ORDINANZA N. 115
ANNO 2009
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALEcomposta dai signori:
- Ugo DE SIERVO Presidente
- Paolo MADDALENA Giudice
- Alfio FINOCCHIARO “
- Alfonso QUARANTA “
- Franco GALLO “
- Luigi MAZZELLA “
- Gaetano SILVESTRI “
- Sabino CASSESE “
- Maria Rita SAULLE “
- Giuseppe TESAURO “
- Paolo Maria NAPOLITANO “
- Giuseppe FRIGO “
- Alessandro CRISCUOLO “
- Paolo GROSSI “
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art.197-bis, commi 3 e 6 del codice di procedura penale promosso dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Trani nel procedimento penale a carico di M. C. con ordinanza del 30 marzo 2007, iscritta al n. 649 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 38, prima serie speciale, dell’anno 2007.
Udito nella camera di consiglio del 25 febbraio 2009 il Giudice relatore Alessandro Criscuolo.
Ritenuto che il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Trani, con ordinanza depositata il 30 marzo 2007, ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dei commi 3 e 6 dell’art. 197-bis, del codice di procedura penale, nella parte in cui prevedono, rispettivamente, l’assistenza di un difensore e l’applicazione del disposto di cui all’art. 192, comma 3, dello stesso codice anche per le dichiarazioni rese da persone, giudicate in un procedimento connesso o per un reato collegato, nei confronti delle quali sia stata pronunciata sentenza di assoluzione con la formula «perché il fatto non sussiste»; che come il rimettente riferisce, egli sta celebrando con rito abbreviato un processo a carico, tra gli altri, di M. C., imputato dei reati di cui all’art. 483 del codice penale e all’art. 12, comma 5, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), in concorso con altre persone «perseguite in separati processi, ex art. 12, lettera a), previa separazione degli atti»;che, nel processo celebrato con rito abbreviato, in corso di discussione finale, il difensore dell’imputato M. C. ha sollevato eccezioni relative alla utilizzabilità delle dichiarazioni rese da altri imputati in procedimenti connessi, assunte nel corso delle indagini in assenza di assistenza difensiva «e quindi affette da inutilizzabilità patologica ex art. 63 c.p.p., tali da rendere le stesse prive di valore probatorio erga omnes» ;
che dette dichiarazioni «sostanziano la prova di accusa nei confronti dell’imputato» C.;
che, dopo avere sommariamente descritto le posizioni degli altri imputati, il giudice a quo, «prescindendo per il momento dal motivo per cui potrebbero ritenersi perfettamente utilizzabili le dichiarazioni» di M. G., V. A., M. D., ravvisa la necessità di procedere ad integrazione probatoria, ai sensi dell’art. 441, comma 5, cod. proc. pen., quanto meno relativamente a V., C., M. D. (con eventuale successivo confronto tra loro), D. O.;
che nei confronti di tali soggetti (concorrenti con M. C. negli stessi reati), il processo si è concluso con sentenza di assoluzione «perché il fatto non sussiste», divenuta irrevocabile;
che, prosegue il giudice a quo, la formula assolutoria non è ostativa ad una diversa valutazione di esso rimettente, chiamato a conoscere della posizione di altro imputato, anche perché la sentenza è stata emessa a seguito di giudizio con rito abbreviato con la detta formula in forza, sia della ritenuta inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dai predetti contra se, sia della constatata carenza nel fascicolo di taluni atti essenziali (come gli stessi permessi di soggiorno e le dichiarazioni di emersione dalla irregolarità), nonché in base a valutazioni sulla utilizzabilità delle prove, non condivise dal giudicante;
che, però, ad avviso del rimettente, l’espletamento degli ulteriori mezzi di prova diviene necessario soltanto nella misura in cui i soggetti possano essere chiamati a testimoniare sotto vincolo di giuramento, con obbligo di dire la verità e con successiva libera valutazione dei contenuti delle dichiarazioni, non se siano chiamati dinanzi al giudice con l’assistenza di un difensore, ovvero, se le loro dichiarazioni debbano essere corroborate da riscontri, ai sensi dell’art. 192, comma 3, cod. proc. pen.;
che al concreto ed efficace esercizio del potere del giudice sarebbero di ostacolo i commi 3 e 6 dell’art. 197-bis, cod. proc. pen., nella parte in cui prevedono che detti soggetti, pur potendo essere chiamati a testimoniare perché assolti dallo stesso reato con la formula «perché il fatto non sussiste», debbano essere assistiti dal difensore e che alle loro dichiarazioni debba essere applicata la regola di valutazione prescritta dall’art. 192, comma 3, cod. proc. pen., «che di fatto rischia di vanificare le dichiarazioni stesse e in concreto le vanificherebbe»;
che da ciò emergerebbe la rilevanza della questione, in quanto, poiché ciascuna delle dichiarazioni rese dagli altri imputati si riferirebbe alla singola pratica di falsificazione del permesso (tanto che sarebbero stati rubricati distinti reati a carico di ciascuno degli imputati medesimi), ne conseguirebbe che «la singola dichiarazione “testimoniale”, anche se resa con obbligo di dire la verità, ove sottoposta alla regola di valutazione ex art. 192, comma 3, cod. proc. pen., di fatto sarebbe vanificata; potrebbe non avere alcun riscontro ottenibile dagli atti, salvo concepire un incongruente potere inquisitorio del giudice del rito abbreviato»;
che la questione, inoltre, sarebbe rilevante perché «a fronte di regole di valutazione già precostituite e del materiale di valutazione già in atti, non ritenendo questo giudice che possa cercare aliunde riscontri alle dichiarazioni, ove mai queste siano rese poiché in due casi proverrebbero da soggetti extracomunitari sui quali pende un ordine di espulsione benché sospeso dal p.m., anche ove esse siano confermative di quelle rese in prima battuta, la assunzione testimoniale sarebbe inutile, quindi inutilmente inficiante il principio di economia processuale»;
che il rimettente dovrebbe predisporre l’assistenza difensiva per diversi dichiaranti, «con quello che consegue anche in ordine ad obbligo di retribuzione del difensore da parte di un soggetto che non ne avrebbe alcun bisogno»;
che le disposizioni censurate, quindi, si porrebbero in contrasto con l’art. 3 Cost. sotto il profilo della violazione del principio di uguaglianza, tra cittadini chiamati a testimoniare;
che, invero, nel caso in esame nessuna tutela sarebbe necessaria, in presenza di persone assolte con la formula «perché il fatto non sussiste», sia pure nell’ambito di altro rito e con altre valutazioni probatorie, perciò con esclusione nei loro confronti di qualunque profilo di riprovazione delle condotte ed anzi con esclusione della stessa condotta;
che non risponderebbe a principi di razionalità e di uguaglianza l’escludere, in via di principio, che un soggetto assolto con l’ampia formula suddetta possa essere un testimone “pieno”, terzo, privo quindi di assistenza difensiva, le cui dichiarazioni siano liberamente valutabili dal giudice anche in assenza di riscontri;
che, del resto, su analoga questione, questa Corte si sarebbe già pronunziata nel senso dell’illegittimità costituzionale con sentenza n. 381 del 2006.
Considerato che il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Trani dubita, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, della legittimità costituzionale dei commi 3 e 6 dell’art. 197-bis, del codice di procedura penale, nella parte in cui prevedono, rispettivamente, l’assistenza di un difensore e l’applicazione della disposizione di cui all’art. 192, comma 3, del medesimo codice di rito, anche per le dichiarazioni rese dalle persone, indicate nel comma 1 dello stesso art. 197-bis, nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di assoluzione con la formula «perché il fatto non sussiste»;
che la questione è manifestamente inammissibile;
che, infatti, il rimettente ha omesso di descrivere la fattispecie concreta, oggetto del giudizio a quo, e neppure ha riportato i capi d’imputazione, essendosi limitato alla semplice ed astratta enunciazione delle norme di legge che si assumono violate, a parte un generico ed insufficiente accenno a permessi che sarebbero stati falsificati;
che tali carenze non possono essere colmate dalle assiomatiche affermazioni circa la rilevanza della questione, contenute nell’ordinanza di rimessione e sopra riportate, perché esse, a parte la scarsa chiarezza di alcuni passaggi argomentativi, non consentono di comprendere le ragioni per cui «la singola dichiarazione “testimoniale”, anche se resa con obbligo di dire la verità, ove sottoposta alla regola di valutazione ex art. 192, comma 3, cod proc. pen., di fatto sarebbe vanificata; potrebbe non avere alcun riscontro ottenibile dagli atti, salvo concepire un incongruente potere inquisitorio del giudice del rito abbreviato»,
che il giudice a quo, pur dando atto che le dichiarazioni di almeno tre soggetti «potrebbero ritenersi perfettamente utilizzabili» e che vi sarebbe «del materiale probatorio già in atti», nulla riferisce circa la capacità dimostrativa di tali elementi di prova e si affida a valutazioni aventi carattere ipotetico, così in definitiva precludendo a questa Corte ogni possibilità di controllo sulla rilevanza della questione (ex plurimis, ordinanze n. 223 del 2008, n. 55 del 2008, n. 49 del 2008 e n. 45 del 2007).
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALEdichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dei commi 3 e 6 dell’art. 197-bis del codice di procedura penale, nella parte in cui prevedono, rispettivamente, l’assistenza di un difensore e l’applicazione della disposizione di cui all’art. 192, comma 3, del medesimo codice di rito anche per le dichiarazioni rese dalle persone, indicate nel citato art. 197-bis, comma 1, nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di assoluzione con la formula «perché il fatto non sussiste», questione sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Trani con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 aprile 2009.
F.to:
Ugo DE SIERVO, Presidente
Alessandro CRISCUOLO, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 24 aprile 2009.