerazione delle procedure per l’esecuzione di opere pubbliche e di impianti e costruzioni industriali), «nella parte in cui limita a sei mesi la durata dell’efficacia delle ordinanze dei TT. AA. RR. che sospendano la esecuzione dell’atto impugnato» (disposizione poi abrogata). La Corte ritenne che il detto termine, decorrente dalla data dell’ordinanza che aveva sospeso l’efficacia dell’atto amministrativo impugnato, fosse «congruo e ragionevole in relazione alla durata normale di un processo amministrativo, tenuto anche conto delle particolari ragioni di pubblico interesse che sono insite nelle materie che formano oggetto della disciplina di cui alla legge n. 1 del 1978».

Orbene, come risulta da detta motivazione, il giudizio di congruità fu espresso con riferimento al processo amministrativo che, soprattutto nell’epoca in cui la decisione fu adottata e con riguardo al settore dei lavori pubblici, era un processo sull’atto e non sul rapporto, si esauriva di regola in un’udienza e lasciava margini molto ridotti all’attività istruttoria.

Ben diverso è il giudizio di cognizione davanti al giudice ordinario, nel cui schema va ricondotta anche l’opposizione alla cartella di pagamento, che postula l’esame dell’intero rapporto e, pur con la maggior concentrazione garantita dall’adozione del rito del lavoro, richiede di regola lo svolgimento di attività istruttorie che possono rivelarsi anche molto complesse.

Le due situazioni poste a confronto dalla difesa pubblica, dunque, non sono omogenee.

6. — La norma censurata, inoltre, si pone in contrasto con l’art. 111, secondo comma, Cost.

In primo luogo, essa rende asimmetrica la posizione delle parti, con conseguente lesione del principio costituzionale di parità, in quanto la perdita di efficacia del provvedimento di sospensione del titolo, collegata al mero decorso di un breve arco di tempo, consente all’ente, che ha proceduto ad iscrivere a ruolo il presunto credito, di azionarlo in via esecutiva pur in presenza delle condizioni che avevano condotto il giudice a disporre la sospensione stessa, così attribuendogli una ingiustificata posizione di vantaggio.

In secondo luogo, il principio di durata ragionevole del processo, ribadito dall’art. 111, secondo comma, Cost., in coerenza con l’art. 6, primo comma, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata con legge 4 agosto 1955, n. 848), se è diretto a disporre che il processo stesso non si protragga oltre certi limiti temporali, assicura anche che esso duri per il tempo necessario a consentire un adeguato spiegamento del contraddittorio e l’esercizio del diritto di difesa, di cui il diritto di avvalersi di una sufficiente tutela cautelare è componente essenziale. Infatti, anche questo aspetto è compreso nel canone della ragionevole durata affermato dal suddetto parametro. Pertanto, l’automatica cessazione del provvedimento di sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo, in assenza di qualsiasi verifica circa la permanenza delle ragioni che ne avevano determinato l’adozione, si risolve in un deficit di garanzie che rende la norma censurata non conforme al modello costituzionale.

Sulla base delle considerazioni che precedono deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 3, terzo periodo, del d.l. n. 59 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 101 del 2008, nella parte in cui stabilisce la perdita di efficacia del provvedimento di sospensione, adottato o confermato dal giudice.

Ogni altro profilo resta assorbito.

7. — La questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 6 (in combinato disposto con il comma 3), della normativa ora citata, in riferimento agli artt. 101, secondo comma, e 104, primo comma, Cost., è inammissibile per difetto di rilevanza.

La norma denunziata dispone quanto segue. «Il presidente di sezione, in ogni grado del procedimento, vigila sul rispetto dei termini di cui al comma 3 e riferisce con relazione trimestrale, rispettivamente, al presidente del tribunale o della corte d’appello per le determinazioni di competenza. Nei tribunali non divisi in sezioni le funzioni di vigilanza sono svolte direttamente dal presidente del tribunale».

Si tratta di una disposizione diretta ad agevolare le funzioni di vigilanza affidate al dirigente dell’ufficio, anche attraverso l’attività di collaborazione semidirettiva svolta dai presidenti di sezione. La norma non riguarda il thema decidendi sul quale il giudicante è chiamato a pronunciare, concernente la sussistenza o meno del credito azionato con il titolo di pagamento contro il quale è stata proposta opposizione, con le statuizioni consequenziali. Pertanto, il giudice a quo non deve applicarla.

Ne deriva l’inammissibilità della questione (ex plurimis: ordinanze n. 64 del 2010; n. 122 e n. 50 del 2009; n. 419 del 2008).

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

a) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 1, comma 3, terzo periodo, del decreto-legge 8 aprile 2008, n. 59 (Disposizioni urgenti per l’attuazione di obblighi comunitari e l’esecuzione di sentenze della Corte di giustizia delle Comunità europee), convertito, con modificazioni, dalla legge 6 giugno 2008, n. 101, nella parte in cui stabilisce la perdita di efficacia del provvedimento di sospensione, adottato o confermato dal giudice;

b) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto dei commi 3 e 6 del medesimo art. 1 del d.l. n. 59 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 101 del 2008.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, palazzo della Consulta, il 7 luglio 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Alessandro CRISCUOLO, Redattore

Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 23 luglio 2010.