ORDINANZA N. 226
ANNO 2008
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Franco BILE Presidente
- Giovanni Maria FLICK Giudice
- Francesco AMIRANTE "
- Ugo DE SIERVO "
- Paolo MADDALENA "
- Alfio FINOCCHIARO "
- Alfonso QUARANTA "
- Franco GALLO "
- Luigi MAZZELLA "
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Maria Rita SAULLE "
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo Maria NAPOLITANO "
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 576 del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 6 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), e degli artt. 6 e 10 della medesima legge, promossi, nell’ambito di diversi procedimenti penali, con ordinanze del 22 maggio 2006 dalla Corte d’appello di Napoli, del 14 giugno e del 5 luglio 2006 dalla Corte d’appello di Palermo, del 30 maggio 2006 dalla Corte d’appello di Lecce, del 23 febbraio 2007 dalla Corte d’appello di Palermo e del 17 maggio 2006 dalla Corte d’appello di Brescia, rispettivamente iscritte ai nn. 18, 159, 160, 231, 602 e 635 del registro ordinanze 2007 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 7, 14, 16, 35 e 37, prima serie speciale, dell’anno 2007.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 16 aprile 2008 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.
Ritenuto che, con ordinanza del 22 maggio 2006 (r.o. n. 18 del 2007), la Corte d’appello di Napoli ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 10 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), nella parte in cui «non prevede alcuna disposizione per gli appelli proposti dalla parte civile prima dell’entrata in vigore della legge suddetta avverso la sentenza di proscioglimento dell’imputato»;
che la Corte rimettente riferisce di essere investita degli appelli proposti, avverso la sentenza di assoluzione pronunciata in primo grado, dal pubblico ministero, da un imputato prosciolto e, ai soli effetti della responsabilità civile, dalle parti civili;
che, alla luce delle modifiche introdotte dall’art. 6 della legge n. 46 del 2006 all’art. 576 del codice di procedura penale che disciplina l’appello della parte civile, la Corte d’appello di Napoli ritiene che l’unico mezzo di impugnazione oggi consentito alla parte civile avverso la sentenza di proscioglimento sia il ricorso per cassazione;
che a tale conclusione condurrebbe, in primo luogo, l’«interpretazione sistematica» dell’art. 576 cod. proc. pen. e, in particolare, la circostanza che nel nuovo testo è stato eliminato il riferimento al «mezzo di impugnazione previsto per il pubblico ministero»; con la «conseguenza che, non essendo previsto dagli artt. 593 e seg. c.p.p. un autonomo potere di appello della parte civile, il mezzo di cui dispone dopo la riforma tale soggetto processuale non può che essere il ricorso per cassazione»;
che, in secondo luogo, sarebbe «del tutto incongruo» ritenere che la parte civile possa proporre autonomamente appello avverso la sentenza di proscioglimento in casi più ampi rispetto a quelli riservati, a seguito della novella del 2006, alla pubblica accusa (limitati alle ipotesi di cui all’art. 603, comma 2, cod. proc. pen.);
che, secondo la Corte rimettente, se l’eliminazione dell’appello della parte civile può ritenersi esente da vizi di incostituzionalità «per i processi non ancora esauriti in primo grado», essa presenterebbe invece evidenti profili di contrasto con la Costituzione in relazione «ai procedimenti pendenti in appello» al momento dell’entrata in vigore della legge;
che, infatti, nei procedimenti in corso – non essendo consentito alla parte civile altro mezzo di impugnazione, a differenza di quanto stabilito dall’art. 10 della legge n. 46 del 2006 per l’imputato e il pubblico ministero che possono proporre ricorso per cassazione – la declaratoria di inammissibilità dell’appello comporta che la parte civile è costretta a subire gli effetti della sentenza di proscioglimento ai sensi dell’art. 652 cod. proc. pen., pur avendo legittimamente esercitato un diritto che la legge le conferiva prima della riforma;
che sarebbe, pertanto, evidente la violazione degli artt. 3 e 24 Cost., per l’ingiustificata disparità di trattamento riservata nella disciplina transitoria alla parte civile, rispetto all’imputato e al pubblico ministero;
che analoga questione è sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 111 Cost., dalla Corte d’appello di Palermo, con due ordinanze del medesimo tenore del 14 giugno 2006 (r.o. n. 159 del 2007) e del 5 luglio 2006 (r.o. n. 160 del 2007), con le quali è censurato l’art. 10 della legge 20 febbraio 2006, n. 46, nella parte in cui prevede – per l’imputato e per il pubblico ministero e non già per la parte civile costituita – la possibilità di proporre ricorso per cassazione entro quarantacinque giorni dalla notifica del provvedimento di inammissibilità dell’appello proposto, avverso una sentenza di proscioglimento, prima della data di entrata in vigore della legge;
che, con altra ordinanza del 23 febbraio 2007 (r.o. n. 602 del 2007), la Corte d’appello di Palermo ha sollevato, in riferimento agli stessi parametri, questione di costituzionalità degli artt. 6, comma 1, lettera a), e 10 della citata legge n. 46 del 2006, dubitando della legittimità costituzionale anche della inappellabilità a regime delle sentenze di proscioglimento da parte della persona offesa costituita parte civile;
che, ai fini della rilevanza, i rimettenti precisano di essere investiti degli appelli proposti tra gli altri dalla parte civile avverso sentenze di assoluzione pronunciate rispettivamente dal Giudice per le indagini preliminari, in funzione di giudice dell’udienza preliminare, del Tribunale di Palermo per il reato di lesioni (r.o. n. 159 del 2007); dal Tribunale di Agrigento per il reato di false informazioni al pubblico ministero (r.o. n. 160 del 2007); dal Tribunale di Palermo per il reato di lesioni colpose (r.o. n. 602 del 2007);
che in tutte le ordinanze si dà atto che, nelle more del giudizio, è entrata in vigore la legge n. 46 del 2006 e che, in forza dell’art. 10 di essa, gli appelli proposti dovrebbero essere dichiarati inammissibili;
che la Corte d’appello di Palermo muove da un presupposto interpretativo identico a quello fatto proprio dalla Corte d’appello di Napoli: vale a dire che le modifiche recate dall’art. 6 della legge n. 46 del 2006 all’art. 576 cod. proc. pen. abbiano fatto venir meno il potere di appello della parte civile avverso le sentenze di proscioglimento;
che tale conclusione è argomentata sulla base di considerazioni in parte analoghe a quelle sviluppate dalla Corte d’appello di Napoli; ciò, in particolare, per quanto riguarda l’eliminazione, nell’art. 576 citato, del richiamo al «mezzo previsto dal pubblico ministero», che nel testo originario costituiva il solo elemento testuale per legittimare l’appello della parte civile;
che, peraltro, la Corte d’appello di Palermo richiama – quali ulteriori elementi ostativi ad una diversa interpretazione della disciplina censurata – sia il divieto, sancito nell’art. 12 delle preleggi, di adottare «interpretazioni “creative” quand’anche il risultato dovesse essere conforme alle intenzioni del Legislatore»; sia il principio di tassatività delle impugnazioni, in base al quale i provvedimenti del giudice possono essere impugnati solo dai soggetti e con i mezzi espressamente indicati;
che, tanto premesso, la Corte d’appello rimettente dubita della legittimità costituzionale della disciplina transitoria contenuta nell’art. 10 della legge n. 46 del 2006, sul rilievo che nei riguardi della parte civile – il cui appello, proposto anteriormente all’entrata in vigore della legge, è dichiarato inammissibile – non sia prevista neppure la possibilità, contemplata invece per il pubblico ministero e per l’imputato, di proporre ricorso per cassazione;
che tale disciplina darebbe luogo ad una irragionevole disparità di trattamento fra pubblico ministero e imputato, da un lato, e parte civile, dall’altro, con conseguente violazione degli artt. 3 e 111 Cost.;
che sarebbe altresì vulnerato il principio dell’affidamento, in quanto il sistema processuale, consentendo al danneggiato di far valere la propria pretesa civilistica nel processo penale, creerebbe in tale soggetto una «aspettativa […] a percorrere fino in fondo la via prescelta, allestendo reazioni capaci di elidere gli eventuali pregiudizi derivanti da taluni provvedimenti»;
che, pertanto, sarebbe palesemente irragionevole una normativa che, privando la parte civile di ogni potere d’impugnazione, la costringa «a subire l’efficacia di giudicato della sentenza penale, pur avendo scelto di innestare la sua pretesa di essere risarcita in un contesto processuale che le conferiva il potere di appello»;
che la disciplina transitoria introdurrebbe, infine, anche una disparità di trattamento «tra chi ha intrapreso l’azione civile nella sede propria e chi ha, invece, optato per l’esercizio dell’azione civile nel processo penale, essendo inibito a quest’ultimo – e non per sua determinazione – il diritto, riconosciuto invece al secondo, di chiedere, con l’appello, un nuovo giudizio di merito che ribalti la pronunzia a lui sfavorevole»;
che, nella ordinanza iscritta al n. 602 del registro ordinanze del 2007, la Corte d’appello di Palermo precisa inoltre che la sentenza della Corte costituzionale n. 26 del 2007 – con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 della legge n. 46 del 2006, nella parte in cui, sostituendo l’art. 593 del codice di procedura penale, esclude che il pubblico ministero possa appellare contro le sentenze di proscioglimento, fatta eccezione per le ipotesi previste dall'art. 603, comma 2, del medesimo codice, se la nuova prova è decisiva, ed, in parte qua, dell’art. 10 della medesima legge – non incide sull’odierno quesito di costituzionalità che concerne l’art. 6 della legge n. 46 del 2006, modificativo dell’art. 576 cod. proc. pen.;
che, con ordinanza del 17 maggio 2006 (r.o. n. 635 del 2007), la Corte d’appello di Brescia ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 576, comma 1, cod. proc. pen., come modificato dall’art. 6 della citata legge n. 46 del 2006, e dell’art. 10 della medesima legge;
che la Corte d’appello rimettente precisa, ai fini della rilevanza, di essere investita dell’appello proposto – avverso la sentenza con cui il Giudice per le indagini preliminari, in funzione di Giudice dell’udienza preliminare, del Tribunale di Brescia, ha assolto l’imputato dal reato di ingiuria e percosse perché il fatto non sussiste – dalla parte civile che ha chiesto «l’affermazione della penale responsabilità dell’imputato e la sua condanna alla pena ritenuta di giustizia, oltre al risarcimento del danno»;
che, nel merito, anche la Corte rimettente ritiene che la nuova formulazione dell’art. 576 cod. proc. pen. imponga «di escludere il potere di appello della parte civile»: ciò perché la soppressione dell’inciso «con il mezzo previsto per il pubblico ministero» avrebbe totalmente svincolato il potere di impugnazione della parte civile da quello del pubblico ministero;
che, pertanto, alla parte civile «non può più essere riconosciuta la facoltà di appello, né contro le sentenze di condanna, né contro le sentenze di assoluzione, e neanche nei residui casi in cui tale facoltà è tuttora concessa al P.M. dal nuovo art. 593, comma 2, cod. proc. pen.»;
che l’eliminazione del potere di appello della persona offesa costituitasi parte civile integrerebbe una violazione degli artt. 3, 24 e 111 Cost.;
che nell’ordinanza si evidenzia, in primo luogo, come l’eliminazione del potere di appello impedirebbe «alla parte civile di chiedere il riesame nel merito di decisioni che potrebbero esserle irreparabilmente pregiudizievoli, in base ai meccanismi preclusivi di cui agli artt. 652 e 654 cod. proc. pen.»;
che la disciplina censurata sarebbe inoltre irragionevole, poiché, da un lato, mantiene inalterata la possibilità per la parte civile di far valere le proprie pretese civilistiche nel processo penale e, dall’altro, «scoraggia tale scelta, deprivandola degli adeguati strumenti di tutela giuridica delle medesime»;
che, in riferimento al lamentato contrasto con l’art. 24 Cost., la Corte rimettente osserva come il diritto di difesa, garantito anche alla persona offesa dal reato, non possa ritenersi attuato dalle sole norme connesse alla costituzione di parte civile, dovendo invece «estrinsecarsi nell’effettività della tutela delle pretese civilistiche», ivi compreso evidentemente il potere di impugnazione;
che, quanto alla dedotta lesione dell’art. 111, secondo comma, Cost., la Corte d’appello di Brescia osserva come la disciplina censurata «introduca un evidente squilibrio fra le parti, impedendo radicalmente l’appello alla parte civile, sia in caso di assoluzione che di condanna, laddove all’imputato è riconosciuta ampia facoltà di impugnazione»: uno squilibrio oltre il limite consentito sia dal principio di ragionevolezza, sia dal rispetto di altri valori costituzionali e, segnatamente, del diritto di difesa delle persone offese dal reato e del principio della parità tra le parti;
che la Corte d’appello di Brescia formula, in riferimento alla disciplina transitoria, censure analoghe a quelle prospettate dalle altre ordinanze di rimessione, sul rilievo che la parte civile – in mancanza di una disciplina che le consenta di proporre ricorso per cassazione, come previsto per il pubblico ministero e per l’imputato – sarebbe «costretta a subire l’efficacia di un giudicato formatosi sulla sentenza di primo grado e senza più la possibilità di ricorrere al giudice civile, pur avendo optato per il giudizio penale in un contesto legislativo che le conferiva il potere di appello»;
che, con ordinanza del 30 maggio 2006 (r.o. n. 231 del 2007), la Corte d’appello di Lecce ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 97 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 576 cod. proc. pen., come modificato dall’art. 6 della legge n. 46 del 2006, «nella parte in cui non consente alla parte civile l’appello contro le sentenze di primo grado», e dell’art. 10 della medesima legge, «che dichiara, anche con riguardo alla parte civile, applicabile ai processi in corso la nuova disciplina»;
che la Corte d’appello rimettente premette che, con sentenza del Tribunale di Brindisi, l’imputato è stato condannato per i reati di danneggiamento, lesioni personali, minacce e ingiurie, unificati dalla continuazione, alla pena complessiva di mesi tre di reclusione, previo riconoscimento delle attenuanti generiche;
che avverso detta sentenza hanno proposto appello le parti civili, «chiedendo, ai sensi dell’art. 577 c.p.p., la rideterminazione della pena, reputando inadeguata quella inflitta per il reato satellite di ingiurie, nonché revocarsi il beneficio della sospensione condizionale e liquidarsi, a titolo di danni, la somma di 10.000,00 (a fronte di quella – euro 400,00 – liquidata in sentenza, reputata inadeguata)», e l’imputato, che ha chiesto l’assoluzione in relazione a tutte le imputazioni;
che la Corte d’appello – rilevato che nelle more del giudizio è entrata in vigore la legge n. 46 del 2006 che ha modificato l’art. 576 cod. proc. pen. e ha abrogato l’art. 577 dello stesso codice – afferma che per effetto di tali modifiche l’appello proposto dalla parte civile ai sensi dell’art. 577 cod. proc. pen. dovrebbe essere dichiarato inammissibile;
che, quanto alla impugnazione proposta dalla parte civile ai sensi dell’art. 576 cod. proc. pen., la Corte d’appello rimettente ritiene invece di dover sollevare questione di legittimità costituzionale nei termini sopra precisati, sul presupposto che l’art. 576 censurato, nella formulazione risultante dalle modifiche introdotte dalla legge n. 46 del 2006, non consenta più l’appello della parte civile avverso le sentenze di condanna e di proscioglimento;
che, al riguardo, la rimettente osserva che la possibilità per la parte civile di proporre appello – avverso i capi civili della sentenza di condanna e, ai soli effetti della responsabilità civile, avverso la sentenza di proscioglimento – derivava unicamente, nel previgente assetto normativo, dal collegamento tra l’art. 576 cod. proc. pen. e l’art. 593 dello stesso codice;
che proprio per tale ragione, nel corso dei lavori parlamentari, si decise di “sganciare” il potere di impugnazione della parte civile da quello del pubblico ministero, attraverso l’eliminazione nell’art. 576 cod. proc. pen. dell’inciso «con il mezzo previsto per il pubblico ministero», così da mantenere ferma la possibilità per la parte civile di proporre impugnazione;
che tuttavia, nonostante la chiara volontà legislativa, una volta eliminato il collegamento con l’appello del pubblico ministero non è più possibile riconoscere un analogo potere alla parte civile, stante il principio di tassatività delle impugnazioni contenuto nell’art. 568, comma 1, cod. proc. pen.;
che pertanto – mancando oggi nel codice una disposizione che consenta alla parte civile di proporre appello contro le sentenze di primo grado (di condanna e di proscioglimento) – l’unico rimedio offerto alla parte civile a tutela delle proprie ragioni sarebbe il ricorso per cassazione;
che il mantenimento in capo alla parte civile del potere di proporre appello avverso le sentenze di proscioglimento e di condanna non potrebbe, del resto, desumersi né dal mancato riferimento alla parte civile in sede di disciplina transitoria (evidenziandosi anzi, al riguardo, un ulteriore profilo di illegittimità costituzionale, derivante dalla impossibilità per la parte civile di proporre ricorso per cassazione come previsto invece per il pubblico ministero e per l’imputato); né dal riferimento all’impugnazione della parte civile contenuto nell’art. 600 cod. proc. pen., che si riferisce alle sole statuizioni concernenti la provvisionale;
che, tanto premesso, la Corte d’appello di Lecce afferma che l’attuale sistema delle impugnazioni – nella parte in cui non consente più l’appello della parte civile avverso le sentenze di condanna e di proscioglimento – si pone «in contrasto con la Costituzione, tanto più ove si consideri che la possibilità per la parte civile di proporre appello contro la sentenza di primo grado, sia pure ai soli effetti civili, venne introdotta nel nostro ordinamento proprio in seguito alla sentenza n. 1 del 1970 della Corte costituzionale»;
che, quanto alla disciplina transitoria, la Corte rimettente pone in evidenza come essa finisca per «paralizzare le già azionate pretese civilistiche del danneggiato dal reato, pretese che se proposte nella sede civile avrebbero potuto essere coltivate non solo in primo grado, ma anche in grado d’appello», con conseguente violazione degli artt. 3, 24 e 111 Cost.;
che, nei giudizi da cui originano le ordinanze iscritte ai numeri 159, 160, 602 e 635 del registro ordinanze del 2007, è intervenuto il Presidente del Consiglio, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato;
che l’Avvocatura generale eccepisce, in primo luogo, l’inammissibilità delle questioni proposte alla stregua della ordinanza n. 32 del 2007, con cui la Corte costituzionale ha dichiarato la manifesta inammissibilità di questioni analoghe, per omessa verifica – da parte dei giudici rimettenti – della possibilità di interpretare la disposizione censurata in senso conforme a Costituzione, in assenza di un diritto vivente;
che, nel merito, la difesa erariale ritiene peraltro infondate le questioni, perché basate su un erroneo presupposto interpretativo: a suo avviso, infatti, in ossequio al «fondamentale canone ermeneutico» che impone di preferire l’interpretazione conforme a Costituzione, l’art. 576 cod. proc. pen., come novellato, ben potrebbe essere interpretato nel senso che la parte civile conserva la possibilità di proporre appello avverso la sentenza di proscioglimento.
Considerato che le ordinanze di rimessione sollevano questioni analoghe e, pertanto, i relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti con un’unica pronuncia;
che le Corti d’appello di Palermo (r.o. n. 602 del 2007) e di Brescia dubitano, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 576, comma 1, del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 6 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento) – quest’ultimo direttamente censurato dalla Corte d’appello di Palermo – nella parte in cui esclude che la parte civile possa proporre appello, ai soli effetti della responsabilità civile, avverso la sentenza di proscioglimento dell’imputato, e dell’art. 10 della medesima legge recante la relativa disciplina transitoria;
che la Corte d’appello di Lecce ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 97 e 111 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 576 cod. proc. pen., come novellato dalla legge n. 46 del 2006, «nella parte in cui non consente alla parte civile l’appello contro le sentenze di primo grado» e dell’art. 10 della stessa legge;
che le Corti d’appello di Napoli e di Palermo (r.o. n. 18 e n. 159 del 2007) censurano esclusivamente l’art. 10 della legge n. 46 del 2006, che prevede l’immediata applicabilità della nuova disciplina ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della legge, senza consentire alla parte civile – a differenza di quanto previsto invece per il pubblico ministero e per l’imputato – di proporre ricorso per cassazione, a seguito della declaratoria di inammissibilità dell’appello anteriormente proposto, per contrasto con gli artt. 3, 24 e 111 Cost.;
che presupposto comune dei dubbi di costituzionalità è – per tutte le ordinanze di rimessione – la premessa interpretativa secondo cui la riforma delle impugnazioni del 2006 avrebbe soppresso, per la parte civile, il potere di appello;
che le Corti rimettenti pervengono sostanzialmente a tale conclusione alla luce del generale principio di tassatività dei mezzi di impugnazione espresso nell’art. 568, comma 1, cod. proc. pen. ed in forza di una duplice considerazione: sia la constatazione che la parte civile non è inclusa tra i soggetti legittimati a proporre appello dall'art. 593 cod. proc. pen.; sia il rilievo che il testo novellato dell’art. 576 del codice di rito − nel corpo del quale è stata soppressa l’originaria statuizione, che consentiva alla parte civile di proporre impugnazione con lo stesso mezzo previsto per il pubblico ministero − non specifica di quali mezzi di impugnazione detta parte sia ammessa a fruire;
che peraltro, questa Corte − dichiarando manifestamente inammissibile una questione di legittimità costituzionale fondata su un identico presupposto ermeneutico (ordinanza n. 32 del 2007) − ha evidenziato che «deve registrarsi l'assenza allo stato, di un "diritto vivente" conforme alla premessa interpretativa posta a base dei dubbi di legittimità costituzionale»: potendosi ravvisare, già all'epoca di tale decisione, una diversa soluzione ermeneutica idonea a soddisfare il petitum degli odierni rimettenti;
che, in particolare, nella citata pronuncia, è stata richiamata l'opposta tesi affermata dalla Corte di cassazione, in virtù della quale la novella del 2006 non avrebbe affatto determinato il venir meno, in capo alla parte civile, del potere di appello contro le sentenze di proscioglimento, ai soli effetti della responsabilità civile;
che tale tesi − nel frattempo divenuta maggioritaria presso la giurisprudenza di legittimità − ha trovato ulteriore conferma nella pronuncia delle sezioni unite della Corte di cassazione (sentenza 29 marzo 2007, n. 27614) che ha ribadito come la parte civile, anche dopo l'intervento sull'art. 576 cod. proc. pen. ad opera dell'art. 6 della legge n. 46 del 2006, possa proporre appello, agli effetti della responsabilità civile, contro la sentenza di proscioglimento pronunciata nel giudizio di primo grado;
che, nell'affermare tale opzione ermeneutica, il giudice della legittimità ha, in particolare, fatto leva sull'interpretazione logico-sistematica dell'art. 576 cod. proc. pen. − attribuendo «a mero difetto di tecnica legislativa la formulazione letterale» della norma in questione − e, soprattutto, sulla volontà legislativa, quale desumibile dai lavori parlamentari;
che, in proposito, la Corte di cassazione ha evidenziato come le modifiche apportate al testo normativo originariamente approvato dal Parlamento, dopo il rinvio alle Camere da parte del Presidente della Repubblica ai sensi dell'art. 74 Cost. − ed in particolare la soppressione, nell'art. 576 cod. proc. pen., dell'inciso «con il mezzo previsto dal pubblico ministero» − risultassero in realtà finalizzate a «rimodulare, accrescendoli, i poteri di impugnazione della parte civile, sganciandone la posizione da quella del pubblico ministero» ed a ripristinare, dunque, il potere di appello della parte privata: con il chiaro intento di recepire il rilievo formulato nel messaggio presidenziale, circa l'eccessiva compressione della tutela delle vittime del reato quale si delineava nelle soluzioni legislative inizialmente adottate;
che i medesimi rilievi valgono anche, secondo quanto affermato dalla stessa Corte di cassazione, per ciò che attiene all’appello della parte civile
avverso i capi della sentenza di condanna che riguardano l’azione civile e le sentenze pronunciate a seguito di giudizio abbreviato;
che a ciò va aggiunto come neppure in ordine alla disciplina transitoria si riscontri uniformità di vedute: essendosi affermato, da una parte della giurisprudenza di legittimità, che ove pure la nuova legge avesse effettivamente rimosso il potere di appello della parte civile, non ne conseguirebbe comunque – contrariamente a quanto assumono i rimettenti – l'inammissibilità dell'appello anteriormente proposto da detta parte; e ciò in quanto la disposizione transitoria di cui all'art. 10, comma 1 – evocata dai giudici a quibus a sostegno del loro assunto – nello stabilire che «la presente legge si applica ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della medesima», si sarebbe limitata soltanto a riaffermare il generale principio tempus regit actum, tipico della materia processuale;
che, pertanto, avendo omesso i giudici rimettenti di sperimentare adeguate soluzioni ermeneutiche − diverse da quelle praticate − idonee a rendere le disposizioni censurate esenti dai prospettati dubbi di legittimità, le questioni proposte devono essere dichiarate manifestamente inammissibili, alla luce della costante giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis, ordinanze n. 35 del 2006, n. 381 del 2005 e n. 279 del 2003; nonché, su questione analoga, oltre alla già richiamata ordinanza n. 32 del 2007, si veda l’ordinanza n. 3 del 2008).
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 576 del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 6 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), e degli artt. 6 e 10 della medesima legge, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24, 97 e 111 della Costituzione, dalle Corti d’appello di Napoli, di Palermo, di Brescia e di Lecce, con le ordinanze indicate in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'11 giugno 2008.
F.to:
Franco BILE, Presidente
Giovanni Maria FLICK, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 20 giugno 2008.