ORDINANZA N. 302
ANNO 2008
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Franco BILE Presidente
- Giovanni Maria FLICK Giudice
- Francesco AMIRANTE "
- Ugo DE SIERVO "
- Paolo MADDALENA "
- Alfio FINOCCHIARO "
- Alfonso QUARANTA "
- Franco GALLO "
- Luigi MAZZELLA "
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Maria Rita SAULLE "
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo Maria NAPOLITANO "
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 593 del codice di procedura penale, come sostituito dall’art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento) e dell’art. 10, comma 1, della citata legge, promossi con ordinanze del 30 maggio 2006 dal Tribunale di Reggio Emilia e del 22 gennaio 2007 dal Tribunale di Sondrio nei procedimenti penali a carico di P. R. ed altri, e di R. G., iscritte al n. 545 del registro ordinanze 2006 ed al n. 375 del registro ordinanze 2007 e pubblicate nelle Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 49, prima serie speciale, dell’anno 2006 e n. 21, prima serie speciale, dell’anno 2007.
Udito nella camera di consiglio del 25 giugno 2008 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.
Ritenuto che, con l’ordinanza indicata in epigrafe, il Tribunale di Sondrio ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 593 del codice di procedura penale, come sostituito dall’art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), nella parte in cui non prevede che la parte civile possa proporre appello nei casi di cui all’art. 576 dello stesso codice;
che il giudice a quo premette di essere investito dell’appello proposto, ai sensi dell’art. 576 cod. proc. pen., dal difensore della parte civile avverso una sentenza del Giudice di pace di Tirano, che ha assolto una persona imputata del reato di ingiuria aggravata;
che, secondo il rimettente – nulla prevedendo, in merito alle impugnazioni della parte civile avverso le sentenze del giudice di pace, il decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468) – l’ammissibilità dell’appello proposto andrebbe verificata, in forza del disposto dell’art. 2 del citato d.lgs. n. 274 del 2000, sulla base delle norme del codice di procedura penale;
che le disposizioni del codice di rito in materia di impugnazioni sono state, peraltro, profondamente modificate dalla legge n. 46 del 2006, la quale, per un verso, ha abrogato l’art. 577 cod. proc. pen., che consentiva alla parte civile di impugnare, anche agli effetti penali, le sentenze di condanna e di proscioglimento per i reati di ingiuria e di diffamazione; e, per un altro verso, ha novellato l’art. 576 cod. proc. pen., relativo all’impugnazione della parte civile ai fini della responsabilità civile, eliminando il collegamento tra tale potere di impugnazione e quello del pubblico ministero;
che, ad avviso del giudice a quo – in assenza di una specifica disciplina dell’appello della parte civile nella medesima legge n. 46 del 2006 – da una lettura combinata degli artt. 576 e 593 cod. proc. pen. si ricaverebbe che a tale parte processuale resta precluso ogni potere di appello, essendole consentito solo il ricorso per cassazione agli effetti civili, ai sensi degli artt. 568, comma 2, e 576 cod. proc. pen.;
che, al riguardo, non potrebbe essere condiviso il diverso orientamento della Corte di cassazione – espresso nella sentenza dell’11 maggio-4 luglio 2006, n. 22924 – secondo il quale le modifiche introdotte dalla legge n. 46 del 2006 non avrebbero fatto venire meno, in capo alla parte civile, il potere di appellare, ai soli effetti della responsabilità civile, le sentenze di proscioglimento, in base a quanto previsto dall’art. 576 cod. proc. pen.;
che – pur dovendosi condividere le argomentazioni della citata sentenza della Corte di cassazione, circa l’effettiva intenzione del legislatore – a tale interpretazione sarebbero infatti di ostacolo tanto l’art. 12 delle preleggi ed il principio di tassatività delle impugnazioni (art. 568, commi 1 e 3, cod. proc. pen.); quanto il tenore letterale delle norme dianzi indicate;
che l’abolizione del potere di appello della parte civile si porrebbe tuttavia in contrasto con i principi di eguaglianza (art. 3 Cost.) e della parità delle parti nel processo (art. 111, secondo comma, Cost.), stante l’irragionevole discriminazione operata nei confronti del danneggiato dal reato – al quale pure è concesso di esercitare l’azione civile nel processo penale (artt. 74 cod. proc. pen. e 185 cod. pen.) – rispetto al danneggiante-imputato;
che se si fornisce a quest’ultimo, infatti, uno «strumento di doglianza» nel merito, nei confronti della decisione del primo giudice – ossia l’appello – lo stesso strumento non potrebbe essere sottratto alla parte civile, nel caso di sua soccombenza;
che sarebbe violato, inoltre, il diritto di difesa, riconosciuto dall’art. 24 Cost. anche alla persona offesa dal reato in relazione alle proprie pretese civilistiche: diritto la cui effettività sarebbe vulnerata dalla previsione di un secondo grado di giudizio nel quale l’imputato può svolgere le proprie doglianze, mentre alla parte civile ciò sarebbe precluso;
che, da ultimo, il rimettente rimarca come la norma da sottoporre allo scrutinio di questa Corte non sia tanto quella di cui all’art. 576 cod. proc. pen., che conferisce alla parte civile un «ampio potere di impugnazione»; quanto piuttosto quella di cui all’art. 593 del medesimo codice, che, non prevedendo la parte civile tra i soggetti legittimati ad interporre appello – previsione che deve essere espressa, ai sensi dell’art. 568, comma 3, cod. proc. pen. – limiterebbe al solo ricorso per cassazione il suo potere di impugnazione;
che, con l’ordinanza indicata in epigrafe, il Tribunale di Reggio Emilia ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24, primo e secondo comma, Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 10, comma 1, della legge n. 46 del 2006, nella parte in cui prevede che debba dichiararsi inammissibile, o qualificarsi come ricorso in cassazione, l’appello proposto dalla parte civile prima dell’entrata in vigore della medesima legge, ai soli effetti della responsabilità civile, contro la sentenza di proscioglimento emessa dal giudice di pace;
che il giudice a quo premette di essere investito dell’appello proposto, anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 46 del 2006, dalla parte civile (non ricorrente a norma dell’art. 21 del d.lgs. n. 274 del 2000) avverso una sentenza di assoluzione per insussistenza del fatto dal reato di ingiuria aggravata, emessa dal locale Giudice di pace: appello con il quale si chiede la condanna degli imputati «alle pene di giustizia e la condanna degli stessi ai danni e al pagamento di una provvisionale»;
che, con riferimento all’impugnazione del capo penale della sentenza, il rimettente osserva che essa deve essere dichiarata inammissibile, giacché l’art. 9 della sopravvenuta legge n. 46 del 2006 – immediatamente applicabile ai procedimenti in corso in base al disposto dell’art. 10 – ha abrogato in toto l’art. 577 cod. proc. pen., che consentiva alla parte civile, in forza del rinvio alle norme del codice di rito operato dall’art. 2 del d.lgs. n. 274 del 2000, di impugnare, anche agli effetti penali, le sentenze di proscioglimento per i reati di ingiuria emesse dal giudice di pace;
che, quanto all’appello proposto agli effetti civili, il giudice a quo rileva come, dopo la novella del 2006, sia rimasto in vigore l’art. 576 cod. proc. pen. (applicabile anch’esso al procedimento davanti al giudice di pace in base al richiamato art. 2), che consente alla parte civile di impugnare, ai soli effetti della responsabilità civile, la sentenza di proscioglimento;
che, tuttavia, l’art. 6 della legge n. 46 del 2006 ha soppresso nel testo dell’art. 576 cod. proc. pen. l’inciso («con il mezzo previsto dal pubblico ministero») che – collegando l’impugnativa della parte privata a quella della parte pubblica – riconosceva alla prima, in virtù del principio di tassatività dei mezzi di impugnazione (art. 568, comma 1, cod. proc. pen.), il potere di proporre appello;
che il giudice a quo ne trae la conseguenza – a suo avviso «unica formalmente corretta», alla luce di una doverosa interpretazione letterale e sistematica delle norme – dell’intervenuta soppressione del potere di appello della parte civile, anche per le sentenze del giudice di pace;
che, ad avviso del rimettente, l’eliminazione del potere di appello della parte civile non presenterebbe profili di illegittimità costituzionale nella disciplina “a regime”: e ciò, sia per l’impossibilità di porre a confronto la parte civile, che è parte eventuale, con le altre parti necessarie; sia perché, comunque, la prima fruisce del potere di ricorrere in cassazione contro la sentenza di proscioglimento, al pari del pubblico ministero;
che a diversa conclusione dovrebbe pervenirsi, invece, in riferimento alla disciplina transitoria contenuta nell’art. 10 della legge n. 46 del 2006, il cui comma 1, in assenza di disposizioni specifiche relative alla parte civile, imporrebbe di dichiarare inammissibile l’appello proposto;
che la parte civile la quale, prima della riforma, abbia scelto di far valere le proprie pretese risarcitorie nel processo penale si troverebbe infatti privata, nel nuovo assetto normativo, di un potere di gravame «ampiamente devolutivo» della questione di fatto, e costretta a subire, in caso di assoluzione, l’efficacia del giudicato penale nel giudizio civile ai sensi dell’art. 652 cod. proc. pen.;
che tale disciplina violerebbe l’art. 3 Cost., determinando una irragionevole disparità di trattamento fra la persona offesa o danneggiata dal reato la quale, prima dell’entrata in vigore della legge n. 46 del 2006, abbia scelto di costituirsi parte civile e quella che non l’abbia fatto, scegliendo di agire davanti al giudice civile;
che risulterebbe violato, altresì, l’art. 24, primo e secondo comma, Cost., venendo pregiudicata la difesa dei diritti soggettivi di detta parte, originariamente garantiti dal «modello processuale» prescelto.
Considerato che le ordinanze di rimessione sollevano questioni analoghe, onde i relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti con unica decisione;
che i quesiti di costituzionalità sottoposti a questa Corte hanno ad oggetto la disciplina – “a regime” e transitoria – dell’appello della parte civile avverso le sentenze di proscioglimento emesse dal giudice di pace, dopo le modifiche introdotte dalla legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento);
che, in particolare, il Tribunale di Sondrio dubita, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 593 del codice di procedura penale, come sostituito dall’art. 1 della legge di riforma, nella parte in cui non prevede che la parte civile possa proporre appello nei casi di cui all’art. 576 cod. proc. pen. avverso le sentenze di proscioglimento del giudice di pace;
che il Tribunale di Reggio Emilia censura, a sua volta, in riferimento agli artt. 3 e 24, primo e secondo comma, Cost., la disciplina transitoria di cui all’art. 10, comma 1, della citata legge n. 46 del 2006, nella parte in cui prevede che debba dichiararsi inammissibile, o qualificarsi come ricorso in cassazione, l’appello proposto dalla parte civile prima dell’entrata in vigore della legge n. 46 del 2006, ai soli effetti della responsabilità civile, contro la sentenza di proscioglimento pronunciata dal giudice di pace;
che i rimettenti muovono dalla premessa interpretativa, non implausibile, per cui – in mancanza di una specifica disciplina dell’impugnazione della parte civile nel decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468) – detta impugnazione resta regolata, in forza del rinvio operato dall’art. 2 del medesimo decreto legislativo, dalle norme sulle impugnazioni contenute nel codice di rito: norme profondamente modificate dalla legge n. 46 del 2006;
che i giudici a quibus assumono, per altro verso, che l’art. 6 di tale legge – modificando l’art. 576 cod. proc. pen. – avrebbe eliminato il potere di appello della parte civile avverso le sentenze di proscioglimento: e ciò segnatamente alla luce del generale principio di tassatività dei mezzi di impugnazione (art. 568, comma 1, cod. proc. pen.), posto che, per un verso, la parte civile non è inclusa tra i soggetti legittimati a proporre appello dall’art. 593 cod. proc. pen.; e, per un altro verso, il testo novellato dell’art. 576 del codice di rito – nel corpo del quale è stata soppressa l’originaria statuizione, che consentiva alla parte civile di proporre impugnazione con lo stesso mezzo previsto per il pubblico ministero – non specifica di quali mezzi di impugnazione detta parte sia ammessa a fruire;
che, di conseguenza – secondo i rimettenti – il potere di appello della parte civile sarebbe venuto meno anche in relazione alle sentenze emesse dal giudice di pace;
che questa Corte – dichiarando manifestamente inammissibili questioni di legittimità costituzionale fondate su un presupposto ermeneutico identico a quello da cui muovono gli odierni rimettenti, riguardo alla soppressione del potere di appello della parte civile nel procedimento ordinario (ordinanze n. 266, n. 155 e n. 3 del 2008; n. 32 del 2007) – ha evidenziato come debba registrarsi l’assenza, allo stato, di un “diritto vivente” conforme alla premessa interpretativa posta a base dei dubbi di costituzionalità;
che i rilievi svolti dal Tribunale di Sondrio per contestare la fondatezza della diversa linea ermeneutica adottata dalla Corte di cassazione – nell’unica pronuncia all’epoca espressasi sul punto – non esauriscono, in effetti, la gamma di argomenti che potrebbero avallare un’interpretazione diversa della nuova disciplina, tale da porla al riparo dai sospetti di illegittimità costituzionale prospettati;
che la tesi secondo cui, anche dopo la legge n. 46 del 2006, la parte civile avrebbe conservato il potere di proporre appello, agli effetti civili, avverso la sentenza di proscioglimento – tesi divenuta, nel frattempo, maggioritaria nella giurisprudenza di legittimità – ha trovato, d’altro canto, l’avallo delle Sezioni unite della Corte di cassazione (si veda la sentenza 29 marzo 2007, n. 27614);
che, nell’aderire a tale soluzione interpretativa, le Sezioni Unite hanno fatto leva, in particolare, sull’interpretazione logico-sistematica dell’art. 576 cod. proc. pen. – attribuendo «a mero difetto di tecnica legislativa la formulazione letterale» della norma in questione – e, soprattutto, sulla volontà legislativa, quale desumibile dai lavori parlamentari;
che, in proposito, la Corte di cassazione ha evidenziato come le modifiche apportate al testo normativo originariamente approvato dal Parlamento, dopo il rinvio alle Camere da parte del Presidente della Repubblica ai sensi dell’art. 74 Cost. – e segnatamente la soppressione, nell’art. 576 cod. proc. pen., dell’inciso «con il mezzo previsto dal pubblico ministero» – risultassero finalizzate, in realtà, a «rimodulare, accrescendoli, i poteri di impugnazione della parte civile, sganciandone la posizione da quella del pubblico ministero»; nonché, conseguentemente, a ripristinare il potere di appello della parte privata: con il chiaro intento di recepire il rilievo formulato nel messaggio presidenziale, circa l’eccessiva compressione della tutela delle vittime del reato, quale si delineava nelle soluzioni legislative inizialmente adottate;
che a ciò va aggiunto come neppure in ordine alla disciplina transitoria si riscontri uniformità di vedute: essendosi affermato, da una parte della giurisprudenza di legittimità, che ove pure la nuova legge avesse effettivamente rimosso il potere di appello della parte civile, non ne conseguirebbe comunque – contrariamente a quanto assume il Tribunale di Reggio Emilia – l’inammissibilità dell’appello anteriormente proposto da detta parte; e ciò in quanto la disposizione transitoria di cui all’art. 10, comma 1 – evocata dal rimettente a sostegno del proprio assunto – nello stabilire che «la presente legge si applica ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della medesima», si sarebbe limitata soltanto a riaffermare il generale principio tempus regit actum, tipico della materia processuale (si veda l’ordinanza n. 3 del 2008);
che, in conclusione, i rimettenti hanno omesso di sperimentare soluzioni ermeneutiche, diverse da quelle praticate, idonee a superare i vizi di costituzionalità denunciati, poiché – in base alla stessa prospettazione dei giudici a quibus – il riconoscimento alla parte civile del potere di appello avverso le sentenze di proscioglimento nel procedimento ordinario, si rifletterebbe automaticamente sul procedimento davanti al giudice di pace;
che, pertanto, le questioni devono essere dichiarate manifestamente inammissibili, in conformità alla costante giurisprudenza di questa Corte (si vedano, ex plurimis, le ordinanze n. 35 del 2006, n. 381 del 2005 e n. 279 del 2003; nonché, le richiamate ordinanze n. 226, n. 155 e n. 3 del 2008; n. 32 del 2007).
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
1) dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 593 del codice di procedura penale, come sostituito dall’art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, dal Tribunale di Sondrio, con l’ordinanza in epigrafe;
2) dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 10, comma 1, della citata legge 20 febbraio 2006, n. 46, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24, primo e secondo comma, della Costituzione, dal Tribunale di Reggio Emilia, con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 luglio 2008.
F.to:
Franco BILE, Presidente
Giovanni Maria FLICK, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 25 luglio 2008.