ORDINANZA N. 3
ANNO 2008
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Franco BILE Presidente
- Giovanni Maria FLICK Giudice
- Francesco AMIRANTE "
- Ugo DE SIERVO "
- Paolo MADDALENA "
- Alfio FINOCCHIARO "
- Alfonso QUARANTA "
- Franco GALLO "
- Luigi MAZZELLA "
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Maria Rita SAULLE "
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo Maria NAPOLITANO "
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 576 del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 6 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), promossi con ordinanze del 7 aprile 2006 dalla Corte d’appello di Bologna e del 10 luglio 2006 dalla Corte d’appello di Firenze nei procedimenti penali a carico di S.S. e di L.M., iscritte al n. 417 del registro ordinanze 2006 ed al n. 72 del registro ordinanze 2007 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 43, prima serie speciale, dell’anno 2006 e n. 10, prima serie speciale, dell’anno 2007.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 21 novembre 2007 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.
Ritenuto che, con l’ordinanza indicata in epigrafe, la Corte di appello di Firenze ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 111, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 576 del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 6 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), nella parte in cui – avendo espunto dal testo della previsione codicistica l’inciso «con il mezzo previsto per il pubblico ministero» – avrebbe svincolato il potere di impugnazione della parte civile da quello del pubblico ministero, privando la parte stessa, in forza del principio di tassatività dei mezzi di impugnazione, della facoltà di appello sia contro le sentenze di condanna, sia contro le sentenze di assoluzione, anche nei casi in cui tale facoltà sarebbe concessa al pubblico ministero dal nuovo testo dell’art. 593 dello stesso codice: e ciò in considerazione del fatto che tale ultima norma, nello stabilire i casi in cui è possibile proporre appello, continua a fare riferimento, come in passato, soltanto all’imputato ed al pubblico ministero;
che a parere della Corte rimettente – chiamata a giudicare in sede di rinvio sull’appello proposto dalla parte civile avverso la sentenza di proscioglimento pronunciata dal Tribunale di Firenze, in un procedimento per lesioni aggravate − risulterebbero violati gli artt. 3 e 111, secondo comma, Cost., in quanto le condizioni di parità, in cui ogni processo deve svolgersi, si riferiscono anche alle impugnazioni esperibili: sicché, la contestata novella legislativa, nel rimodulare i poteri di impugnativa nei sensi indicati, avrebbe generato una «disparità tra le parti del giudizio civile riparatorio inserito nel processo penale, in quanto alla parte civile non sono consentiti gli stessi tre gradi di giudizio che sono consentiti all’imputato – obbligato civilmente»;
che tale disparità – prosegue la Corte rimettente – risulterebbe ancor più eclatante in quanto, operando il nuovo regime anche per le situazioni processuali antecedenti all’entrata in vigore della legge n. 46 del 2006, alla parte civile verrebbe sottratto, con effetto retroattivo, «ogni diritto di impugnazione, compreso il ricorso per cassazione che è mezzo di impugnazione generalmente ammesso nel nostro ordinamento contro le sentenze di merito»;
che nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile;
che, a tal proposito, la difesa erariale sottolinea come identica questione sia stata già dichiarata inammissibile da questa Corte con ordinanza n. 32 del 2007, nella quale si è sottolineato come risulti sul punto non ancora formatosi un “diritto vivente”, tanto che la questione è stata rimessa alle Sezioni unite della Corte di Cassazione;
che, pertanto, il giudice a quo si sarebbe sottratto al compito di verificare la praticabilità di diverse soluzioni interpretative – pure già emerse in sede di legittimità – atte a superare il dubbio di costituzionalità; con la conseguenza di rendere la questione inammissibile, alla luce della costante giurisprudenza di questa Corte;
che analoga questione è stata sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, dalla Corte di appello di Bologna, la quale ugualmente rileva che il novellato testo dell’art. 576 del codice di rito – facendo venire meno il richiamo al potere di impugnazione del pubblico ministero – ha di fatto annullato ogni potere di appello della parte civile, considerato che l’art. 568, comma 1, cod. proc. pen. stabilisce il principio di tassatività dei mezzi di impugnazione e che nessuna altra norma prevede per la parte civile il diritto di proporre appello; residuando, dunque, per tale parte, la sola possibilità di impugnare la sentenza di primo grado con ricorso per cassazione, secondo la generale previsione dell’art. 568, comma 2, cod. proc. pen.;
che, a parere della Corte rimettente, a differenza delle peculiarità che contraddistinguono la posizione ed i poteri del pubblico ministero – idonee a giustificare, ad avviso del giudice a quo, il regime limitativo delle impugnazioni, previsto dalla novella – per la parte civile la posizione è simmetrica a quella dell’imputato, posto che ad entrambi debbono essere assicurate le stesse garanzie che sono loro riconosciute nel processo civile;
che, oltre al principio di uguaglianza, sarebbe dunque violato anche l’art. 111 Cost., giacché, «fino a quando resterà concesso a chi è stato danneggiato da un reato di esercitare l’azione civile nel processo penale, costui non potrà essere discriminato in maniera irragionevole rispetto al danneggiante: se a quest’ultimo si fornisce uno strumento di doglianza nel merito nei confronti della decisione del primo giudice, lo stesso strumento, nel caso di soccombenza, non può essere sottratto alla parte civile, pena la lesione della par condicio processuale»;
che inoltre, a parere della Corte rimettente, risulterebbe compromesso anche l’art. 24 della Carta fondamentale, «atteso che l’inviolabilità del diritto di azione e difesa» risulterebbe lesa dalla previsione di un secondo grado di giudizio «in cui l’imputato potrà svolgere le proprie doglianze, mentre alla parte civile ciò è precluso».
Considerato che le ordinanze di rimessione sollevano questioni identiche e, pertanto, i relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti con un’unica decisione;
che i giudici a quibus dubitano della legittimità costituzionale dell’art. 576 del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 6 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), nella parte in cui − in asserito contrasto con i principi di eguaglianza, di parità delle parti nel processo e di inviolabilità del diritto di azione e di difesa (artt. 3, 24 e 111 della Costituzione) − esclude, in capo alla parte civile, il potere di proporre appello avverso la sentenza di proscioglimento dell’imputato;
che presupposto comune del dubbio di costituzionalità è, per entrambe le ordinanze di rimessione, la premessa interpretativa secondo cui la riforma delle impugnazioni del 2006 avrebbe soppresso, per la parte civile, il potere di appello; deduzione, questa, cui i rimettenti – alla luce del generale principio di tassatività dei mezzi di impugnazione espresso nell’art. 568, comma 1, cod. proc. pen. – pervengono in forza di una duplice considerazione: sia la constatazione che la parte civile non è inclusa tra i soggetti legittimati a proporre appello dall’art. 593 cod. proc. pen.; sia il rilievo che il testo novellato dell’art. 576 del codice di rito − nel corpo del quale è stata soppressa l’originaria statuizione, che consentiva alla parte civile di proporre impugnazione con lo stesso mezzo previsto per il pubblico ministero − non specifica di quali mezzi di impugnazione detta parte sia ammessa a fruire;
che, peraltro, questa Corte − dichiarando manifestamente inammissibile una questione di legittimità costituzionale fondata su un identico presupposto ermeneutico (cfr. ord. n. 32 del del 2007) − ha evidenziato che «deve registrasi l’assenza allo stato, di un “diritto vivente” conforme alla premessa interpretativa posta a base dei dubbi di legittimità costituzionale»: potendosi ravvisare, già all’epoca di tale decisione, una diversa soluzione ermeneutica idonea a soddisfare il petitum degli odierni rimettenti;
che, in particolare, nella citata pronuncia, veniva richiamata l’opposta tesi affermata dalla Corte di cassazione, in virtù della quale la novella del 2006 non avrebbe affatto determinato il venir meno, in capo alla parte civile, del potere di appello contro le sentenze di proscioglimento, ai soli effetti della responsabilità civile;
che tale tesi − nel frattempo divenuta maggioritaria presso la giurisprudenza di legittimità − ha trovato ulteriore conferma nella pronuncia delle Sezioni unite della Corte di cassazione (si veda Cassazione, sezioni unite, 29 marzo 2007, n. 27614) che ha ribadito come la parte civile, anche dopo l’intervento sull’art. 576 cod. proc. pen. ad opera dell’art. 6 della legge n. 46 del 2006, possa proporre appello, agli effetti della responsabilità civile, contro la sentenza di proscioglimento pronunciata nel giudizio di primo grado;
che, nell’affermare tale opzione ermeneutica, il giudice della legittimità ha, in particolare, fatto leva sull’interpretazione logico-sistematica dell’art. 576 cod. proc. pen. − attribuendo «a mero difetto di tecnica legislativa la formulazione letterale» della norma in questione − e, soprattutto, sulla volontà legislativa, quale desumibile dai lavori parlamentari;
che, in proposito, la Corte di cassazione ha evidenziato come le modifiche apportate al testo normativo originariamente approvato dal Parlamento, dopo il rinvio alle Camere da parte del Presidente della Repubblica ai sensi dell’art. 74 Cost. − ed in particolare la soppressione, nell’art. 576 cod. proc. pen., dell’inciso «con il mezzo previsto dal pubblico ministero» − risultassero in realtà finalizzate a «rimodulare, accrescendoli, i poteri di impugnazione della parte civile, sganciandone la posizione da quella del pubblico ministero» ed a ripristinare, dunque, il potere di appello della parte privata: con il chiaro intento di recepire il rilievo formulato nel messaggio presidenziale, circa l’eccessiva compressione della tutela delle vittime del reato quale si delineava nelle soluzioni legislative inizialmente adottate;
che, pertanto, avendo omesso i giudici rimettenti di sperimentare adeguate soluzioni ermeneutiche – diverse da quelle praticate – idonee a rendere la disposizione impugnata esente dai prospettati dubbi di legittimità, le questioni proposte devono essere dichiarate manifestamente inammissibili, alla luce della costante giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis, ordinanze n. 35 del 2006, n. 381 del 2005 e n. 279 del 2003).
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 576 del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 6 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, dalla Corte di appello di Bologna e dalla Corte di appello di Firenze con le ordinanze indicate in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14 gennaio 2008.
F.to:
Franco BILE, Presidente
Giovanni Maria FLICK, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 18 gennaio 2008.